+Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti che andavano a Messina, e aspettarono più di un’ora, pigiati dalla folla, dietro lo stecconato. Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello stringimento di cuore che si aveva prima.
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+— Addio ’Ntoni! — Addio mamma! — Addio! ricordati! ricordati! — Lì presso, sull’argine della via, c’era la Sara di comare Tudda, a mietere l’erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda andava soffiando che c’era venuta per salutare ’Ntoni di padron ’Ntoni, col quale si parlavano dal muro dell’orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che ’Ntoni salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finchè il treno non si mosse. Alla Longa, l’era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle.
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+Il nonno poi aveva certi singolari argomenti per confortarsi, e per confortare gli altri: — Del resto volete che vel dica? Un po’ di soldato gli farà bene a quel ragazzo; chè il suo paio di braccia gli piaceva meglio di portarsele a spasso la domenica, anzichè servirsene a buscarsi il pane.
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- Sangioo
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- Ingegneria-Infomatica
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+Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole, e qualche povero diavolo, che si tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perchè. Quindi a poco a poco si sbrancarono anch’essi, e padron ’Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara, le pagò due centesimi di acqua col limone.
- Public
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+Comare Venera la Zuppidda, per confortare comare la Longa, le andava dicendo: — Ora mettetevi il cuore in pace, che per cinque anni bisogna fare come se vostro figlio fosse morto, e non pensarci più.
+Ma pure ci pensavano sempre, nella casa del nespolo, o per certa scodella che le veniva tutti i giorni sotto mano alla Longa nell’apparecchiare il deschetto, o a proposito di certa ganza che ’Ntoni sapeva fare meglio di ogni altro alla funicella della vela, e quando si trattava di serrare una scotta tesa come una corda di violino, o di alare una parommella che ci sarebbe voluto l’argano. Il nonno ansimando cogli ohi! ooohi! intercalava — Qui ci vorrebbe ’Ntoni — oppure — Vi pare che io abbia il polso di quel ragazzo? — La madre, mentre ribatteva il pettine sul telaio — uno! due! tre! — pensava a quel bum bum della macchina che le aveva portato via il figliuolo, e le era rimasto sul cuore, in quel gran sbalordimento, e le picchiava ancora dentro il petto, — uno! due! tre!
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+Oppure: — Quando avrà provato il pane salato che si mangia altrove, non si lagnerà più della minestra di casa sua.
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+Finalmente arrivò da Napoli la prima lettera di ’Ntoni, che mise in rivoluzione tutto il vicinato. Diceva che le donne, in quelle parti là, scopavano le strade colle gonnelle di seta, e che sul molo c’era il teatro di Pulcinella, e si vendevano delle pizze, a due centesimi, di quelle che mangiano i signori, e senza soldi non ci si poteva stare, e non era come a Trezza, dove se non si andava all’osteria della Santuzza non si sapeva come spendere un baiocco. — Mandiamogli dei soldi per comperarsi le pizze, al goloso! brontolava padron ’Ntoni; già lui non ci ha colpa, è fatto così; è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero un chiodo arrugginito. Se non l’avessi tenuto a battesimo su queste braccia, direi che don Giammaria gli ha messo in bocca dello zucchero invece di sale.
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+La Mangiacarrubbe, quando al lavatoio c’era anche Sara di comare Tudda, tornava a dire:
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+— Sicuro! le donne vestite di seta aspettavano apposta ’Ntoni di padron ’Ntoni per rubarselo; che non ne avevano visti mai dei cetriuoli laggiù!
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+Le altre si tenevano i fianchi dal ridere, e d’allora in poi le ragazze inacidite lo chiamarono «cetriuolo».
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+’Ntoni aveva mandato anche il suo ritratto, l’avevano visto tutte le ragazze del lavatoio, come la Sara di comare Tudda lo faceva passare di mano in mano, sotto il grembiule, e la Mangiacarrubbe schiattava dalla gelosia. Pareva San Michele Arcangelo in carne ed ossa, con quei piedi posati sul tappeto, e quella cortina sul capo, come quella della Madonna dell’Ognina, così bello, lisciato e ripulito che non l’avrebbe riconosciuto più la mamma che l’aveva fatto; e la povera Longa non si saziava di guardare il tappeto e la cortina e quella colonna contro cui il suo ragazzo stava ritto impalato, grattando colla mano la spalliera di una bella poltrona; e ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie. Ella teneva il ritratto sul canterano, sotto la campana del Buon Pastore — che gli diceva le avemarie — andava dicendo la Zuppidda, e si credeva di averci un tesoro sul canterano, mentre suor Mariangela la Santuzza ce ne aveva un altro, tal quale chi voleva vederlo, che glielo aveva regalato compare Mariano Cinghialenta, e lo teneva inchiodato sul banco dell’osteria, dietro i bicchieri.
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+Ma dopo un po’ di tempo ’Ntoni aveva pescato un camerata che sapeva di lettere, e si sfogava a lagnarsi della vitaccia di bordo, della disciplina, dei superiori, del riso lungo e delle scarpe strette. — Una lettera che non valeva i venti centesimi della posta! borbottava padron ’Ntoni. La Longa se la prendeva con quegli sgorbj, che sembravano ami di pesceluna, e non potevano dir nulla di buono. Bastianazzo dimenava il capo e faceva segno di no, che così non andava bene, e se fosse stato in lui ci avrebbe messo sempre delle cose allegre, da far ridere il cuore agli altri, lì sulla carta, — e vi appuntava un dito grosso come un regolo da forcola — se non altro per compassione della Longa, la quale, poveretta, non si dava pace, e sembrava una gatta che avesse perso i gattini. Padron ’Ntoni andava di nascosto a farsi leggere la lettera dallo speziale, e poi da don Giammaria, che era del partito contrario, affine di sentire le due campane, e quando si persuadeva che era scritto proprio così, ripeteva con Bastianazzo, e con la moglie di lui:
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+— Non ve lo dico io che quel ragazzo avrebbe dovuto nascer ricco, come il figlio di padron Cipolla, per stare a grattarsi la pancia senza far nulla!
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+Intanto l’annata era scarsa e il pesce bisognava darlo per l’anima dei morti, ora che i cristiani avevano imparato a mangiar carne anche il venerdì come tanti turchi. Per giunta le braccia rimaste a casa non bastavano più al governo della barca, e alle volte bisognava prendere a giornata Menico della Locca, o qualchedun altro. Il re faceva così, che i ragazzi se li pigliava per la leva quando erano atti a buscarsi il pane; ma sinchè erano di peso alla famiglia, avevano a tirarli su per soldati; e bisognava pensare ancora che la Mena entrava nei diciassett’anni, e cominciava a far voltare i giovanotti quando andava a messa. «L’uomo è il fuoco, e la donna è la stoppa: viene il diavolo e soffia». Perciò si doveva aiutarsi colle mani e coi piedi per mandare avanti quella barca della casa del nespolo.
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+Padron ’Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c’era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po’ avariati; ma non ce n’erano altri a Trezza, e quel furbaccio di Campana di legno sapea pure che la Provvidenza se la mangiava inutilmente il sole e l’acqua, dov’era ammarrata sotto il lavatoio, senza far nulla; perciò si ostinava a fare il minchione. — Eh? non vi conviene? lasciateli! Ma un centesimo di meno non posso, in coscienza! che l’anima ho da darla a Dio! — e dimenava il capo che pareva una campana senza batacchio davvero. Questo discorso avveniva sulla porta della chiesa dell’Ognina, la prima domenica di settembre, che era stata la festa della Madonna, con gran concorso di tutti i paesi vicini; e c’era anche compare Agostino Piedipapera, il quale colle sue barzellette riuscì a farli mettere d’accordo sulle due onze e dieci a salma, da pagarsi «col violino» a tanto il mese. Allo zio Crocifisso gli finiva sempre così, che gli facevano chinare il capo per forza, come Peppinino, perchè aveva il maledetto vizio di non sapere dir di no. — Già! voi non sapete dir di no, quando vi conviene, sghignazzava Piedipapera. Voi siete come le… e disse come.
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+Allorchè la Longa seppe del negozio dei lupini, dopo cena, mentre si chiacchierava coi gomiti sulla tovaglia, rimase a bocca aperta; come se quella grossa somma di quarant’onze se la sentisse sullo stomaco. Ma le donne hanno il cuore piccino, e padron ’Ntoni dovette spiegarle che se il negozio andava bene c’era del pane per l’inverno, e gli orecchini per Mena, e Bastiano avrebbe potuto andare e venire in una settimana da Riposto, con Menico della Locca. Bastiano intanto smoccolava la candela senza dir nulla. Così fu risoluto il negozio dei lupini, e il viaggio della Provvidenza che era la più vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Maruzza se ne sentiva sempre il cuore nero, ma non apriva bocca, perchè non era affar suo, e si affaccendava zitta zitta a mettere in ordine la barca e ogni cosa pel viaggio, il pane fresco, l’orciolino coll’olio, le cipolle, il cappotto foderato di pelle, sotto la pedagna e nella scaffetta.
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+Gli uomini avevano avuto un gran da fare tutto il giorno, con quell’usuraio dello zio Crocifisso, il quale aveva venduto la gatta nel sacco, e i lupini erano avariati. Campana di legno diceva che lui non ne sapeva nulla, come è vero Iddio! «Quel ch’è di patto non è d’inganno»; che l’anima lui non doveva darla ai porci! e Piedipapera schiamazzava e bestemmiava come un ossesso per metterli d’accordo, giurando e spergiurando che un caso simile non gli era capitato da che era vivo; e cacciava le mani nel mucchio dei lupini e li mostrava a Dio e alla Madonna, chiamandoli a testimoni. Infine, rosso, scalmanato, fuori di sè, fece una proposta disperata, e la piantò in faccia allo zio Crocifisso rimminchionito, e ai Malavoglia coi sacchi in mano: — Là! pagateli a Natale, invece di pagarli a tanto al mese, e ci avrete un risparmio di un tarì a salma! La finite ora, santo diavolone? — E cominciò ad insaccare: — In nome di Dio, e uno!
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+La Provvidenza partì il sabato verso sera, e doveva esser suonata l’avemaria, sebbene la campana non si fosse udita, perchè mastro Cirino il sagrestano era andato a portare un paio di stivaletti nuovi a don Silvestro il segretario; in quell’ora le ragazze facevano come uno stormo di passere attorno alla fontana, e la stella della sera era già bella e lucente, che pareva una lanterna appesa all’antenna della Provvidenza. Maruzza colla bambina in collo se ne stava sulla riva, senza dir nulla, intanto che suo marito sbrogliava la vela, e la Provvidenza si dondolava sulle onde rotte dai fariglioni come un’anitroccola. — «Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura», diceva padron ’Ntoni dalla riva, guardando verso la montagna tutta nera di nubi.
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+Menico della Locca, il quale era nella Provvidenza con Bastianazzo, gridava qualche cosa che il mare si mangiò. — Dice che i denari potete mandarli a sua madre, la Locca, perchè suo fratello è senza lavoro; aggiunse Bastianazzo, e questa fu l’ultima sua parola che si udì.
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+II.
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+Per tutto il paese non si parlava d’altro che del negozio dei lupini, e come la Longa se ne tornava a casa colla Lia in collo, le comari si affacciavano sull’uscio per vederla passare.
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+— Un affar d’oro! — vociava Piedipapera, arrancando colla gamba storta dietro a padron ’Ntoni, il quale era andato a sedersi sugli scalini della chiesa, accanto a padron Fortunato Cipolla, e al fratello di Menico della Locca che stavano a prendere il fresco. — Lo zio Crocifisso strillava come se gli strappassero le penne mastre, ma non bisogna badarci, perchè delle penne ne ha molte, il vecchio. — Eh! s’è lavorato! potete dirlo anche voi, padron ’Ntoni! — ma per padron ’Ntoni ei si sarebbe buttato dall’alto del fariglione, com’è vero Iddio! e a lui lo zio Crocifisso gli dava retta, perchè egli era il mestolo della pentola, una pentola grossa, in cui bollivano più di duecento onze all’anno! Campana di legno non sapeva soffiarsi il naso senza di lui.
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+Il figlio della Locca udendo parlare delle ricchezze dello zio Crocifisso, il quale a lui gli era zio davvero, perchè era fratello della Locca, si sentiva gonfiare in petto una gran tenerezza pel parentado.
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+— Noi siamo parenti, — ripeteva. — Quando vado a giornata da lui mi dà mezza paga, e senza vino, perchè siamo parenti.
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+Piedipapera sghignazzava.
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+— Lo fa per tuo bene, per non farti ubbriacare, e per lasciarti più ricco quando creperà.
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+Compare Piedipapera si divertiva a sparlare di questo e di quello, come capitava; ma così di cuore, e senza malizia, che non c’era verso di pigliarsela in criminale. — Massaro Filippo è passato due volte dinanzi all’osteria, — diceva pure, — e aspetta che la Santuzza gli faccia segno di andarla a raggiungere nella stalla, per dirsi insieme il santo rosario.
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+Oppure al figlio della Locca:
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+— Tuo zio Crocifisso cerca di rubarle la chiusa, a tua cugina la Vespa; vuol pagargliela la metà di quel che vale, col darle ad intendere che la sposerà. Ma se la Vespa riesce a farsi rubare qualche cos’altra, potrai pulirti la bocca della speranza dell’eredità, e ci perdi i soldi e il vino che non ti ha dato.
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+Allora si misero a questionare, perchè padron ’Ntoni sosteneva che lo zio Crocifisso alla fin fine era cristiano, e non aveva dato ai cani il suo giudizio, per andare a sposare la figliuola di suo fratello.
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+— Come c’entra il cristiano e il turco? — ribatteva Piedipapera. — È un pazzo, volete dire. Lui è ricco come un maiale, mentre la Vespa non possiede altro che quella chiusa grande quanto un fazzoletto da naso.
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+— Lo dite a me che ci ho a limite la vigna, — disse allora padron Cipolla gonfiandosi come un tacchino.
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+— Li chiamate vigna quei quattro fichidindia? — rispose Piedipapera.
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+— In mezzo ai fichidindia ci sono le viti, e se San Francesco ci manderà una buona pioggia, lo vedrete poi che mosto darà. Il sole oggi si coricò insaccato — acqua o vento.
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+— «Quando il sole si corica insaccato si aspetta il vento di ponente», — aggiunse padron ’Ntoni.
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+Piedipapera non poteva soffrire quello sputasentenze di padron Cipolla, il quale perchè era ricco si credeva di saper tutto lui, e di dar a bere le corbellerie a chi non aveva denari.
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+— Chi la vuol cotta e chi la vuol cruda, — conchiuse. — Padron Cipolla aspetta l’acqua per la sua vigna, e voi il ponente in poppa alla Provvidenza. Lo sapete il proverbio «Mare crespo, vento fresco». Stasera le stelle sono lucenti, e a mezzanotte cambierà il vento; sentite la buffata?
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+Sulla strada si udivano passare lentamente dei carri.
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+— Notte e giorno c’è sempre gente che va attorno per il mondo, — osservò poi compare Cipolla.
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+E adesso che non si vedeva più nè mare nè campagna, sembrava che non ci fosse al mondo altro che Trezza, e ognuno pensava dove potevano andare quei carri a quell’ora.
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+— Prima di mezzanotte la Provvidenza avrà girato il Capo dei Mulini, — disse padron ’Ntoni, — e il vento fresco non le darà più noia.
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+Padron ’Ntoni non pensava ad altro che alla Provvidenza, e quando non parlava delle cose sue non diceva nulla, e alla conversazione ci stava come un manico di scopa.
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+— Voi dovreste andare a mettervi con quelli della spezieria, che discorrono del re e del papa; — gli diceva perciò Piedipapera. — Colà ci fareste bella figura anche voi! li sentite come gridano?
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+— Questo è don Giammaria, — disse il figlio della Locca, — che litiga collo speziale.
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+Lo speziale teneva conversazione sull’uscio della bottega, al fresco, col vicario e qualchedun altro. Come sapeva di lettere leggeva la gazzetta, e la faceva leggere agli altri, e ci aveva anche la Storia della Rivoluzione francese, che se la teneva là, a portata di mano, sotto il mortaio di cristallo, perciò quistionavano tutto il giorno con don Giammaria, il vicario, per passare il tempo, e ci pigliavano delle malattie dalla bile; ma non avrebbero potuto stare un giorno senza vedersi. Il sabato poi, quando arrivava il giornale, don Franco spingevasi sino ad accendere mezz’ora ed anche un’ora di candela, a rischio di farsi sgridare dalla moglie, onde spiattellare le sue idee, e non andare a letto a mo’ dei bruti, come compare Cipolla, o compare Malavoglia. L’estate poi non c’era neppur bisogno della candela, giacchè si poteva star sull’uscio, sotto il lampione, quando mastro Cirino l’accendeva, e qualche volta veniva don Michele, il brigadiere delle guardie doganali; e anche don Silvestro, il segretario comunale, tornando dalla vigna, si fermava un momento.
+
+Allora don Franco diceva, fregandosi le mani, che pareva un piccolo Parlamento, e andava a piantarsi dietro il banco, pettinandosi colle dita la barbona, con certo sorriso furbo che pareva si volesse mangiare qualcuno a colezione, e alle volte si lasciava scappare sottovoce delle mezze parole dinanzi alla gente, rizzandosi sulle gambette, e si vedeva che la sapeva più lunga degli altri, tanto che don Giammaria non poteva patirlo e ci si mangiava il fegato, e gli sputava in faccia parole latine. Don Silvestro, lui, si divertiva a vedere come si guastavano il sangue per raddrizzare le gambe ai cani, senza guadagnarci un centesimo; egli almeno non era arrabbiato come loro, e per questo, dicevano in paese, possedeva le più belle chiuse di Trezza, — dove era venuto senza scarpe ai piedi — aggiungeva Piedipapera. Ei li aizzava l’un contro l’altro, e rideva a crepapancia con degli Ah! ah! ah! che sembrava una gallina.
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+— Ecco don Silvestro che fa l’uovo, — osservò il figlio della Locca.
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+— Don Silvestro fa le uova d’oro, laggiù al Municipio, — rispose Piedipapera.
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+— Uhm! — sputò fuori padron Fortunato — pezzenterie! comare Zuppidda non gli ha voluto dare la figliuola.
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+— Vuol dire che mastro Cola Zuppiddu preferisce le uova delle sue galline; — rispose padron ’Ntoni.
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+E padron Cipolla disse di sì col capo.
+
+— «’Ntroi ’ntroi, ciascuno coi pari suoi», — aggiunse padron Malavoglia.
+
+Piedipapera allora ribattè che se don Silvestro si fosse contentato di stare coi suoi pari a quest’ora ci avrebbe la zappa in mano invece della penna.
+
+— Che ce la dareste voi vostra nipote Mena? — disse alfine padron Cipolla volgendosi a padron ’Ntoni.
+
+— «Ognuno all’arte sua, e il lupo alle pecore».
+
+Padron Cipolla continuava a dir di sì col capo, tanto più che fra lui e padron ’Ntoni c’era stata qualche parola di maritar la Mena con suo figlio Brasi, e se il negozio dei lupini andava bene, la Mena avrebbe avuto la sua dote in contante, e l’affare si sarebbe conchiuso presto.
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+— «La ragazza com’è educata, e la stoppa com’è filata», — disse infine padron Malavoglia, e padron Cipolla confermò che tutti lo sapevano in paese che la Longa aveva saputo educarla la figliuola, e ognuno che passava per la stradicciuola a quell’ora udendo il colpettare del telaio di Sant' Agata diceva che l’olio della candela non lo perdeva, comare Maruzza.
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+La Longa, com’era tornata a casa, aveva acceso il lume, e s’era messa coll’arcolaio sul ballatoio, a riempire certi cannelli che le servivano per l’ordito della settimana.
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+— Comare Mena non si vede, ma si sente, e sta al telaio notte e giorno, come Sant’Agata, dicevano le vicine.
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+— Le ragazze devono avvezzarsi a quel modo, — rispondeva Maruzza, — invece di stare alla finestra. «A donna alla finestra non far festa».
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+— Certune però collo stare alla finestra un marito se lo pescano, fra tanti che passano; — osservò la cugina Anna dall’uscio dirimpetto.
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+La cugina Anna aveva ragione da vendere; perchè quel bietolone di suo figlio Rocco si era lasciato irretire dentro le gonnelle della Mangiacarrubbe, una di quelle che stanno alla finestra colla faccia tosta.
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+Comare Grazia Piedipapera, sentendo che nella strada c’era conversazione, si affacciò anch’essa sull’uscio, col grembiule gonfio delle fave che stava sgusciando, e se la pigliava coi topi che le avevano bucherellato il sacco come un colabrodo, e pareva che l’avessero fatto apposta, come se ci avessero il giudizio dei cristiani; così il discorso si fece generale, perchè alla Maruzza gliene avevano fatto tanto del danno, quelle bestie scomunicate! La cugina Anna ne aveva la casa piena, da che gli era morto il gatto, una bestia che valeva tant’oro, ed era morto di una pedata di compare Tino. — I gatti grigi sono i migliori, per acchiappare i topi, e andrebbero a scovarli in una cruna di ago. — Ai gatti non conveniva aprire l’uscio di notte, perchè una vecchia di Aci Sant’Antonio l’avevano ammazzata così, che i ladri le avevano rubato il gatto tre giorni avanti, e poi glielo avevano riportato mezzo morto di fame a miagolare dietro l’uscio; e la povera donna non sentendosi il cuore di lasciar la bestiola sulla strada a quell’ora, aveva aperto l’uscio, e così s’era ficcati i ladri in casa. Al giorno d’oggi i mariuoli ne inventano di ogni specie per fare i loro tiri; e a Trezza si vedevano delle facce che non si erano mai viste sugli scogli, col pretesto d’andare a pescare, e arraffavano la biancheria messa ad asciugare, se capitava. Alla povera Nunziata le avevano rubato in quel modo un lenzuolo nuovo. Povera ragazza! rubare a lei che lavorava per dar pane a tutti quei fratellini che suo padre le aveva lasciato sulle spalle, quando l’aveva piantata per andare a cercar fortuna ad Alessandria d’Egitto! — Nunziata era come la cugina Anna, quando l’era morto il marito, e le aveva lasciato quella nidiata di figliuoli, che Rocco, il più grandicello, non le arrivava alle ginocchia. Poi alla cugina Anna le era toccato di tirar su quel fanciullone per vederselo rubare dalla Mangiacarrubbe.
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+In mezzo a quel chiacchierìo saltò su la Zuppidda, la moglie di mastro Bastiano il calafato, la quale stava in fondo alla straduccia, e compariva sempre all’improvviso, per dire la sua come il diavolo nella litania, chè nessuno s’accorgeva di dove fosse sbucata.
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+— Del resto, — venne a brontolare, — vostro figlio Rocco non vi ha aiutata neppur lui, chè se si è buscato un soldo è andato subito a berlo all’osteria.
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+La Zuppidda sapeva tutto quello che succedeva in paese e per questo raccontavano che andava tutto il giorno in giro a piedi scalzi, a far la spia, col pretesto del suo fuso, che lo teneva sempre in aria perchè non frullasse sui sassi. Ella diceva sempre la verità come il santo evangelio, questo era il suo vizio, e perciò la gente che non amava sentirsela cantare, l’accusava di essere una lingua d’inferno, di quelle che lasciano la bava. — «Bocca amara sputa fiele»; ed ella ci aveva la bocca amara davvero per quella sua Barbara che non aveva potuto maritare, tanto era superba e sgarbata, e con tutto ciò voleva dargli il figlio di Vittorio Emanuele.
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+— Bel pezzo, la Mangiacarrubbe, — seguitava, — una sfacciata che si è fatto passare tutto il paese sotto la finestra. «A donna alla finestra non far festa», e Vanni Pizzuto le portava in regalo i fichidindia rubati a massaro Filippo l’ortolano, e se li mangiavano insieme nella vigna, sotto il mandorlo, li aveva visti lei. — E Peppi Naso, il beccaio, dopo che gli spuntò la gelosia di compare Mariano Cinghialenta, il carrettiere, andava a buttarle dietro l’uscio tutte le corna delle bestie che macellava, sicchè dicevano che andava a pettinarsi sotto la finestra della Mangiacarrubbe.
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+Quel cuor contento della cugina Anna invece la prendeva allegra. — Don Giammaria dice che fate peccato mortale a sparlar del prossimo!
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+— Don Giammaria dovrebbe piuttosto far la predica a sua sorella donna Rosolina, — rispose la Zuppidda, e non lasciarle far la ragazzetta con don Silvestro, quando passa, e con don Michele il brigadiere, che ci ha la rabbia del marito, con tutti quegli anni e quella carne che ci ha addosso, la poveraccia!
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+— Alla volontà di Dio! — concluse la cugina Anna. — Quando è morto mio marito, Rocco non era più alto di questa conocchia e le sue sorelline erano tutte minori di lui. Forse che mi son perduta di animo per questo? Ai guai ci si fa il callo, e poi ci aiutan a lavorare. Le mie figliuole faranno come ho fatto io, e finchè ci saranno le pietre al lavatoio avremo di che vivere. Guardate la Nunziata, ora ella ha più giudizio di una vecchietta, e si aiuta a tirar su quei piccini che pare li abbia fatti lei.
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+— E dove è la Nunziata che non si vede ancora? — domandò la Longa a un mucchio di monelli cenciosi, messi a piagnucolare sulla soglia della casuccia lì di faccia, i quali al sentir parlare della sorella alzarono gli strilli in coro.
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+— L’ho vista che andava sulla sciara a fare due fasci di ginestre, e c’era pure vostro figlio Alessio che l’accompagnava, — rispose la cugina Anna.
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+I bambini stettero a sentire, e poi si rimisero a pigolare tutti in una volta, e il più grandicello, appollaiato su di un gran sasso, rispose dopo un pezzetto:
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+— Non lo so dov’è.
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+Le vicine avevano fatto come le lumache quando piove, e lungo la straduccia non si udiva che un continuo chiacchierio da un uscio all’altro. Persino la finestra di compare Alfio Mosca, quello del carro dell’asino, era aperta, e ne usciva un gran fumo di ginestre. La Mena aveva lasciato il telaio e s’era affacciata al ballatoio anch’essa.
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+— Oh! sant’Agata! — esclamarono le vicine; e tutte le facevano festa.
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+— Che non ci pensate a maritar la vostra Mena? — chiedeva sottovoce la Zuppidda a comare Maruzza. — Oramai deve compire diciotto anni a Pasqua, lo so perchè è nata l’anno del terremoto, come mia figlia Barbara. Chi vuol pigliarsi mia figlia Barbara, prima deve piacere a me.
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+In questo momento si udì un fruscìo di frasche per la via, e arrivarono Luca e la Nunziata, che non si vedevano sotto i fasci di ginestre, tanto erano piccini.
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+— Oh! la Nunziata! — esclamarono le vicine. — Che non avevi paura a quest’ora nella sciara?
+
+— C’era anch’io, — rispose Alessi.
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+— Ho fatto tardi con comare Anna al lavatoio, e poi non ci avevo legna per il focolare.
+
+La ragazzina accese il lume, e si mise lesta lesta a apparecchiare ogni cosa per la cena, mentre i suoi fratellini le andavano dietro per la stanzuccia, che pareva una chioccia coi suoi pulcini. Alessi s’era scaricato del suo fascio, e stava a guardare dall’uscio, serio serio, e colle mani nelle tasche.
+
+— O Nunziata! — le gridò Mena dal ballatoio; — quando avrai messo la pentola a bollire, vieni un po’ qua.
+
+Nunziata lasciò Alessi a custodire il focolare, e corse ad appollaiarsi sul ballatoio, accanto alla sant’Agata, per godersi il suo riposo anche lei, colle mani in mano.
+
+— Compar Alfio Mosca sta facendo cuocere le fave; — osservò la Nunziata dopo un po’.
+
+— Egli come te, poveraccio! che non avete nessuno in casa che vi faccia trovare la minestra alla sera, quando tornate stanchi.
+
+— Sì, vero, e sa pure cucire e si fa il bucato da sè, e si rattoppa le camicie — la Nunziata sapeva ogni cosa che faceva il vicino Alfio, e conosceva la sua casa come la pianta della mano; — Adesso, — diceva, — va a prender la legna; ora sta governando il suo asino — e si vedeva il lume nel cortile, e sotto la tettoia. Sant’Agata rideva, e la Nunziata diceva che per essere preciso come una donna a compare Alfio gli mancava soltanto la gonnella.
+
+— Così, — conchiudeva Mena, — quando si mariterà, sua moglie andrà attorno col carro dell’asino, e lui resterà in casa ad allevare i figliuoli.
+
+Le mamme, in crocchio nella strada, discorrevano anch’esse di Alfio Mosca, che fino la Vespa giurava di non averlo voluto per marito, diceva la Zuppidda, perchè la Vespa aveva la sua brava chiusa, e se voleva maritarsi non prendeva uno il quale non possedeva altro che un carro da asino: «carro cataletto» dice il proverbio. Ella ha gettato gli occhi su di suo zio Campana di legno, la furbaccia!
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+Le ragazze fra di loro prendevano le parti di Mosca, contro quella brutta Vespaccia; e la Nunziata poi si sentiva il cuore gonfio dal disprezzo che gettavano su di compare Alfio, pel solo motivo che era povero, e non aveva nessuno al mondo, e tutto a un tratto disse a Mena: — Se fossi grande io me lo piglierei, se me lo dessero.
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+La Mena stava per dire anche lei qualche cosa; ma cambiò subito discorso.
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+— Che ci vai tu alla città, per la festa de’ morti?
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+— No, non ci vado perchè non posso lasciar la casa sola.
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+— Noi ci andremo, se il negozio dei lupini va bene; l’ha detto il nonno.
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+Poi ci pensò su, e soggiunse:
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+— Compar Alfio ci suole andare anche lui, a vendere le sue noci.
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+E tacquero entrambe, pensando alla festa dei Morti, dove compar Alfio andava a vendere le sue noci.
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+— Lo zio Crocifisso, con quell’aria di Peppinino se la mette in tasca la Vespa! ripigliava la cugina Anna.
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+— Questo vorrebbe lei! — rispose di botto la Zuppidda, — la Vespa non vorrebbe altro, che se la mettesse in tasca! Ella gli è sempre per casa, come il gatto, col pretesto di portargli i buoni bocconi, e il vecchio non dice di no, tanto più che non gli costa nulla. Ella lo ingrassa come un maiale, quando gli si vuol fare la festa. Ve lo dico io, la Vespa vuole entrargli in tasca!
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+Ognuna diceva la sua dello zio Crocifisso, il quale piagnucolava sempre, e si lamentava come Cristo in mezzo ai ladroni, e intanto aveva denari a palate, chè la Zuppidda, un giorno che il vecchio era malato, aveva vista una cassa grande così sotto il letto.
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+La Longa si sentiva sullo stomaco il debito delle quarant’onze dei lupini, e cambiò discorso, perchè le orecchie ci sentono anche al buio, e lo zio Crocifisso si udiva discorrere con don Giammaria, mentre passavano per la piazza, lì vicino, tanto che la Zuppidda interruppe i vituperî che stava dicendo di lui per salutarlo.
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+Don Silvestro rideva come una gallina, e quel modo di ridere faceva montare la mosca al naso allo speziale, il quale per altro di pazienza non ne aveva mai avuta, e la lasciava agli asini e a quelli che non volevano fare la rivoluzione un’altra volta.
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+— Già, voi non ne avete mai avuta, perchè non sapreste dove metterla! — gli gridava don Giammaria; e don Franco, ch’era piccino, ci si arrabbiava e accompagnava il prete con parolacce che si sentivano da un capo all’altro della piazza, allo scuro. Campana di legno, duro come un sasso, si stringeva nelle spalle, e badava ripetere che a lui non gliene importava, e attendeva ai fatti suoi. — Come se non fossero fatti vostri quelli della Confraternita della Buona Morte, che nessuno paga più un soldo! — gli diceva don Giammaria. — La gente, quando si tratta di cavare i denari di tasca, diventa una manica di protestanti, peggio dello speziale, e vi lascia tenere la cassa della Confraternita per farvi ballare i sorci, che è una vera porcheria!
+
+Don Franco dalla sua bottega sghignazzava alle loro spalle a voce alta, cercando d’imitare la risata di don Silvestro che faceva andare in bestia la gente. Ma lo speziale era della setta, e si sapeva; e don Giammaria gli gridava dalla piazza:
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+— I denari li trovereste, se si trattasse di scuole e di lampioni!
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+Lo speziale stette zitto, perchè si era affacciata sua moglie alla finestra; e lo zio Crocifisso, quando fu abbastanza lontano da non temere che l’udisse don Silvestro il segretario, il quale si beccava anche quel po’ di stipendio di maestro elementare:
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+— A me non me ne importa, — ripeteva. — Ma ai miei tempi non c’erano tanti lampioni, nè tante scuole; non si faceva bere l’asino per forza, e si stava meglio.
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+— A scuola non ci siete stato voi; eppure i vostri affari ve li sapete fare.
+
+— E il mio catechismo lo so, aggiunse lo zio Crocifisso per non restare in debito.
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+Nel calore della disputa don Giammaria aveva perso il battuto, sul quale avrebbe attraversato la piazza anche ad occhi chiusi, e stava per rompersi il collo, e lasciar scappare, Dio perdoni, una parola grossa.
+
+— Almeno l’accendessero, i loro lumi!
+
+— Al giorno d’oggi bisogna badare ai fatti propri, conchiuse lo zio Crocifisso.
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+Don Giammaria andava tirandolo per la manica del giubbone per dire corna di questo e di quell���altro, in mezzo alla piazza, all’oscuro; del lumaio che rubava l’olio, di don Silvestro che chiudeva un occhio, e del sindaco «Giufà», che si lasciava menare per il naso. Mastro Cirino, ora che era impiegato del comune, faceva il sagrestano come Giuda, che suonava l’angelus quando non aveva nulla da fare, e il vino per la messa lo comperava di quello che aveva bevuto sulla croce Gesù Crocifisso, ch’era un vero sacrilegio. Campana di legno diceva sempre di sì col capo per abitudine, sebbene non si vedessero in faccia, e don Giammaria, come li passava a rassegna ad uno ad uno diceva: — Costui è un ladro — quello è un birbante — quell’altro è un giacobino. — Lo sentite Piedipapera che sta discorrendo con padron Malavoglia e padron Cipolla? Un altro della setta, colui! un arruffapopolo, con quella gamba storta! — E quando lo vedeva arrancare per la piazza faceva il giro lungo, e lo seguiva con occhi sospettosi, per scavare cosa stesse macchinando con quell’andatura. — Quello là ha il piede del diavolo! borbottava. — Lo zio Crocifisso si stringeva nelle spalle, e tornava a ripetere che egli era un galantuomo, e non voleva entrarci. — Padron Cipolla, un altro sciocco, un pallone di vento colui! che si lasciava abbindolare da Piedipapera.... ed anche padron ’Ntoni, ci sarebbe cascato anche lui!... Bisogna aspettarsi tutto, al giorno d’oggi!
+
+— Chi è galantuomo bada ai fatti suoi, — ripeteva lo zio Crocifisso.
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+Invece compare Tino, seduto come un presidente, sugli scalini della chiesa, sputava sentenze: — Sentite a me; prima della rivoluzione era tutt’altra cosa. Adesso i pesci sono maliziati, ve lo dico io!
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+— No; le acciughe sentono il grecale ventiquattr’ore prima di arrivare, riprendeva padron ’Ntoni; — è sempre stato così; l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno. Ora di là del Capo dei Mulini, li scopano dal mare tutti in una volta, colle reti fitte. —
+
+— Ve lo dico io cos’è! — ripigliò compare Fortunato. — Sono quei maledetti vapori che vanno e vengono, e battono l’acqua colle loro ruote. Cosa volete, i pesci si spaventano e non si fanno più vedere. Ecco cos’è.
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+Il figlio della Locca stava ad ascoltare a bocca aperta, e si grattava il capo. — Bravo! — disse poi. — Così pesci non se ne troverebbero più nemmeno a Siracusa nè a Messina, dove vanno i vapori. Invece li portano di là a quintali colla ferrovia.
+
+— Insomma sbrigatevela voi! — esclamò allora padron Cipolla indispettito, — io me ne lavo le mani, e non me ne importa un fico, giacchè ci ho le mie chiuse e le mie vigne che mi danno il pane.
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+E Piedipapera assestò uno scapaccione al figlio della Locca, per insegnargli l’educazione. — Bestia! quando parlano i più vecchi di te sta zitto.
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+Il ragazzaccio allora se ne andò strillando e dandosi dei pugni nella testa, che tutti lo pigliavano per minchione perchè era figlio della Locca. E padron ’Ntoni col naso in aria, osservò: — Se il maestrale non si mette prima della mezzanotte, la Provvidenza avrà tempo di girare il Capo.
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+Dall’alto del campanile caddero lenti lenti dei rintocchi sonori. — Un’ora di notte! — osservò padron Cipolla.
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+Padron ’Ntoni si fece la croce e rispose:
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+— Pace ai vivi e riposo ai morti.
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+— Don Giammaria ha i vermicelli fritti per la cena stasera; — osservò Piedipapera fiutando verso le finestre della parrocchia.
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+Don Giammaria, passando lì vicino per andare a casa, salutò anche Piedipapera, perchè ai tempi che corrono bisogna tenersi amici quelle buone lane; e compare Tino, che aveva tuttora l’acquolina in bocca, gli gridò dietro:
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+— Eh! vermicelli fritti stasera, don Giammaria!
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+— Lo sentite! anche quello che mangio! — borbottava don Giammaria fra i denti; — fanno anche la spia ai servi di Dio per contar loro i bocconi! Tutto in odio alla chiesa! — e incontrandosi naso a naso con don Michele, il brigadiere delle guardie doganali, il quale andava attorno colla pistola sullo stomaco, e i calzoni dentro gli stivali, in cerca di contrabbandieri: — A questi altri non glielo fanno il conto di quel che mangiano.
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+— Questi qui mi piacciono! — rispondeva Campana di legno: — questi qui che stanno a guardia della roba dei galantuomini mi piacciono!
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+— Se gli dessero l’imbeccata sarebbe della setta anche lui! — diceva fra di sè don Giammaria picchiando all’uscio di casa. — Tutti una manica di ladri! — e continuò a borbottare, col picchiatoio in mano, seguendo con occhio sospettoso i passi del brigadiere che si dileguavano nel buio, verso l’osteria, e rimuginando perchè andasse a guardarli dalla parte dell’osteria gl’interessi dei galantuomini colui!
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+Però compare Tino lo sapeva perchè don Michele andasse a guardare gl’interessi dei galantuomini dalla parte dell’osteria, chè ci aveva perso delle notti a stare in agguato dietro l’olmo lì vicino per scoprirlo; e soleva dire:
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+— Ci va per confabulare di nascosto con lo zio Santoro, il padre della Santuzza. Quelli che mangiano il pane del re devono tutti far gli sbirri, e sapere i fatti di ognuno a Trezza e dappertutto, e lo zio Santoro, così cieco com’è, che sembra un pipistrello al sole, sulla porta dell’osteria, sa tutto quello che succede in paese, e potrebbe chiamarci per nome ad uno ad uno soltanto a sentirci camminare. Ei non ci sente solo quando massaro Filippo va a recitare il rosario colla Santuzza, ed è un tesoro per fare la guardia, meglio di come se gli avessero messo un fazzoletto sugli occhi.
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+Maruzza udendo suonare un’ora di notte era rientrata in casa lesta lesta, per stendere la tovaglia sul deschetto; le comari a poco a poco si erano diradate, e come il paese stesso andava addormentandosi, si udiva il mare che russava lì vicino, in fondo alla straduccia, e ogni tanto sbuffava, come uno che si volti e rivolti pel letto. Soltanto laggiù all’osteria, dove si vedeva il lumicino rosso, continuava il baccano, e si udiva il vociare di Rocco Spatu il quale faceva festa tutti i giorni.
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+— Compare Rocco ha il cuore contento, — disse dopo un pezzetto dalla sua finestra Alfio Mosca, che pareva non ci fosse più nessuno.
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+— Oh siete ancora là, compare Alfio! — rispose Mena, la quale era rimasta sul ballatoio ad aspettare il nonno.
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+— Sì, sono qua, comare Mena; sto qua a mangiarmi la minestra; perchè quando vi vedo tutti a tavola, col lume, mi pare di non esser tanto solo, che va via anche l’appetito.
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+— Non ce l’avete il cuore contento voi?
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+— Eh! ci vogliono tante cose per avere il cuore contento!
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+Mena non rispose nulla, e dopo un altro po’ di silenzio compare Alfio soggiunse:
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+— Domani vado alla città per un carico di sale.
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+— Che ci andate poi per i Morti? domandò Mena.
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+— Dio lo sa, quest’anno quelle quattro noci son tutte fradicie.
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+— Compare Alfio ci va per cercarsi la moglie alla città, — rispose la Nunziata dall’uscio dirimpetto.
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+— Che è vero? — domandò Mena.
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+— Eh, comare Mena, se non dovessi far altro, al mio paese ce n’è delle ragazze come dico io, senza andare a cercarle lontano.
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+— Guardate quante stelle che ammiccano lassù! — rispose Mena dopo un pezzetto. — Ei dicono che sono le anime del Purgatorio che se ne vanno in Paradiso.
+
+— Sentite, — le disse Alfio dopo che ebbe guardate le stelle anche lui; — voi che siete Sant’Agata, se vi sognate un terno buono, ditelo a me, che ci giuocherò la camicia, e allora potrò pensarci a prender moglie....
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+— Buona sera! — rispose Mena.
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+Le stelle ammiccavano più forte, quasi s’accendessero, e i tre re scintillavano sui fariglioni colle braccia in croce, come Sant’Andrea. Il mare russava in fondo alla stradicciuola, adagio adagio, e a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo il quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e c’era pure della gente che andava pel mondo a quell’ora, e non sapeva nulla di compar Alfio, nè della Provvidenza che era in mare, nè della festa dei Morti; — così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno.
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+Il nonno s’affacciò ancora due o tre volte sul ballatoio, prima di chiudere l’uscio, a guardare le stelle che luccicavano più del dovere, e poi borbottò: — «Mare amaro!».
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+Rocco Spatu si sgolava sulla porta dell’osteria davanti al lumicino. — «Chi ha il cuor contento sempre canta» conchiuse — padron ’Ntoni.
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+III.
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+Dopo la mezzanotte il vento s’era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di Sant’Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro.
+
+Maruzza la Longa non diceva nulla, com’era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l’uovo. Gli uomini erano all’osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c’era soltanto padron ’Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini.
+
+— Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire! — diceva stringendosi nelle spalle; — e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza.
+
+Nella bettola di suor Mariangela la Santuzza c’era folla: quell’ubbriacone di Rocco Spatu, il quale vociava e sputava per dieci; compare Tino Piedipapera, mastro Turi Zuppiddu, compare Mangiacarrubbe, don Michele il brigadiere delle guardie doganali, coi calzoni dentro gli stivali, e la pistola appesa sul ventre, quasi dovesse andare a caccia di contrabbandieri con quel tempaccio, e compare Mariano Cinghialenta. Quell’elefante di mastro Turi Zuppiddu andava distribuendo per ischerzo agli amici dei pugni che avrebbero accoppato un bue, come se ci avesse ancora in mano la malabestia di calafato, e allora compare Cinghialenta si metteva a gridare e bestemmiare, per far vedere che era uomo di fegato e carrettiere.
+
+Lo zio Santoro, raggomitolato sotto quel po’ di tettoia, davanti all’uscio, aspettava colla mano stesa che passasse qualcheduno per chiedere la carità. — Tra tutte e due, padre e figlia, disse compare Turi Zuppiddu, devono buscarne dei bei soldi, con una giornata come questa, e tanta gente che viene all’osteria.
+
+— Bastianazzo Malavoglia sta peggio di lui, a quest’ora, - rispose Piedipapera, - e mastro Cirino ha un bel suonare la messa; ma i Malavoglia non ci vanno oggi in chiesa; sono in collera con Domeneddio, per quel carico di lupini che ci hanno in mare.
+
+Il vento faceva volare le gonnelle e le foglie secche, sicchè Vanni Pizzuto col rasoio in aria, teneva pel naso quelli a cui faceva la barba, per voltarsi a guardare chi passava, e si metteva il pugno sul fianco, coi capelli arricciati e lustri come la seta; e lo speziale se ne stava sull’uscio della sua bottega, sotto quel cappellaccio che sembrava avesse il paracqua in testa, fingendo aver discorsi grossi con don Silvestro il segretario, perchè sua moglie non lo mandasse in chiesa per forza; e rideva del sotterfugio, fra i peli della barbona, ammiccando alle ragazze che sgambettavano nelle pozzanghere.
+
+— Oggi, andava dicendo Piedipapera, - padron ’Ntoni vuol fare il protestante come don Franco lo speziale.
+
+— Se fai di voltarti per guardare quello sfacciato di don Silvestro, ti dò un ceffone qui dove siamo; — borbottava la Zuppidda colla figliuola, mentre attraversavano la piazza. — Quello lì non mi piace.
+
+La Santuzza, all’ultimo tocco di campana, aveva affidata l’osteria a suo padre, e se n’era andata in chiesa, tirandosi dietro gli avventori. Lo zio Santoro, poveretto, era cieco, e non faceva peccato se non andava a messa; così non perdevano tempo all’osteria, e dall’uscio poteva tener d’occhio il banco, sebbene non ci vedesse, chè gli avventori li conosceva tutti ad uno ad uno soltanto al sentirli camminare, quando venivano a bere un bicchiere.
+
+— Le calze della Santuzza, — osservava Piedipapera, mentre ella camminava sulla punta delle scarpette, come una gattina, — le calze della Santuzza, acqua o vento, non le ha viste altri che massaro Filippo l’ortolano; questa è la verità.
+
+— Ci sono i diavoli per aria! — diceva la Santuzza facendosi la croce coll’acqua santa. — Una giornata da far peccati!
+
+La Zuppidda, lì vicino, abburattava avemarie, seduta sulle calcagna, e saettava occhiatacce di qua e di là, che pareva ce l’avesse con tutto il paese, e a quelli che volevano sentirla ripeteva: — Comare la Longa non ci viene in chiesa, eppure ci ha il marito in mare con questo tempaccio! Poi non bisogna stare a cercare perchè il Signore ci castiga! — Persino la madre di Menico stava in chiesa, sebbene non sapesse far altro che veder volare le mosche!
+
+— Bisogna pregare anche pei peccatori; — rispondeva la Santuzza; — le anime buone ci sono per questo.
+
+— Sì, come se ne sta pregando la Mangiacarrubbe, col naso dentro la mantellina, e Dio sa che peccatacci fa fare ai giovanotti!
+
+La Santuzza scuoteva il capo, e diceva che mentre si è in chiesa non bisogna sparlare del prossimo — «Chi fa l’oste deve far buon viso a tutti», — rispose la Zuppidda, e poi all’orecchio della Vespa: — La Santuzza non vorrebbe si dicesse che vende l’acqua per vino; ma farebbe meglio a non tenere in peccato mortale massaro Filippo l’ortolano, che ha moglie e figliuoli.
+
+— Per me, — rispose la Vespa, — gliel’ho detto a don Giammaria, che non voglio più starci fra le Figlie di Maria se ci lasciano la Santuzza per superiora.
+
+— Allora vuol dire che l’avete trovato il marito? — rispose la Zuppidda.
+
+— Io non l’ho trovato il marito, — saltò su la Vespa con tanto di pungiglione. — Io non sono come quelle che si tirano dietro gli uomini anche in chiesa, colle scarpe verniciate, e quelli altri colla pancia grossa.
+
+Quello della pancia grossa era Brasi, il figlio di padron Cipolla, il quale era il cucco delle mamme e delle ragazze, perchè possedeva vigne ed oliveti.
+
+— Va a vedere se la paranza è bene ammarrata; — gli disse suo padre facendosi la croce.
+
+Ciascuno non poteva a meno di pensare che quell’acqua e quel vento erano tutt’oro per i Cipolla; così vanno le cose di questo mondo, che i Cipolla, adesso che avevano la paranza bene ammarrata, si fregavano le mani vedendo la burrasca; mentre i Malavoglia diventavano bianchi e si strappavano i capelli, per quel carico di lupini che avevano preso a credenza dallo zio Crocifisso Campana di legno.
+
+— Volete che ve la dica? — saltò su la Vespa; — la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza. «Chi fa credenza senza pegno, perde l’amico la roba e l’ingegno».
+
+Lo zio Crocifisso se ne stava ginocchioni a piè dell’altare dell’Addolorata, con tanto di rosario in mano, e intuonava le strofette con una voce di naso che avrebbe toccato il cuore a satanasso in persona. Fra un’avemaria e l’altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli.
+
+— Al giorno d’oggi, — disse padron Cipolla, stringendosi nelle spalle, — nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni.
+
+— Il fatto è, — conchiuse compare Zuppiddu, — che sarà una brutta giornata pei Malavoglia.
+
+— Per me, — aggiunse Piedipapera, — non vorrei trovarmi nella camicia di compare Bastianazzo.
+
+La sera scese triste e fredda; di tanto in tanto soffiava un buffo di tramontana, e faceva piovere una spruzzatina d’acqua fina e cheta: una di quelle sere in cui, quando si ha la barca al sicuro, colla pancia all’asciutto sulla sabbia, si gode a vedersi fumare la pentola dinanzi, col marmocchio fra le gambe, e sentire le ciabatte della donna per la casa, dietro le spalle. I fannulloni preferivano godersi all’osteria quella domenica che prometteva di durare anche il lunedì, e fin gli stipiti erano allegri della fiamma del focolare, tanto che lo zio Santoro, messo lì fuori colla mano stesa e il mento sui ginocchi, s’era tirato un po’ in qua, per scaldarsi la schiena anche lui.
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+— E sta meglio di compare Bastianazzo, a quest’ora! — ripeteva Rocco Spatu, accendendo la pipa sull’uscio.
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+E senza pensarci altro mise mano al taschino, e si lasciò andare a fare due centesimi di limosina.
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+— Tu ci perdi la tua limosina a ringraziare Dio che sei al sicuro, — gli disse Piedipapera; — per te non c’è pericolo che abbi a fare la fine di compare Bastianazzo.
+
+Tutti si misero a ridere della barzelletta, e poi stettero a guardare dall’uscio il mare nero come la sciara, senza dir altro.
+
+— Padron ’Ntoni è andato tutto il giorno di qua e di là, come avesse il male della tarantola, e lo speziale gli domandava se faceva la cura del ferro, o andasse a spasso con quel tempaccio, e gli diceva pure: — Bella Provvidenza, eh! padron ’Ntoni! Ma lo speziale è protestante ed ebreo, ognuno lo sapeva.
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+Il figlio della Locca, che era lì fuori colle mani in tasca perchè non ci aveva un soldo, disse anche lui:
+
+— Lo zio Crocifisso è andato a cercare padron ’Ntoni con Piedipapera, per fargli confessare davanti a testimoni che i lupini glieli aveva dati a credenza.
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+— Vuol dire che anche lui li vede in pericolo colla Provvidenza.
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+— Colla Provvidenza c’è andato anche mio fratello Menico, insieme a compare Bastianazzo.
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+— Bravo! questo dicevamo, che se non torna tuo fratello Menico tu resti il barone della casa.
+
+— C’è andato perchè lo zio Crocifisso voleva pagargli la mezza giornata anche a lui, quando lo mandava colla paranza, e i Malavoglia invece gliela pagavano intiera; — rispose il figlio della Locca senza capir nulla; e come gli altri sghignazzavano rimase a bocca aperta.
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+Sull’imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti era andata ad aspettare sulla sciara, d’onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell’ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco, alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa.
+
+Le comari, mentre tornavano dall’osteria coll’orciolino dell’olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l’aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio, o compare Mangiacarrubbe, passando dalla sciara per dare un’occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito, e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro. La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e si stringeva al petto la bimba, come se volessero rubargliela. Finalmente il più duro o il più compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: — Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! — I figliuoli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all’osteria, tutti gli avventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa.
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+— Requiem eternam, — biascicava sottovoce lo zio Santoro, — quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità, quando padron ’Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca.
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+La poveretta che non sapeva di essere vedova, balbettava:
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+— Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!
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+Dinanzi al ballatoio della sua casa c’era un gruppo di vicine che l’aspettavano, e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro da lontano, comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre, senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa.
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+— Che disgrazia! — dicevano sulla via. — E la barca era carica! Più di quarant’onze di lupini!
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+IV.
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+Il peggio era che i lupini li avevano presi a credenza, e lo zio Crocifisso non si contentava di «buone parole e mele fradicie», per questo lo chiamavano Campana di legno, perchè non ci sentiva di quell’orecchio, quando lo volevano pagare con delle chiacchiere, e’ diceva che «alla credenza ci si pensa». Egli era un buon diavolaccio, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco; ma aveva denari sin che ne volevano, e se qualcheduno andava a chiedergli dodici tarì glieli prestava subito, col pegno, perchè «chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno» a patto di averli restituiti la domenica, d’argento e colle colonne, che ci era un carlino dippiù, com’era giusto, perchè «coll’interesse non c’è amicizia». Comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, ma dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, chè era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. Insomma era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo, e senza essere uomo di mare aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano la barca del diavolo — e quando gli dicevano perchè non ci andasse lui a rischiare la pelle come tutti gli altri, che si pappava il meglio della pesca senza pericolo, rispondeva: — Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei? — Egli badava agli affari suoi, ed avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva esser pagato, senza tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perchè era sordo, e per di più era scarso di cervello, e non sapeva dir altro che «Quel che è di patto non è d’inganno», oppure «Al giorno che promise si conosce il buon pagatore».
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+Ora i suoi nemici gli ridevano sotto il naso, a motivo di quei lupini che se l’era mangiati il diavolo; e gli toccava anche recitare il deprofundis per l’anima di Bastianazzo, quando si facevano le esequie, insieme con gli altri confratelli della Buona Morte, colla testa nel sacco.
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+I vetri della chiesetta scintillavano, e il mare era liscio e lucente, talchè non pareva più quello che gli aveva rubato il marito alla Longa; perciò i confratelli avevano fretta di spicciarsi, e di andarsene ognuno pei propri affari, ora che il tempo s’era rimesso al buono.
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+Stavolta i Malavoglia erano là, seduti sulle calcagna, davanti al cataletto, e lavavano il pavimento dal gran piangere, come se il morto fosse davvero fra quelle quattro tavole, coi suoi lupini al collo, che lo zio Crocifisso gli aveva dati a credenza, perchè aveva sempre conosciuto padron ’Ntoni per galantuomo; ma se volevano truffargli la sua roba, col pretesto che Bastianazzo s’era annegato, la truffavano a Cristo, com’è vero Dio! chè quello era un credito sacrosanto come l’ostia consacrata, e quelle cinquecento lire ei l’appendeva ai piedi di Gesù crocifisso; ma santo diavolone! padron ’Ntoni sarebbe andato in galera! La legge c’era anche a Trezza!
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+Intanto don Giammaria buttava in fretta quattro colpi d’aspersorio sul cataletto, e mastro Cirino cominciava ad andare attorno per spegnere i lumi colla canna. I confratelli si affrettavano a scavalcare i banchi colle braccia in aria, per cavarsi il cappuccio, e lo zio Crocifisso andò a dare una presa di tabacco a padron ’Ntoni, per fargli animo, che infine quando uno è galantuomo lascia buon nome e si guadagna il paradiso, — questo aveva detto a coloro che gli domandavano dei suoi lupini: — Coi Malavoglia sto tranquillo perchè son galantuomini e non vorranno lasciar compare Bastianazzo a casa del diavolo; padron ’Ntoni poteva vedere coi suoi propri occhi se si erano fatte le cose senza risparmio, in onore del morto; e tanto costava la messa, tanto i ceri, e tanto il mortorio — ei faceva il conto sulle grosse dita ficcate nei guanti di cotone, e i ragazzi guardavano a bocca aperta tutte quelle cose che costavano caro, ed erano lì pel babbo: il cataletto, i ceri, i fiori di carta; e la bambina, vedendo la luminaria, e udendo suonar l’organo, si mise a galloriare.
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+La casa del nespolo era piena di gente; e il proverbio dice: «triste quella casa dove ci è la visita pel marito!» Ognuno che passava, al vedere sull’uscio quei piccoli Malavoglia col viso sudicio e le mani nelle tasche, scrollava il capo e diceva:
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+— Povera comare Maruzza! ora cominciano i guai per la sua casa!
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+Gli amici portavano qualche cosa, com’è l’uso, pasta, ova, vino e ogni ben di Dio, che ci avrebbe voluto il cor contento per mangiarsi tutto, e perfino compar Alfio Mosca era venuto con una gallina per mano. — Prendete queste qua, gnà Mena, — diceva, — che avrei voluto trovarmici io al posto di vostro padre, vi giuro. Almeno non avrei fatto danno a nessuno, e nessuno avrebbe pianto.
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+La Mena, appoggiata alla porta della cucina, colla faccia nel grembiule, si sentiva il cuore che gli sbatteva e gli voleva scappare dal petto, come quelle povere bestie che teneva in mano. La dote di Sant’Agata se n’era andata colla Provvidenza, e quelli che erano a visita nella casa del nespolo, pensavano che lo zio Crocifisso ci avrebbe messo le unghie addosso.
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+Alcuni se ne stavano appollaiati sulle scranne, e ripartivano senza aver aperto bocca, da veri baccalà che erano; ma chi sapeva dir quattro parole, cercava di tenere uno scampolo di conversazione, per scacciare la malinconia, e distrarre un po’ quei poveri Malavoglia i quali piangevano da due giorni come fontane. Compare Cipolla raccontava che sulle acciughe c’era un aumento di due tarì per barile, questo poteva interessargli a padron ’Ntoni, se ci aveva ancora delle acciughe da vendere; lui a buon conto se n’era riserbati un centinaio di barili; e parlavano pure di compare Bastianazzo, buon’anima, che nessuno se lo sarebbe aspettato, un uomo nel fiore dell’età, e che crepava di salute, poveretto!
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+C’era pure il sindaco, mastro Croce Callà «Baco da seta» detto anche Giufà, col segretario don Silvestro, e se ne stava col naso in aria, talchè la gente diceva che stava a fiutare il vento per sapere da che parte voltarsi, e guardava ora questo ed ora quello che parlava, come se cercasse la foglia davvero, e volesse mangiarsi le parole, e quando vedeva ridere il segretario, rideva anche lui.
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+Don Silvestro per far ridere un po’ tirò il discorso sulla tassa di successione di compar Bastianazzo, e ci ficcò così una barzelletta che aveva raccolta dal suo avvocato, e gli era piaciuta tanto, quando gliel’avevano spiegata bene, che non mancava di farla cascare nel discorso ogniqualvolta si trovava a visita da morto.
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+— Almeno avete il piacere di essere parenti di Vittorio Emanuele, giacchè dovete dar la sua parte anche a lui!
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+E tutti si tenevano la pancia dalle risate, chè il proverbio dice: «Nè visita di morto senza riso, nè sposalizio senza pianto».
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+La moglie dello speziale torceva il muso a quegli schiamazzi, e stava coi guanti sulla pancia, e la faccia lunga, come si usa in città per quelle circostanze, che solo a guardarla la gente ammutoliva, quasi ci fosse il morto lì davanti, e per questo la chiamavano la Signora.
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+Don Silvestro faceva il gallo colle donne, e si muoveva ogni momento col pretesto di offrire le scranne ai nuovi arrivati, per far scricchiolare le sue scarpe verniciate. — Li dovrebbero abbruciare, tutti quelli delle tasse! — brontolava comare Zuppidda, gialla come se avesse mangiato dei limoni, e glielo diceva in faccia a don Silvestro, quasi ei fosse quello delle tasse. — Ella lo sapeva benissimo quello che volevano certi mangiacarte che non avevano calze sotto gli stivali inverniciati, e cercavano di ficcarsi in casa della gente per papparsi la dote e la figliuola: «Bella, non voglio te, voglio i tuoi soldi». Per questo aveva lasciata a casa sua figlia Barbara. — Quelle facce lì non mi piacciono.
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+— A chi lo dite! — esclamò padron Cipolla; — a me mi scorticano vivo come san Bartolomeo.
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+— Benedetto Dio! — esclamò mastro Turi Zuppiddo, minacciando col pugno che pareva la malabestia del suo mestiere. — Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani!
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+— Voi state zitto! — gli diede sulla voce comare Venera, — chè non sapete nulla.
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+— Io dico quel che hai detto tu, che ci levano la camicia di dosso, ci levano! — borbottò compare Turi, mogio mogio.
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+Allora Piedipapera, per tagliar corto, disse piano a padron Cipolla: — Dovreste pigliarvela voi, comare Barbara, per consolarvi; così la mamma e la figliuola non si darebbero più l’anima al diavolo.
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+— È una vera porcheria! — esclamava donna Rosolina, la sorella del curato, rossa come un tacchino, e facendosi vento col fazzoletto; e se la prendeva con Garibaldi che metteva le tasse, e al giorno d’oggi non si poteva più vivere, e nessuno si maritava più. — O a donna Rosolina cosa gliene importa oramai? — susurrava Piedipapera. Donna Rosolina intanto raccontava a don Silvestro le grosse faccende che ci aveva per le mani: dieci canne di ordito sul telaio, i legumi da seccare per l’inverno, la conserva dei pomidoro da fare, che lei ci aveva un segreto tutto suo per avere la conserva dei pomidoro fresca tutto l’inverno. — Una casa senza donna non poteva andare; ma la donna bisognava che avesse il giudizio nelle mani, come s’intendeva lei; e non fosse di quelle fraschette che pensano a lisciarsi e nient’altro, «coi capelli lunghi e il cervello corto», chè allora un povero marito se ne va sott’acqua come compare Bastianazzo, buon’anima. — Beato lui! — sospirava la Santuzza, — è morto in un giorno segnalato, la vigilia dei Dolori di Maria Vergine, e prega lassù per noi peccatori, fra gli angeli e i santi del paradiso. «A chi vuol bene Dio manda pene». Egli era un bravo uomo, di quelli che badano ai fatti loro, e non a dir male di questo e di quello, e peccare contro il prossimo, come tanti ce ne sono.
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+Maruzza allora, seduta ai piedi del letto, pallida e disfatta come un cencio messo al bucato, che pareva la Madonna Addolorata, si metteva a piangere più forte, col viso nel guanciale, e padron ’Ntoni, piegato in due, più vecchio di cent’anni, la guardava, e la guardava, scrollando il capo, e non sapeva che dire, per quella grossa spina di Bastianazzo che ci aveva in cuore, come se lo rosicasse un pescecane.
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+— La Santuzza ci ha il miele in bocca! osservava comare Grazia Piedipapera.
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+— Per fare l’ostessa, rispose la Zuppidda, — e’ s’ha ad essere così. «Chi non sa l’arte chiuda bottega, e chi non sa nuotare che si anneghi».
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+La Zuppidda ne aveva le tasche piene di quel fare melato della Santuzza, che persino la Signora si voltava a discorrere con lei, colla bocca stretta, senza badare agli altri, con que’ guanti che pareva avesse paura di sporcarsi le mani, e stava col naso arricciato, come se tutte le altre puzzassero peggio delle sardelle, mentre chi puzzava davvero era la Santuzza, di vino e di tante altre porcherie, con tutto l’abitino color pulce che aveva indosso, e la medaglia di Figlia di Maria sul petto prepotente, che non voleva starci. Già se la intendevano fra di loro perchè l’arte è parentela, e facevano denari allo stesso modo, gabbando il prossimo, e vendendo l’acqua sporca a peso d’oro, e se ne infischiavano delle tasse, coloro!
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+— Metteranno pure la tassa sul sale! — aggiunse compare Mangiacarrubbe. — L’ha detto lo speziale che è stampato nel giornale. Allora di acciughe salate non se ne faranno più, e le barche potremo bruciarle nel focolare.
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+Mastro Turi il calafato stava per levare il pugno e incominciare: — Benedetto Dio! — ; ma guardò sua moglie e si tacque mangiandosi fra i denti quel che voleva dire.
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+— Colla malannata che si prepara, — aggiunse padron Cipolla, che non pioveva da santa Chiara, — e se non fosse stato per l’ultimo temporale in cui si è persa la Provvidenza, che è stata una vera grazia di Dio, la fame quest’inverno si sarebbe tagliata col coltello!
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+Ognuno raccontava i suoi guai, anche per conforto dei Malavoglia, che non erano poi i soli ad averne. «Il mondo è pieno di guai, chi ne ha pochi e chi ne ha assai», e quelli che stavano fuori nel cortile guardavano il cielo, perchè un’altra pioggerella ci sarebbe voluta come il pane. Padron Cipolla lo sapeva lui perchè non pioveva più come prima. — Non piove più perchè hanno messo quel maledetto filo del telegrafo, che si tira tutta la pioggia, e se la porta via. — Compare Mangiacarrubbe allora, e Tino Piedipapera rimasero a bocca aperta, perchè giusto sulla strada di Trezza c’erano i pali del telegrafo; ma siccome don Silvestro cominciava a ridere, e a fare ah! ah! ah! come una gallina, padron Cipolla si alzò dal muricciuolo infuriato e se la prese con gli ignoranti, che avevano le orecchie lunghe come gli asini. — Che non lo sapevano che il telegrafo portava le notizie da un luogo all’altro; questo succedeva perchè dentro il filo ci era un certo succo come nel tralcio della vite, e allo stesso modo si tirava la pioggia dalle nuvole, e se la portava lontano, dove ce n’era più di bisogno; potevano andare a domandarlo allo speziale che l’aveva detta; e per questo ci avevano messa la legge che chi rompe il filo del telegrafo va in prigione. Allora anche don Silvestro non seppe più che dire, e si mise la lingua in tasca.
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+— Santi del Paradiso! si avrebbero a tagliarli tutti quei pali del telegrafo, e buttarli nel fuoco! — incominciò compare Zuppiddo, ma nessuno gli dava retta, e guardavano nell’orto, per mutar discorso.
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+— Un bel pezzo di terra! — diceva compare Mangiacarrubbe; — quando è ben coltivato dà la minestra per tutto l’anno.
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+La casa dei Malavoglia era sempre stata una delle prime a Trezza; ma adesso colla morte di Bastianazzo, e ’Ntoni soldato, e Mena da maritare, e tutti quei mangiapane pei piedi, era una casa che faceva acqua da tutte le parti.
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+Infine cosa poteva valere la casa? Ognuno allungava il collo sul muro dell’orto, e ci dava una occhiata, per stimarla così a colpo. Don Silvestro sapeva meglio di ogni altro come andassero le cose, perchè le carte le aveva lui, alla segreteria di Aci-Castello.
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+— Volevo scommettere dodici tarì che non è tutt’oro quello che luccica, andava dicendo; e mostrava ad ognuno il pezzo da cinque lire nuovo.
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+Ei sapeva che sulla casa c’era un censo di cinque tarì all’anno. Allora si misero a fare il conto sulle dita di quel che avrebbe potuto vendersi la casa, coll’orto, e tutto.
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+— Nè la casa nè la barca si possono vendere perchè ci è su la dote di Maruzza, — diceva qualchedun altro, e la gente si scaldava tanto che potevano udirli dalla camera dove stavano a piangere il morto. — Sicuro! — lasciò andare alfine don Silvestro come una bomba; — c’è l’ipoteca dotale.
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+Padron Cipolla, il quale aveva scambiato qualche parola con padron ’Ntoni per maritare Mena con suo figlio Brasi, scrollava il capo e non diceva altro.
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+— Allora, — aggiunse compare Cola, — il vero disgraziato è lo zio Crocifisso che ci perde il credito dei suoi lupini.
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+Tutti si voltarono verso Campana di legno il quale era venuto anche lui, per politica, e stava zitto, in un cantuccio, a veder quello che dicevano, colla bocca aperta e il naso in aria, che sembrava stesse contando quante tegole e quanti travicelli c’erano sul tetto, e volesse stimare la casa. I più curiosi allungavano il collo dall’uscio, e si ammiccavano l’un l’altro per mostrarselo a vicenda. — E’ pare l’usciere che fa il pignoramento! — sghignazzavano.
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+Le comari che sapevano delle chiacchiere fra padron ’Ntoni e compare Cipolla, dicevano che adesso bisognava passare la doglia, a comare Maruzza, e conchiudere quel matrimonio della Mena. Ma la Longa in quel momento ci aveva altro pel capo, poveretta.
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+Padron Cipolla voltò le spalle freddo freddo, senza dir nulla; e dopo che tutti se ne furono andati, i Malavoglia rimasero soli nel cortile. — Ora, — disse padron ’Ntoni, siamo rovinati, ed è meglio per Bastianazzo che non ne sa nulla.
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+A quelle parole, prima Maruzza, e poi tutti gli altri tornarono a piangere di nuovo, e i ragazzi, vedendo piangere i grandi, si misero a piangere anche loro, sebbene il babbo fosse morto da tre giorni. Il vecchio andava di qua e di là, senza sapere che facesse; Maruzza invece non si muoveva dai piedi del letto, quasi non avesse più nulla da fare. Quando diceva qualche parola, ripeteva sempre, cogli occhi fissi, e pareva che non ci avesse altro in testa. — Ora non ho più niente da fare!
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+— No! — rispose padron ’Ntoni, no! chè bisogna pagare il debito allo zio Crocifisso, e non si deve dire di noi che «il galantuomo come impoverisce diventa birbante».
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+E il pensiero dei lupini gli ficcava più dentro nel cuore la spina di Bastianazzo. Il nespolo lasciava cadere le foglie vizze, e il vento le spingeva di qua e di là pel cortile.
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+— Egli è andato perchè ce l’ho mandato io, — ripeteva padron ’Ntoni, — come il vento porta quelle foglie di qua e di là, e se gli avessi detto di buttarsi dal fariglione con una pietra al collo, l’avrebbe fatto senza dir nulla. Almeno è morto che la casa e il nespolo sino all’ultima foglia erano ancora suoi; ed io che son vecchio sono ancora qua. «Uomo povero ha i giorni lunghi».
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+Maruzza non diceva nulla, ma nella testa ci aveva un pensiero fisso, che la martellava, e le rosicava il cuore, di sapere cos’era successo in quella notte, che l’aveva sempre dinanzi agli occhi, e se li chiudeva le sembrava di vedere ancora la Provvidenza, là verso il Capo dei Mulini, dove il mare era liscio e turchino, e seminato di barche, che sembravano tanti gabbiani al sole, e si potevano contare ad una ad una, quella dello zio Crocifisso, l’altra di compare Barabba, la Concetta dello zio Cola, e la paranza di padron Fortunato, che stringevano il cuore; e si udiva mastro Cola Zuppiddo il quale cantava a squarciagola, con quei suoi polmoni di bue, mentre picchiava colla malabestia, e l’odore del catrame che veniva dal greto, e la tela che batteva la cugina Anna sulle pietre del lavatoio, e si udiva pure Mena a piangere cheta cheta in cucina.
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+— Poveretta! — mormorava il nonno, — anche a te è crollata la casa sul capo, e compare Fortunato se ne è andato freddo freddo, senza dir nulla.
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+E andava toccando ad uno ad uno gli arnesi che erano in mucchio in un cantuccio, colle mani tremanti, come fanno i vecchi; e vedendo Luca lì davanti, che gli avevano messo il giubbone del babbo, e gli arrivava alle calcagna, gli diceva: — Questo ti terrà caldo, quando verrai a lavorare; perchè adesso bisogna aiutarci tutti per pagare il debito dei lupini.
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+Maruzza si tappava le orecchie colle mani per non sentire la Locca che si era appollaiata sul ballatoio, dietro l’uscio, e strillava dalla mattina, con quella voce fessa di pazza, e pretendeva che le restituissero loro il suo figliuolo, e non voleva sentir ragione.
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+— Fa così perchè ha fame, — disse infine la cugina Anna; adesso lo zio Crocifisso ce l’ha con tutti loro per quell’affare dei lupini, e non vuol darle più nulla. Ora vo a portarle qualche cosa, e allora se ne andrà.
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+La cugina Anna, poveretta, aveva lasciato la sua tela e le sue ragazze per venire a dare una mano a comare Maruzza, la quale era come se fosse malata, e se l’avessero lasciata sola non avrebbe pensato più ad accendere il fuoco, e a mettere la pentola, che sarebbero tutti morti di fame. «I vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro». Intanto quei ragazzi avevano le labbra pallide dalla fame. La Nunziata aiutava anche lei, e Alessi, col viso sudicio dal gran piangere che aveva fatto vedendo piangere la mamma, teneva a bada i piccini, perchè non le stessero sempre fra i piedi, come una nidiata di pulcini, chè la Nunziata voleva averle libere le mani, lei.
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+— Tu sai il fatto tuo! — le diceva la cugina Anna; — e la tua dote ce l’hai nelle mani, quando sarai grande.
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ROMANZO
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di
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MILANO
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fratelli treves, editori
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1907
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Sesto Migliaio.
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Indice
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Prefazione
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Capitolo I
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Capitolo II
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Capitolo III
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Capitolo IV
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Capitolo V
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Capitolo VI
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Capitolo VII
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Capitolo VIII
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Capitolo IX
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Capitolo X
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Capitolo XI
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Capitolo XII
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Capitolo XIII
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Capitolo XIV
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Capitolo XV
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Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
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Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perchè la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacchè la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
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Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.
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I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione — dall’umile pescatore al nuovo arricchito — alla intrusa nelle alte classi — all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sè quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge — all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
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Milano, 19 gennaio 1881.
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I.
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Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poichè da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.
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Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso — un pugno che sembrava fatto di legno di noce — Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro.
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Diceva pure: — Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo. —
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E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perchè era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sóffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perchè stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora nè carne nè pesce. — Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione.
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Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «Perchè il motto degli antichi mai mentì»: — «Senza pilota barca non cammina» — «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» — oppure — «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» — «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
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Ecco perchè la casa del nespolo prosperava, e padron ’Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
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Padron ’Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perchè «chi comanda ha da dar conto».
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Nel dicembre 1863, ’Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron ’Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli avea risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona, e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere assieme un po’ di repubblica, tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero presi a calci nel sedere, chè soldati non ce ne sarebbero stati più, e invece tutti sarebbero andati alla guerra, se bisognava. Allora padron ’Ntoni lo pregava e lo strapregava per l’amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote ’Ntoni andasse soldato, come se don Franco ce l’avesse in tasca; tanto che lo speziale finì coll’andare in collera. Allora don Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con un certo gruzzoletto fatto scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo trovare a suo nipote un difetto da riformarlo. Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza, come se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che sembravano pale di ficodindia; ma i piedi fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini stretti sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie; e perciò si presero ’Ntoni senza dire «permettete». La Longa, mentre i coscritti erano condotti in quartiere, trottando trafelata accanto al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l’abitino della Madonna, e di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi gli avrebbero mandati i soldi per la carta.
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Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch’esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l’avesse con lei. Così se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato in fretta dal disarmare la Provvidenza, per andare ad aspettarli in capo alla via, come li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in mano, non ebbe animo di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. La Longa corse subito a cacciarsi in cucina, quasi avesse furia di trovarsi a quattr’occhi colle vecchie stoviglie, e padron ’Ntoni disse al figliuolo:
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— Va a dirle qualche cosa, a quella poveretta; non ne può più.
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Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti che andavano a Messina, e aspettarono più di un’ora, pigiati dalla folla, dietro lo stecconato. Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello stringimento di cuore che si aveva prima.
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— Addio ’Ntoni! — Addio mamma! — Addio! ricordati! ricordati! — Lì presso, sull’argine della via, c’era la Sara di comare Tudda, a mietere l’erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda andava soffiando che c’era venuta per salutare ’Ntoni di padron ’Ntoni, col quale si parlavano dal muro dell’orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che ’Ntoni salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finchè il treno non si mosse. Alla Longa, l’era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle.
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Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole, e qualche povero diavolo, che si tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perchè. Quindi a poco a poco si sbrancarono anch’essi, e padron ’Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara, le pagò due centesimi di acqua col limone.
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Comare Venera la Zuppidda, per confortare comare la Longa, le andava dicendo: — Ora mettetevi il cuore in pace, che per cinque anni bisogna fare come se vostro figlio fosse morto, e non pensarci più.
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Ma pure ci pensavano sempre, nella casa del nespolo, o per certa scodella che le veniva tutti i giorni sotto mano alla Longa nell’apparecchiare il deschetto, o a proposito di certa ganza che ’Ntoni sapeva fare meglio di ogni altro alla funicella della vela, e quando si trattava di serrare una scotta tesa come una corda di violino, o di alare una parommella che ci sarebbe voluto l’argano. Il nonno ansimando cogli ohi! ooohi! intercalava — Qui ci vorrebbe ’Ntoni — oppure — Vi pare che io abbia il polso di quel ragazzo? — La madre, mentre ribatteva il pettine sul telaio — uno! due! tre! — pensava a quel bum bum della macchina che le aveva portato via il figliuolo, e le era rimasto sul cuore, in quel gran sbalordimento, e le picchiava ancora dentro il petto, — uno! due! tre!
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Il nonno poi aveva certi singolari argomenti per confortarsi, e per confortare gli altri: — Del resto volete che vel dica? Un po’ di soldato gli farà bene a quel ragazzo; chè il suo paio di braccia gli piaceva meglio di portarsele a spasso la domenica, anzichè servirsene a buscarsi il pane.
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Oppure: — Quando avrà provato il pane salato che si mangia altrove, non si lagnerà più della minestra di casa sua.
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Finalmente arrivò da Napoli la prima lettera di ’Ntoni, che mise in rivoluzione tutto il vicinato. Diceva che le donne, in quelle parti là, scopavano le strade colle gonnelle di seta, e che sul molo c’era il teatro di Pulcinella, e si vendevano delle pizze, a due centesimi, di quelle che mangiano i signori, e senza soldi non ci si poteva stare, e non era come a Trezza, dove se non si andava all’osteria della Santuzza non si sapeva come spendere un baiocco. — Mandiamogli dei soldi per comperarsi le pizze, al goloso! brontolava padron ’Ntoni; già lui non ci ha colpa, è fatto così; è fatto come i merluzzi, che abboccherebbero un chiodo arrugginito. Se non l’avessi tenuto a battesimo su queste braccia, direi che don Giammaria gli ha messo in bocca dello zucchero invece di sale.
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La Mangiacarrubbe, quando al lavatoio c’era anche Sara di comare Tudda, tornava a dire:
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— Sicuro! le donne vestite di seta aspettavano apposta ’Ntoni di padron ’Ntoni per rubarselo; che non ne avevano visti mai dei cetriuoli laggiù!
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Le altre si tenevano i fianchi dal ridere, e d’allora in poi le ragazze inacidite lo chiamarono «cetriuolo».
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’Ntoni aveva mandato anche il suo ritratto, l’avevano visto tutte le ragazze del lavatoio, come la Sara di comare Tudda lo faceva passare di mano in mano, sotto il grembiule, e la Mangiacarrubbe schiattava dalla gelosia. Pareva San Michele Arcangelo in carne ed ossa, con quei piedi posati sul tappeto, e quella cortina sul capo, come quella della Madonna dell’Ognina, così bello, lisciato e ripulito che non l’avrebbe riconosciuto più la mamma che l’aveva fatto; e la povera Longa non si saziava di guardare il tappeto e la cortina e quella colonna contro cui il suo ragazzo stava ritto impalato, grattando colla mano la spalliera di una bella poltrona; e ringraziava Dio e i santi che avevano messo il suo figliuolo in mezzo a tutte quelle galanterie. Ella teneva il ritratto sul canterano, sotto la campana del Buon Pastore — che gli diceva le avemarie — andava dicendo la Zuppidda, e si credeva di averci un tesoro sul canterano, mentre suor Mariangela la Santuzza ce ne aveva un altro, tal quale chi voleva vederlo, che glielo aveva regalato compare Mariano Cinghialenta, e lo teneva inchiodato sul banco dell’osteria, dietro i bicchieri.
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Ma dopo un po’ di tempo ’Ntoni aveva pescato un camerata che sapeva di lettere, e si sfogava a lagnarsi della vitaccia di bordo, della disciplina, dei superiori, del riso lungo e delle scarpe strette. — Una lettera che non valeva i venti centesimi della posta! borbottava padron ’Ntoni. La Longa se la prendeva con quegli sgorbj, che sembravano ami di pesceluna, e non potevano dir nulla di buono. Bastianazzo dimenava il capo e faceva segno di no, che così non andava bene, e se fosse stato in lui ci avrebbe messo sempre delle cose allegre, da far ridere il cuore agli altri, lì sulla carta, — e vi appuntava un dito grosso come un regolo da forcola — se non altro per compassione della Longa, la quale, poveretta, non si dava pace, e sembrava una gatta che avesse perso i gattini. Padron ’Ntoni andava di nascosto a farsi leggere la lettera dallo speziale, e poi da don Giammaria, che era del partito contrario, affine di sentire le due campane, e quando si persuadeva che era scritto proprio così, ripeteva con Bastianazzo, e con la moglie di lui:
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— Non ve lo dico io che quel ragazzo avrebbe dovuto nascer ricco, come il figlio di padron Cipolla, per stare a grattarsi la pancia senza far nulla!
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Intanto l’annata era scarsa e il pesce bisognava darlo per l’anima dei morti, ora che i cristiani avevano imparato a mangiar carne anche il venerdì come tanti turchi. Per giunta le braccia rimaste a casa non bastavano più al governo della barca, e alle volte bisognava prendere a giornata Menico della Locca, o qualchedun altro. Il re faceva così, che i ragazzi se li pigliava per la leva quando erano atti a buscarsi il pane; ma sinchè erano di peso alla famiglia, avevano a tirarli su per soldati; e bisognava pensare ancora che la Mena entrava nei diciassett’anni, e cominciava a far voltare i giovanotti quando andava a messa. «L’uomo è il fuoco, e la donna è la stoppa: viene il diavolo e soffia». Perciò si doveva aiutarsi colle mani e coi piedi per mandare avanti quella barca della casa del nespolo.
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Padron ’Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c’era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po’ avariati; ma non ce n’erano altri a Trezza, e quel furbaccio di Campana di legno sapea pure che la Provvidenza se la mangiava inutilmente il sole e l’acqua, dov’era ammarrata sotto il lavatoio, senza far nulla; perciò si ostinava a fare il minchione. — Eh? non vi conviene? lasciateli! Ma un centesimo di meno non posso, in coscienza! che l’anima ho da darla a Dio! — e dimenava il capo che pareva una campana senza batacchio davvero. Questo discorso avveniva sulla porta della chiesa dell’Ognina, la prima domenica di settembre, che era stata la festa della Madonna, con gran concorso di tutti i paesi vicini; e c’era anche compare Agostino Piedipapera, il quale colle sue barzellette riuscì a farli mettere d’accordo sulle due onze e dieci a salma, da pagarsi «col violino» a tanto il mese. Allo zio Crocifisso gli finiva sempre così, che gli facevano chinare il capo per forza, come Peppinino, perchè aveva il maledetto vizio di non sapere dir di no. — Già! voi non sapete dir di no, quando vi conviene, sghignazzava Piedipapera. Voi siete come le… e disse come.
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Allorchè la Longa seppe del negozio dei lupini, dopo cena, mentre si chiacchierava coi gomiti sulla tovaglia, rimase a bocca aperta; come se quella grossa somma di quarant’onze se la sentisse sullo stomaco. Ma le donne hanno il cuore piccino, e padron ’Ntoni dovette spiegarle che se il negozio andava bene c’era del pane per l’inverno, e gli orecchini per Mena, e Bastiano avrebbe potuto andare e venire in una settimana da Riposto, con Menico della Locca. Bastiano intanto smoccolava la candela senza dir nulla. Così fu risoluto il negozio dei lupini, e il viaggio della Provvidenza che era la più vecchia delle barche del villaggio, ma aveva il nome di buon augurio. Maruzza se ne sentiva sempre il cuore nero, ma non apriva bocca, perchè non era affar suo, e si affaccendava zitta zitta a mettere in ordine la barca e ogni cosa pel viaggio, il pane fresco, l’orciolino coll’olio, le cipolle, il cappotto foderato di pelle, sotto la pedagna e nella scaffetta.
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Gli uomini avevano avuto un gran da fare tutto il giorno, con quell’usuraio dello zio Crocifisso, il quale aveva venduto la gatta nel sacco, e i lupini erano avariati. Campana di legno diceva che lui non ne sapeva nulla, come è vero Iddio! «Quel ch’è di patto non è d’inganno»; che l’anima lui non doveva darla ai porci! e Piedipapera schiamazzava e bestemmiava come un ossesso per metterli d’accordo, giurando e spergiurando che un caso simile non gli era capitato da che era vivo; e cacciava le mani nel mucchio dei lupini e li mostrava a Dio e alla Madonna, chiamandoli a testimoni. Infine, rosso, scalmanato, fuori di sè, fece una proposta disperata, e la piantò in faccia allo zio Crocifisso rimminchionito, e ai Malavoglia coi sacchi in mano: — Là! pagateli a Natale, invece di pagarli a tanto al mese, e ci avrete un risparmio di un tarì a salma! La finite ora, santo diavolone? — E cominciò ad insaccare: — In nome di Dio, e uno!
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La Provvidenza partì il sabato verso sera, e doveva esser suonata l’avemaria, sebbene la campana non si fosse udita, perchè mastro Cirino il sagrestano era andato a portare un paio di stivaletti nuovi a don Silvestro il segretario; in quell’ora le ragazze facevano come uno stormo di passere attorno alla fontana, e la stella della sera era già bella e lucente, che pareva una lanterna appesa all’antenna della Provvidenza. Maruzza colla bambina in collo se ne stava sulla riva, senza dir nulla, intanto che suo marito sbrogliava la vela, e la Provvidenza si dondolava sulle onde rotte dai fariglioni come un’anitroccola. — «Scirocco chiaro e tramontana scura, mettiti in mare senza paura», diceva padron ’Ntoni dalla riva, guardando verso la montagna tutta nera di nubi.
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Menico della Locca, il quale era nella Provvidenza con Bastianazzo, gridava qualche cosa che il mare si mangiò. — Dice che i denari potete mandarli a sua madre, la Locca, perchè suo fratello è senza lavoro; aggiunse Bastianazzo, e questa fu l’ultima sua parola che si udì.
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II.
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Per tutto il paese non si parlava d’altro che del negozio dei lupini, e come la Longa se ne tornava a casa colla Lia in collo, le comari si affacciavano sull’uscio per vederla passare.
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— Un affar d’oro! — vociava Piedipapera, arrancando colla gamba storta dietro a padron ’Ntoni, il quale era andato a sedersi sugli scalini della chiesa, accanto a padron Fortunato Cipolla, e al fratello di Menico della Locca che stavano a prendere il fresco. — Lo zio Crocifisso strillava come se gli strappassero le penne mastre, ma non bisogna badarci, perchè delle penne ne ha molte, il vecchio. — Eh! s’è lavorato! potete dirlo anche voi, padron ’Ntoni! — ma per padron ’Ntoni ei si sarebbe buttato dall’alto del fariglione, com’è vero Iddio! e a lui lo zio Crocifisso gli dava retta, perchè egli era il mestolo della pentola, una pentola grossa, in cui bollivano più di duecento onze all’anno! Campana di legno non sapeva soffiarsi il naso senza di lui.
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Il figlio della Locca udendo parlare delle ricchezze dello zio Crocifisso, il quale a lui gli era zio davvero, perchè era fratello della Locca, si sentiva gonfiare in petto una gran tenerezza pel parentado.
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— Noi siamo parenti, — ripeteva. — Quando vado a giornata da lui mi dà mezza paga, e senza vino, perchè siamo parenti.
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Piedipapera sghignazzava.
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— Lo fa per tuo bene, per non farti ubbriacare, e per lasciarti più ricco quando creperà.
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Compare Piedipapera si divertiva a sparlare di questo e di quello, come capitava; ma così di cuore, e senza malizia, che non c’era verso di pigliarsela in criminale. — Massaro Filippo è passato due volte dinanzi all’osteria, — diceva pure, — e aspetta che la Santuzza gli faccia segno di andarla a raggiungere nella stalla, per dirsi insieme il santo rosario.
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Oppure al figlio della Locca:
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— Tuo zio Crocifisso cerca di rubarle la chiusa, a tua cugina la Vespa; vuol pagargliela la metà di quel che vale, col darle ad intendere che la sposerà. Ma se la Vespa riesce a farsi rubare qualche cos’altra, potrai pulirti la bocca della speranza dell’eredità, e ci perdi i soldi e il vino che non ti ha dato.
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Allora si misero a questionare, perchè padron ’Ntoni sosteneva che lo zio Crocifisso alla fin fine era cristiano, e non aveva dato ai cani il suo giudizio, per andare a sposare la figliuola di suo fratello.
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— Come c’entra il cristiano e il turco? — ribatteva Piedipapera. — È un pazzo, volete dire. Lui è ricco come un maiale, mentre la Vespa non possiede altro che quella chiusa grande quanto un fazzoletto da naso.
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— Lo dite a me che ci ho a limite la vigna, — disse allora padron Cipolla gonfiandosi come un tacchino.
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— Li chiamate vigna quei quattro fichidindia? — rispose Piedipapera.
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— In mezzo ai fichidindia ci sono le viti, e se San Francesco ci manderà una buona pioggia, lo vedrete poi che mosto darà. Il sole oggi si coricò insaccato — acqua o vento.
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— «Quando il sole si corica insaccato si aspetta il vento di ponente», — aggiunse padron ’Ntoni.
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Piedipapera non poteva soffrire quello sputasentenze di padron Cipolla, il quale perchè era ricco si credeva di saper tutto lui, e di dar a bere le corbellerie a chi non aveva denari.
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— Chi la vuol cotta e chi la vuol cruda, — conchiuse. — Padron Cipolla aspetta l’acqua per la sua vigna, e voi il ponente in poppa alla Provvidenza. Lo sapete il proverbio «Mare crespo, vento fresco». Stasera le stelle sono lucenti, e a mezzanotte cambierà il vento; sentite la buffata?
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Sulla strada si udivano passare lentamente dei carri.
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— Notte e giorno c’è sempre gente che va attorno per il mondo, — osservò poi compare Cipolla.
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E adesso che non si vedeva più nè mare nè campagna, sembrava che non ci fosse al mondo altro che Trezza, e ognuno pensava dove potevano andare quei carri a quell’ora.
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— Prima di mezzanotte la Provvidenza avrà girato il Capo dei Mulini, — disse padron ’Ntoni, — e il vento fresco non le darà più noia.
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Padron ’Ntoni non pensava ad altro che alla Provvidenza, e quando non parlava delle cose sue non diceva nulla, e alla conversazione ci stava come un manico di scopa.
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— Voi dovreste andare a mettervi con quelli della spezieria, che discorrono del re e del papa; — gli diceva perciò Piedipapera. — Colà ci fareste bella figura anche voi! li sentite come gridano?
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— Questo è don Giammaria, — disse il figlio della Locca, — che litiga collo speziale.
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Lo speziale teneva conversazione sull’uscio della bottega, al fresco, col vicario e qualchedun altro. Come sapeva di lettere leggeva la gazzetta, e la faceva leggere agli altri, e ci aveva anche la Storia della Rivoluzione francese, che se la teneva là, a portata di mano, sotto il mortaio di cristallo, perciò quistionavano tutto il giorno con don Giammaria, il vicario, per passare il tempo, e ci pigliavano delle malattie dalla bile; ma non avrebbero potuto stare un giorno senza vedersi. Il sabato poi, quando arrivava il giornale, don Franco spingevasi sino ad accendere mezz’ora ed anche un’ora di candela, a rischio di farsi sgridare dalla moglie, onde spiattellare le sue idee, e non andare a letto a mo’ dei bruti, come compare Cipolla, o compare Malavoglia. L’estate poi non c’era neppur bisogno della candela, giacchè si poteva star sull’uscio, sotto il lampione, quando mastro Cirino l’accendeva, e qualche volta veniva don Michele, il brigadiere delle guardie doganali; e anche don Silvestro, il segretario comunale, tornando dalla vigna, si fermava un momento.
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Allora don Franco diceva, fregandosi le mani, che pareva un piccolo Parlamento, e andava a piantarsi dietro il banco, pettinandosi colle dita la barbona, con certo sorriso furbo che pareva si volesse mangiare qualcuno a colezione, e alle volte si lasciava scappare sottovoce delle mezze parole dinanzi alla gente, rizzandosi sulle gambette, e si vedeva che la sapeva più lunga degli altri, tanto che don Giammaria non poteva patirlo e ci si mangiava il fegato, e gli sputava in faccia parole latine. Don Silvestro, lui, si divertiva a vedere come si guastavano il sangue per raddrizzare le gambe ai cani, senza guadagnarci un centesimo; egli almeno non era arrabbiato come loro, e per questo, dicevano in paese, possedeva le più belle chiuse di Trezza, — dove era venuto senza scarpe ai piedi — aggiungeva Piedipapera. Ei li aizzava l’un contro l’altro, e rideva a crepapancia con degli Ah! ah! ah! che sembrava una gallina.
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— Ecco don Silvestro che fa l’uovo, — osservò il figlio della Locca.
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— Don Silvestro fa le uova d’oro, laggiù al Municipio, — rispose Piedipapera.
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— Uhm! — sputò fuori padron Fortunato — pezzenterie! comare Zuppidda non gli ha voluto dare la figliuola.
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— Vuol dire che mastro Cola Zuppiddu preferisce le uova delle sue galline; — rispose padron ’Ntoni.
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E padron Cipolla disse di sì col capo.
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— «’Ntroi ’ntroi, ciascuno coi pari suoi», — aggiunse padron Malavoglia.
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Piedipapera allora ribattè che se don Silvestro si fosse contentato di stare coi suoi pari a quest’ora ci avrebbe la zappa in mano invece della penna.
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— Che ce la dareste voi vostra nipote Mena? — disse alfine padron Cipolla volgendosi a padron ’Ntoni.
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— «Ognuno all’arte sua, e il lupo alle pecore».
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Padron Cipolla continuava a dir di sì col capo, tanto più che fra lui e padron ’Ntoni c’era stata qualche parola di maritar la Mena con suo figlio Brasi, e se il negozio dei lupini andava bene, la Mena avrebbe avuto la sua dote in contante, e l’affare si sarebbe conchiuso presto.
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— «La ragazza com’è educata, e la stoppa com’è filata», — disse infine padron Malavoglia, e padron Cipolla confermò che tutti lo sapevano in paese che la Longa aveva saputo educarla la figliuola, e ognuno che passava per la stradicciuola a quell’ora udendo il colpettare del telaio di Sant' Agata diceva che l’olio della candela non lo perdeva, comare Maruzza.
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La Longa, com’era tornata a casa, aveva acceso il lume, e s’era messa coll’arcolaio sul ballatoio, a riempire certi cannelli che le servivano per l’ordito della settimana.
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— Comare Mena non si vede, ma si sente, e sta al telaio notte e giorno, come Sant’Agata, dicevano le vicine.
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— Le ragazze devono avvezzarsi a quel modo, — rispondeva Maruzza, — invece di stare alla finestra. «A donna alla finestra non far festa».
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— Certune però collo stare alla finestra un marito se lo pescano, fra tanti che passano; — osservò la cugina Anna dall’uscio dirimpetto.
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La cugina Anna aveva ragione da vendere; perchè quel bietolone di suo figlio Rocco si era lasciato irretire dentro le gonnelle della Mangiacarrubbe, una di quelle che stanno alla finestra colla faccia tosta.
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Comare Grazia Piedipapera, sentendo che nella strada c’era conversazione, si affacciò anch’essa sull’uscio, col grembiule gonfio delle fave che stava sgusciando, e se la pigliava coi topi che le avevano bucherellato il sacco come un colabrodo, e pareva che l’avessero fatto apposta, come se ci avessero il giudizio dei cristiani; così il discorso si fece generale, perchè alla Maruzza gliene avevano fatto tanto del danno, quelle bestie scomunicate! La cugina Anna ne aveva la casa piena, da che gli era morto il gatto, una bestia che valeva tant’oro, ed era morto di una pedata di compare Tino. — I gatti grigi sono i migliori, per acchiappare i topi, e andrebbero a scovarli in una cruna di ago. — Ai gatti non conveniva aprire l’uscio di notte, perchè una vecchia di Aci Sant’Antonio l’avevano ammazzata così, che i ladri le avevano rubato il gatto tre giorni avanti, e poi glielo avevano riportato mezzo morto di fame a miagolare dietro l’uscio; e la povera donna non sentendosi il cuore di lasciar la bestiola sulla strada a quell’ora, aveva aperto l’uscio, e così s’era ficcati i ladri in casa. Al giorno d’oggi i mariuoli ne inventano di ogni specie per fare i loro tiri; e a Trezza si vedevano delle facce che non si erano mai viste sugli scogli, col pretesto d’andare a pescare, e arraffavano la biancheria messa ad asciugare, se capitava. Alla povera Nunziata le avevano rubato in quel modo un lenzuolo nuovo. Povera ragazza! rubare a lei che lavorava per dar pane a tutti quei fratellini che suo padre le aveva lasciato sulle spalle, quando l’aveva piantata per andare a cercar fortuna ad Alessandria d’Egitto! — Nunziata era come la cugina Anna, quando l’era morto il marito, e le aveva lasciato quella nidiata di figliuoli, che Rocco, il più grandicello, non le arrivava alle ginocchia. Poi alla cugina Anna le era toccato di tirar su quel fanciullone per vederselo rubare dalla Mangiacarrubbe.
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In mezzo a quel chiacchierìo saltò su la Zuppidda, la moglie di mastro Bastiano il calafato, la quale stava in fondo alla straduccia, e compariva sempre all’improvviso, per dire la sua come il diavolo nella litania, chè nessuno s’accorgeva di dove fosse sbucata.
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— Del resto, — venne a brontolare, — vostro figlio Rocco non vi ha aiutata neppur lui, chè se si è buscato un soldo è andato subito a berlo all’osteria.
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La Zuppidda sapeva tutto quello che succedeva in paese e per questo raccontavano che andava tutto il giorno in giro a piedi scalzi, a far la spia, col pretesto del suo fuso, che lo teneva sempre in aria perchè non frullasse sui sassi. Ella diceva sempre la verità come il santo evangelio, questo era il suo vizio, e perciò la gente che non amava sentirsela cantare, l’accusava di essere una lingua d’inferno, di quelle che lasciano la bava. — «Bocca amara sputa fiele»; ed ella ci aveva la bocca amara davvero per quella sua Barbara che non aveva potuto maritare, tanto era superba e sgarbata, e con tutto ciò voleva dargli il figlio di Vittorio Emanuele.
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— Bel pezzo, la Mangiacarrubbe, — seguitava, — una sfacciata che si è fatto passare tutto il paese sotto la finestra. «A donna alla finestra non far festa», e Vanni Pizzuto le portava in regalo i fichidindia rubati a massaro Filippo l’ortolano, e se li mangiavano insieme nella vigna, sotto il mandorlo, li aveva visti lei. — E Peppi Naso, il beccaio, dopo che gli spuntò la gelosia di compare Mariano Cinghialenta, il carrettiere, andava a buttarle dietro l’uscio tutte le corna delle bestie che macellava, sicchè dicevano che andava a pettinarsi sotto la finestra della Mangiacarrubbe.
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Quel cuor contento della cugina Anna invece la prendeva allegra. — Don Giammaria dice che fate peccato mortale a sparlar del prossimo!
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— Don Giammaria dovrebbe piuttosto far la predica a sua sorella donna Rosolina, — rispose la Zuppidda, e non lasciarle far la ragazzetta con don Silvestro, quando passa, e con don Michele il brigadiere, che ci ha la rabbia del marito, con tutti quegli anni e quella carne che ci ha addosso, la poveraccia!
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— Alla volontà di Dio! — concluse la cugina Anna. — Quando è morto mio marito, Rocco non era più alto di questa conocchia e le sue sorelline erano tutte minori di lui. Forse che mi son perduta di animo per questo? Ai guai ci si fa il callo, e poi ci aiutan a lavorare. Le mie figliuole faranno come ho fatto io, e finchè ci saranno le pietre al lavatoio avremo di che vivere. Guardate la Nunziata, ora ella ha più giudizio di una vecchietta, e si aiuta a tirar su quei piccini che pare li abbia fatti lei.
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— E dove è la Nunziata che non si vede ancora? — domandò la Longa a un mucchio di monelli cenciosi, messi a piagnucolare sulla soglia della casuccia lì di faccia, i quali al sentir parlare della sorella alzarono gli strilli in coro.
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— L’ho vista che andava sulla sciara a fare due fasci di ginestre, e c’era pure vostro figlio Alessio che l’accompagnava, — rispose la cugina Anna.
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I bambini stettero a sentire, e poi si rimisero a pigolare tutti in una volta, e il più grandicello, appollaiato su di un gran sasso, rispose dopo un pezzetto:
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— Non lo so dov’è.
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Le vicine avevano fatto come le lumache quando piove, e lungo la straduccia non si udiva che un continuo chiacchierio da un uscio all’altro. Persino la finestra di compare Alfio Mosca, quello del carro dell’asino, era aperta, e ne usciva un gran fumo di ginestre. La Mena aveva lasciato il telaio e s’era affacciata al ballatoio anch’essa.
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— Oh! sant’Agata! — esclamarono le vicine; e tutte le facevano festa.
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— Che non ci pensate a maritar la vostra Mena? — chiedeva sottovoce la Zuppidda a comare Maruzza. — Oramai deve compire diciotto anni a Pasqua, lo so perchè è nata l’anno del terremoto, come mia figlia Barbara. Chi vuol pigliarsi mia figlia Barbara, prima deve piacere a me.
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In questo momento si udì un fruscìo di frasche per la via, e arrivarono Luca e la Nunziata, che non si vedevano sotto i fasci di ginestre, tanto erano piccini.
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— Oh! la Nunziata! — esclamarono le vicine. — Che non avevi paura a quest’ora nella sciara?
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— C’era anch’io, — rispose Alessi.
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— Ho fatto tardi con comare Anna al lavatoio, e poi non ci avevo legna per il focolare.
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La ragazzina accese il lume, e si mise lesta lesta a apparecchiare ogni cosa per la cena, mentre i suoi fratellini le andavano dietro per la stanzuccia, che pareva una chioccia coi suoi pulcini. Alessi s’era scaricato del suo fascio, e stava a guardare dall’uscio, serio serio, e colle mani nelle tasche.
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— O Nunziata! — le gridò Mena dal ballatoio; — quando avrai messo la pentola a bollire, vieni un po’ qua.
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Nunziata lasciò Alessi a custodire il focolare, e corse ad appollaiarsi sul ballatoio, accanto alla sant’Agata, per godersi il suo riposo anche lei, colle mani in mano.
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— Compar Alfio Mosca sta facendo cuocere le fave; — osservò la Nunziata dopo un po’.
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— Egli come te, poveraccio! che non avete nessuno in casa che vi faccia trovare la minestra alla sera, quando tornate stanchi.
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— Sì, vero, e sa pure cucire e si fa il bucato da sè, e si rattoppa le camicie — la Nunziata sapeva ogni cosa che faceva il vicino Alfio, e conosceva la sua casa come la pianta della mano; — Adesso, — diceva, — va a prender la legna; ora sta governando il suo asino — e si vedeva il lume nel cortile, e sotto la tettoia. Sant’Agata rideva, e la Nunziata diceva che per essere preciso come una donna a compare Alfio gli mancava soltanto la gonnella.
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— Così, — conchiudeva Mena, — quando si mariterà, sua moglie andrà attorno col carro dell’asino, e lui resterà in casa ad allevare i figliuoli.
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Le mamme, in crocchio nella strada, discorrevano anch’esse di Alfio Mosca, che fino la Vespa giurava di non averlo voluto per marito, diceva la Zuppidda, perchè la Vespa aveva la sua brava chiusa, e se voleva maritarsi non prendeva uno il quale non possedeva altro che un carro da asino: «carro cataletto» dice il proverbio. Ella ha gettato gli occhi su di suo zio Campana di legno, la furbaccia!
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Le ragazze fra di loro prendevano le parti di Mosca, contro quella brutta Vespaccia; e la Nunziata poi si sentiva il cuore gonfio dal disprezzo che gettavano su di compare Alfio, pel solo motivo che era povero, e non aveva nessuno al mondo, e tutto a un tratto disse a Mena: — Se fossi grande io me lo piglierei, se me lo dessero.
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La Mena stava per dire anche lei qualche cosa; ma cambiò subito discorso.
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— Che ci vai tu alla città, per la festa de’ morti?
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— No, non ci vado perchè non posso lasciar la casa sola.
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— Noi ci andremo, se il negozio dei lupini va bene; l’ha detto il nonno.
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Poi ci pensò su, e soggiunse:
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— Compar Alfio ci suole andare anche lui, a vendere le sue noci.
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E tacquero entrambe, pensando alla festa dei Morti, dove compar Alfio andava a vendere le sue noci.
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— Lo zio Crocifisso, con quell’aria di Peppinino se la mette in tasca la Vespa! ripigliava la cugina Anna.
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— Questo vorrebbe lei! — rispose di botto la Zuppidda, — la Vespa non vorrebbe altro, che se la mettesse in tasca! Ella gli è sempre per casa, come il gatto, col pretesto di portargli i buoni bocconi, e il vecchio non dice di no, tanto più che non gli costa nulla. Ella lo ingrassa come un maiale, quando gli si vuol fare la festa. Ve lo dico io, la Vespa vuole entrargli in tasca!
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Ognuna diceva la sua dello zio Crocifisso, il quale piagnucolava sempre, e si lamentava come Cristo in mezzo ai ladroni, e intanto aveva denari a palate, chè la Zuppidda, un giorno che il vecchio era malato, aveva vista una cassa grande così sotto il letto.
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La Longa si sentiva sullo stomaco il debito delle quarant’onze dei lupini, e cambiò discorso, perchè le orecchie ci sentono anche al buio, e lo zio Crocifisso si udiva discorrere con don Giammaria, mentre passavano per la piazza, lì vicino, tanto che la Zuppidda interruppe i vituperî che stava dicendo di lui per salutarlo.
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Don Silvestro rideva come una gallina, e quel modo di ridere faceva montare la mosca al naso allo speziale, il quale per altro di pazienza non ne aveva mai avuta, e la lasciava agli asini e a quelli che non volevano fare la rivoluzione un’altra volta.
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— Già, voi non ne avete mai avuta, perchè non sapreste dove metterla! — gli gridava don Giammaria; e don Franco, ch’era piccino, ci si arrabbiava e accompagnava il prete con parolacce che si sentivano da un capo all’altro della piazza, allo scuro. Campana di legno, duro come un sasso, si stringeva nelle spalle, e badava ripetere che a lui non gliene importava, e attendeva ai fatti suoi. — Come se non fossero fatti vostri quelli della Confraternita della Buona Morte, che nessuno paga più un soldo! — gli diceva don Giammaria. — La gente, quando si tratta di cavare i denari di tasca, diventa una manica di protestanti, peggio dello speziale, e vi lascia tenere la cassa della Confraternita per farvi ballare i sorci, che è una vera porcheria!
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Don Franco dalla sua bottega sghignazzava alle loro spalle a voce alta, cercando d’imitare la risata di don Silvestro che faceva andare in bestia la gente. Ma lo speziale era della setta, e si sapeva; e don Giammaria gli gridava dalla piazza:
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— I denari li trovereste, se si trattasse di scuole e di lampioni!
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Lo speziale stette zitto, perchè si era affacciata sua moglie alla finestra; e lo zio Crocifisso, quando fu abbastanza lontano da non temere che l’udisse don Silvestro il segretario, il quale si beccava anche quel po’ di stipendio di maestro elementare:
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— A me non me ne importa, — ripeteva. — Ma ai miei tempi non c’erano tanti lampioni, nè tante scuole; non si faceva bere l’asino per forza, e si stava meglio.
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— A scuola non ci siete stato voi; eppure i vostri affari ve li sapete fare.
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— E il mio catechismo lo so, aggiunse lo zio Crocifisso per non restare in debito.
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Nel calore della disputa don Giammaria aveva perso il battuto, sul quale avrebbe attraversato la piazza anche ad occhi chiusi, e stava per rompersi il collo, e lasciar scappare, Dio perdoni, una parola grossa.
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— Almeno l’accendessero, i loro lumi!
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— Al giorno d’oggi bisogna badare ai fatti propri, conchiuse lo zio Crocifisso.
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Don Giammaria andava tirandolo per la manica del giubbone per dire corna di questo e di quell’altro, in mezzo alla piazza, all’oscuro; del lumaio che rubava l’olio, di don Silvestro che chiudeva un occhio, e del sindaco «Giufà», che si lasciava menare per il naso. Mastro Cirino, ora che era impiegato del comune, faceva il sagrestano come Giuda, che suonava l’angelus quando non aveva nulla da fare, e il vino per la messa lo comperava di quello che aveva bevuto sulla croce Gesù Crocifisso, ch’era un vero sacrilegio. Campana di legno diceva sempre di sì col capo per abitudine, sebbene non si vedessero in faccia, e don Giammaria, come li passava a rassegna ad uno ad uno diceva: — Costui è un ladro — quello è un birbante — quell’altro è un giacobino. — Lo sentite Piedipapera che sta discorrendo con padron Malavoglia e padron Cipolla? Un altro della setta, colui! un arruffapopolo, con quella gamba storta! — E quando lo vedeva arrancare per la piazza faceva il giro lungo, e lo seguiva con occhi sospettosi, per scavare cosa stesse macchinando con quell’andatura. — Quello là ha il piede del diavolo! borbottava. — Lo zio Crocifisso si stringeva nelle spalle, e tornava a ripetere che egli era un galantuomo, e non voleva entrarci. — Padron Cipolla, un altro sciocco, un pallone di vento colui! che si lasciava abbindolare da Piedipapera.... ed anche padron ’Ntoni, ci sarebbe cascato anche lui!... Bisogna aspettarsi tutto, al giorno d’oggi!
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— Chi è galantuomo bada ai fatti suoi, — ripeteva lo zio Crocifisso.
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Invece compare Tino, seduto come un presidente, sugli scalini della chiesa, sputava sentenze: — Sentite a me; prima della rivoluzione era tutt’altra cosa. Adesso i pesci sono maliziati, ve lo dico io!
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— No; le acciughe sentono il grecale ventiquattr’ore prima di arrivare, riprendeva padron ’Ntoni; — è sempre stato così; l’acciuga è un pesce che ha più giudizio del tonno. Ora di là del Capo dei Mulini, li scopano dal mare tutti in una volta, colle reti fitte. —
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— Ve lo dico io cos’è! — ripigliò compare Fortunato. — Sono quei maledetti vapori che vanno e vengono, e battono l’acqua colle loro ruote. Cosa volete, i pesci si spaventano e non si fanno più vedere. Ecco cos’è.
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Il figlio della Locca stava ad ascoltare a bocca aperta, e si grattava il capo. — Bravo! — disse poi. — Così pesci non se ne troverebbero più nemmeno a Siracusa nè a Messina, dove vanno i vapori. Invece li portano di là a quintali colla ferrovia.
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— Insomma sbrigatevela voi! — esclamò allora padron Cipolla indispettito, — io me ne lavo le mani, e non me ne importa un fico, giacchè ci ho le mie chiuse e le mie vigne che mi danno il pane.
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E Piedipapera assestò uno scapaccione al figlio della Locca, per insegnargli l’educazione. — Bestia! quando parlano i più vecchi di te sta zitto.
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Il ragazzaccio allora se ne andò strillando e dandosi dei pugni nella testa, che tutti lo pigliavano per minchione perchè era figlio della Locca. E padron ’Ntoni col naso in aria, osservò: — Se il maestrale non si mette prima della mezzanotte, la Provvidenza avrà tempo di girare il Capo.
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Dall’alto del campanile caddero lenti lenti dei rintocchi sonori. — Un’ora di notte! — osservò padron Cipolla.
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Padron ’Ntoni si fece la croce e rispose:
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— Pace ai vivi e riposo ai morti.
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— Don Giammaria ha i vermicelli fritti per la cena stasera; — osservò Piedipapera fiutando verso le finestre della parrocchia.
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Don Giammaria, passando lì vicino per andare a casa, salutò anche Piedipapera, perchè ai tempi che corrono bisogna tenersi amici quelle buone lane; e compare Tino, che aveva tuttora l’acquolina in bocca, gli gridò dietro:
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— Eh! vermicelli fritti stasera, don Giammaria!
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— Lo sentite! anche quello che mangio! — borbottava don Giammaria fra i denti; — fanno anche la spia ai servi di Dio per contar loro i bocconi! Tutto in odio alla chiesa! — e incontrandosi naso a naso con don Michele, il brigadiere delle guardie doganali, il quale andava attorno colla pistola sullo stomaco, e i calzoni dentro gli stivali, in cerca di contrabbandieri: — A questi altri non glielo fanno il conto di quel che mangiano.
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— Questi qui mi piacciono! — rispondeva Campana di legno: — questi qui che stanno a guardia della roba dei galantuomini mi piacciono!
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— Se gli dessero l’imbeccata sarebbe della setta anche lui! — diceva fra di sè don Giammaria picchiando all’uscio di casa. — Tutti una manica di ladri! — e continuò a borbottare, col picchiatoio in mano, seguendo con occhio sospettoso i passi del brigadiere che si dileguavano nel buio, verso l’osteria, e rimuginando perchè andasse a guardarli dalla parte dell’osteria gl’interessi dei galantuomini colui!
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Però compare Tino lo sapeva perchè don Michele andasse a guardare gl’interessi dei galantuomini dalla parte dell’osteria, chè ci aveva perso delle notti a stare in agguato dietro l’olmo lì vicino per scoprirlo; e soleva dire:
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— Ci va per confabulare di nascosto con lo zio Santoro, il padre della Santuzza. Quelli che mangiano il pane del re devono tutti far gli sbirri, e sapere i fatti di ognuno a Trezza e dappertutto, e lo zio Santoro, così cieco com’è, che sembra un pipistrello al sole, sulla porta dell’osteria, sa tutto quello che succede in paese, e potrebbe chiamarci per nome ad uno ad uno soltanto a sentirci camminare. Ei non ci sente solo quando massaro Filippo va a recitare il rosario colla Santuzza, ed è un tesoro per fare la guardia, meglio di come se gli avessero messo un fazzoletto sugli occhi.
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Maruzza udendo suonare un’ora di notte era rientrata in casa lesta lesta, per stendere la tovaglia sul deschetto; le comari a poco a poco si erano diradate, e come il paese stesso andava addormentandosi, si udiva il mare che russava lì vicino, in fondo alla straduccia, e ogni tanto sbuffava, come uno che si volti e rivolti pel letto. Soltanto laggiù all’osteria, dove si vedeva il lumicino rosso, continuava il baccano, e si udiva il vociare di Rocco Spatu il quale faceva festa tutti i giorni.
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— Compare Rocco ha il cuore contento, — disse dopo un pezzetto dalla sua finestra Alfio Mosca, che pareva non ci fosse più nessuno.
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— Oh siete ancora là, compare Alfio! — rispose Mena, la quale era rimasta sul ballatoio ad aspettare il nonno.
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— Sì, sono qua, comare Mena; sto qua a mangiarmi la minestra; perchè quando vi vedo tutti a tavola, col lume, mi pare di non esser tanto solo, che va via anche l’appetito.
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— Non ce l’avete il cuore contento voi?
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— Eh! ci vogliono tante cose per avere il cuore contento!
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Mena non rispose nulla, e dopo un altro po’ di silenzio compare Alfio soggiunse:
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— Domani vado alla città per un carico di sale.
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— Che ci andate poi per i Morti? domandò Mena.
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— Dio lo sa, quest’anno quelle quattro noci son tutte fradicie.
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— Compare Alfio ci va per cercarsi la moglie alla città, — rispose la Nunziata dall’uscio dirimpetto.
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— Che è vero? — domandò Mena.
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— Eh, comare Mena, se non dovessi far altro, al mio paese ce n’è delle ragazze come dico io, senza andare a cercarle lontano.
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— Guardate quante stelle che ammiccano lassù! — rispose Mena dopo un pezzetto. — Ei dicono che sono le anime del Purgatorio che se ne vanno in Paradiso.
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— Sentite, — le disse Alfio dopo che ebbe guardate le stelle anche lui; — voi che siete Sant’Agata, se vi sognate un terno buono, ditelo a me, che ci giuocherò la camicia, e allora potrò pensarci a prender moglie....
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— Buona sera! — rispose Mena.
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Le stelle ammiccavano più forte, quasi s’accendessero, e i tre re scintillavano sui fariglioni colle braccia in croce, come Sant’Andrea. Il mare russava in fondo alla stradicciuola, adagio adagio, e a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo il quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e c’era pure della gente che andava pel mondo a quell’ora, e non sapeva nulla di compar Alfio, nè della Provvidenza che era in mare, nè della festa dei Morti; — così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno.
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Il nonno s’affacciò ancora due o tre volte sul ballatoio, prima di chiudere l’uscio, a guardare le stelle che luccicavano più del dovere, e poi borbottò: — «Mare amaro!».
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Rocco Spatu si sgolava sulla porta dell’osteria davanti al lumicino. — «Chi ha il cuor contento sempre canta» conchiuse — padron ’Ntoni.
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III.
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Dopo la mezzanotte il vento s’era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di Sant’Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro.
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Maruzza la Longa non diceva nulla, com’era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l’uovo. Gli uomini erano all’osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c’era soltanto padron ’Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini.
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— Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire! — diceva stringendosi nelle spalle; — e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza.
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Nella bettola di suor Mariangela la Santuzza c’era folla: quell’ubbriacone di Rocco Spatu, il quale vociava e sputava per dieci; compare Tino Piedipapera, mastro Turi Zuppiddu, compare Mangiacarrubbe, don Michele il brigadiere delle guardie doganali, coi calzoni dentro gli stivali, e la pistola appesa sul ventre, quasi dovesse andare a caccia di contrabbandieri con quel tempaccio, e compare Mariano Cinghialenta. Quell’elefante di mastro Turi Zuppiddu andava distribuendo per ischerzo agli amici dei pugni che avrebbero accoppato un bue, come se ci avesse ancora in mano la malabestia di calafato, e allora compare Cinghialenta si metteva a gridare e bestemmiare, per far vedere che era uomo di fegato e carrettiere.
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Lo zio Santoro, raggomitolato sotto quel po’ di tettoia, davanti all’uscio, aspettava colla mano stesa che passasse qualcheduno per chiedere la carità. — Tra tutte e due, padre e figlia, disse compare Turi Zuppiddu, devono buscarne dei bei soldi, con una giornata come questa, e tanta gente che viene all’osteria.
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— Bastianazzo Malavoglia sta peggio di lui, a quest’ora, - rispose Piedipapera, - e mastro Cirino ha un bel suonare la messa; ma i Malavoglia non ci vanno oggi in chiesa; sono in collera con Domeneddio, per quel carico di lupini che ci hanno in mare.
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Il vento faceva volare le gonnelle e le foglie secche, sicchè Vanni Pizzuto col rasoio in aria, teneva pel naso quelli a cui faceva la barba, per voltarsi a guardare chi passava, e si metteva il pugno sul fianco, coi capelli arricciati e lustri come la seta; e lo speziale se ne stava sull’uscio della sua bottega, sotto quel cappellaccio che sembrava avesse il paracqua in testa, fingendo aver discorsi grossi con don Silvestro il segretario, perchè sua moglie non lo mandasse in chiesa per forza; e rideva del sotterfugio, fra i peli della barbona, ammiccando alle ragazze che sgambettavano nelle pozzanghere.
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— Oggi, andava dicendo Piedipapera, - padron ’Ntoni vuol fare il protestante come don Franco lo speziale.
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— Se fai di voltarti per guardare quello sfacciato di don Silvestro, ti dò un ceffone qui dove siamo; — borbottava la Zuppidda colla figliuola, mentre attraversavano la piazza. — Quello lì non mi piace.
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La Santuzza, all’ultimo tocco di campana, aveva affidata l’osteria a suo padre, e se n’era andata in chiesa, tirandosi dietro gli avventori. Lo zio Santoro, poveretto, era cieco, e non faceva peccato se non andava a messa; così non perdevano tempo all’osteria, e dall’uscio poteva tener d’occhio il banco, sebbene non ci vedesse, chè gli avventori li conosceva tutti ad uno ad uno soltanto al sentirli camminare, quando venivano a bere un bicchiere.
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— Le calze della Santuzza, — osservava Piedipapera, mentre ella camminava sulla punta delle scarpette, come una gattina, — le calze della Santuzza, acqua o vento, non le ha viste altri che massaro Filippo l’ortolano; questa è la verità.
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— Ci sono i diavoli per aria! — diceva la Santuzza facendosi la croce coll’acqua santa. — Una giornata da far peccati!
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La Zuppidda, lì vicino, abburattava avemarie, seduta sulle calcagna, e saettava occhiatacce di qua e di là, che pareva ce l’avesse con tutto il paese, e a quelli che volevano sentirla ripeteva: — Comare la Longa non ci viene in chiesa, eppure ci ha il marito in mare con questo tempaccio! Poi non bisogna stare a cercare perchè il Signore ci castiga! — Persino la madre di Menico stava in chiesa, sebbene non sapesse far altro che veder volare le mosche!
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— Bisogna pregare anche pei peccatori; — rispondeva la Santuzza; — le anime buone ci sono per questo.
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— Sì, come se ne sta pregando la Mangiacarrubbe, col naso dentro la mantellina, e Dio sa che peccatacci fa fare ai giovanotti!
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La Santuzza scuoteva il capo, e diceva che mentre si è in chiesa non bisogna sparlare del prossimo — «Chi fa l’oste deve far buon viso a tutti», — rispose la Zuppidda, e poi all’orecchio della Vespa: — La Santuzza non vorrebbe si dicesse che vende l’acqua per vino; ma farebbe meglio a non tenere in peccato mortale massaro Filippo l’ortolano, che ha moglie e figliuoli.
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— Per me, — rispose la Vespa, — gliel’ho detto a don Giammaria, che non voglio più starci fra le Figlie di Maria se ci lasciano la Santuzza per superiora.
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— Allora vuol dire che l’avete trovato il marito? — rispose la Zuppidda.
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— Io non l’ho trovato il marito, — saltò su la Vespa con tanto di pungiglione. — Io non sono come quelle che si tirano dietro gli uomini anche in chiesa, colle scarpe verniciate, e quelli altri colla pancia grossa.
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Quello della pancia grossa era Brasi, il figlio di padron Cipolla, il quale era il cucco delle mamme e delle ragazze, perchè possedeva vigne ed oliveti.
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— Va a vedere se la paranza è bene ammarrata; — gli disse suo padre facendosi la croce.
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Ciascuno non poteva a meno di pensare che quell’acqua e quel vento erano tutt’oro per i Cipolla; così vanno le cose di questo mondo, che i Cipolla, adesso che avevano la paranza bene ammarrata, si fregavano le mani vedendo la burrasca; mentre i Malavoglia diventavano bianchi e si strappavano i capelli, per quel carico di lupini che avevano preso a credenza dallo zio Crocifisso Campana di legno.
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— Volete che ve la dica? — saltò su la Vespa; — la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza. «Chi fa credenza senza pegno, perde l’amico la roba e l’ingegno».
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Lo zio Crocifisso se ne stava ginocchioni a piè dell’altare dell’Addolorata, con tanto di rosario in mano, e intuonava le strofette con una voce di naso che avrebbe toccato il cuore a satanasso in persona. Fra un’avemaria e l’altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli.
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— Al giorno d’oggi, — disse padron Cipolla, stringendosi nelle spalle, — nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni.
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— Il fatto è, — conchiuse compare Zuppiddu, — che sarà una brutta giornata pei Malavoglia.
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— Per me, — aggiunse Piedipapera, — non vorrei trovarmi nella camicia di compare Bastianazzo.
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La sera scese triste e fredda; di tanto in tanto soffiava un buffo di tramontana, e faceva piovere una spruzzatina d’acqua fina e cheta: una di quelle sere in cui, quando si ha la barca al sicuro, colla pancia all’asciutto sulla sabbia, si gode a vedersi fumare la pentola dinanzi, col marmocchio fra le gambe, e sentire le ciabatte della donna per la casa, dietro le spalle. I fannulloni preferivano godersi all’osteria quella domenica che prometteva di durare anche il lunedì, e fin gli stipiti erano allegri della fiamma del focolare, tanto che lo zio Santoro, messo lì fuori colla mano stesa e il mento sui ginocchi, s’era tirato un po’ in qua, per scaldarsi la schiena anche lui.
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— E sta meglio di compare Bastianazzo, a quest’ora! — ripeteva Rocco Spatu, accendendo la pipa sull’uscio.
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E senza pensarci altro mise mano al taschino, e si lasciò andare a fare due centesimi di limosina.
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— Tu ci perdi la tua limosina a ringraziare Dio che sei al sicuro, — gli disse Piedipapera; — per te non c’è pericolo che abbi a fare la fine di compare Bastianazzo.
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Tutti si misero a ridere della barzelletta, e poi stettero a guardare dall’uscio il mare nero come la sciara, senza dir altro.
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— Padron ’Ntoni è andato tutto il giorno di qua e di là, come avesse il male della tarantola, e lo speziale gli domandava se faceva la cura del ferro, o andasse a spasso con quel tempaccio, e gli diceva pure: — Bella Provvidenza, eh! padron ’Ntoni! Ma lo speziale è protestante ed ebreo, ognuno lo sapeva.
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Il figlio della Locca, che era lì fuori colle mani in tasca perchè non ci aveva un soldo, disse anche lui:
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— Lo zio Crocifisso è andato a cercare padron ’Ntoni con Piedipapera, per fargli confessare davanti a testimoni che i lupini glieli aveva dati a credenza.
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— Vuol dire che anche lui li vede in pericolo colla Provvidenza.
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— Colla Provvidenza c’è andato anche mio fratello Menico, insieme a compare Bastianazzo.
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— Bravo! questo dicevamo, che se non torna tuo fratello Menico tu resti il barone della casa.
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— C’è andato perchè lo zio Crocifisso voleva pagargli la mezza giornata anche a lui, quando lo mandava colla paranza, e i Malavoglia invece gliela pagavano intiera; — rispose il figlio della Locca senza capir nulla; e come gli altri sghignazzavano rimase a bocca aperta.
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Sull’imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti era andata ad aspettare sulla sciara, d’onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell’ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco, alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa.
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Le comari, mentre tornavano dall’osteria coll’orciolino dell’olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l’aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio, o compare Mangiacarrubbe, passando dalla sciara per dare un’occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito, e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro. La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e si stringeva al petto la bimba, come se volessero rubargliela. Finalmente il più duro o il più compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: — Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria! — I figliuoli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all’osteria, tutti gli avventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa.
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— Requiem eternam, — biascicava sottovoce lo zio Santoro, — quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità, quando padron ’Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca.
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La poveretta che non sapeva di essere vedova, balbettava:
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— Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!
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Dinanzi al ballatoio della sua casa c’era un gruppo di vicine che l’aspettavano, e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro da lontano, comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre, senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa.
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— Che disgrazia! — dicevano sulla via. — E la barca era carica! Più di quarant’onze di lupini!
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IV.
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Il peggio era che i lupini li avevano presi a credenza, e lo zio Crocifisso non si contentava di «buone parole e mele fradicie», per questo lo chiamavano Campana di legno, perchè non ci sentiva di quell’orecchio, quando lo volevano pagare con delle chiacchiere, e’ diceva che «alla credenza ci si pensa». Egli era un buon diavolaccio, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco; ma aveva denari sin che ne volevano, e se qualcheduno andava a chiedergli dodici tarì glieli prestava subito, col pegno, perchè «chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno» a patto di averli restituiti la domenica, d’argento e colle colonne, che ci era un carlino dippiù, com’era giusto, perchè «coll’interesse non c’è amicizia». Comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, ma dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, chè era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. Insomma era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo, e senza essere uomo di mare aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano la barca del diavolo — e quando gli dicevano perchè non ci andasse lui a rischiare la pelle come tutti gli altri, che si pappava il meglio della pesca senza pericolo, rispondeva: — Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei? — Egli badava agli affari suoi, ed avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva esser pagato, senza tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perchè era sordo, e per di più era scarso di cervello, e non sapeva dir altro che «Quel che è di patto non è d’inganno», oppure «Al giorno che promise si conosce il buon pagatore».
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Ora i suoi nemici gli ridevano sotto il naso, a motivo di quei lupini che se l’era mangiati il diavolo; e gli toccava anche recitare il deprofundis per l’anima di Bastianazzo, quando si facevano le esequie, insieme con gli altri confratelli della Buona Morte, colla testa nel sacco.
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I vetri della chiesetta scintillavano, e il mare era liscio e lucente, talchè non pareva più quello che gli aveva rubato il marito alla Longa; perciò i confratelli avevano fretta di spicciarsi, e di andarsene ognuno pei propri affari, ora che il tempo s’era rimesso al buono.
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Stavolta i Malavoglia erano là, seduti sulle calcagna, davanti al cataletto, e lavavano il pavimento dal gran piangere, come se il morto fosse davvero fra quelle quattro tavole, coi suoi lupini al collo, che lo zio Crocifisso gli aveva dati a credenza, perchè aveva sempre conosciuto padron ’Ntoni per galantuomo; ma se volevano truffargli la sua roba, col pretesto che Bastianazzo s’era annegato, la truffavano a Cristo, com’è vero Dio! chè quello era un credito sacrosanto come l’ostia consacrata, e quelle cinquecento lire ei l’appendeva ai piedi di Gesù crocifisso; ma santo diavolone! padron ’Ntoni sarebbe andato in galera! La legge c’era anche a Trezza!
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Intanto don Giammaria buttava in fretta quattro colpi d’aspersorio sul cataletto, e mastro Cirino cominciava ad andare attorno per spegnere i lumi colla canna. I confratelli si affrettavano a scavalcare i banchi colle braccia in aria, per cavarsi il cappuccio, e lo zio Crocifisso andò a dare una presa di tabacco a padron ’Ntoni, per fargli animo, che infine quando uno è galantuomo lascia buon nome e si guadagna il paradiso, — questo aveva detto a coloro che gli domandavano dei suoi lupini: — Coi Malavoglia sto tranquillo perchè son galantuomini e non vorranno lasciar compare Bastianazzo a casa del diavolo; padron ’Ntoni poteva vedere coi suoi propri occhi se si erano fatte le cose senza risparmio, in onore del morto; e tanto costava la messa, tanto i ceri, e tanto il mortorio — ei faceva il conto sulle grosse dita ficcate nei guanti di cotone, e i ragazzi guardavano a bocca aperta tutte quelle cose che costavano caro, ed erano lì pel babbo: il cataletto, i ceri, i fiori di carta; e la bambina, vedendo la luminaria, e udendo suonar l’organo, si mise a galloriare.
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La casa del nespolo era piena di gente; e il proverbio dice: «triste quella casa dove ci è la visita pel marito!» Ognuno che passava, al vedere sull’uscio quei piccoli Malavoglia col viso sudicio e le mani nelle tasche, scrollava il capo e diceva:
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— Povera comare Maruzza! ora cominciano i guai per la sua casa!
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Gli amici portavano qualche cosa, com’è l’uso, pasta, ova, vino e ogni ben di Dio, che ci avrebbe voluto il cor contento per mangiarsi tutto, e perfino compar Alfio Mosca era venuto con una gallina per mano. — Prendete queste qua, gnà Mena, — diceva, — che avrei voluto trovarmici io al posto di vostro padre, vi giuro. Almeno non avrei fatto danno a nessuno, e nessuno avrebbe pianto.
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La Mena, appoggiata alla porta della cucina, colla faccia nel grembiule, si sentiva il cuore che gli sbatteva e gli voleva scappare dal petto, come quelle povere bestie che teneva in mano. La dote di Sant’Agata se n’era andata colla Provvidenza, e quelli che erano a visita nella casa del nespolo, pensavano che lo zio Crocifisso ci avrebbe messo le unghie addosso.
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Alcuni se ne stavano appollaiati sulle scranne, e ripartivano senza aver aperto bocca, da veri baccalà che erano; ma chi sapeva dir quattro parole, cercava di tenere uno scampolo di conversazione, per scacciare la malinconia, e distrarre un po’ quei poveri Malavoglia i quali piangevano da due giorni come fontane. Compare Cipolla raccontava che sulle acciughe c’era un aumento di due tarì per barile, questo poteva interessargli a padron ’Ntoni, se ci aveva ancora delle acciughe da vendere; lui a buon conto se n’era riserbati un centinaio di barili; e parlavano pure di compare Bastianazzo, buon’anima, che nessuno se lo sarebbe aspettato, un uomo nel fiore dell’età, e che crepava di salute, poveretto!
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C’era pure il sindaco, mastro Croce Callà «Baco da seta» detto anche Giufà, col segretario don Silvestro, e se ne stava col naso in aria, talchè la gente diceva che stava a fiutare il vento per sapere da che parte voltarsi, e guardava ora questo ed ora quello che parlava, come se cercasse la foglia davvero, e volesse mangiarsi le parole, e quando vedeva ridere il segretario, rideva anche lui.
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Don Silvestro per far ridere un po’ tirò il discorso sulla tassa di successione di compar Bastianazzo, e ci ficcò così una barzelletta che aveva raccolta dal suo avvocato, e gli era piaciuta tanto, quando gliel’avevano spiegata bene, che non mancava di farla cascare nel discorso ogniqualvolta si trovava a visita da morto.
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— Almeno avete il piacere di essere parenti di Vittorio Emanuele, giacchè dovete dar la sua parte anche a lui!
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E tutti si tenevano la pancia dalle risate, chè il proverbio dice: «Nè visita di morto senza riso, nè sposalizio senza pianto».
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La moglie dello speziale torceva il muso a quegli schiamazzi, e stava coi guanti sulla pancia, e la faccia lunga, come si usa in città per quelle circostanze, che solo a guardarla la gente ammutoliva, quasi ci fosse il morto lì davanti, e per questo la chiamavano la Signora.
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Don Silvestro faceva il gallo colle donne, e si muoveva ogni momento col pretesto di offrire le scranne ai nuovi arrivati, per far scricchiolare le sue scarpe verniciate. — Li dovrebbero abbruciare, tutti quelli delle tasse! — brontolava comare Zuppidda, gialla come se avesse mangiato dei limoni, e glielo diceva in faccia a don Silvestro, quasi ei fosse quello delle tasse. — Ella lo sapeva benissimo quello che volevano certi mangiacarte che non avevano calze sotto gli stivali inverniciati, e cercavano di ficcarsi in casa della gente per papparsi la dote e la figliuola: «Bella, non voglio te, voglio i tuoi soldi». Per questo aveva lasciata a casa sua figlia Barbara. — Quelle facce lì non mi piacciono.
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— A chi lo dite! — esclamò padron Cipolla; — a me mi scorticano vivo come san Bartolomeo.
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— Benedetto Dio! — esclamò mastro Turi Zuppiddo, minacciando col pugno che pareva la malabestia del suo mestiere. — Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani!
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— Voi state zitto! — gli diede sulla voce comare Venera, — chè non sapete nulla.
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— Io dico quel che hai detto tu, che ci levano la camicia di dosso, ci levano! — borbottò compare Turi, mogio mogio.
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Allora Piedipapera, per tagliar corto, disse piano a padron Cipolla: — Dovreste pigliarvela voi, comare Barbara, per consolarvi; così la mamma e la figliuola non si darebbero più l’anima al diavolo.
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— È una vera porcheria! — esclamava donna Rosolina, la sorella del curato, rossa come un tacchino, e facendosi vento col fazzoletto; e se la prendeva con Garibaldi che metteva le tasse, e al giorno d’oggi non si poteva più vivere, e nessuno si maritava più. — O a donna Rosolina cosa gliene importa oramai? — susurrava Piedipapera. Donna Rosolina intanto raccontava a don Silvestro le grosse faccende che ci aveva per le mani: dieci canne di ordito sul telaio, i legumi da seccare per l’inverno, la conserva dei pomidoro da fare, che lei ci aveva un segreto tutto suo per avere la conserva dei pomidoro fresca tutto l’inverno. — Una casa senza donna non poteva andare; ma la donna bisognava che avesse il giudizio nelle mani, come s’intendeva lei; e non fosse di quelle fraschette che pensano a lisciarsi e nient’altro, «coi capelli lunghi e il cervello corto», chè allora un povero marito se ne va sott’acqua come compare Bastianazzo, buon’anima. — Beato lui! — sospirava la Santuzza, — è morto in un giorno segnalato, la vigilia dei Dolori di Maria Vergine, e prega lassù per noi peccatori, fra gli angeli e i santi del paradiso. «A chi vuol bene Dio manda pene». Egli era un bravo uomo, di quelli che badano ai fatti loro, e non a dir male di questo e di quello, e peccare contro il prossimo, come tanti ce ne sono.
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Maruzza allora, seduta ai piedi del letto, pallida e disfatta come un cencio messo al bucato, che pareva la Madonna Addolorata, si metteva a piangere più forte, col viso nel guanciale, e padron ’Ntoni, piegato in due, più vecchio di cent’anni, la guardava, e la guardava, scrollando il capo, e non sapeva che dire, per quella grossa spina di Bastianazzo che ci aveva in cuore, come se lo rosicasse un pescecane.
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— La Santuzza ci ha il miele in bocca! osservava comare Grazia Piedipapera.
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— Per fare l’ostessa, rispose la Zuppidda, — e’ s’ha ad essere così. «Chi non sa l’arte chiuda bottega, e chi non sa nuotare che si anneghi».
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La Zuppidda ne aveva le tasche piene di quel fare melato della Santuzza, che persino la Signora si voltava a discorrere con lei, colla bocca stretta, senza badare agli altri, con que’ guanti che pareva avesse paura di sporcarsi le mani, e stava col naso arricciato, come se tutte le altre puzzassero peggio delle sardelle, mentre chi puzzava davvero era la Santuzza, di vino e di tante altre porcherie, con tutto l’abitino color pulce che aveva indosso, e la medaglia di Figlia di Maria sul petto prepotente, che non voleva starci. Già se la intendevano fra di loro perchè l’arte è parentela, e facevano denari allo stesso modo, gabbando il prossimo, e vendendo l’acqua sporca a peso d’oro, e se ne infischiavano delle tasse, coloro!
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— Metteranno pure la tassa sul sale! — aggiunse compare Mangiacarrubbe. — L’ha detto lo speziale che è stampato nel giornale. Allora di acciughe salate non se ne faranno più, e le barche potremo bruciarle nel focolare.
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Mastro Turi il calafato stava per levare il pugno e incominciare: — Benedetto Dio! — ; ma guardò sua moglie e si tacque mangiandosi fra i denti quel che voleva dire.
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— Colla malannata che si prepara, — aggiunse padron Cipolla, che non pioveva da santa Chiara, — e se non fosse stato per l’ultimo temporale in cui si è persa la Provvidenza, che è stata una vera grazia di Dio, la fame quest’inverno si sarebbe tagliata col coltello!
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Ognuno raccontava i suoi guai, anche per conforto dei Malavoglia, che non erano poi i soli ad averne. «Il mondo è pieno di guai, chi ne ha pochi e chi ne ha assai», e quelli che stavano fuori nel cortile guardavano il cielo, perchè un’altra pioggerella ci sarebbe voluta come il pane. Padron Cipolla lo sapeva lui perchè non pioveva più come prima. — Non piove più perchè hanno messo quel maledetto filo del telegrafo, che si tira tutta la pioggia, e se la porta via. — Compare Mangiacarrubbe allora, e Tino Piedipapera rimasero a bocca aperta, perchè giusto sulla strada di Trezza c’erano i pali del telegrafo; ma siccome don Silvestro cominciava a ridere, e a fare ah! ah! ah! come una gallina, padron Cipolla si alzò dal muricciuolo infuriato e se la prese con gli ignoranti, che avevano le orecchie lunghe come gli asini. — Che non lo sapevano che il telegrafo portava le notizie da un luogo all’altro; questo succedeva perchè dentro il filo ci era un certo succo come nel tralcio della vite, e allo stesso modo si tirava la pioggia dalle nuvole, e se la portava lontano, dove ce n’era più di bisogno; potevano andare a domandarlo allo speziale che l’aveva detta; e per questo ci avevano messa la legge che chi rompe il filo del telegrafo va in prigione. Allora anche don Silvestro non seppe più che dire, e si mise la lingua in tasca.
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— Santi del Paradiso! si avrebbero a tagliarli tutti quei pali del telegrafo, e buttarli nel fuoco! — incominciò compare Zuppiddo, ma nessuno gli dava retta, e guardavano nell’orto, per mutar discorso.
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— Un bel pezzo di terra! — diceva compare Mangiacarrubbe; — quando è ben coltivato dà la minestra per tutto l’anno.
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La casa dei Malavoglia era sempre stata una delle prime a Trezza; ma adesso colla morte di Bastianazzo, e ’Ntoni soldato, e Mena da maritare, e tutti quei mangiapane pei piedi, era una casa che faceva acqua da tutte le parti.
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Infine cosa poteva valere la casa? Ognuno allungava il collo sul muro dell’orto, e ci dava una occhiata, per stimarla così a colpo. Don Silvestro sapeva meglio di ogni altro come andassero le cose, perchè le carte le aveva lui, alla segreteria di Aci-Castello.
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— Volevo scommettere dodici tarì che non è tutt’oro quello che luccica, andava dicendo; e mostrava ad ognuno il pezzo da cinque lire nuovo.
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Ei sapeva che sulla casa c’era un censo di cinque tarì all’anno. Allora si misero a fare il conto sulle dita di quel che avrebbe potuto vendersi la casa, coll’orto, e tutto.
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— Nè la casa nè la barca si possono vendere perchè ci è su la dote di Maruzza, — diceva qualchedun altro, e la gente si scaldava tanto che potevano udirli dalla camera dove stavano a piangere il morto. — Sicuro! — lasciò andare alfine don Silvestro come una bomba; — c’è l’ipoteca dotale.
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Padron Cipolla, il quale aveva scambiato qualche parola con padron ’Ntoni per maritare Mena con suo figlio Brasi, scrollava il capo e non diceva altro.
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— Allora, — aggiunse compare Cola, — il vero disgraziato è lo zio Crocifisso che ci perde il credito dei suoi lupini.
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Tutti si voltarono verso Campana di legno il quale era venuto anche lui, per politica, e stava zitto, in un cantuccio, a veder quello che dicevano, colla bocca aperta e il naso in aria, che sembrava stesse contando quante tegole e quanti travicelli c’erano sul tetto, e volesse stimare la casa. I più curiosi allungavano il collo dall’uscio, e si ammiccavano l’un l’altro per mostrarselo a vicenda. — E’ pare l’usciere che fa il pignoramento! — sghignazzavano.
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Le comari che sapevano delle chiacchiere fra padron ’Ntoni e compare Cipolla, dicevano che adesso bisognava passare la doglia, a comare Maruzza, e conchiudere quel matrimonio della Mena. Ma la Longa in quel momento ci aveva altro pel capo, poveretta.
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Padron Cipolla voltò le spalle freddo freddo, senza dir nulla; e dopo che tutti se ne furono andati, i Malavoglia rimasero soli nel cortile. — Ora, — disse padron ’Ntoni, siamo rovinati, ed è meglio per Bastianazzo che non ne sa nulla.
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A quelle parole, prima Maruzza, e poi tutti gli altri tornarono a piangere di nuovo, e i ragazzi, vedendo piangere i grandi, si misero a piangere anche loro, sebbene il babbo fosse morto da tre giorni. Il vecchio andava di qua e di là, senza sapere che facesse; Maruzza invece non si muoveva dai piedi del letto, quasi non avesse più nulla da fare. Quando diceva qualche parola, ripeteva sempre, cogli occhi fissi, e pareva che non ci avesse altro in testa. — Ora non ho più niente da fare!
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— No! — rispose padron ’Ntoni, no! chè bisogna pagare il debito allo zio Crocifisso, e non si deve dire di noi che «il galantuomo come impoverisce diventa birbante».
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E il pensiero dei lupini gli ficcava più dentro nel cuore la spina di Bastianazzo. Il nespolo lasciava cadere le foglie vizze, e il vento le spingeva di qua e di là pel cortile.
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— Egli è andato perchè ce l’ho mandato io, — ripeteva padron ’Ntoni, — come il vento porta quelle foglie di qua e di là, e se gli avessi detto di buttarsi dal fariglione con una pietra al collo, l’avrebbe fatto senza dir nulla. Almeno è morto che la casa e il nespolo sino all’ultima foglia erano ancora suoi; ed io che son vecchio sono ancora qua. «Uomo povero ha i giorni lunghi».
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Maruzza non diceva nulla, ma nella testa ci aveva un pensiero fisso, che la martellava, e le rosicava il cuore, di sapere cos’era successo in quella notte, che l’aveva sempre dinanzi agli occhi, e se li chiudeva le sembrava di vedere ancora la Provvidenza, là verso il Capo dei Mulini, dove il mare era liscio e turchino, e seminato di barche, che sembravano tanti gabbiani al sole, e si potevano contare ad una ad una, quella dello zio Crocifisso, l’altra di compare Barabba, la Concetta dello zio Cola, e la paranza di padron Fortunato, che stringevano il cuore; e si udiva mastro Cola Zuppiddo il quale cantava a squarciagola, con quei suoi polmoni di bue, mentre picchiava colla malabestia, e l’odore del catrame che veniva dal greto, e la tela che batteva la cugina Anna sulle pietre del lavatoio, e si udiva pure Mena a piangere cheta cheta in cucina.
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— Poveretta! — mormorava il nonno, — anche a te è crollata la casa sul capo, e compare Fortunato se ne è andato freddo freddo, senza dir nulla.
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E andava toccando ad uno ad uno gli arnesi che erano in mucchio in un cantuccio, colle mani tremanti, come fanno i vecchi; e vedendo Luca lì davanti, che gli avevano messo il giubbone del babbo, e gli arrivava alle calcagna, gli diceva: — Questo ti terrà caldo, quando verrai a lavorare; perchè adesso bisogna aiutarci tutti per pagare il debito dei lupini.
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Maruzza si tappava le orecchie colle mani per non sentire la Locca che si era appollaiata sul ballatoio, dietro l’uscio, e strillava dalla mattina, con quella voce fessa di pazza, e pretendeva che le restituissero loro il suo figliuolo, e non voleva sentir ragione.
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— Fa così perchè ha fame, — disse infine la cugina Anna; adesso lo zio Crocifisso ce l’ha con tutti loro per quell’affare dei lupini, e non vuol darle più nulla. Ora vo a portarle qualche cosa, e allora se ne andrà.
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La cugina Anna, poveretta, aveva lasciato la sua tela e le sue ragazze per venire a dare una mano a comare Maruzza, la quale era come se fosse malata, e se l’avessero lasciata sola non avrebbe pensato più ad accendere il fuoco, e a mettere la pentola, che sarebbero tutti morti di fame. «I vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro». Intanto quei ragazzi avevano le labbra pallide dalla fame. La Nunziata aiutava anche lei, e Alessi, col viso sudicio dal gran piangere che aveva fatto vedendo piangere la mamma, teneva a bada i piccini, perchè non le stessero sempre fra i piedi, come una nidiata di pulcini, chè la Nunziata voleva averle libere le mani, lei.
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— Tu sai il fatto tuo! — le diceva la cugina Anna; — e la tua dote ce l’hai nelle mani, quando sarai grande.
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VI.
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’Ntoni era arrivato in giorno di festa, e andava di porta in porta a salutare i vicini e i conoscenti, sicchè tutti stavano a guardarlo dove passava; gli amici gli facevano codazzo, e le ragazze si affacciavano dalle finestre; ma la sola che non si vedesse era Sara di comare Tudda.
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— Se n’è andata ad Ognina con suo marito, — gli disse la Santuzza. — Ha sposato Menico Trinca, il quale era vedovo con sei figliuoli, ma è ricco come un maiale. Si è maritata che non era compiuto il mese dacchè a Menico Trinca gli era morta la prima moglie, e il letto era ancora caldo, Dio liberi!
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— Uno che è vedovo è come uno che vada soldato, — aggiunse la Zuppidda. — «Amore di soldato poco dura, a tocco di tamburo addio signora». E poi, s’era persa la Provvidenza!
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Comare Venera, la quale era alla stazione, quando era partito ’Ntoni di padron ’Ntoni, per vedere se Sara di comare Tudda fosse andata a salutarlo, chè li aveva visti parlare dal muro della vigna, voleva godersi la faccia che avrebbe fatto ’Ntoni a quella notizia. Ma era passato del tempo anche per cotesto, e si suol dire «lontan dagli occhi, lontan dal cuore». ’Ntoni ora portava il berretto sull’orecchio. — Compare Menico vuol morire becco! disse egli per consolarsi, e questo le piacque, alla Mangiacarrubbe, che l’aveva chiamato «cetriolo» ed ora vedeva che era un bel cetriolo, e l’avrebbe barattato volentieri con quel disutilaccio di Rocco Spatu, il quale non valeva niente, e l’aveva preso perchè non c’era altri.
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— A me non mi piacciono quelle fraschette che fanno all’amore con due o tre per volta, — disse la Mangiacarrubbe, tirandosi sul mento le cocche del fazzoletto da testa, e facendo la madonnina. — Se volessi bene ad uno, non vorrei cambiarlo nemmeno per Vittorio Emanuele, o Garibaldi, vedete!
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— Lo so a chi volete bene! — disse ’Ntoni col pugno sul fianco.
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— No che non lo sapete, compare ’Ntoni, e vi hanno detto delle chiacchiere. Se qualche volta poi passate dalla mia porta, vi racconterò ogni cosa.
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— Ora che la Mangiacarrubbe ha messo gli occhi addosso a ’Ntoni di padron ’Ntoni, la sarà una provvidenza per la cugina Anna, — diceva comare Venera.
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’Ntoni se ne andò tutto borioso, dondolandosi sui fianchi, con un codazzo di amici, e avrebbe voluto che tutti i giorni fosse domenica, per menare a spasso la sua camicia colle stelle; quel dopopranzo si divertirono a prendersi a pugni con compare Pizzuto, il quale non aveva paura nemmeno di Dio, sebbene non avesse fatto il soldato, e andò a rotolare per terra davanti all’osteria, col naso in sangue; ma Rocco Spatu invece fu più forte, e si mise ’Ntoni sotto i piedi.
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— Per la madonna! — esclamarono quelli che stavano a vedere. — Quel Rocco è forte come mastro Turi Zuppiddo. Se volesse lavorare se lo buscherebbe il pane!
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— Io le mie devozioni so dirmele con questo qui! — diceva Pizzuto mostrando il rasoio, per non darsi vinto.
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Insomma ’Ntoni si divertì tutta la giornata; però la sera, mentre stavano attorno al desco a chiacchierare, e la mamma gli domandava di questo e di quello, e i ragazzi, mezzo addormentati, lo stavano a guardare con tanto d’occhi, e Mena gli toccava il berretto e la camicia colle stelle, per vedere com’eran fatti, il nonno gli disse che gli aveva trovato d’andare a giornata nella paranza di compar Cipolla, con una bella paga.
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— Li ho presi per carità, — diceva padron Fortunato a chi voleva sentirlo, seduto davanti alla bottega del barbiere. — Li ho presi per non dir di no, quando padron ’Ntoni è venuto a dirmi, sotto l’olmo, se ci avessi bisogno di uomini per la paranza. Di uomini io non ne ho mai bisogno; ma «carcere, malattie, e necessità, si conosce l’amistà»; con padron ’Ntoni poi, che è tanto vecchio, ci si perde quel che gli si dà!...
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— È vecchio ma sa il mestiere, — rispose Piedipapera; — non ce li perdete i danari; e suo nipote poi è un ragazzo che tutti ve lo ruberebbero.
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— Quando mastro Bastiano avrà messo in ordine la Provvidenza, armeremo la nostra barca, e non avremo più bisogno d’andare a giornata; — diceva padron ’Ntoni.
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La mattina, quando egli andò a svegliare il nipote, ci volevano due ore per l’alba, e ’Ntoni avrebbe preferito starsene ancora un po’ sotto le coperte; allorchè uscì fuori nel cortile sbadigliando, il tre bastoni era ancora alto verso l’Ognina, colle gambe in aria, la Puddara luccicava dall’altra parte, e il cielo formicolava di stelle, che parevano le monachine quando corrono sul fondo nero della padella. — È la stessa cosa come quand’ero soldato, che suonava la diana nei traponti, — borbottava ’Ntoni. — Allora non valeva la pena di tornare a casa!
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— Sta zitto, chè il nonno è lì a mettere in ordine gli attrezzi, e si è alzato un’ora prima di noi, — gli rispose Alessi. Ma Alessi era un ragazzo che somigliava tutto a suo padre Bastianazzo, buon’anima. Il nonno colla lanterna andava e veniva pel cortile; fuori si udiva passare la gente che andava al mare, e passava a picchiare di porta in porta, per chiamare i compagni. Però, come giunsero sul lido, davanti al mare nero, dove si specchiavano le stelle, e che russava lento sul greto, e si vedevano qua e là le lanterne delle altre barche, anche ’Ntoni si sentì allargare il cuore.
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— Ah! — esclamò stirandosi le braccia. — È una bella cosa tornare a casa sua. Questa marina qui mi conosce. — Già padron ’Ntoni diceva sempre che un pesce fuori dell’acqua non sa starci, e chi è nato pesce il mare l’aspetta.
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Nella paranza lo canzonavano perchè la Sara l’aveva piantato, mentre serravano le vele, e la Carmela vogava in tondo lenta lenta, lasciandosi dietro le reti come la coda di un serpente. — «Carne di porco ed uomini di guerra durano poco», dice il proverbio, per questo Sara ti ha piantato.
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— «Allora la donna è fedele ad uno, quando il turco si fa cristiano»; — aggiunse lo zio Cola.
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— Delle innamorate ne ho quante ne voglio, — rispose ’Ntoni; — a Napoli mi correvano dietro come i cagnolini.
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— A Napoli ci avevi il vestito di panno, e il berretto collo scritto, e le scarpe ai piedi, disse Barabba.
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— Che vi son delle belle ragazze come qui, a Napoli?
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— Le belle ragazze di qui non sono degne di portargli le scarpe, a quelle di Napoli. Io ne avevo una colla veste di seta, e nastri rossi nei capelli, il corsetto ricamato, e le spalline d’oro come quelle del comandante. Un bel pezzo di ragazza così, che portava a spasso i bambini dei padroni, e non faceva altro.
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— Bello stare deve essere da quelle parti! — osservò Barabba.
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— A voi di sinistra! fermi i remi! — gridò padron ’Ntoni.
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— Sangue di Giuda! che mi fate andare la paranza sulle reti! — cominciò a strillare lo zio Cola al timone. — La volete finire colle chiacchiere; stiamo qui a grattarci la pancia, o a fare il mestiere?
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— È la maretta che ci accula; — disse ’Ntoni.
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— Staglia da quella parte, figlio di porco, — gli gridò Barabba; — colle regine che ci hai in testa ci fai perdere la giornata!
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— Sacramento! — rispose allora ’Ntoni col remo in aria, — se lo dici un’altra volta, te lo do sulla testa.
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— Che novità è questa? — saltò su lo zio Cola dal timone, — l’hai imparato da soldato, che non si può dire più una parola?
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— Allora me ne vado; — rispose ’Ntoni.
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— E tu vattene, che coi suoi denari padron Fortunato ne troverà un altro.
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— «Al servo pazienza, al padrone prudenza», — disse padron ’Ntoni.
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’Ntoni continuò a remare brontolando, perchè non poteva andarsene a piedi, e compare Mangiacarrubbe, per metter la pace, disse che era ora di far colazione.
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In quel momento spuntava il sole, e un sorso di vino si beveva volentieri, pel fresco che s’era messo. Allora quei ragazzi si misero a lavorare di mascelle, col fiasco fra le gambe, mentre la paranza mareggiava adagio adagio fra il largo cerchio dei sugheri.
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— Una pedata per di dietro a chi parla per il primo! — disse lo zio Cola.
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Per non buscarsi la pedata tutti si misero a masticare come buoi, guardando le onde che venivano dal largo, e si rotolavano senza spuma, quelle otri verdi che in un giorno di sole fanno pensare al cielo nero e al mare color di lavagna.
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— Padron Cipolla le lascerà correre quattro bestemmie stasera; — saltò su lo zio Cola; — ma non ci abbiamo che fare. Col mare fresco non se ne piglia pesci.
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Prima compare Mangiacarrubbe gli sferrò una pedata, perchè lo zio Cola che aveva fatta la legge aveva parlato pel primo; e poi rispose: — Intanto ora che siamo qui, aspettiamo a tirare le reti.
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— La maretta viene dal largo, e a noi ci giova; — aggiunse padron ’Ntoni.
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— Ahi! — borbottava intanto lo zio Cola.
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Ora che il silenzio era rotto, Barabba chiese a ’Ntoni Malavoglia: — Me lo dai un mozzicone di sigaro?
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— Non ne ho, — rispose ’Ntoni, senza pensare più alla quistione di poco prima, — ma te ne darò mezzo del mio.
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Gli uomini della paranza, seduti sul fondo, colla schiena contro il banco e le mani dietro il capo, cantavano delle canzonette, ognuno per suo conto, adagio adagio, per non addormentarsi, che infatti socchiudevano gli occhi sotto il sole lucente; e Barabba faceva scoppiettare le dita, come i cefali sguizzavano fuori dell’acqua.
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— Essi non hanno nulla da fare, — diceva ’Ntoni, — e si divertono a saltare.
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— Buono questo sigaro! — rispose Barabba, — ne fumavi a Napoli, di questi?
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— Sì, ne fumavo tanti.
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— Però i sugheri cominciano ad affondare, — osservò compare Mangiacarrubbe.
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— Lo vedi dove si è persa la Provvidenza con tuo padre? — disse Barabba; — laggiù al Capo, dove c’è l’occhio del sole su quelle case bianche, e il mare sembra tutto d’oro.
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— Il mare è amaro e il marinaro muore in mare; — rispose ’Ntoni.
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Barabba gli passò il suo fiasco, e dopo si misero a brontolare sottovoce dello zio Cola, il quale era un cane per gli uomini della paranza, quasi padron Cipolla fosse là presente, a vedere quel che facevano e quel che non facevano.
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— Tutto per fargli credere che senza di lui la paranza non andrebbe, — aggiunse Barabba. — Sbirro!
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— Ora gli dirà che il pesce l’ha preso lui, per l’abilità sua, con tutto il mare fresco. Guarda come affondano le reti, i sugheri non si vedono più.
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— O ragazzi! — gridò lo zio Cola, — vogliamo tirare le reti? perchè se ci arriva la maretta ce le strappa di mano.
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— Ohi! oohi! — cominciarono a vociare gli uomini della ciurma passandosi la fune.
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— San Francesco! — esclamava lo zio Cola, — ei non par vero che abbiamo preso tutta questa grazia di Dio, colla maretta.
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Le reti formicolavano e scintillavano al sole a misura che s’affacciavano dall’acqua, e tutto il fondo della paranza sembrava pieno d’argento vivo. — Padron Fortunato ora sarà contento, — mormorò Barabba, tutto rosso e sudato, — e non ci rinfaccerà quei tre carlini che ci dà per la giornata.
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— Questo ci tocca a noi! — aggiunse ’Ntoni, — a romperci la schiena per gli altri; e poi quando abbiamo messo assieme un po’ di soldi, viene il diavolo e se li mangia.
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— Di che ti lagni? — gli disse il nonno, — non te la dà la tua giornata compare Fortunato?
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I Malavoglia si arrabattavano in tutti i modi per far quattrini. La Longa prendeva qualche rotolo di tela da tessere, e andava anche al lavatoio per conto degli altri; padron ’Ntoni coi nipoti s’erano messi a giornata, s’aiutavano come potevano, e se la sciatica piegava il vecchio come un uncino, rimaneva nel cortile a rifar le maglie alle reti, a raccomodar nasse, e mettere in ordine degli attrezzi, che era pratico di ogni cosa del mestiere. Luca andava a lavorare nel ponte della ferrovia, per cinquanta centesimi al giorno, sebbene suo fratello ’Ntoni dicesse che non bastavano per le camicie che sciupava a trasportar sassi nel corbello; ma Luca non badava che si sciupava anche le spalle, e Alessi andava a raccattar dei gamberi lungo gli scogli, o dei vermiciattoli per l’esca, che si vendevano a dieci soldi il rotolo, e alle volte arrivava sino all’Ognina e al Capo dei Mulini, e tornava coi piedi in sangue. Ma compare Zuppiddu si prendeva dei bei soldi ogni sabato, per rabberciare la Provvidenza, e ce ne volevano delle nasse da acconciare, dei sassi della ferrovia, dell’esca a dieci soldi, e della tela da imbiancare, coll’acqua sino ai ginocchi e il sole sulla testa, per fare quarant’onze! I Morti erano venuti, e lo zio Crocifisso non faceva altro che passeggiare per la straduccia, colle mani dietro la schiena, che pareva il basilisco.
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— Questa è storia che va a finire coll’usciere! — andava dicendo lo zio Crocifisso con don Silvestro e con don Giammaria il vicario.
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— D’usciere non ci sarà bisogno, zio Crocifisso, — gli rispose padron ’Ntoni quando venne a sapere quello che andava dicendo Campana di legno. — I Malavoglia sono stati sempre galantuomini, e non hanno avuto bisogno d’usciere.
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— A me non me ne importa; — rispose lo zio Crocifisso colle spalle al muro, sotto la tettoia del cortile, mentre stavano accatastando i suoi sarmenti: — Io non so altro che devo esser pagato.
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Finalmente, per intromissione del vicario, Campana di legno si contentò di aspettare a Natale ad esser pagato, prendendosi per frutti quelle settantacinque lire che Maruzza aveva raccolto soldo a soldo in fondo alla calza nascosta sotto il materasso.
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— Ecco com’è la cosa! — borbottava ’Ntoni di padron ’Ntoni; — lavoriamo notte e giorno per lo zio Crocifisso. Quando abbiamo messo insieme una lira, ce la prende Campana di legno.
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Il nonno, colla Maruzza, si consolavano a far castelli in aria per l’estate, quando ci sarebbero state le acciughe da salare, e i fichidindia a dieci un grano, e facevano dei grandi progetti d’andare alla tonnara, e per la pesca del pesce spada, dove si buscava una buona giornata, e intanto mastro Bastiano avrebbe messo in ordine la Provvidenza. I ragazzi stavano attenti, col mento in mano, a quei discorsi che si facevano sul ballatoio, o dopo cena; ma ’Ntoni che veniva da lontano, e il mondo lo conosceva meglio degli altri, si annoiava a sentir quelle chiacchiere, e preferiva andarsene a girandolare attorno all’osteria, dove c’era tanta gente che non faceva nulla, e anche lo zio Santoro, il quale era il peggio che ci potesse essere, faceva quel mestiere leggièro di stendere la mano a chi passava, e biascicare avemarie; o se ne andava da compare Zuppiddo, col pretesto di vedere a che stato fosse la Provvidenza, per far quattro chiacchiere con Barbara, la quale veniva a metter frasche sotto il calderotto della pece, quando c’era compare ’Ntoni.
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— Voi siete sempre in faccende, comare Barbara, — le diceva ’Ntoni, — e siete il braccio destro della casa; per questo vostro padre non vi vuol maritare.
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— Non mi vuol maritare con quelli che non fanno per me, — rispondeva Barbara, — «pari con pari e statti coi tuoi».
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— Io ci starei anch’io coi vostri, per la madonna! se voleste voi, comare Barbara!...
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— Che discorsi mi fate, compare ’Ntoni. La mamma è a filare nel cortile, e sta a sentirci.
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— Dicevo per quelle frasche che son verdi, e non vogliono accendere. Lasciate fare a me.
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— Che è vero che venite qui per vedere la Mangiacarrubbe, quando si affaccia alla finestra?
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— Io ci vengo qui per tutt’altro, comare Barbara. Ci vengo per vedere a che stato è la Provvidenza.
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— È a buon stato, e il babbo ha detto che per la vigilia di Natale la metterete in mare.
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Come s’avvicinava la novena di Natale i Malavoglia non facevano altro che andare e venire dal cortile di mastro Bastiano Zuppiddo. Intanto il paese intero si metteva in festa; in ogni casa si ornavano di frasche e d’arance le immagini dei santi, e i fanciulli si affollavano dietro la cornamusa che andava a suonare davanti alle cappellette colla luminaria, accanto agli usci. Solo in casa dei Malavoglia la statua del Buon Pastore rimaneva all’oscuro, mentre ’Ntoni di padron ’Ntoni correva a fare il gallo di qua e di là, e Barbara Zuppidda gli diceva:
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— Almeno ci penserete che ho squagliata la pece per la Provvidenza, quando sarete in mare?
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Piedipapera predicava che tutte le ragazze se lo rubavano.
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— Chi è rubato son io! — piagnucolava lo zio Crocifisso. — Voglio un po’ vedere d’onde prenderanno i denari dei lupini, se ’Ntoni si marita, e se devono anche dare la dote alla Mena, col censo che hanno sulla casa, e tutti quegli imbrogli dell’ipoteca che son saltati fuori all’ultimo. Il Natale eccolo qua, ma i Malavoglia ancora non li ho visti.
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Padron ’Ntoni tornava a cercarlo in piazza, o sotto la tettoia, e gli diceva: — Cosa volete che si faccia se non ho denari? Spremete il sasso per cavarne sangue! Aspettatemi sino a giugno, se volete farmi questo favore, o prendetevi la Provvidenza e la casa del nespolo. Io non ci ho altro.
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— Io voglio i miei danari, — ripicchiava Campana di legno colle spalle al muro. — Avete detto che siete galantuomini, e che non pagate colle chiacchiere della Provvidenza e della casa del nespolo.
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Egli ci perdeva l’anima ed il corpo, ci aveva rimesso il sonno e l’appetito, e non poteva nemmeno sfogarsi col dire che quella storia andava a finire coll’usciere, perchè subito padron ’Ntoni mandava don Giammaria o il segretario, a domandar pietà, e non lo lasciavano più venire in piazza, per gli affari suoi, senza metterglisi alle calcagna, sicchè tutti nel paese dicevano che quelli erano danari del diavolo. Con Piedipapera non poteva sfogarsi perchè gli rimbeccava subito che i lupini erano fradici, e che egli faceva il sensale. — Ma quel servizio lì potrebbe farmelo! — disse a un tratto fra di sè e non dormì più quella notte, tanto gli piacque la trovata e andò a trovare Piedipapera appena fatto giorno, che ancora si stirava le braccia e sbadigliava sull’uscio. — Voi dovreste fingere che mi comprate il mio credito, — gli disse, — così potremo mandare l’usciere dai Malavoglia, e non vi diranno che fate l’usuraio, se volete riavere il vostro denaro, nè che è danaro del diavolo. — Vi è venuta stanotte la bella idea? — sghignazzò Piedipapera, che mi avete svegliato all’alba per dirmela? — Son venuto a dirvi pure per quei sarmenti; se li volete potete venire a pigliarveli. — Allora potete mandare per l’usciere, — rispose Piedipapera; — ma le spese le fate voi. — Quella buona donna di comare Grazia s’era affacciata apposta in camicia per dire a suo marito: — Cosa è venuto a confabulare con voi lo zio Crocifisso? Lasciateli stare quei poveri Malavoglia, che ne hanno tanti di guai! — Tu va a filare! — rispondeva compare Tino. — Le donne hanno i capelli lunghi ed il giudizio corto. — E se ne andò zoppicando a bere l’erbabianca da compare Pizzuto.
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— Vogliono dargli il cattivo Natale a quei poveretti, — mormorava comare Grazia colle mani sulla pancia.
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Davanti a ogni casa c’era la cappelletta adornata di frasche e d’arance, e la sera vi accendevano le candele, quando veniva a suonare la cornamusa, e cantavano la litania che era una festa per ogni dove. I bambini giocavano ai nocciuoli, nella strada, e se Alessi si fermava a guardare colle gambe aperte, gli dicevano:
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— Tu vattene, se non hai nocciuoli per giocare. — Ora vi pigliano la casa.
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Infatti la vigilia di Natale venne apposta l’usciere in carrozza pei Malavoglia, talchè tutto il paese si mise in subbuglio; e andò a lasciare un foglio di carta bollata sul canterano, accanto alla statua del Buon Pastore.
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— L’avete visto l’usciere che è venuto pei Malavoglia? — andava dicendo comare Venera. — Ora stanno freschi!
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Suo marito, che non gli pareva vero di aver ragione, allora cominciò a gridare e a strepitare.
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— Io l’avevo detto, santi del Paradiso! che quel ’Ntoni a bazzicare per la casa non mi piaceva!
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— Voi state zitto che non sapete nulla! — gli rimbeccava la Zuppidda. — Questi sono affari nostri. Le ragazze si maritano così, se no vi restano sulla pancia, come le casseruole vecchie.
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— Che maritare! ora che è venuto l’usciere!
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Allora la Zuppidda gli piantava le mani sulla faccia.
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— Che lo sapevate che doveva venire l’usciere? Voi abbaiate sempre a cose fatte, ma un dito, che è un dito, non lo sapete muovere. Infine l’usciere non se la mangia, la gente.
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L’usciere è vero che non si mangia la gente, ma i Malavoglia erano rimasti come se li avesse presi un accidente tutti in una volta, e stavano nel cortile, seduti in cerchio, a guardarsi in viso, e quel giorno dell’usciere non si misero a tavola in casa dei Malavoglia.
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— Sacramento! — esclamava ’Ntoni. — Siamo sempre come i pulcini nella stoppa, ed ora mandano l’usciere per tirarci il collo.
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— Cosa faremo? — diceva la Longa.
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Padron ’Ntoni non lo sapeva, ma infine si prese in mano la carta bollata e andò a trovare lo zio Crocifisso coi due nipoti più grandicelli, per dirgli di prendersi la Provvidenza, che mastro Bastiano l’aveva rattoppata allora allora, e al poveraccio gli tremava la voce come quando gli era morto il figlio Bastianazzo. — Io non so niente, — gli rispose Campana di legno. — Io non c’entro più. Ho venduto il mio credito a Piedipapera e dovete sbrigarvela con lui.
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Piedipapera appena li vide venire in processione cominciò a grattarsi il capo. — Cosa volete che ci faccia? — rispose lui; — io sono un povero diavolo e ho bisogno di quei denari, e della Provvidenza non so che farne, perchè non è il mio mestiere; ma se la vuole lo zio Crocifisso vi aiuterò a venderla. Or ora torno.
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Quei poveracci rimasero ad aspettare seduti sul muricciolo, e senza aver coraggio di guardarsi in faccia; ma gettavano occhiate lunghe sulla strada donde s’aspettava Piedipapera, il quale comparve finalmente adagio adagio — ma quando voleva sapeva arrancare speditamente colla sua gamba storpia. — Dice che è tutta rotta come una scarpa vecchia, e non sa che farsene; — gridò da lontano; — mi dispiace, ma non ho potuto far nulla. — Così i Malavoglia se ne tornarono a casa colla carta bollata in mano.
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Pure qualche cosa bisognava fare, perchè quella carta bollata lì, posata sul canterano, avevano inteso dire, si sarebbe mangiato il canterano, la casa e tutti loro.
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— Qui ci vuole un consiglio di don Silvestro il segretario, — suggerì Maruzza. — Portategli quelle due galline là, e qualche cosa vi saprà dire.
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Don Silvestro disse che non c’era tempo da perdere, e li mandò da un bravo avvocato, il dottor Scipioni, il quale stava di casa in via degli Ammalati, di faccia allo stallatico dello zio Crispino, ed era giovane, ma quanto a chiacchiere ne possedeva da mettersi in tasca tutti gli avvocati vecchi che pretendevano cinque onze per aprir la bocca, mentre lui si contentava di venticinque lire.
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L’avvocato Scipione stava facendo delle spagnolette, e li fece andare e venire due o tre volte prima di dar loro pratica; il bello poi era che andavano tutti in processione, l’un dietro l’altro, e da principio ci si accompagnava anche la Longa colla bimba in collo, per aiutare a dire le proprie ragioni, e così perdevano tutti la giornata. Quando poi l’avvocato ebbe letto le carte, e potè capire qualche cosa dalle risposte ingarbugliate che doveva strappare con le tenaglie a padron ’Ntoni, mentre gli altri se ne stavano appollaiati sulle loro scranne senza osare di fiatare, si mise a ridere di tutto cuore, e gli altri ridevano con lui, senza sapere perchè, per ripigliar fiato. — Niente, — rispose l’avvocato; — non c’è da far niente; — e siccome padron ’Ntoni tornava a dire che era venuto l’usciere, — L’usciere lasciatelo venire anche una volta al giorno, così il creditore si stancherà più presto di rimetterci le spese. Non potranno prendervi nulla, perchè la casa è dotale, e per la barca faremo il reclamo in nome di mastro Bastiano Zuppiddo. Vostra nuora non c’entra nella compera dei lupini.
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L’avvocato seguitò a parlare senza sputare, senza grattarsi il capo, per più di venticinque lire, talmente che padron ’Ntoni e i suoi nipoti si sentivano venire l’acquolina in bocca di parlare anche loro, di spifferare la loro brava difesa che si sentivano gonfiare in testa; e se ne andarono intontiti, sopraffatti da tutte quelle ragioni che avevano, ruminando e gesticolando le chiacchiere dell’avvocato per tutta la strada. Maruzza che stavolta non era andata, come li vide arrivare colla faccia rossa e gli occhi lucenti, si sentì sgravare di un gran peso anche lei, e si rasserenò in viso aspettando che dicessero quel che aveva detto l’avvocato. Ma nessuno apriva bocca e stavano a guardarsi l’un l’altro.
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— Ebbene, — domandò infine Maruzza la quale moriva d’impazienza.
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— Niente! non c’è paura di niente! — rispose tranquillamente padron ’Ntoni.
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— E l’avvocato? — Sì, l’avvocato l’ha detto lui che non ci è paura di niente.
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— Ma cosa ha detto? — insistè Maruzza.
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— Eh, lui sa dirle le cose; un uomo coi baffi! Benedette quelle venticinque lire!
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— Ma infine cos’ha detto di fare?
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Il nonno guardò il nipote, e ’Ntoni guardò il nonno. — Nulla, — rispose alfine padron ’Ntoni. — Ha detto di non far nulla.
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— Non gli pagheremo niente, — aggiunse ’Ntoni più ardito, — perchè non può prenderci nè la casa nè la Provvidenza.... Non gli dobbiamo nulla.
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— E i lupini?
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— È vero! e i lupini? — ripetè padron ’Ntoni.
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— I lupini?… Non ce li abbiamo mangiati, i suoi lupini; non li abbiamo in tasca; e non può prenderci nulla lo zio Crocifisso; l’ha detto l’avvocato, che ci rimetterà le spese.
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Allora successe un momento di silenzio; intanto Maruzza non sembrava persuasa.
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— Dunque ha detto di non pagare?
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’Ntoni si grattò il capo, e il nonno soggiunse:
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— È vero, i lupini ce li ha dati, e bisogna pagarli.
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Non c’era che dire. Adesso che l’avvocato non era più là, bisognava pagarli. Padron ’Ntoni scrollando il capo borbottava:
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— Questo poi no! questo non l’hanno mai fatto i Malavoglia. Lo zio Crocifisso si piglierà la casa, e la barca, e tutto, ma questo poi no!
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Il povero vecchio era confuso, ma la nuora piangeva in silenzio nel grembiule.
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— Allora bisogna andare da don Silvestro; — conchiuse padron ’Ntoni.
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E di comune accordo, nonno, nipoti e nuora, persino la bimba, andarono di nuovo in processione dal segretario comunale, per chiedergli come dovevano fare per pagare il debito, senza che lo zio Crocifisso mandasse dell’altre carte bollate, che si mangiavano la casa, la barca e tutti loro. Don Silvestro, il quale sapeva di legge, stava passando il tempo costruendo una gabbia a trappola che voleva regalare ai bambini della Signora. Ei non faceva come l’avvocato, e li lasciò chiacchierare e chiacchierare, seguitando ad infilar gretole nelle cannucce. Infine disse quel che ci voleva: — Orbè, se la gnà Maruzza ci mette la mano, ogni cosa si sarebbe aggiustata. — La povera donna non sapeva indovinare dove dovesse mettere la sua mano. — Dovete metterla nella vendita, — le disse don Silvestro, — e rinunziare all’ipoteca della dote, quantunque i lupini non li abbiate presi voi. — I lupini li abbiamo presi tutti! — mormorava la Longa, — e il Signore ci ha castigati tutti insieme col prendersi mio marito.
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Quei poveri ignoranti, immobili sulle loro scranne, si guardavano fra di loro, e don Silvestro intanto rideva sotto il naso. Poi mandò a chiamare lo zio Crocifisso, il quale venne ruminando una castagna secca, giacchè aveva finito allora di desinare, e aveva gli occhietti più lustri del solito. Dapprincipio non voleva sentirne nulla, e diceva che lui non ci entrava più, e non era affar suo. — Io sono come il muro basso, che ognuno ci si appoggia e fa il comodo suo, perchè non so parlare come un avvocato, e non so dire le mie ragioni; la mia roba par roba rubata, ma quel che fanno a me lo fanno a Gesù Crocifisso che sta in croce; — e seguitava a borbottare e brontolare colle spalle al muro, e le mani ficcate nelle tasche; nè si capiva nemmeno quel che dicesse per quella castagna che ci aveva in bocca. Don Silvestro sudò una camicia per fargli entrare in testa che infine i Malavoglia non potevano dirsi truffatori, se volevano pagare il debito, e la vedova rinunziava all’ipoteca. — I Malavoglia si contentano di restare in camicia per non litigare; ma se li mettete colle spalle al muro, cominciano a mandar carta bollata anche loro, e chi s’è visto s’è visto. Infine un po’ di carità bisogna averla, santo diavolone! Volete scommettere che se continuate a piantare i piedi in terra come un mulo, non avrete niente?
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E lo zio Crocifisso allora rispondeva: — Quando mi prendono da questo lato non so più che dire; — e promise di parlarne a Piedipapera. — Per riguardo all’amicizia io farei qualunque sacrificio. — Padron ’Ntoni poteva dirlo, se per un amico avrebbe fatto questo ed altro; e gli offrì la tabacchiera aperta, fece una carezza alla bimba, e le regalò una castagna. — Don Silvestro conosce il mio debole; io non so dir di no. Stasera parlerò con Piedipapera, e gli dirò di aspettare sino a Pasqua; purchè comare Maruzza ci metta la mano. — Comare Maruzza non sapeva dove bisogna metterla, la mano, e rispose che ce l’avrebbe messa anche subito. — Allora potete mandare a prendervi quelle fave che mi avete chiesto per seminarle; — disse poi lo zio Crocifisso a don Silvestro, prima di andarsene.
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— Va bene, va bene, — rispose don Silvestro; — lo so che per gli amici avete il cuore grande quanto il mare.
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Piedipapera davanti alla gente non voleva sentir parlare di dilazione; e strillava e si strappava i capelli, che lo volevano ridurre in camicia, e volevano lasciarlo senza pane per tutto l’inverno, lui e sua moglie Grazia, dopo che l’avevano persuaso a comprare il debito dei Malavoglia, e quelle erano cinquecento lire l’una meglio dell’altra, che s’era levate di bocca per darle allo zio Crocifisso. Sua moglie Grazia, poveretta, spalancava gli occhi, perchè non sapeva di dove li avesse presi quei denari, e metteva buone parole pei Malavoglia, i quali erano brava gente, e tutti li avevano sempre conosciuti per galantuomini nel vicinato. Lo zio Crocifisso adesso prendeva anche lui la parte dei Malavoglia. — Han detto che pagheranno, e se non potranno pagare vi lasceranno la casa. La gnà Maruzza ci metterà la mano anche lei. Non lo sapete che al giorno d’oggi per avere il fatto suo bisogna fare come si può? — Allora Piedipapera s’infilò il giubbone di furia, e se ne andò via bestemmiando, che facessero pure come volevano, lo zio Crocifisso e sua moglie, giacchè lui non contava per nulla in casa.
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VII.
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Quello fu un brutto Natale pei Malavoglia; giusto in quel tempo anche Luca prese il suo numero alla leva, un numero basso da povero diavolo, e se ne andò a fare il soldato senza tanti piagnistei, che oramai ci avevano fatto il callo. Stavolta ’Ntoni accompagnando il fratello col berretto sull’orecchio, talchè pareva fosse lui che partisse, gli diceva che non era nulla, e anche lui aveva fatto il soldato. Quel giorno pioveva, e la strada era tutta una pozzanghera.
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— Non voglio che mi accompagniate, — ripeteva Luca alla Mamma; — già la stazione è lontana. — E stava sull’uscio a veder piovere sul nespolo, col suo fardelletto sotto il braccio. Poi baciò la mano al nonno e alla mamma, e abbracciò Mena e i fratelli.
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Così la Longa se lo vide partire sotto l’ombrello, accompagnato da tutto il parentado, saltando sui ciottoli della stradicciuola ch’era tutta una pozzanghera, e il ragazzo siccome era giudizioso quanto il nonno, si rimboccò i calzoni sul ballatoio, sebbene non li avrebbe messi più, ora che lo vestivano da soldato.
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— Questo qui non scriverà per danari, quando sarà laggiù, — pensava il vecchio; — e se Dio gli dà giorni lunghi, la tira su un’altra volta la casa del nespolo. Ma Dio non gliene diede giorni lunghi, appunto perchè era fatto di quella pasta; — e quando giunse più tardi la notizia che era morto, alla Longa le rimase quella spina che l’aveva lasciato partire colla pioggia, e non l’aveva accompagnato alla stazione.
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— Mamma! — disse Luca tornando indietro, perchè gli piangeva il cuore di lasciarla così zitta zitta sul ballatoio, come la Madonna addolorata; — quando tornerò vi avviserò prima, e così verrete ad incontrarmi tutti alla stazione. — E quelle parole Maruzza non le dimenticò finchè le chiusero gli occhi; e sino a quel giorno si portò fitta nel cuore quell’altra spina che il suo ragazzo non assisteva alla festa che si fece quando misero di nuovo in mare la Provvidenza, mentre c’era tutto il Paese, e Barbara Zuppidda s’era affacciata colla scopa per spazzar via i trucioli. — Lo faccio per amor vostro; — aveva detto a ’Ntoni di padron ’Ntoni; — perchè è la vostra Provvidenza.
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— Voi colla scopa in mano sembrate una regina: — rispose ’Ntoni. — In tutta Trezza non c’è una brava massaia come voi!
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— Ora che vi portate via la Provvidenza non ci verrete più da queste parti, compare ’Ntoni.
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— Sì che ci verrò. E poi per andare alla sciara questa è la strada più corta.
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— Ci verrete per vedere la Mangiacarrubbe, che si mette alla finestra quando passate.
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— La Mangiacarrubbe gliela lascio a Rocco Spatu, chè ci ho altro pel capo.
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— Chissà quante ce ne avete in testa, delle belle ragazze di fuori regno, non è vero?
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— Qui ce n’è pure delle belle ragazze, comare Barbara, e lo so io.
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— Davvero?
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— Per l’anima mia!
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— O a voi che ve ne importa?
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— Me ne importa, sì! ma ad esse non gliene importa di me, perchè ci hanno i zerbinotti che passeggiano sotto le finestre, colle scarpe inverniciate.
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— Io non le guardo nemmeno, le scarpe inverniciate, per la Madonna dell’Ognina! La mamma dice che le scarpe inverniciate son fatte per mangiarci la dote e ogni cosa; e qualche bel giorno vuole uscire fuori sulla strada, colla rocca in mano, a fare una commedia con quel don Silvestro, se non mi lascia in pace.
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— Che lo dite sul serio, comare Barbara?
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— Sì, davvero!
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— Questa cosa mi piace! — disse ’Ntoni.
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— Sentite, andateci il lunedì alla sciara , quando mia madre va alla fiera.
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— Al lunedì il nonno non mi lascerà pigliar fiato, ora che mettiamo in mare la Provvidenza.
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Appena mastro Turi disse che la barca era in ordine, padron ’Ntoni venne a pigliarsela coi suoi ragazzi, e tutti gli amici, e la Provvidenza, mentre camminava verso la marina, barcollava sui sassi come avesse il mal di mare, in mezzo alla folla.
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— Date qua! — gridava più forte di tutti compare Zuppiddu; ma gli altri sudavano e gridavano per spingerla sui regoli, quando la barca inciampava nei sassi. — Lasciate fare a me; se no me la piglio in braccio come una bambina, e ve la metto nell’acqua tutta in una volta.
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— Compare Turi è capace di farlo, con quelle braccia! — dicevano alcuni. Oppure: — Adesso i Malavoglia si mettono di nuovo a cavallo.
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— Quel diavolo di compare Zuppiddu ci ha le fate nelle mani! — esclamavano. — Guardate come l’ha ridotta, che prima sembrava una scarpaccia vecchia addirittura!
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E davvero adesso la Provvidenza sembrava tutt’altra cosa, lucente della pece nuova, e con quella bella fascia rossa lungo il bordo, e sulla poppa il San Francesco colla barba che sembrava di bambagia, talchè persino la Longa si era riconciliata colla Provvidenza, da quando era tornata senza suo marito, e aveva fatto la pace per la paura, ora che era venuto l’usciere.
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