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Unga_2 - 1939-1952 - Un grido e paesaggi.txt
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Unga_2 - 1939-1952 - Un grido e paesaggi.txt
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MONOLOGHETTO
-
Sotto le scorze, e come per un vuoto,
Di già gli umori si risentono,
Si snodano, delirando di gemme:
Conturbato, l’inverno nel suo sonno,
Motivo dando d’essere
Corto al Febbraio, e lunatico,
Più non è, nel segreto, squallido;
Come di sopra a un biblico disastro,
Nelle apparenze, il velario si leva
Lungo un lido, che da quell’attimo
Si scruta per ripopolarsi:
Di tanto in tanto riemergenti brusche
Si susseguono torri;
Erra, di nuovo in cerca d’Ararat,
Con solitudini salpata l’arca;
Ai colombai risale l’imbianchino.
Sopra i ceppi del roveto dimoia
Per la Maremma
E
Qua e là spargersi s’ode,
Di volatili in cova,
Bisbigli, pigolii;
Da Foggia la vettura
A Lucera correndo
Con i suoi fari inquieta
I redi negli stabbi;
Dentro i monti còrsi, a Vivario,
Uomini intorno al caldo a veglia
Chiusi sotto il lume a petrolio nella stanza,
Con i bianchi barboni sparsi
Sulle mani poggiate sui bastoni,
Morsicando lenti la pipa
Ors’Antone che canta ascoltano,
Accompagnato dal sussurro della rivergola
Vibrante di tra i denti
Del ragazzo Ghiuvanni:
-
Tantu lieta è la sua sorte
Quantu torbida è la mia.
-
Di fuori infittisce uno scalpiccìo
Frammischiato a urla e gorgoglio
Di suini che portano a scannare, scannano,
Principiando domani Carnevale,
E con immoto vento ancora nevica.
Lasciate dietro tre pievi minuscole
Sul pendio scaglionate
Con i tetti rossi di tegole
Le case più recenti
E,
Coperte di lavagna,
Le più vecchie quasi invisibili
Nella confusione dell’alba,
L’aromatica selva
Di Vizzavona si attraversa
Senza mai scorgerne dai finestrini
I larici se non ai tronchi,
E per brandelli,
E
Da Levante si passa poi dei monti,
E l’autista anche a voce il serpeggìo:
-
Sulìa, umbrìa, umbrìa,
-
Segue, se lo ripete
E, o a Levante o a Ponente, sempre in monti,
Torna il nodo a alternarsi e, peggio,
La clausura distesa:
Non ne dovrà la noia mai finire?
E,
A più di mille metri
D’altezza, la macchina infila
Una strada ottenuta nel costone,
Stretta, ghiacciata,
Sporta sul baratro.
Il cielo è un cielo di zaffiro
E ha quel colore lucido
Che di questo mese gli spetta,
Colore di Febbraio,
Colore di speranza.
Giù, giù, arriva fino
A Ajaccio, un tale cielo,
Che intirizzisce, ma non perché freddo,
Perché è sibillino;
Giù, arriva giù, un tale
Cielo, fino a attorniare un mare buio
Che nelle viscere si soffoca
Il mugghiare continuo,
Ed incede il Neptunia.
A Pernambuco attracca
E,
Tra le barchette in dondolo,
E titubanti chiattole
Sul lustro elastico dell’acqua,
Nel breve porto impone, nero,
L’ingombro svelto del suo netto taglio.
Ovunque, per la scala della nave,
Per le strade gremite,
Sui predellini del tramvai,
Non c’è più nulla che non balli,
Sia cosa, sia bestia, sia gente,
Giorno e notte, e notte
E giorno, essendo Carnevale.
Ma meglio di notte si balla,
Quando, uggiosi alle tenebre,
Dalla girandola dei fuochi, fiori,
Complici della notte,
Moltiplicandone gli equivoci,
Tra cielo e terra grandinano
Screziando la marina livida.
Si soffoca dal caldo:
L’equatore è a due passi.
Non penò poco l’Europeo a assuefarsi
Alle stagioni alla rovescia,
E, più che mai, facendosi
Il suo sangue meticcio:
Non è Febbraio il mese degli innesti?
E ancora più penò,
Il suo sangue, facendosi mulatto
Nel maledetto aggiogamento
D’anime umane a lavoro di schiavi;
Ma, nella terra australe,
Giunse alla fine a mettere a un solleone,
La propria più inattesa maschera.
Non smetterà più di sedurre
Questo Febbraio falso
E,
Fradici di sudore e lezzo,
Stralunati si balli senza posa
Cantando di continuo, raucamente,
Con l’ossessiva ingenuità qui d’uso:
-
Ironia, ironia
Era só o que dizia.
-
Il ricordare è di vecchiaia il segno,
Ed oggi alcune soste ho ricordate
Del mio lungo soggiorno sulla terra,
Successe di Febbraio,
Perché sto, di Febbraio, alla vicenda
Più che negli altri mesi vigile.
Gli sono più che alla mia stessa vita
Attaccato per una nascita
Ed una dipartita;
Ma di questo, non è momento di parlare.
E anch’io di questo mese nacqui.
Era burrasca, pioveva a dirotto
A Alessandria d’Egitto in quella notte,
E festa gli Sciiti
Facevano laggiù
Alla luna detta degli amuleti:
Galoppa un bimbo sul cavallo bianco
E a lui dintorno in ressa il popolo
S’avvince al cerchio dei presagi.
Adamo ed Eva rammemorano
Nella terrena sorte istupiditi:
È tempo che s’aguzzi
L’orecchio a indovinare,
E una delle Arabe accalcate, scatta,
Fulmine che una roccia graffia
Indica e, con schiumante bocca, attesta:
-
Un mahdi, ancora informe nel granito,
Delinea le sue braccia spaventose;
-
Ma mia madre, Lucchese,
A quella uscita ride
Ed un proverbio cita:
-
Se di Febbraio corrono i viottoli,
Empie di vino e olio tutti i ciottoli.
-
Poeti, poeti, ci siamo messi
Tutte le maschere;
Ma uno non è che la propria persona.
Per atroce impazienza
In quel vuoto che per natura
Ogni anno accade di Febbraio
Sul lunario fissandosi per termini:
Il giorno della Candelora
Con il riapparso da penombra
Fioco tremore di fiammelle
Di sull’ardore
Di poca cera vergine,
E il giorno, dopo qualche settimana,
Del Sei polvere e ritornerai in polvere;
Nel vuoto, e per impazienza d’uscirne,
Ognuno, e noi vecchi compresi
Con i nostri rimpianti,
E non sa senza propria prova niuno
Quanto strozzi illusione
Che di solo rimpianto viva;
Impaziente, nel vuoto, ognuno smania,
S’affanna, futile,
A reincarnarsi in qualche fantasia
Che anch’essa sarà vana,
E ne è sgomento,
Troppo in fretta svariando nei suoi inganni
Il tempo, per potersene ammonire.
Solo ai fanciulli i sogni s’addirebbero:
Posseggono la grazia del candore
Che da ogni guasto sana, se rinnova
O se le voci in sé, svaria d’un soffio.
Ma perché fanciullezza
È subito ricordo?
Non c’è, altro non c’è su questa terra
Che un barlume di vero
E il nulla della polvere,
Anche se, matto incorreggibile,
Incontro al lampo dei miraggi
Nell’intimo e nei gesti, il vivo
Tendersi sembra sempre.
-
-
-
GRIDASTI: SOFFOCO
-
Non potevi dormire, non dormivi...
Gridasti: Soffoco...
Nel viso tuo scomparso già nel teschio,
Gli occhi, che erano ancora luminosi
Solo un attimo fa,
Gli occhi si dilatarono... Si persero...
Sempre ero stato timido,
Ribelle, torbido; ma puro, libero,
Felice rinascevo nel tuo sguardo...
Poi la bocca, la bocca
Che una volta pareva, lungo i giorni,
Lampo di grazia e gioia,
La bocca si contorse in lotta muta...
Un bimbo è morto...
-
Nove anni, chiuso cerchio,
Nove anni cui né giorni, né minuti
Mai più s’aggiungeranno:
In essi s’alimenta
L’unico fuoco della mia speranza.
Posso cercarti, posso ritrovarti,
Posso andare, continuamente vado
A rivederti crescere
Da un punto all’altro
Dei tuoi nove anni.
Io di continuo posso,
Distintamente posso
Sentirti le mani nelle mie mani:
Le mani tue di pargolo
Che afferrano le mie senza conoscerle;
Le tue mani che si fanno sensibili,
Sempre più consapevoli
Abbandonandosi nelle mie mani;
Le tue mani che diventano secche
E, sole – pallidissime –
Sole nell’ombra sostano...
La settimana scorsa eri fiorente...
-
Ti vado a prendere il vestito a casa,
Poi nella cassa ti verranno a chiudere
Per sempre. No, per sempre
Sei animo della mia anima, e la liberi.
Ora meglio la liberi
Che non sapesse il tuo sorriso vivo:
Provala ancora, accrescile la forza,
Se vuoi – sino a te, caro! – che m’innalzi
Dove il vivere è calma, è senza morte.
-
Sconto, sopravvivendoti, l’orrore
Degli anni che t’usurpo,
E che ai tuoi anni aggiungo,
Demente di rimorso,
Come se, ancora tra di noi mortale,
Tu continuassi a crescere;
Ma cresce solo, vuota,
La mia vecchiaia odiosa...
-
Come ora, era di notte,
E mi davi la mano, fine mano...
Spaventato tra me e me m’ascoltavo:
È troppo azzurro questo cielo australe,
Troppi astri lo gremiscono,
Troppi e, per noi, non uno familiare...
-
(Cielo sordo, che scende senza un soffio,
Sordo che udrò continuamente opprimere
Mani tese a scansarlo...)
-
-
SVAGHI
-
1
L’altra mattina, le mie dita si sorpresero a sfogliare il registro dove conservo i ritagli dei miei vecchi articoli alla «Gazzetta del Popolo», e mi attirò una descrizione della Primavera. Stagione bellissima, bella; ma crudele nel manifestarsi. Mi misi a rilavorare quel passo, tornai a meditare su quel tema. Certamente fu uno svago, e ci rimasi ancora impigliato quando, nel sogno a occhi aperti, la fila dei ragazzi in bicicletta già essendo davanti all’Aia e accelerando la corsa verso la Reggia, mi trattenni a riaspettare che ricalasse la notte olandese, e, affaccendata nel silenzio, la riudissi.
-
VOLARONO
Amsterdam, Marzo 1933
-
Di sopra dune in branco pavoncelle
Volarono e, quella sera, troppo vitrea,
Si ruppe con metallici riflessi
A lampi verdi, turchini, porporini.
Pavoncelle calate qui,
In Sardegna svernato, l’altro giorno.
Le odo, mentre camminano non viste,
Che, frugando se capiti un lombrico,
Per non smarrirsi, di già è buio, stridono.
Tornate al nido, all’alba domattina,
Lo troveranno vuoto,
E la prima dozzina degli ovetti
Scovati («Zitti!» «Piano!») dai monelli,
Si porta in bicicletta a Guglielmina,
È Primavera.
-
È DIETRO
Amsterdam, Marzo 1933
-
È dietro le casipole il porticciuolo
Con i burchielli pronti a scivolare
Dentro strette lunghissime di specchi,
Ed una vela, farfalla colossale,
Ha raso l’erba e, dietro le casipole,
Va gente, con le vetrici s’intreccia,
Nelle nasse si schiudono occhi, va...
-
2
Una ciliegia, s’usa dire, tira l’altra, e nella memoria – nella memoria e nel sogno a occhi aperti – una seconda Primavera accorse.
Fu a Ravenna, sul finire dello scorso Marzo. Nel Mausoleo di Galla Placidia, l’azzurro intenso fino alla disperazione, può, per l’intimo furore del fuoco, fondersi e polverizzarsi in raggi; può, fuori, sbiadirsi l’azzurro, essere il cielo celeste, azzurro quasi bianco, diafano, assetante, come in perenne senza macchia, persino come intollerante che a placarlo avvenga s’azzardi il posarsi carezzevole d’un nonnulla di nube; l’azzurro può persino guastarsi, riflettendosi alla lastra d’acqua impaziente di già d’affiorare, lucida, sull’erba, o, nel Sepolcro di Teodorico, glauca, inviscidendo il muro, acqua ricordo corrotto, ricordo, sterile più che mai, dell’azzurro, oppure, secondo i momenti, livida, acqua in crescente annebbiamento per assenza, per l’approfondirsi dello smarrimento per l’assenza dell’azzurro, lastra d’acqua colore occhi morti; può esserci attorno tutto questo vario azzurro d’inarrivabile bellezza, ma l’amore quando insorge nei giovani è indifferente a tutto fuorché a sé stesso, ed ha ragione. Ci si accorge dell’azzurro – è verità – quando l’amore non può essere che malinconia, quando ogni luogo pare non ospitare più se non malinconia.
Ah, dimenticavo: i colombi qui non vogliono essere che giovani colombi: per colore cangiante e per gesta, fremano essi dai sassolini dei mosaici o corrano pei campi o sui lastrici, sono animali veri, proprio animali – vi stupisce? – nel senso ornitologico della parola anche se – si somigliano nella brama fisica tutti gli animali – arrivino a parermi antropomorfi, se fantastico.
-
-
-
SALTELLANO
Ravenna, Marzo 1952
-
Saltellano coi loro passettini
E mai non veglieranno castamente:
Essi sono colombi. Né l’azzurro
(Che da ori evade e minii,
Si posa su erbe, avviva,
Orme come di chiocciola,
Viola stana, protrae)
S’incanti tutto solo,
O strisci, brancoli, persista cupo,
Può giungere a distorli
Dal mutuo folle loro dichiararsi.
-
3
Mi soffermai poi a guardare Pleiadi, la recente raccolta di frammenti di lirica greca apparsa in Roma con l’ottimo commento di Filippo Maria Pontani, e, sempre per svagarmi, mi provai a indovinare per eventuali miei versi qualche nuova combinazione metrica. Mi resi alla fine conto che una strofa formata d’endecasillabi e d’ottonari che trovassero la massima energia alla settima sillaba, e gli altri accenti alla prima, alla quarta e alla decima, poteva contenere uno sviluppo ritmico di straordinaria gravità. Fu questo movimento ritmico divenutomi ossessivo nell’udito, che l’animo alla fine dovette esigere articolasse le parole che fra poco udrete. Esercizio metrico nel senso tecnico, esso è, e non solo. Mi vuole di più rammentare la misura che all’uomo è il suo corpo provvisorio. Indispensabile misura essendo il corpo lo strumento con il quale l’uomo si foggia la sua realtà immortale; ma, a sorte definita di quell’umana persona cui appartiene, cui segna il tempo, il corpo va in nulla. E se, anche a un vecchio, è terrorizzante l’ora della scissura, un vecchio è già tanto staccato dal corpo, lo sente tanto già come un peso che può succedergli di sognare la liberazione da quel peso, di sospirare il riposo finalmente per il corpo, l’acquisto per l’anima d’un’infinita leggerezza.
-
ESERCIZIO DI METRICA
Roma, il 15 Luglio 1952
-
Temi perché di in te udire,
Senza più illuderti, avvisi
Della rodente invadente
Terra? La culla tua solo era immagine
Di sepoltura, e credesti, gran frivolo,
Te moscerino alla fiamma uguagliasse.
L’urto patito che scinde,
Sorte ripresati Eterno, se, già
Fetida, l’alvo reclami che
È orrido a ingenui, la spoglia tua,
Giù essa sarà, dal suo mistero esule,
Sparsa nel sonno, non sozza, vera.
-
-
-
SEMANTICA
Come dovunque in Amazzonia, qua
L’angìco abbonda, e già scoprirsi vedi
Alcuni piedi di sapindo,
Il libarò dei Guaranì;
E, di rado, di qui o di là,
I cautsciò si adunano in boschetti,
Riposo all’ombra sospirata d’alberi
Di fusto dritto ed alto,
Di scorza come d’angue,
Cari ai Cambebba.
Di lontano li scorgi
Mentre più torrido t’opprime il chiaro
E più ti lega il tedio
E gira moltitudine famelica
Di moschine invisibili,
Quando, di fitte foglie a tre per tre,
Con luccichio ti svelano verdissimo
D’un subito le cupole e la stanza,
Tremuli fino al suolo.
Sai che vi dondola per te un’amaca.
I tronchi ne feriscono e, col succo,
Zufoli ed otri plasmano quegli Indi;
Oggetti il cui destino conviviale
Nel Settecento nominare fa
A Portoghesi lepidi
Seringueira, l’appiccicosa pianta,
E dirne la sostanza,
Arcadi cocciuti, seringa,
Chi la va raccogliendo, seringueiro,
L’irrequieto boschetto, seringal,
Con suoni ormai solo da clinica.
-