Luigi Gualdo LA GRAN RIVALE LA GRAN RIVALE Quando essi passavano dandosi il braccio, guardandosi con occhi che ben si vedeva erano senza segreti l’un per l’altro, con quell’armonia di andatura che indica l’armonia dei pensieri, era impossibile che in quelli che comprendono non destassero involontariamente un senso d’invidia. Si seguivano con lo sguardo e dopo non si poteva a meno che, fantasticando, seguire col pensiero nella loro vita quei due esseri che davvero sembravano eccezionalmente felici. Tornavano a mente allora tutte le scoraggianti elegie che negano ogni felicità in questa valle di miserie e non si poteva a meno di pensare quanto quei due ch’erano passati ne fossero una vivente contradizione, e ciascuno sentiva persino le proprie idee tristi e tetre svanire come la neve al sole, e insieme all’amaro dell’invidia sorgere in cuore il dolce della speranza. Essi erano una bella coppia davvero. Ella era una fra le donne che non si dimenticano facilmente e la cui bellezza, se non fulmina a primo aspetto, commove però fortemente ogni volta che si rivede. Imaginatevi un ovale di volto non perfettissimo, ma espressivo e caratteristico al sommo grado; dei capelli bruni a riflessi più chiari, finissimi e folti; degli occhi grandi, tagliati in forma di mandorla, dallo sguardo buono e penetrante; una bocca che attira, fresca e purissima, un nasino non greco e forse un po’ cosmopolita, ma talmente fatto per quel viso da non sembrare possibile in qualunque altro, una fronte perfetta, delle sopracciglia d’un arco purissimo, e sparsa sopra tutto ciò una tinta di malinconia consolata che riempiva l’anima di chi guardasse di pensieri sereni. Seduceva il suo corpo, benchè non ricordasse la maestà dei modelli antichi; piuttosto alta, con una vita flessibile da cui si allargava un busto perfetto di forma. Il suo piccolo piede era affascinante per la forma e il movimento e per l’aristocratica attaccatura. Egli era un bel giovane di trent’anni, con una di quelle fisonomie espressive in cui è impresso indelebilmente il marchio dell’intelligenza e dove ogni linea esprime una tendenza o un sentimento; la bocca, forse un po’ grande, aveva un sorriso pieno di bontà e d’ironia al tempo istesso, e fra li occhi apparivano quelle due piccole rughe perpendicolari, segno di una volontà feconda. Nell’insieme era una di quelle figure che a primo aspetto invogliano a stendere la mano. Tutti quelli che viaggiano molto li vedevano spesso quando meno se l’aspettavano; si scorgevano passeggiare sui boulevards e non era difficile incontrarli una settimana dopo sulle ghiacciaie o sul Righi; nella sala del casino di Baden o a Nizza sulla promenade des Anglais — ed essi erano una macchietta simpatica per qualunque scena. Certo li avrete veduti qualche volta in una barchetta qualunque, di autunno sul lago di Como e mirandoli stretti l’un contro l’altro il cielo vi sarà sembrato più azzurro e la brezza più soave. Era bello vedere — quando correvano per i monti — la tenera sollecitudine con la quale egli la sorreggeva nei passi difficili e le dava la mano per saltare da qualche macigno e la serena confidenza con la quale ella si appoggiava al suo braccio! E allora il sorriso abbozzato sulla bocca dell’uno si disegnava su quella dell’altro. Ma la loro dimora abituale era Firenze, e tutti i giorni s’incontravano sul Lungarno e alle Cascine, e spesso quando il sole era tramontato e l’ombra scendeva, la loro carrozza s’internava nel folto delle piante, e allora la testa di lei si appoggiava sulla spalla dell’amante. Questa parola s’è pur dovuto scriverla, poichè nemmeno la più piccola apparenza di cerimonia civile o religiosa li aveva uniti. Ed essi si permettevano pel momento di assaporare tutta la felicità che può essere concessa quaggiù. La loro storia, il loro romanzo se si vuole, era una prova di più che molto spesso in questa vita le circostanze ne obbligano a seguire una strada assai diversa da quella che si voleva percorrere. Si erano parlati per la prima volta in una di quelle fiere di beneficenza, dove le signore fanno salire ad una cifra arbitraria il prezzo degli oggetti più insignificanti, a seconda del sorriso con cui li accompagnano. Alberto aveva già veduto molte volte la bella signora O***, come tutti chiamavano la nostra eroina, e l’aveva ammirata — tanto più ch’egli era particolarmente attirato da quel genere di bellezza moderna il cui fascino principale sta nell’espressione indefinibile; ma non la conosceva. Quel giorno una signora che si trovava allo stesso banco lo presentò. Non furono scambiate che poche frasi di circostanza, accompagnate dall’inevitabile: «Spero che avrò il piacere di vederlo qualche volta» che una signora dice sempre quando parla con qualcuno che conosce da molto tempo di nome. Alberto vi andò pochi giorni dopo, ma, dobbiamo dirlo col massimo dispiacere e chiedendone scusa alle lettrici amanti dei colpi di fulmine nella passione, essi non si amarono il primo giorno che si conobbero, e nemmeno il secondo, e nessuna scintilla passò dallo sguardo di lui in quello di lei. I loro cuori non cozzarono l’un contro l’altro come due proiettili e non ebbero sul principio vicendevolmente che una di quelle frivole simpatie come se ne possono avere per dieci persone a un tempo. La famiglia di lei era assai ristretta finanziariamente, quasi povera. Erano in molti e i danari pochi, dimodochè quando il signor O*** si presentò e chiese la sua mano, la proposta fu accolta con l’entusiasmo di una felicità «ch’era follia sperar». Quando ella era giunta ai sedici anni e che le vesti corte si erano dovute allungare dello strascico, all’affacciarsi di quel problema inquietante ch’è il matrimonio per le fanciulle che hanno per sola dote la freschezza verginea della guancia, la povera madre aveva sentito l’angoscia che tutte le madri in simili circostanze provano, e sebbene quando quella fortuna inaspettata si presentò, ella le dicesse: «Emilia, pensaci bene prima di accettare e fa solo quello che il tuo cuore ti consiglia,» lo disse però con una paura terribile di un rifiuto, e udendo la risposta affermativa della fanciulla le gettò le braccia al collo con uno slancio irreprimibile di riconoscenza materna. O*** era un negoziante di seta, assai ricco, generoso, volgare. Giovane ancora, benchè cominciasse ad impinguare un tantino, egli era stato il sogno di moltissime fanciulle, e la sua scelta per l’Emilia, che «non aveva un soldo,» fu causa di rabbioso stupore per tutte. Rideva di un riso forte, spontaneo, inatteso; amava le donne, i cavalli e i romanzi di Ponson du Terrail, del resto un buon diavolo nel significato più elastico della parola, e capace perfino di una buona azione. Concesse a sè medesimo il lusso di sposare una bella giovane senza dote, perchè ciò era nei suoi mezzi; inoltre perchè Emilia gli piaceva assai ed era una donna come la voleva lui, «senza pretesa.» Il corredo fu magnifico e dopo sei mesi di matrimonio, Emilia era ancora «felicissima.» Un anno però era appena trascorso, che già le cose cominciarono a mutare. O*** aveva una dopo l’altra riprese molte delle sue abitudini di scapolo; gli affari lo occupavano nella giornata; prima di pranzo andava a fare un giro a cavallo e dopo accompagnava sua moglie in teatro o in qualche casa, ove la lasciava e non ritornava a casa che al mattino. Del resto, sempre gentilissimo con lei, preveniva i suoi desiderii, non diceva una parola per i conti piuttosto lunghi e era raramente di cattivo umore. Un piccolo erede era apparso all’orizzonte. Emilia lo aveva sposato perchè non sperava trovar meglio; ma capì in brevissimo che non lo avrebbe mai amato. Pure soffriva alcun poco nell’amor proprio vedendo quanto facilmente egli avesse riprese le sue abitudini di prima. Ella era un novello astro sorto nel mondo elegante (come dicono i giornalisti), e non tardò molto ad attirare gli sguardi. Tutti aspirarono al piacere di conoscerla, e in breve ebbe ogni giorno dopo le quattro la visita d’un certo numero di uomini che tutti si credevano in obbligo di farle la corte o di far credere che gliela facessero. Qualche signora dell’altissima società si degnò di accordarle la sua amicizia; fu di tutte le feste, di tutti i divertimenti. Cominciò per lei quella vita che comincia per tutte le donne in simile posizione; fece parlare di sè in modo vago senza però che nè le dicerie nè i pettegolezzi potessero appoggiarsi su alcun che di sicuro, suscitò qua e là qualche passione, eccitò molte rivalità che riuscirono dolci al suo orgoglio muliebre, divenne di una certa abilità nella diplomazia femminile. Quando ella conobbe Alberto, qualche anno era passato e le cose erano in parte cambiate. Finanziariamente eransi piuttosto abbassati, poichè O*** sul principio aveva speso un po’ troppo, e aggiungendosi a ciò qualche speculazione fallita, era stato necessario restringere le spese. Inoltre un vero dolore l’aveva colpita, la perdita del suo bambino, morto a due anni, e ciò faceva sì che la vita relativamente ritirata ch’era ora costretta di condurre, non le riusciva gravosa; cominciava a sentire un po’ di quella stanchezza che si sente quando manca uno scopo alla vita e quando all’istesso tempo si ha conosciuto l’amarezza. Ella amava quel suo bimbo con tutte le prepotenze dell’amore materno, sì che fu per lei un intenso dolore quando con la calma desolante di quell’età se ne ritornò d’onde era venuto. Altre ragioni di minor peso, e composte di una tal quantità di piccoli incidenti da rendere malagevole il particolareggiarle, vennero a rattristarla. Sul principio, appena maritata, il poter sodisfare la maggior parte dei suoi capricci, l’accoglienza benevola e quasi festosa che le venne fatta da ogni parte, i divertimenti molteplici a cui era stata fin allora così poco abituata, tutte insomma le piacevoli novità del suo nuovo stato valsero a renderle la vita lieta ed occupata; poi vi erano state le gioie della maternità; ma quando queste l’erano state tolte crudelmente, quando i capricci era stato forza moderarli, quando la società si era occupata meno di lei, e i divertimenti avevano perduto a poco a poco il brio della novità, la vita l’era apparsa vuota e triste. — Si trovava sola, con un marito che non amava e che si curava poco di lei, a cui ora le preoccupazioni di danaro e le difficoltà toglievano l’allegria, con molte frivole conoscenze e quasi senza amici, un po’ abbandonata dalla sua famiglia, e sentendosi calare addosso lentamente il peggiore dei nemici, il più stupido dei mali — la noia. Vi era però, come si potrà ben credere, nell’anima sua una corda che non aveva ancor vibrato e che chiedeva di vibrare; quella voce segreta ed insistente che tutti ne commove a un momento o l’altro, ella l’udiva, e comprendeva che vi è qualcosa di più di quello che le veniva concesso. Per una donna che trovandosi nella posizione di Emilia finisce col cedere al desio di cui sentesi ricolma e che cade, tutto è complice della sua caduta; dovrebbero i moralisti accusarne tutto e tutti, incominciando pure dalle leggi sociali, ma annoverando perfino la brezza della sera che le accarezza i capelli. Pur troppo, spinta dalla brama di bere qualcosa di più saporito che la tazza insipida della vita abituale, correndo pazzamente alla ricerca di quella dolcezza sublime e sconosciuta, molte volte scambia l’apparenza per la realtà, la copia abbietta per l’originale fulgente, e si accorge più tardi con una fitta terribile al cuore, causa di guai infiniti, che ciò ch’ella ha cercato non lo ha trovato ancora, e allora le restano più violente che mai e meno pure le aspirazioni di prima, con le illusioni di meno, e spesso il rimorso di più. È presso a poco lo stato d’animo in cui ella si trovava quando conobbe Alberto. Avvolta nella tristezza di una vita vuota ed annoiata, aveva tentato fare come le altre che parevano trovare la felicità nell’amore, ma subito aveva rigettata la prova, scoraggita. Alberto era un giovane com’ella non ne aveva conosciuto ancora — abituata a non vedere altro che i soliti tipi d’uomini di società, come si trovano dappertutto. Egli era solo al mondo; non avendo quasi conosciuta sua madre ed essendo il padre morto prematuramente, gravissima perdita per lui. Appena incominciati, aveva abbandonato gli studi classici per darsi alla pittura, sentendosi da fortissima vocazione spinto verso quell’arte. Frequentò assiduamente le scuole, studiò, ebbe l’illusione prodotta da una facilità sorprendente di esecuzione che viene molte volte scambiata con l’ingegno — ma la riuscita non fu proporzionata all’attesa. — Si ostinò, lottò gagliardamente, ma fallì e dovette persuadersi che ciò ch’egli aveva creduto ispirazione era soltanto prestezza di mano, che la via che gli pareva gli venisse additata dalla forza, del genio non era più sua che un’altra, che la vocazione reputata irresistibile e profonda era una vocazione falsa. Dovette convincersi ch’egli era uno dei centomila illusi che inciampano tutti i giorni e si staccano e spossano sulla via ch’essi avevano sperato potere percorrere correndo e quasi volando. — Eppure spesse volte qualcosa si ribellava in lui contro a questo crudele giudizio ch’egli aveva avuto il coraggio di pronunziare; sentiva che malgrado tutto egli era artista, sentiva che se non riesciva a concretare i sogni che gli passavano per la mente, però erano suoi ed unicamente suoi; che se non sapeva tradurre sulla tela i sentimenti, i pensieri, le fantasie, avrebbe forse potuto estrinsecarli in qualche altro modo; ma questo modo non lo trovava. La realtà gli stava intanto amaramente, inesorabilmente davanti; non poteva in alcun modo negare che i suoi progetti giovanilmente ambiziosi fossero sogni e nulla più. Egli era naturalmente di un carattere vivace, sempre tentato di guardare le cose dal loro lato più ridente; ma quel primo disinganno che gli era piombato addosso sul mattino della vita, aveva fatto una forte impressione sul suo carattere e lo aveva modificato. Egli dipingeva ancora, ma piuttosto per il bisogno di un lavoro qualunque che per altro, non lo faceva più con quella speranza dolce ed acre ad un tempo di chi si sente chiamato a creare, con quella febbre per cui l’artista è innamorato dell’arte più che di qualunque donna; l’ambizione, la sete sublime di gloria, l’invidia salutare dinanzi alle opere dei maestri, tutto questo era distrutto in lui, come cadono le spighe dorate della larga messe a terra sotto la sferza spietata della grandine. Lavorava ora piuttosto con la mano che con la mente; egli che aveva sperato un istante di poter rivaleggiare con gli altissimi, si accontentava ora del mediocre; ma la lode che le sue tele — in cui certo l’ingegno non mancava — attiravano, non riesciva che a fargli spuntar sul labbro un sorriso ironico pieno di amarezze. Fortunatamente non doveva lottare con la povertà, suo padre avendogli lasciato un piccolo capitale, modicissimo per molti, ma sufficiente per lui. Il suo cuore era giovane e largo, il suo spirito buono e vivace, il suo sorriso franco; aveva un’anima squisita d’artista, una mente aperta a tutte le grandi idee. La sua conversazione era simpatica, allegra, saltellante, varia, talora profonda, talora pazza, sempre vera: si vedeva che diceva ciò che pensava, e che pensava ciò che sentiva. Ispirava la confidenza e l’abbandono; ognuno capiva che si poteva dirgli tutto; che ridendo così fragorosamente per nulla, non avrebbe però mai sorriso beffardamente dinanzi a un sentimento vero, di qualunque natura esso fosse. Emilia lo vide subito e dopo qualche volta che gli ebbe parlato, si sentì attirata verso di lui, perchè lo giudicava migliore e diverso da quelli che aveva conosciuto fino allora. Dopo qualche tempo comprese che aveva in lui un amico — e un giorno incominciò il capitolo che le donne amano tanto, il capitolo delle confidenze che non finisce mai, ma in cui non si dice mai tutto. Era una di quelle giornate che invogliano il cuore ad aprirsi e le parole recondite ad uscire dal labro, uno di quei giorni in cui le simpatie si ritrovano, in cui involontariamente una lagrima che pare senza causa spunta nell’occhio. Il cielo era grigio, l’aria pesante, si soffocava fisicamente e moralmente; ed era impossibile non essere invogliati, dopo aperte le finestre, a socchiudere il cuore. — Nell’uscire, Alberto sentì qualcosa che non aveva sentito ancora e la conseguenza fu che pensò ad Emilia tutta la notte — e che non l’andò più a trovare per un mese. Egli aveva un po’ paura. Anch’egli era stato colpito da quelle punture d’ago che ripetute fanno quasi peggio che una buona coltellata una volta tanto, ed era venuto alla conclusione di chi si trova nel caso suo, che cioè l’amore come distrazione e sollievo è la miglior cosa che vi sia sotto al sole, ma che quando minaccia di prendere un posto troppo grande nella vita non può diventare che una noia o un dolore, e che bisogna perciò sfuggirlo. Quel mese in cui tralasciò di far visita ad Emilia, ora ch’era diventato in lui un’abitudine l’andarvi, in lei un’abitudine il vederlo, fu noioso per lui, e per lei fecondo di nuove idee e causa che un nuovo orizzonte le si schiudesse dinanzi. Dopo quindici giorni cominciò a trovare la cosa piuttosto strana, poi dispiacente, poi capì che un poco ne soffriva. Fu in collera contro di lui, lo trovò maleducato e ridicolo; poi si fece inquieta sul suo conto: «che gli sia successo qualcosa, ch’egli abbia un qualche motivo per non venire?» Poi credette di averlo in qualche modo involontariamente offeso, ma non trovò nulla. Finalmente un giorno che suo marito essendo di cattivo umore le aveva parlato bruscamente, pensò: «Ma perchè mi abbandona?» e si mise a piangere e singhiozzare. Allora un sospetto che non l’era mai venuto, l’afferrò, e rasciugandosi gli occhi dinanzi allo specchio, si vide pallida pallida con due punti rossi sulle guancie e mormorò: «Dio mio! l’amo forte?» La casa di Emilia essendo alla dritta, quando Alberto doveva passare per quella via stava sempre a sinistra, per poter resistere alla tentazione di entrare. Un giorno che si felicitava più che mai in un serio soliloquio della decisione presa, misurando quanto male potrebbe derivare dall’abbandonarsi alla corrente, si trovò senza saperlo nella via della casa proibita; passò al solito a sinistra, ma quando fu in faccia alla casa, abbassò d’improvviso la testa come un uomo vinto, e quasi ubbidisse fatalmente all’impulso delle sue gambe traversò la strada ed entrò. La passione era calata su di loro lentamente; si era loro aggirata intorno con un fare ipocrita e li aveva circondati. È necessario raccontare ogni fase della loro battaglia; dire come di giorno in giorno lottarono più debolmente, finchè non lottarono più, narrare la disfatta più gaia di una vittoria? Emilia aveva finalmente trovato qualcosa quaggiù: le pareva di cominciare a vivere in quel momento. Cosa vi può essere di più dolce che una illusione che ritorna? — Prima di conoscere Alberto, la sua ultima fede terrena, l’amore, scemava in lei d’istante in istante, e si sentiva sul punto di negarlo, come aveva negato i divertimenti, le gioie mondane. Il suo sogno roseo si era infrante le ali contro ciò ch’ella credette la realtà, ed ora si accorgeva, col cuore traboccante di un’ebrezza indicibile, che la prosa della realtà poteva essere falsa e vera invece la poesia del sogno. Per un momento si era sentita vecchia e le era sembrato che i sentimenti e i pensieri contraddicessero con la seta dei capelli e la limpidezza dello sguardo; ora invece si sentiva il cuore pieno di una gioventù indomabile. — E davvero provava ora più che mai il bisogno di una fonte pura dove estinguere la sua sete ardente, di trovare qualcosa su cui appoggiarsi, qualcuno per cui temere e sperare. — Gli affari di suo marito non andavano meglio ed egli diventava meno sopportabile in proporzione diretta. Presto fu necessario persino cambiare di appartamento, e come accade sempre, scendendo nella scala sociale fu d’uopo salire di piano. Intanto egli conduceva una vita sempre più sregolata cercando di distrarsi dallo spettacolo triste della sua sostanza vacillante sempre più. Ed ella che qualche mese prima soffriva quanto lui del loro cambiamento di posizione, ora non se ne curava più, quasi non se ne ricordava. L’amore riempie tutto, tiene luogo di tutto; ella si sentiva ora noncurante delle vanità sociali come non avrebbe mai creduto di poterlo diventare. Aveva finalmente trovato la possente distrazione che aveva prima cercato invano, si era finalmente attaccata ad uno scopo; il suo cuore palpitava, l’espressione del suo occhio aumentava di dolcezza e di profondità, la sua intelligenza pareva s’innalzasse; non aveva mai come ora compreso la natura ed i poeti, Per un momento la sua felicità fu così completa da parerle che se, per incantesimo, tutte le ricchezze, tutti i godimenti fossero piombati su di lei, non avrebbero potuto aumentarla in alcun modo. Alberto l’amava più intensamente; ora non la fuggiva, ma la temeva forse più di prima. Si sentiva pesare addosso una responsabilità, aveva paura del legame. Felice nella pienezza della sua passione, pure non vedeva sicura la via dinanzi. Si sarebbe potuto continuare a vivere in quel modo? Era egli certo di sè? Ora non mentiva quando seduto ai suoi piedi, coprendo di baci le sue mani bianchissime, giurava che l’amava di tutto l’amore che un uomo può sentire e che l’avrebbe amata sempre. Non mentiva perchè ora sentiva così; ma era sicuro di non cambiare? Sincero, diceva ora forse meno di quel che sentiva, ma chi può rispondere dell’avvenire, chi si può credere forte abbastanza per resistere alla lenta, ma incessante azione micidiale del tempo? E se un giorno egli non l’avesse amata più e se in quel giorno appunto ella avesse avuto bisogno maggiore del suo amore e del suo appoggio? E se..... e così mille tristi supposizioni, di quelle che impediscono di dormire, venivano spesso a turbare la serena felicità del suo cuore. Egli aveva delle teorie sue intorno all’amore, egli pensava che all’infuori dei capricci, delle frivole relazioni che si snodano con la facilità con cui si sono annodate, l’amore illegittimo è cosa triste. Secondo lui dev’essere leggiero per non essere pericoloso, e le conseguenze che una profonda passione poteva avere lo spaventavano. Egli era sempre stato lontano da tali situazioni, e si stupiva ancora talvolta di esservi caduto. Molte volte Emilia gli faceva pietà; ella era profondamente buona, ed egli soffriva solo pensando alla possibilità che un giorno le potrebbe far del male. Altre volte tutte queste paure sparivano, egli pensava che per la sua posizione, Emilia era al sicuro da qualunque burrasca. Suo marito non si occupava di lei, se ne curava meno tutti i giorni, e sembrava quasi la trovasse antipatica ora ch’ella più non poteva pel suo posto in società, per la sua eleganza, sodisfare all’amor proprio coniugale — pareva quasi che se avesse potuto l’avrebbe (ci si scusi la frase) smessa, come avrebbe smesso carrozza. Sul principio O*** pareva innamorato di sua moglie; ma poi le preoccupazioni d’interesse lo avevano tutto intiero rivolto agli affari; egli si sforzava lavorando ostinatamente di riparare al male, e perciò la lasciava libera. Ella vedeva Alberto tutti i giorni. Il cielo era senza nubi sulla loro testa; la gioia riempiva talmente i cuori da non lasciare posto per alcun altro sentimento. I rimorsi ch’ella poteva avere erano scemati assai dal modo con cui suo marito la trattava; la situazione era molto semplificata dalla mancanza di figli. Ogni cosa si accordava nell’impedire che sentissero le pene dell’amore colpevole, lasciando invece loro complete e dolcissime le gioie. Inoltre non erano costretti a nessuna di quelle piccole menzogne, di quei perpetui sotterfugi, di quelle diplomazie private che d’ordinario accompagnano e amareggiano l’amore in simili casi. Essi si vedevano quotidianamente senza noie, senza misteri, senza paure. Molto tempo passò così; ed i giorni succedevano ai giorni chiari, pieni, felici. Sentivano ambedue ch’essi attraversavano una di quelle rare stagioni luminose della vita, che poi nei ricordi dell’età matura restano come un punto lucente fra le tenebre, come un’oasi nel deserto, come un faro in mezzo ai flutti oscuri, al quale però non n’è più concesso tornare. In quei momenti di imperturbata beatitudine si giunge ad un punto culminante in cui perfino la tema per l’avvenire scompare; allora si è arrivati al massimo della felicità umana. La luce in cui si è avvolti e che ha già potuto col suo raggio illuminare il passato e farne scordare le noie trascorse, comincia a gettare pure un raggio dorato sulla strada che ne si stende dinnanzi e crediamo allora l’avvenire fulgente di chiarore proprio, mentre è solo rischiarato dall’irradiazione dell’ora presente. Venne dunque anche per essi il momento in cui credettero di poter vivere sempre come vivevano, di poter continuare e vedersi ogni giorno come facevano, e più non prevedevano alcuna scossa, alcuna tempesta. E pareva infatti che non vi fosse nulla a temere, che nessun cambiamento fosse possibile. Poco dopo avvenne che Alberto dovette assentarsi per qualche giorno, essendo chiamato a Modena per raccogliere la piccola eredità di una vecchia zia. — Gli addii furono lunghi e tristi; pareva partisse per il giro del mondo. Nei momenti di felicità, si teme sempre che una interruzione possa essere fatale; pare che si creda di essere stati obliati in un angolo dalla sorte, che il male non sappia più la strada e che sia d’uopo stare quatti quatti per non essere ancora notati. Dovette stare assente un po’ più di quel che credeva, e allora comprese quanto amasse Emilia, sentendo come gli fosse dura la separazione. Finalmente giunse il giorno del ritorno, gli parve che la locomotiva fosse più lenta di un ronzino di vettura, e appena giunto, senza frapporre indugio, si buttò in una carrozza, gridando al cocchiere l’indirizzo d’Emilia. Egli era inquieto non avendo mai ricevuto lettera, ma non dubitava ch’ella lo stesse aspettando; avendogli scritto che arrivava. Passò dal portinaio come al solito senza chieder nulla, ma la consorte di quell’illustre personaggio, ch’era sola nello stanzino, gli fu dietro sulla scala. — «Ehi, ehi, signore, la signora è partita.» Alberto si arrestò di colpo. — «Partita?!» — «Sì, signore, e senza dire per dove, ma credo che sia in campagna.» Egli era annichilito e mistificato, ma non volle farsi scorgere dinnanzi alla portinaia. Escì e corse a casa, ove trovò una lettera che certo gli era stata indirizzata credendosi che la sua assenza dovesse essere più breve. Prendendola, il cuore gli batteva violentemente; temeva di aprirla. La guardò da tutte le parti; era proprio la scrittura di Emilia, fina, eguale, scorrevole, nè vi era nei caratteri alcun segno di agitazione, ma non potè leggere il nome del luogo d’onde veniva. Finalmente stracciò la busta e appena lette le prime righe impallidì: «Alberto, piango scrivendoti e non so come incominciare a dirti tutta la disgrazia che ne colpisce. Mi pare quasi che sia impossibile e vi sono dei momenti in cui mi abbandono alla speranza che tutto sia un sogno. Ti scrivo da una casa di campagna della famiglia di mio marito. Come sai, egli era da lunghissimo tempo in poco buona armonia con essi, al punto che io quasi non li conosceva: vi era sempre stato disparere fra di loro su tutte le quistioni possibili, inoltre la vita che mio marito conduceva non garbava punto alla madre, nè ai fratelli, ed essi temevano sempre ciò che infatti avvenne. Da un giorno all’altro tutto cambiò. La riconciliazione fu fatta senza che io ne sapessi nulla, essendo forse preparata già da qualche tempo senza che nulla trapelasse; il fatto stà che O***, il quale da alcuni giorni mi teneva spesso compagnia, pareva volesse mettersi meco in migliori termini e mi parlava con un tono dolce che non gli conoscevo, d’improvviso mi annunciò ch’egli era perfettamente riconciliato sotto tutti i rapporti con casa sua, dicendomi che da molto tempo lo bramava ardentemente, essendo insopportabile al suo cuore tale separazione (del che non mi ero mai accorta). Soggiunse poi: «la bella stagione comincia e andremo a star con loro in campagna; ho bisogno di riposarmi da tutte queste noie.» — Io impallidii e non seppi dire una parola. Cercai prestamente una scusa, un pretesto, un motivo, un rifiuto possibile, lo cercai come un naufrago cerca un pezzo di legno per attaccarsi — non trovai nulla. E risposi delle parole incoerenti in senso affermativo, non sapendo quello che mi dicessi, e cercando di dissimulare la mia confusione. Capisci tutto il male che questo cambiamento racchiude per noi? Capisci quanto l’avvenire si fa buio, quanto la strada diventa ardua e difficile? Io era come pazza; mi rinchiusi nella mia stanza e piansi, ma poi dovetti fingere, perchè non gli venga il sospetto che non gli è mai venuto finora. Qui fui accolta freddamente da mio suocero e dalle mie cognate, tutta gente che detestai cordialmente al primo vederli: e dovetti fingere e fingere sempre, ed esser gentile e sorridere e ascoltare delle conversazioni stupide, noiose, interminabili, rispondere affabilmente, e rendermi amabile e interessarmi a delle cose di cui non m’importa uno zero — e non mi resta quasi che la notte in cui posso pensare a te e scriverti e piangere. Chi sa quando questo esilio finirà, ma e dopo? Ah! sento che i tempi felici sono passati! Mio marito è sempre con me e parla di stare tutti insieme, ora che la pace è fatta, dicendo: «staremo assai meglio e spenderemo meno». Ma e tu allora? Non potrai più venire come prima. Chi lo avrebbe detto? Già, quando sei partito, ho avuto una specie di presentimento. Mi sento mancare le forze quando penso quanto tempo dovremo stare ancora senza nemmeno vederci. Se sapesti come ti voglio bene! Tu mi hai salvato da me stessa, mi hai tolto a tutte le mie tristezze, a tutte le mie noie, mi hai consolata di tutto. Hai per un momento irradiato di felicità la mia vita, ed ora tutto ritorna nelle tenebre. Mi amerai sempre, a qualunque costo, di faccia a qualunque avvenimento? Non posso ancora dirti di scrivere, non sapendo come tu lo possa fare senza svegliare i sospetti; ma ti avviserò appena avrò saputo combinare qualcosa. Addio, scusa l’incoerenza delle mie parole, sono abbattuta e istupidita. Eravamo troppo felici. Chi sa che avverrà di noi! Ricordati però che non m’importerebbe nulla se fossi sicura che tu non cambierai mai. Ti mando tutto l’amore di cui ho il cuore pieno per te.» La lettura di queste righe produsse in Alberto quell’effetto di prostrazione che segue la notizia d’una sventura inattesa. Avere travisto una felicità che gli sembrava completa, avere diffidato e temuto, poi irresistibilmente attirato non aver potuto più lottare, e appena accortosi che il disinganno aspettato e temuto non giungeva, rallegrandosi della propria debolezza, veder d’improvviso cadere tutto l’edifizio di felicità come un mazzo di carte al primo urto! Cosa era stato necessario per interrompere la sua vita? semplicemente che al signor O*** venisse l’idea suggerita dall’interesse di riconciliarsi con casa sua. A che serve lusingarci sui particolari, a che serve raccontare giorno per giorno come furono condotti a poco a poco all’alternativa o di dover rinunziare al loro amore o di dover perder tutto il resto per conservarlo? Per qualche tempo sperarono che la separazione finirebbe, che una volta ritornata si potrebbe ripigliare la vita di prima. Ma il progetto esposto nelle lettere di Emilia fu da suo marito posto in esecuzione, e tornando in città continuarono a stare insieme. O*** subaffitò il proprio appartamento e andò a stare in casa de’ suoi. Vedersi come prima era impossibile, ed ora dovettero conoscere tutte le amarezze, tutte le noie, tutte le paure della passione contrastata. Qualche tempo passò così e allora compresero quanto si amavano; poichè se il loro amore fosse stato vincibile e passeggero, a poco a poco la loro nuova vita sarebbe diventata abitudine, e gettando pure un occhio triste verso il passato, avrebbero potuto continuare così. Ma non si abituarono mai alle dure esigenze del cambiamento. Per di più, com’era inevitabile, O*** cominciò a sospettare qualcosa e la situazione divenne davvero intollerabile. Allora — come d’un tratto uno spostamento di nubi cambia l’aspetto del cielo — tutte le idee preconcette di Alberto svanirono, tutti i suoi proponimenti caddero, tutte le sue teorie cambiarono. Capì che non si può fare una casistica della passione, e che se l’amore ci ha afferrato, egli è il padrone talvolta e ne può condurre dove meglio gli aggrada. Ciò che prima gli pareva il più grande degli errori, gli sembrava invece l’unica verità, il partito peggiore si era fatto subitamente il migliore ai suoi occhi, considerava ora la sola via che gli rimanesse quella che prima gli appariva coperta di triboli. Tutti i partiti estremi dinanzi ai quali — trovandoli nei libri — soleva prima crollare il capo o sorridere di un sorriso triste, ora capiva che talvolta è forza l’appigliarvisi. Ed Emilia? — Ella pure non avrebbe mai creduto potere in una occasione qualunque prendere una di quelle risoluzioni supreme che cambiano l’aspetto della vita: per quanto amasse Alberto, non l’era mai venuta l’idea che lo amasse abbastanza per sacrificargli tutto, perfino le apparenze. E ora capiva invece che, sebbene non avrebbe certo avuto mai il coraggio di pronunciare la prima parola, se egli le avesse detto: «fuggiamo da tutto e tutti, lasciamo ogni cosa, cerchiamo di farci dimenticare dal mondo e di dimenticarlo, e rinchiudiamoci nel nostro amore senza il quale non possiamo vivere», ella non avrebbe saputo resistere un solo istante e avrebbe perfino passato l’oceano senza esitare. E la tentazione di pronunziarle quelle parole era in lui fortissima e di momento in momento si faceva più insistente. Pure le vecchie idee combattevano sempre e una lotta gagliarda s’impegnò tra il cuore e la ragione, quelli eterni antagonisti. Fosse ancora stato ai tempi quando credeva alla sua vocazione, avrebbe saputo forse resistere; ma la fede era sparita da un pezzo. Egli non aveva legami, amava Emilia come non aveva mai amato fino allora, come non avrebbe creduto di potere amare mai. Egli cercava invano di trovar buone le ragioni che sempre gli erano sembrate eccellenti; egli tentava di persuadersi che l’amore non è l’unico scopo della vita, che non si deve tutto giuocare su di una carta, che le situazioni false, al di fuori di ciò che le leggi di ogni maniera comandano, se talvolta tollerate, sono però condannate sempre in massima. Il cuore gli rispondeva che non lo si poteva obbligare a morire. Inoltre la vita si era fatta per Emilia ben dura e triste. Condannata a stare continuamente con gente antipatica e stupida, cui ella era naturalmente uggiosa, legata ad un marito che oramai odiava, e che con la maggior calma possibile l’aveva sempre resa infelice, tutte le tristezze le calavano addosso ad un tempo; si sentiva più desolata, più abbandonata che prima di conoscere Alberto. Una goccia basta a far traboccare la tazza. Un giorno che a tavola suo marito, avendole parlato brutalmente dinanzi al servitore, le aveva fatto montare al viso il rossore della vergogna e dell’ira, gli altri in massa le diedero torto, mormorando. Il suo orgoglio nativo si risvegliò in lei, si alzò bruscamente da tavola, mise un velo sulla testa ed escì per non più tornare. Fece quello che non avrebbe mai creduto di fare, andò da Alberto. Quando entrò egli capì tutto. Le sue idee, le sue teorie scomparvero affatto, la lotta che da tanto tempo lo agitava fu vinta dalla lagrima che silenziosa rigava la guancia di Emilia, e quando ella stanca, affranta, abbattuta dallo sforzo fatto fino allora si gettò singhiozzando tra le sue braccia, egli se la strinse forte contro il petto e disse: «Ora sei mia, e nulla ne potrà separare». In casa O*** Emilia era detestata. Ella era di abitudini, di sentimenti, d’idee, in tutto affatto opposta ad essi ed ogni più piccolo suo moto riesciva loro insopportabile e antipatico. Cercarono di farle del male in ogni modo, e tra le altre cose, insinuarono al marito il sospetto che non aveva mai avuto. Parlavano continuamente dinanzi ad Emilia di tutto ciò che O*** avrebbe potuto fare se non ci fosse stata lei, e pareva davvero volessero farle capire ch’ella era un impedimento a tutti i progetti di suo marito, una noia e nulla più. Avevano un’arte d’insinuare chetamente le cose più abbominevoli. Parlavano talvolta dei «tempi infelici» che erano trascorsi, ma le cui conseguenze duravano ancora, come se Emilia fosse stata la causa principale della rovina della casa: volevano dare ad intendere che ai loro occhi ell’era un mostro di leggerezza, di vanità, d’insensibilità, «noncurante nè della sua famiglia, nè di suo marito, e capacissima del resto di.... molte cose». Fu per questo che si contentarono di lanciare l’ultima maledizione sul capo di Emilia che fuggiva dicendo: «Quelle lì è meglio perderle che trovarle». Se ne parlò «dappertutto» e continuamente per una ventina di giorni, poi se ne parlò meno; poi non se ne parlò più. Essi partirono; partirono lasciando tutto, dimenticando tutto, senza paura, senza rimorsi. Tutte le nebbie, tutte le esitazioni erano scomparse; la battaglia era stata vinta, il cuore aveva persuaso la ragione; le teorie prestabilite, le idee che avevano prima comuni, in ambedue erano svanite contemporaneamente; il soffio della passione aveva bastato. Era oramai troppo tempo ch’erano separati, che vivevano una vita di noia e di dolore, perchè in quel primo momento di riunione potessero sentire altro che l’ebbrezza della felicità riconquistata. L’amore vince. Se un anno prima qualcuno avesse profetizzato quello che avveniva quella sera all’uno o all’altro, ciascuno l’avrebbe giudicato impossibile. Essi avevano creduto di poter amare con restrizione, ma l’amore non lo ammette sempre, non è sempre possibile farlo stare entro certi confini. L’amore può far cambiare chiunque: siete un uomo pratico, positivo, posato; credete di aver amato e di aver vinto e di non aver più nulla a temere; un bel giorno l’amore vero vi afferra, e allora dimenticate completamente tutto ciò che non avrete mai creduto poter dimenticare, le convenienze, le esigenze sociali di cui vi eravate fatto un culto, non vi ricordate nemmeno più che esistono, e ciò che prima era la follia ora vi sembra la saggezza. Partirono: e quando furono soli nel coupè della diligenza, appoggiati l’un contro l’altro, sentirono un’immensa gioia che loro inondava il cuore. Attraverso ai larghi vetri che avevano dinanzi, vedevano i cavalli che trottavano vigorosamente agitando in monotona cadenza i loro sonagli, animati dall’allegro vociare del conduttore e dallo scoccare della frusta; più in là la strada che serpeggiava come un nastro bianco svolto sul suolo, a sinistra la montagna che s’innalzava quasi a picco, tutta coperta di una vegetazione bruna e selvatica; a destra la valle profonda e umida, attraversata da torrenti e ruscelli, sparsa di capanne e di pascoli; più in là li alti monti spogli di vegetazione e coperti di rocce e di scogli; più in alto ancora le cime bianche di perpetua neve che i raggi morenti del sole tingevano di rosa, e che disegnavano nettamente i loro contorni taglienti e bizzarri sul fondo grigio del cielo, sparso solo qua e là di grandi nubi leggere, Il sole calava lentamente dietro le cime della parte opposta, e mentre l’ombra invadeva tutto tristamente a poco a poco, la gioia si alzava e cresceva nei loro cuori. Miravano lo spettacolo sublime di quel tramonto in quel luogo superbamente e selvaggiamente bello con l’occhio pieno di visioni degli amanti, e le cose bellissime e illusorie dei sogni che loro attraversavano la mente si univano alla splendida realtà di ciò che vedevano davvero. Essi si sentivano felici di una felicità inapprezzabile e profonda; si sentivano liberi come gli augelli che vedevano svolazzare qua e là tra il cielo e le cime. Aspiravano con delizia quell’aura vivificante e vibrata delle Alpi, come inebriati dal profumo acre e selvaggio delle eriche e dei pini, che il vento della sera agitava e contorceva. Erano pieni di benevolenza verso tutti; avevano perfino simpatia pel conduttore che ad ogni fermata stendeva loro la ruvida mano con un sorriso, chiedendo la mancia. E i cavalli trottavano, e i sonagli sonavano, e la frusta scoccava, e il conduttore saliva, scendeva, gridava, cantava, e nel tramonto le cime bianche si confondevano col cielo, l’aria si faceva di momento in momento più fredda e più vibrata, il silenzio diventava profondo e quasi solenne, i loro sguardi mandavano una luce ignota, i loro cuori palpitavano di un gaudio sconosciuto — e nella valle non si vedeva più che l’ombra. Quella immensa gioia del primo momento, che da nulla poteva esser turbata, durò per qualche tempo e poi cessò; e allora tutti i tristi pensieri che infallibilmente la dovevano assalire, l’assalirono in folla. Era infatti naturale che in quel primo momento di ebrezza non vi fosse posto nel suo cuore nè per i rimorsi, nè per le paure dell’avvenire, nè per le riflessioni amare; ma queste non tardarono a giungere. Non è possibile perdere di un tratto la propria posizione, diminuire inevitabilmente nella stima di molti, farsi quasi maledire dalla propria famiglia, sentirsi dai più indulgenti compianta, senza che ne scaturisca un senso di dolore e di scoraggiamento bastevole a imbrunire la felicità raggiante dell’ora presente. E siccome tanto è più dolorosa la caduta quanto più dall’alto si cade, così dopo quei primi tempi di gaudio imperturbato, subentrò una tristezza profonda. Ma a poco a poco questa diminuì a sua volta e dopo le brusche oscillazioni tra la gioia ed il dolore, tra la pienezza della speranza ed il vuoto dello scoraggiamento, finalmente vi fu equilibrio e nel suo cuore entrò la pace; il gaudio dell’animo suo fu mitigato dalla umiltà della coscienza e sul suo viso si posò stabilmente quella espressione di malinconia consolata di cui parlammo al principio. Essi viaggiarono molto nei primi tempi, e, come dissi, era facile incontrarli da tutte le parti, ma scelsero poi per loro dimora Firenze. Presero una piccola villa poco lontana dalla città; una piccola casa modesta, tranquilla, piena d’ombra e di mormorio, che loro offriva la pace e la solitudine della villeggiatura, e al tempo stesso tutte le distrazioni di una città a pochissima distanza. Qualche amico di Alberto veniva a trovarli talvolta, e più raramente qualche conoscenza che avevano fatto. Ella accettava coraggiosamente ed umilmente la sua posizione falsa, e non si curava senza affettazione della società dalla quale ora era bandita. Il mondo che giudica male e capisce così poco, questa volta giudicò meglio e capì qualche cosa; ed era tanta la simpatia ch’ella ispirava involontariamente che venne rispettata. Il piccolo circolo di amici che venivano ammessi nell’intimità della villa l’ammiravano, le volevano bene, e quelli che non la conoscevano credevano al bene che ne veniva detto. Le antipatie ingiuste e preconcette cadevano al primo vederla, poichè il suo sguardo disarmava ed il suo sorriso vinceva. Ella aveva preso il suo posto francamente, ma senza baldanza e senza orgoglio; chiedeva solo d’essere perdonata, e riconoscente dell’indulgenza che trovava. La villa fu il ritrovo di una piccola società speciale, eccezionale, principalmente artistica. Se si fossero conservati i ritratti di Emilia alle diverse epoche della sua vita, come lo si usa con le persone illustri, un fino osservatore avrebbe trovato un importante mutamento tra i suoi primi ritratti e quelli fatti dopo la sua fuga dal marito; senza parlare del carattere di volontà ferma, leggermente adombrato da una tristezza dolce che la sua fisonomia aveva preso, e di una certa piega lievissima del labbro che prima non aveva, e della sua bellezza per così dire completata — forse dall’aver saputo fare risolutamente il passo fatto — vi era un cambiamento sensibile nell’insieme della sua persona, nell’atteggiamento, nel modo di lasciar cadere le mani, nella posa della testa, nel vestirsi, e più ancora nel modo di portare ciò che vestiva. Prima la era una giovane elegante, come ve ne sono cento; si vedeva che i suoi vestiti erano della prima sarta, i suoi cappelli della prima modista, ma nulla più. Vedendola passare l’avrebbe osservata chiunque ha l’abitudine di guardare le donne che incontra per strada. Ora invece al senso elegante si era aggiunto il senso artistico, al taglio sapiente della sarta il disegno del pittore; si vedeva che alla ricerca della moda passeggiera era successa la ricerca di ciò che fosse bello per sè, di ciò che fosse meglio adatto a dar risalto al suo genere di bellezza. Allo studio dell’ornamento era subentrato lo studio della linea. Vedendola passare chiunque l’avrebbe guardata, ma un artista l’avrebbe certo seguita lungamente con lo sguardo. Elegante, nel senso volgare della parola, non lo era più, e le ragioni prosastiche non vi mancavano; era sempre vestita con una semplicità purissima e senza lusso; ma tutto quel che indossava aveva un carattere squisito. In parte il merito di questo, com’era facile indovinarlo, ricadeva sopra Alberto, il quale, sempre artista, non potendo fare dei capolavori, disegnava le pieghe armoniosamente cadenti delle vesti d’Emilia. Qualche volta ella s’attristava volgendo indietro lo sguardo ai belli anni della sua vita di fanciulla. Si ricordava quel tempo, fuggevole quanto il resto, ma che sembra più lungo poichè lascia più durevole ricordo di sè, che passa tra la fine dell’infanzia e il principio della giovinezza, quel tempo color di rosa e d’argento quando ogni gioia è un gaudio e si chiamano dolori le piccole contrarietà. Pensava ai suoi sogni primieri, al modo con cui l’idea del matrimonio — quella magica idea che sempre riempie la mente delle giovanette — le frullava pel capo; alle amiche d’allora che non potevano più rispondere a tal nome, a sua madre, alla famiglia, alle rumorose domeniche e ai tristi lunedì, ai giochi ed agli studi, alla prima veste da ballo e al primo filo di perle. E la malinconia giungeva inevitabile, confrontando le sue aspettazioni giovanili, le promesse dell’adolescenza con la realtà presente. Passava poi col pensiero ai primi anni di matrimonio, quando le belle acconciature e le piccole galanterie banali erano il suo passatempo, quando la vanità le pareva bastevole a riempirle la vita: poi di là seguiva mestamente la china fino a quel momento, e vedeva come l’amore, che un giorno aveva negato, fosse ora diventato ad un tempo scusa, consolazione e necessità. E riflettendo come quelle che avevano tutte le apparenze della felicità, tutti gli splendori della società, fossero certo meno felici di lei, mancando spesso della vita del cuore, si consolava di tutte e capiva ch’era ancora invidiabile, purchè Alberto le rimanesse. Ma ne era certa? Spesse volte veniva assalita da dubbi di ogni maniera; e l’idea che avesse a stancarsi di lei, ch’egli avesse ad amarne un’altra la facevano soffrire atrocemente. Se alla fine egli prendesse a noia la vita calma e monotona che conducevano, se gli venissero d’improvviso di quei bisogni di distrazione ai quali non si può resistere, se la sua gioventù si facesse impaziente di ogni freno e s’egli volesse vivere la vita giornaliera e vivace di coloro che non hanno legami? Se, cosa tristissima, egli non le stesse più vicino che per pietà; se dovesse giungere un giorno in cui l’amore si avesse a spegnere a poco a poco e ch’egli restasse al suo posto solo per un’idea di dovere, fingendo una passione che non poteva più sentire, cercando di far rivivere in fiamma ciò che si era mutato in cenere? Guardandosi nello specchio, ella pensava: «Quante ve ne sono più belle di me!» E allora si sentiva gelosa di tutte le donne che passavano sotto la sua finestra in quel momento. L’avvenire la spaventava. Quando vedeva una nube sulla fronte di Alberto o un sorriso amaro passargli sulle labbra, ella s’inquietava e credeva scorgere in quei segni passeggeri i sintomi della noia vicina. S’egli era preoccupato, il cuore di lei palpitava ansioso, poichè temeva che qualcun’altra l’avesse colpito; se talvolta egli le parlava tristamente, si rimproverava di non saperlo consolare. Un giorno ebbe una sorpresa. Una sua amica d’infanzia, che passava per caso da Firenze, venne a trovarla. Quando l’aveva lasciata era una fanciulla di qualche anno maggiore di lei, timida, impacciata, con le mani rosse; ora la ritrovava bella, elegante, contessa, e vedova. Emilia ne fu commossa, non rifiniva dall’abbracciare e riabbracciare la sua amica; poi le raccontò tutto, tutto quello che aveva passato e sofferto e gioito, la sua felicità presente mista alle memorie del passato e alle paure per l’avvenire. Le disse quanto Alberto fosse elevato di animo e di cuore, e come le sue qualità stesse aumentassero in lei la tema di saperlo un giorno trattenuto vicino a lei solo dalla pietà e dall’idea del dovere; parlò del suo ingegno, ch’egli negava tristamente, ma ch’ella aveva travisto col suo istinto di donna e che pure un po’ le faceva paura, poichè l’ingegno ha di ogni maniera esigenze e abbisogna spesso di una vita variata e avventurosa. — «Io sono tanto al disotto di lui», ella aggiungeva. La fu una bella giornata, quella che passarono insieme le due amiche, l’una indulgente e pietosa, l’altra riconoscente. Si raccontarono tutto a vicenda, si esortarono, si ammonirono, piansero, risero, parlando ad un tempo di cose serie e di leggere, del passato e del presente, d’amore e di vestiti. Ma la contessa doveva partire e fu forza dirsi addio. — Allora si promisero di scriversi, e spesso, e dirsi ogni cosa. «Nei dolorosi momenti avrai qualcuno cui potrai confidare le tue pene, se avrai bisogno di una mano amica in qualunque occasione, ve ne sarà una sempre stesa verso di te». Gli occhi di Emilia le si velarono involontariamente e abbracciò la sua amica con uno slancio pieno di affetto e di gratitudine. Se qualcuno avesse potuto vederle in quel giorno o sedute vicino all’ampia finestra del salotto d’Emilia o passeggiando per li ombrosi viali del giardino, avrebbe certo veduto un bel quadro, se artista; se osservatore, uno studio difficile, poichè era arduo l’indovinare cosa fossero quelle due donne. La contessa per il modo di vestire, per la camminatura, per i gesti, per il portamento era una gran dama e nulla più, giovane, allegra, bella, distinta. L’altra invece col suo vestire modesto e artistico, con la sua fronte ove si scorgeva ch’erano passati i pensieri in copia non comune, con quell’aspetto distintissimo alla sua maniera, ma diverso assai da quello della compagna, con la quasi impercettibile distanza ch’ella stessa poneva fra loro due, sarebbe forse rimasta un enigma anche per il più arguto spettatore. Emilia fu mesta per la partenza dell’amica, e quella breve apparizione talvolta quasi le sembrava un sogno. Pure pensava con un senso di profonda contentezza come ella, costretta a troncare ogni relazione con la propria famiglia, aveva ora almeno qualcuno cui ricorrere in una circostanza difficile, un cuore in cui gettare ciò che traboccasse dal suo. La prima a scrivere fu la contessa. Erano già passati due mesi dal giorno in cui si erano vedute, ed Emilia, timida, non aveva osato mantenere la propria parola. Le cose fanno un effetto ben diverso a una certa distanza, ed ora che non vedeva l’occhio pieno di bontà dell’amica indulgente, che non sentiva la pressione affettuosa della sua mano, benchè fosse persuasa che le volesse bene assai, non sapeva risolversi a confidare a un foglio di carta tutto ciò che avrebbe tanto volentieri versato all’orecchio dell’amica. La contessa, forse intravedendo un po’ tutto questo, si decise a scrivere per la prima; Emilia allora, incoraggita, rispose subito. Ecco la lettera: meglio di qualunque parola, può mostrare lo stato di animo in cui ella si trovava: «Quanto sei buona, mia cara Maria, di avermi scritto per la prima. Sai, che io quasi non osava? — Lo confesso, ora che non sei qui a farmi diventare rossa con i rimproveri tuoi affettuosi; e lo faccio perchè mi conosci abbastanza per comprendere ch’era una stupida falsa vergogna (forse qualcosa di un po’ diverso, ma che non ti so spiegare) e nulla più. Grazie, grazie, per tutto quello che mi dici; se sapessi quanto le tue parole mi fanno bene!.... Non credere che io abbia mai dubitato di te; tu sei troppo buona ed intelligente perchè un simile sospetto ti possa afferrare, benchè il mio silenzio mi accusi un po’ in apparenza, ma il sentirmelo ripetere, con quei detti che solo l’amicizia profonda e vera sa trovare, mi riesce dolcissimo — tanto più che ne ho davvero bisogno. Sì, Maria, ho bisogno che qualcuno mi voglia bene, mi faccia coraggio! La lotta contro tutti è ben dura per una povera donna come io sono; e quando si ha concentrato tutto sopra un punto solo, quando un solo vi deve consolare di quanto avete perduto, vi deve rendere forte a proseguire il cammino in cui si è voluto avventurarsi — se un dubbio vi assale, quel dubbio basta ad avvelenarvi la vita. Oh il dubitare sempre! Oh, Maria, la certezza sarebbe meno male! So quanto gli sono inferiore, e sebbene, vada orgogliosa di esser amata da lui, sento che forse non ne sono meritevole; se dunque egli mi dicesse che è stanco di me, che ne ama un’altra, non mi rimarrebbe che a morire tutta sola nel mio angolo, ma sarebbe forse meno male che il dubbio atroce ch’egli non mi ami più e non abbia il coraggio di dirlo, che io cessando d’ispirargli amore gl’ispiri pietà, oh! questa idea è troppo crudele!.... e pure non mi vuole abbandonare. Perchè egli è buono, sai, profondamente buono, e se non mi ama, mi ha amato assai e dunque potrà dire fra sè: «Povera Emilia mia, non ti amo più, ma non te lo saprò mai dire», e avere il triste coraggio di sopportare quella tortura orribile che è la finzione in amore — senza capire che fa soffrire sè stesso inutilmente, poichè non s’inganna una donna che ama. «Ma tu mi dirai: questi dubbi, queste paure su che cosa son fondate? Su niente. E malgrado ciò esistono e mi straziano. Vorresti negare l’istinto di donna? Abbiamo talvolta dei presentimenti che ne fanno tremare, delle superstiziose paure che non riusciamo a scuotere, ma, pur troppo, quei presentimenti si avverano quasi sempre, quelle paure lontane si fanno terribili e reali. Non ti par vero? Malgrado che scoraggito e disingannato nell’arte sua egli voglia negare il suo ingegno, pure ne ha e molto, del genio oserei quasi dire; e so anch’io che non posso bastare a riempire la sua mente di artista, che devo perdonargli le lunghe ore in cui mi accorgo di esser lontana mille miglia dal suo pensiero; ma queste, che una volta erano rare, si fanno ora di giorno in giorno più frequenti. Oh Maria, s’egli ne amasse un’altra? «Io dissi che tutte le mie paure sono affatto prive di motivo; ed è vero, pure c’è una data nella mia mente alla quale non posso a meno di porre il principio del suo cambiamento a mio riguardo. Tre giorni dopo la tua partenza, al giovedì, eravamo alle Cascine; era tardi, il mondo elegante aveva già abbandonato i viali, e noi silenziosi guardavamo i riflessi di luna, che penetravano a stento qua e là tra le fitte foglie, rischiarando magicamente la solitudine che si era fatta intorno a noi. Io mi sentiva in uno di quei momenti, quando la poesia delle cose esterne pare filtri in noi a poco a poco, finchè ci sentiamo il cuore traboccante. Pensava al passato e all’avvenire, guardavo Alberto il cui sguardo era fisso nella semi-oscurità che ne avvolgeva; lo guardavo con inquietudine, poichè mi sembrava in uno di quei momenti di abbattimento invincibile che tanto mi spaventano, e che ora si fanno, Dio mio! ben frequenti; egli pareva ben lontano da me, ed io era gelosa de’ suoi pensieri. Talvolta un sorriso triste e forzato gli passava sul labbro, uno di quei sorrisi che fanno male a vedere — e la mia idea fissa mi faceva soffrire orribilmente, l’idea ch’egli non mi ama più. D’un tratto udiamo una voce: «Alberto, Alberto!» e vediamo un giovane, che a piedi correva dietro alla nostra carrozza. Questo incidente improvviso distrasse me dai miei pensieri e svegliò Alberto dai suoi sogni — fecemmo fermare — e in un attimo lo sconosciuto era giunto alla carrozza, e appena che si furono ravvisati, Alberto e lui si strinsero le mani e si abbracciarono. — «Da quanto tempo sei qui? — «Da ier l’altro. — «Ti fermi? — «Credo di sì. — «Verrai a trovarmi? — «Certo. Dove stai? Alberto gli diede il nome della villa. — «Hai fatto parlar di te. Ho letto le tue cose e credo inutile dirti che sono entusiasta. — «E tu, cosa fai? — «Io? — Niente -» Poi con un sospiro: «Se vieni a trovarmi, parleremo a lungo. — Vieni domani. «— Domani non posso, ma posdomani certo». Si strinsero ancora la mano. Alberto soggiunse: — «Non ti puoi imaginare quanto son felice di vederti! ne avevo bisogno,» gli diede un’altra volta la mano, che l’altro strinse nel mentre alzava il cappello lentamente, guardandomi fisso, e partì. — «Chi è? io chiesi. — «Non ti ho mai parlato di un giovane di straordinario ingegno, ch’è primo fra i pochi cui do veramente il nome di amico? È lui. Non puoi capire che gioia sia per me l’averlo incontrato. Io non credo molto ai presentimenti, ma devo confessare che da qualche giorno pensava a lui continuamente. — «Perchè non me lo hai presentato? io domandai. — «Come, non l’ho fatto? — Mi sembrava di sì.» «Non si era accorto dell’omissione; il fatto sta che quella sera l’incontro con l’amico aveva scacciato dalla fronte di Alberto la nube che ora vi sta così sovente; ma è da quell’incontro che il suo contegno verso di me si è cambiato davvero, che il suo modo m’inquieta; è d’allora che i dubbi crudeli che mi straziano si sono fatti insopportabili, è d’allora che ho spesso quella inesplicabile sensazione, nuova e terribile, che mi fa dire: «Non è più mio». «Al giorno stabilito, quando l’amico d’Alberto venne, si rinchiusero in stanza e vi stettero quasi tutto il giorno. Alla sera partirono insieme e non tornarono che tardi. Talora mi pare perfino di odiarlo, quel suo amico, che viene a portarmelo via; mi pare certo che Alberto ne ama un’altra; ch’egli confida tutto al suo amico, e forse questi lo consiglia ad abbandonarmi, forse lo spinge nella passione cui ha resistito finora. Oh! che mi dicessero almeno subito la mia sentenza, ma questo dubbio incessante è quasi un’agonia! — Dimmi che sono pazza, dimmi che tutte queste brutte idee non sono che le allucinazioni dell’amore. Il nuovo venuto fu gentilissimo con me, e lo troverei simpatico, se non mi sembrasse che mi distacca Alberto; — mi parlò benissimo di lui, mi raccomandò d’incoraggiarlo, di fargli animo, disse che non bisogna permettergli di negare il proprio ingegno; disse tutte queste belle cose, come se le avesse scoperte lui! — E adesso intanto che scrivo lì vedo che passeggiano là nel giardino sotto il pergolato, dove abbiamo tanto passeggiato quel giorno, ti ricordi? e parlano, parlano, e gesticolano e sono ben certa che io non c’entro nei loro discorsi. Forse c’entra un’altra. «O mia buona Maria, aiutami. Ti sembro diventata pazza? — Quanto, sarei contenta di ricevere una tua lettera che me lo dicesse! Ma pur troppo, temo di aver tutta la mia ragione; è vero che giudico con l’istinto, ma l’istinto va dritto alla verità. Non so comprendere cosa sia avvenuto; non so se davvero ne ami un’altra come sospetto sempre, non ho nessuna prova positiva, non so nulla, non posso lagnarmi di lui, pure, Maria, sento, sento ch’egli non è più mio. Addio, addio. Scrivimi presto, confortami tu che sai confortare. — Te ne sarà ben riconoscente la tua Emilia.» Sembrerà forse una cosa triste a molti, ma che ben pochi fra coloro che pensano vorranno negare, che nell’amore le cause più indirette in apparenza, le circostanze esterne possono acquistare una grande importanza. Se Alberto non fosse stato costretto a confessare che la sua vocazione per la pittura era una illusione, se la passione non avesse trovato nel suo cuore e nella sua mente il campo devastato, avrebb’egli fatto ciò che abbiamo raccontato? Non lo crediamo. L’amore in tal caso non avrebbe potuto vincere la ragione, poichè questa sarebbe stata rafforzata da un altro sentimento, o piuttosto perchè non avrebbe potuto invaderlo completamente, una gran parte di lui essendo già occupata da un’idea egualmente alta e profonda, egualmente piena di emozioni bastevoli esse pure a riempire una vita. Era la sua una natura superiore e non gli era certo possibile vivere senza qualche cosa di gagliardo e di dolce a un tempo, di strascinante e d’inebriante che potesse occupare tutte le sue facoltà in una volta, ed estinguere quella sete di cose grandi e belle e gentili che tutti sentono coloro cui Dio impartì vastità d’intelletto, e con essa desideri irrequieti e superbi. S’egli fosse stato occupato, contento di sè per quanto possibile, ardente nel proseguire il suo ideale reso visibile, animato dall’amore assorbente dell’arte — quanta maggior forza avrebbero avuto i consigli freddi contro le aspirazioni vaganti del cuore, quanto sarebbe stata più viva la lotta e meno pronta la vittoria; come avrebbe acquistato vigore, con quel possente ausiliare dell’arte, la voce che accennava al pericolo, alla dura responsabilità che stava per assumere, alla possibilità di un cambiamento, alle difficoltà e alla lunghezza della via che l’amore gli consigliava d’intraprendere. Ed è certo che l’amore vinse perchè era solo. Tutto quel bisogno di azione ch’era in lui, le forti aspirazioni ch’era stato costretto di togliere dal campo dell’arte, ogni suo desiderio s’era rivolto nella via che unica gli si era aperta trionfalmente dinanzi cosparsa di rose, una di quelle vie alle cui attrattive maliarde è ben difficile resistere — specialmente quando non se ne vede un’altra. Perfino la sua ambizione, la brama di gloria, si era tradotta in amore. Tutti quei sentimenti che non sapevano farsi strada ne avevano trovata una qualunque e vi erano precipitati. Come poteva essere diversamente? Senza Emilia che avrebbe fatto egli, avendo già dovuto rinunziare al resto? Era libero, solo, indipendente, l’amore gli consigliava una via, egli vi scorgeva pericoli, dolori, ma al tempo stesso infinite dolcezze; altrimenti si vedeva orbo di tutte le sue speranze, capace di nulla, pieno d’una tristezza indicibile, e sicuro di rimpiangere poi la propria viltà nel non aver saputo seguire la via fiorita che si vedeva dinanzi piena di tentazioni, solo perchè sotto i fiori si potevano nascondere le spine. E certo è spesso più amaro il rimorso per ciò che si è omesso che per ciò che si è fatto. Aveva rinunziato ai sogni di vocazione artistica, perchè aveva dovuto piegare dinanzi alla verità crudele, ma come si è già detto altrove, qualche cosa protestava in lui: il suo ingegno, benchè impotente fino allora a manifestarsi, esisteva però, ed egli lo sentiva, e non era possibile che lungamente si rassegnasse alla condanna d’inazione dettatagli dal primo disinganno. Non si potrà dubitare ch’egli amasse Emilia, e che l’amasse profondamente, dopo quello che aveva fatto per lei, dopo di averle sagrificato le sue idee da lungo tempo fisse, la sua indipendenza. Doveva pure essere stato forte quel sentimento che aveva tutto vinto, che aveva annichiliti gli ostacoli insormontabili, in apparenza, e che lo aveva deciso, lui, figlio di questo secolo pieno d’irresoluzione e di dubbio, ad una forte e grave determinazione. Pure, malgrado tutto ciò, era forse esagerazione di scetticismo il dubitare che quell’amore potesse solo bastargli nella vita o anche che potesse durare fresco e roseo come il primo giorno? Il suo carattere era troppo vivace e vario, perchè l’amore solo gli potesse riempire l’esistenza. L’amore per alcuni è tutto; per altri, per coloro specialmente che in qualunque modo si meritano il nome di artisti, non è che il possente ausiliare della vita: nei primi tutte le occupazioni servono l’amore, nei secondi l’amore coopera fortemente, è la molla che fa agire il resto, ma invece di farsi servire, serve; serve d’ispirazione e d’incitamento, è a un tempo sprone e conforto, stanca ma riposa anche. Molte volte fu detto che gli uomini superiori, gli artisti, i pensatori, amano più e meglio degli altri, e che tutta la loro vita rimane rischiarata dall’incendio prodotto da quella scintilla della loro gioventù. Ciò è vero; ma non totalmente e non sempre, e sebbene gli artisti trovino certo nell’amore qualche cosa di più di ciò che tutti vi trovano, sebbene amino meglio e con maggiore raffinatezza, pure l’amore non è lo scopo esclusivo della loro vita, e appunto perchè mettono e trovano l’amore in tutto, l’amore non può essere tutto per loro. Nella consolazione divina che l’arte ci presta vi è inevitabilmente una parte di oblìo. Ciò che vi è nella mente può fare obliare ciò che fa battere il cuore. L’arte è passione come l’amore, è la gran rivale, e la sua signoria è dolce quanto quella dell’amore, ma più severa, poichè mette un po’ al disotto di lei tutto che non è lei. Quando l’idea è sorta e con essa la brama irresistibile di estrinsecarla, quando l’artista si è sentito vicino a creare, vicino a quel sublime e terribile momento, tutta l’anima sua, tutte le sue forze sono rivolte verso il suo lavoro; si sente invaso dal fuoco sacro, innalzato al disopra delle altre cose tutte; si raccoglie, si rinchiude per lunghe ore, e tutte le sue facoltà morali, intellettuali, fisiche, tendono ad uno scopo solo: tutto allora scompare intorno, nulla esiste più per lui; nulla lo può distrarre, egli si dedica tutto al dolce e faticoso colloquio tra il suo spirito e la sua idea, dal quale deve nascere l’opera. L’amore e l’arte creano ambedue, ed è forse per ciò che uno dei due sovente è assorbito dall’altro. Ed è difficile che chi si sente animato e pieno della forza creatrice, ricolmo di fantasie che ha bisogno di espandere, possa dedicarsi interamente all’amore. Tutte le forze che prima si consumavano nella passione si rivolgono all’arte, e le voluttà che empivano la vita sembrano ora quasi insipide in confronto alle austere e ineffabili voluttà del lavoro che crea. E da tutte le forze negate all’amore e rivolte all’arte esce il capolavoro. Nell’arte vi è una parte di oblìo, poichè vi è l’estasi, vi è la negazione di ogni altra gioia, poichè è la gioia senza pari. Inoltre essa utilizza tutto, sottopone tutto a sè, si fa da tutto servire. Le gioie e i dolori passati servono al lavoro che s’intraprende, le lagrime hanno un’utilità, il dolore viene egoisticamente adoperato come elemento. Per creare bisogna aver sentito e sofferto, ma bisogna esser calmi. Tutte le tristezze si fondono in quella immensa gioia, dal dolore trascorso può uscire il gaudio segreto e qualche volta il trionfo. Nei primi tempi che vivevano insieme, com’era naturale dopo le vicende per cui erano passati, l’amore riempì tutta la vita di Alberto. Egli non pensò più a null’altro, non gli parve possibile quaggiù un’altra felicità. Che gli importava dei suoi sogni d’arte svaniti, o della lunghezza della via da percorrere, o dei pregiudizi invincibili che si sarebbero rivoltati in folla contra di lui? Aveva tutto dimenticato. Era cullato dal dolce canto della gioventù e si addormentava in una beatitudine serena e piena di oblìo. Il suo cuore giovane viveva in tutta la pienezza della vita, ma l’anima sua d’artista si assopiva. L’amore ha generato molte opere d’arte, ma la sua influenza vivificante non si sente che quando il cuore è libero; per ispirare bisogna che abbia finito di regnare. E regnava despoticamente e dolcemente nel cuore d’Alberto, che aveva dimenticato tutto il resto e a Raffaello non invidiava più che la Fornarina. Nella lotta della loro rivalità, l’arte alla lunga finisce quasi sempre col vincere l’amore nei veri artisti; malgrado ciò, bisogna ammettere in un certo senso che la loro potenza è pressochè uguale, poichè finchè l’amore esiste l’arte non ha potenza; alcuna è d’uopo che passi, finisca da sè, e se allora l’arte subentra stabilisce la sua superiorità assorbendo tutto e non lasciando più che nessun’altra passione diventi padrona del campo. Alberto dimenticava dunque tutto il resto e preferiva carezzare i lunghi capelli di Emilia anzi che oscurare la fama di Michelangelo. Ma tutto passa quaggiù, e più ancora tutto diminuisce. A poco a poco la felicità si fece, come doveva, più calma e allora la passione non bastò a colmare da sè il vuoto delle ore. Le antiche idee lentamente ritornarono, la vecchia brama ricominciò a mordergli il cuore e sentì di nuovo l’amarezza del disinganno ch’era stato dimenticato. Lentamente l’anima sua si rivolse verso un altro ideale, l’ideale di prima, l’amore sembrò ancora dolcissimo, ma non bastevole, e un irresistibile bisogno di azione lo invase tutto. A questo dovevansi attribuire le lunghe ore di distrazione e di pensiero che turbavano la tranquillità di Emilia e le mettevano nel cuore il terribile presentimento che la funestava. Egli passava delle giornate rinchiuso leggendo e studiando, e coltivandosi così lo spirito ed obbligandolo ad un’attenzione seguita per un argomento speciale lo distraeva dai pensieri scoraggianti e mesti che lo invadevano. E talvolta delle vaghe speranze lo agitavano, che sebbene tenui, erano sufficienti a commovergli ogni fibra del cuore, a farlo tutto piegare con brama intensa verso l’avvenire — poi ricadevano ed egli si trovava avvolto più che mai in una tenebra fitta che adesso lo sguardo di amore di Emilia non riusciva più ad illuminare. Egli non poteva più sopportare quella vita vuota. La sua immaginazione aveva bisogno di correre, le sue mani di afferrare un pennello, uno scalpello, una penna, qualche cosa con cui tradurre i mille pensieri, con cui rendere reali i sogni di cui sentivasi la mente traboccante. La sua fantasia batteva le ali, bramosa di ergersi al volo, il suo corpo voleva sentire la dolce stanchezza di aver molto lavorato, non poteva più vivere senza provare una volta la più grande soddisfazione della vita: quella di vedersi dinanzi l’opera delle proprie mani, il parto del proprio cervello, la traduzione dei palpiti del proprio cuore. L’ebrezza del primo momento d’amore era passata, ed ora sentiva il bisogno di raccontarla sulla tela o sulla carta o nel marmo. Si ricordava che tutti gli artisti hanno amato, ma si sono resi immortali per il loro amore, hanno utilizzato la passione servendosi di quella luce che aveva brillato nella loro vita per farne un’aureola intorno al nome inciso sulla loro tomba. L’artista mette sempre nelle sue opere (anche dove non appare) qualcosa della propria vita, ed egli abbisognava ora di far sosta per ripensare al passato, rigioirlo per così dire traducendolo col mezzo dell’arte e farne qualcosa su cui fondare il proprio avvenire. Ma egli rimaneva intanto in una inazione irrequieta e triste che tentava invano d’ingannare costringendosi a studi seri nei quali non riusciva che mediocremente ad interessarsi. Fu allora che rivide quell’amico di cui l’incontro è stato raccontato da Emilia nella sua lettera alla contessa. Si erano lasciati giovanissimi ed ora si trovarono con quella gioia che si ha di rivedere qualcuno con cui si sono vissuti i primi anni pieni di sole, e di potersi raccontare a vicenda i fiori e gli sterpi della via percorsa. E, cosa strana, quando poterono capire quali erano state dal tempo della loro separazione le loro vite reciproche, ciascuno invidiò l’altro. L’amico dei primi anni d’Alberto era stato più fortunato di lui, poichè, malgrado fosse circondato da maggiori difficoltà materiali e crudelmente attaccato dalla povertà, pure riuscì. Fin da fanciullo egli era poeta, ed essendosi coraggiosamente avviato a scrivere, si era reso colpevole in breve tempo di due volumi di prosa e persino di uno piccino di versi che avevano subito messo il suo nome ad un posto d’onde non poteva più scendere, ed altresì assicurato una mediocritas, più o meno aurea, ma insomma sufficiente a impedire ch’egli avesse a morire realisticamente di fame. Suo padre, che travolto nelle sfortune politiche aveva dovuto emigrare, aveva scelto Parigi per dimora, ed egli aveva avuto perciò una educazione italiana in famiglia, ma si era resa al tempo stesso tanto propria la lingua, e con essa lo spirito francese, che si trovò naturalmente per questa doppia educazione molto avanzato in letteratura, potendo abbracciare l’antica e la moderna, la classica e la nuova. La Francia è ora incontestabilmente ciò che fu la Grecia ed è stata l’Italia. Tutto il movimento è là, l’impulso parte da lei, cammina luminosamente all’avanguardia nella luce dell’avvenire. Ecco perchè l’amico di Alberto, il cui primo romanzo, scritto in italiano, venne letto da diciassette persone e gli fruttò qualche centinaio di lire di spesa, si decise all’orrendo misfatto di scrivere il secondo in francese. Egli aveva vissuto una vita varia, divertente, fortunata; aveva provato la felicità del lavoro compreso e ricompensato, dell’ingegno apprezzato al suo valore; aveva avuto il successo e l’applauso, le distrazioni e l’ebrezza; pure quanto invidiò con tutta l’anima ad Alberto il suo amore e come avrebbe rinunciato a tutto per un giorno solo della vita dell’amico! — Ma questi, cui ora l’amore più non bastava e ch’era pieno di desideri insoddisfatti di lavoro, lo invidiava a sua volta ben più profondamente. Quel giorno in cui Alberto ricevette l’amico in casa sua, in quelle lunghe ore in cui stettero insieme rinchiusi e che tanto inquietarono Emilia, non fu questione, come la poveretta credeva, di alcuna donne; solo si raccontarono tutta la loro vita, si dissero le mille e due cose che si hanno a narrare due amici che tengono comuni sentimenti, idee ed aspirazioni, e s’invidiarono un poco a vicenda. Udendo le parole d’incoraggiamento, piene di vita e di entusiasmo dell’amico, Alberto sentiva una sensazione di benessere indicibile, e una lieve speranza, tutta verde e rosea, cominciava a rendere meno bruni i pensieri che da tanto tempo l’opprimevano. Ascoltava rianimato le parole robuste della confidenza e della fede, gli riuscivano dolcissime le frasi brusche che lo rimproveravano fortemente di ostinarsi a rinnegare il proprio ingegno. Ma l’amico fece più che incoraggirlo e rimproverarlo: gli additò una nuova via. Gli disse che le pagine ch’egli aveva ricevuto spesso, in cui Alberto parlava con l’eloquenza vera dell’anima, erano migliori che tutti i suoi quadri e che se si era dovuto persuadere a gettare il pennello, come impotente a tradurre con essi i propri pensieri e le proprie fantasie, poteva prendere la penna e tentare ancora una volta. A questa idea la speranza si fece reale e gagliarda ed empì tutto il cuore d’Alberto, e di un tratto vide aprirsi l’avvenire dinanzi a sè. Si mise al lavoro. Fu allora che Emilia scrisse alla contessa: «non so perchè, ma sento che non è più mio». Aveva torto? Molto tempo passò ancora così. Alberto si accorgeva di giorno in giorno che i consigli dell’amico erano buoni e la sua scoperta vera, ed ora incominciava per lui la luna di miele dell’arte. La via che prima aveva scelto gli riusciva aspra e difficile, non essendo la sua; questa gli era facile ed incantevole. Il suo pensiero si allontanava da Emilia, sebbene continuasse ad amarla; ma egli stesso, senza volerselo confessare, si accorgeva che l’amava meno. A qualcuno parrà forse che il nostro giovane protagonista non fosse giovane, che le illusioni ch’è obligo di avere alla sua età egli si prendesse sfacciatamente la licenza di non averle, e che, malgrado la sua natura poetica ed ardente, fosse ben positivo e ben calcolatore persino nei suoi momenti di slancio. E qui come al solito è necessario fare la distinzione tra il rimanente dei mortali e coloro che tentano di creare: questi, per la maggior parte (e Alberto fra essi), sentendosi fin da fanciulli spinti più degli altri all’osservazione, allo studio della natura e dell’anima umana, meditano e si guardano attorno e leggono e pensano e riflettono molto più e molto prima degli altri, e perciò sino a un certo punto, se ci si permette l’espressione, hanno l’esperienza innata. Si parla sempre dei disinganni, delle disillusioni cui specialmente vanno soggetti i poeti e gli artisti; ma non è sempre vero: ben sovente in essi l’illusione muore mentre nasce, e il disinganno arriva prima dell’inganno. Essi, giovani, sono preparati a tutto; hanno già quasi sempre acquistato quella serena inalterabilità che difficilmente viene turbata; conoscono troppo presto la vita perchè qualcosa li possa ingannare e sono presto vecchi, conservando però, ci spieghi l’enigma chi vi riesce, tutta la forza e l’incanto della gioventù e persino qualcuna delle ingenuità e delle leggerezze dell’infanzia. Ecco perchè Alberto, fin da quando era partito con Emilia, aveva travisto la possibilità che un giorno si potrebbe dirigere verso un’altra meta; egli si era reso troppo certo della brevità e della varietà delle cose umane, perchè tali pensieri non avessero a tormentarlo. Dacchè erano insieme e specialmente dacchè Alberto aveva cominciato ad allontanarsi un poco da lei, volgendosi tutto a quella grande speranza che lo invadeva, Emilia era molto cambiata. La sua salute non era mai stata perfetta, la sua bellezza era fragile; le forti emozioni provate, il dolore d’essere divisa da’ suoi, da tutto che prima amava, l’amarezza segreta di essere discesa dinanzi agli sguardi altrui, la vita nomade e inquieta, tutto l’aveva impallidita, stancata, affievolita, e già sul suo giovane viso, qualche piccola ruga cominciava a raccontare la storia della sua vita. Egli, malgrado la sua distrazione, se ne accorgeva — e una pietà, figlia di un nuovo amore arcano e dolcissimo, l’assaliva tutto, e circondava per qualche tempo Emilia di cure tali da fare momentaneamente rinascere la confidenza in quel cuore titubante. Un giorno giunse ad Emilia una nuova inattesa. Sua madre era gravemente ammalata e chiedeva di vederla. Questa notizia la commosse fortemente e risvegliò nel suo cuore sentimenti da lungo forzati ad assopirsi. Ella non aveva veduto più nessuno de’ suoi dopo la fuga, eppure aveva conservato una profonda affezione a sua madre, che, sebbene severa e dura, era stata però buona a suo modo per lei. — La notizia improvvisa fu una fortissima scossa. Risentiva un immenso dolore, non affatto scevro di rimorso per la malattia di sua madre, e le pareva che se avesse a perderla si troverebbe come sola in un abisso; tanto è vero che l’affetto di una madre è così forte e possente che oltre a non poter essere sostituito da alcun altro, si esercita anche a distanza ed ha una influenza misteriosa anche quando circostanze speciali hanno sciolto il nodo della natura; — ed al tempo stesso provava una gran gioia ed una indicibile commozione all’idea di rivederla, prevedendo che all’istante di riabbracciarla sentirebbe una voluttà santa. Ma pensava con terrore che forse dovrebbe lasciare Alberto per molto tempo, ed allora i presentimenti che da tanto tempo l’agitavano diventavano fantasmi reali e di una forma orribile e le si avvicinavano spaventevolmente. Si era allora alla fine dell’autunno, ed era una triste e piovosa giornata quella in cui Emilia partì. Disse ben mestamente addio ad Alberto, come se non avesse a rivederlo più. Si sentiva il cuore gonfio, vedeva tutto nero, le pareva che un velo funebre calasse su tutto. Per la prima volta dopo molto tempo palpitava per qualche cosa che non era Alberto, ed il dolore, all’idea della probabilità di perdere sua madre ch’era già in età avanzata, era in lei terribile; pure questo sentimento di dolore acerbo rinforzava, esaltava il suo amore, e capiva più che mai ch’egli era tutto per lei, ch’era la sua vita, l’unica sua meta. Quando fu in vagone, mentre la locomotiva fischiò, mandò con la mano un ultimo saluto ad Alberto, e in quel momento si sentì una fitta tremenda al cuore. Si appiattò nel suo angolo, alzò il vetro, si strinse nel mantello e guardando distratta le campagne mestamente lavate dalla pioggia e gli alberi che si correvano dietro veloci, lasciava che i suoi pensieri egualmente s’inseguissero; ma non erano verdi, e spesso uno nero veniva a cacciarne uno bruno. Era in uno di quei momenti serii in cui molte cose ne si presentano sotto un aspetto nuovo ed improvviso. I suoi pensieri si dividevano tra quello che aveva lasciato dietro di sè e quella cui andava incontro, tra l’affetto della sua infanzia e l’amore della sua gioventù; tra il tavolo di studio dove vedeva colui al quale si era data tutta e per sempre, e il letto ove stava una morente che le perdonava, perchè i rancori di questa terra non si possono portare altrove. Si sentiva la testa debole. Era seduta davanti ad un vecchio elegante il quale portava una grossissima catena d’oro da cui non le riusciva di togliere lo sguardo. D’un tratto, senza accorgersene, interruppe i suoi pensieri per osservare le piante che si vedeva sfilare davanti. Qualche volta le pareva che tutto fosse un sogno, oppure si scordava perchè era in viaggio, e poi il doloroso motivo le ritornava dolorosamente d’improvviso alla memoria con una fitta nel cuore. L’era stata una consolazione la parte che Alberto aveva preso al suo dolore — ma al tempo stesso l’idea di una separazione che poteva prolungarsi la spaventava; tanto più che Alberto aveva deciso di andare, durante la sua assenza, a Parigi con l’amico. Senza ch’ella sapesse troppo il perchè, quel nome «Parigi» le diventava odioso — ella temeva la maggiore lontananza. In quelle poche ore di ferrovia, tutta la sua vita le passò davanti alla memoria, sfilando anno per anno, come il paese variato che le si stendeva dinanzi allo sguardo. Fu uno di quei viaggi che non si scordano. Tutti abbiamo così delle ore in cui si discende nel passato e si ricapitola, in cui l’anima nostra somiglia ad un viandante che si arresti a mezzo la collina per volgersi indietro a riguardare ad uno ad uno i sassi, i fiori, i torrenti e i ruscelli della via già scorsa. Finalmente giunse; fu ricevuta affettuosamente dai suoi e si accorse ch’erano impressionati dal cambiamento che scorgevano in lei, benchè nulla ne dicessero. Rivedendo la casa ove aveva passati gli anni dell’ignoranza, si sentì soffocare da un’emozione non mai provata prima. Fu condotta subito nella camera dell’ammalata, il cui viso, malgrado tutto, s’illuminò, vedendola, di un sorriso di beatitudine; baciò piangendo quel volto forse impallidito per colpa sua, e si assise al suo posto, a’ piedi del letto, con l’intenzione di non lasciarlo più finchè la sua presenza fosse necessaria. La malattia era gravissima, ma si sperava ancora. Alberto fu triste per la partenza di Emilia, come non avrebbe creduto di esserlo. Egli che si era messo con tanta lena al nuovo lavoro che i consigli dell’amico gli avevano fatto intraprendere, ora tornava di nuovo a trovar tutto vano ed inutile, dacchè la sua stanza di studio non poteva più essere illuminata di tanto in tanto dal sorriso di Emilia. Egli che da qualche tempo la trascurava un poco, ora si sentiva talmente pieno d’amore per lei, che non si ricordava un’ora cotanto triste quanto quella in cui aveva udito il fischio della locomitiva che la rapiva. La sala, il posto ch’ella occupava vicino alla finestra, il ricamo mezzo finito sul telaio, il tagliacarte lasciato nel libro, le sbarre del focolare dove i suoi piedini si appoggiavano, i fiori che ora appassivano nei vasi, tutti cotesti segni della sua assenza lo riempivano di malinconia. Il profumo di lei ch’empiva tutta la casa e che gli era sempre stato dolce, ora lo rattristava. Ed era contento della decisione presa di partire, poichè dovendo separarsi da lei, non poteva sopportare di essere continuamente circondato da mille cose che la rammentavano; si sentiva il bisogno di variare tutto intorno a sè, di una vita affatto nuova in mezzo ad oggetti non soliti. Giunto a Parigi infatti queste impressioni si affievolirono; le lettere che riceveva quasi quotidianamente da Emilia gli parevano quasi lei e quasi gli bastavano; le distrazioni, il contatto di quella società letteraria così divertente in cui venne subito introdotto dall’amico, gli aprivano la mente a nuove idee, si vedeva dinanzi gli orizzonti dorati della soddisfazione e del successo. Le speranze che da qualche tempo gli apparivano vaghe e lontane ora si avvicinavano e si facevano reali. Il suo spirito di osservazione, il suo ingegno penetrante che certa ne dovevano fare uno squisito narratore, gli consigliarono un’idea, e allora la febbre del lavoro lo prese. Non escì più che raramente e dimenticò tutto nell’opera che lentissimamente prendeva una forma. EMILIA AD ALBERTO «Mia madre sta un poco meglio, comincia a mangiare e fra qualche giorno potrà forse alzarsi un tantino, ben inteso che questo miglioramento pur troppo non diminuisce per nulla la gravità del male; i medici al solito non vi capiscono molto. Di aspetto non è male, chè si è molto rialzata di morale dopo il mio arrivo; la povera donna si era ostinata a non volermi vedere, ma faceva uno sforzo; ora non può fare a meno della mia compagnia ed io non la posso abbandonare; se sapessi quanto la sua accoglienza mi ha commossa, bisognerebbe perciò capire tutto il bene che mi ha fatto il suo perdono. Mio padre è giunto da Napoli; davanti al pericolo tutti i rancori cessano e le affezioni rifioriscono; egli col suo solito modo strano mi ha ricevuto non calorosamente, ma come niente fosse; zia Paolina e Giulia sono pure qui; capisco che la mia presenza non li soddisfa molto, ma faccio finta di non accorgermene e cerco tutti i modi per strappare loro un poco di simpatia. — Vedendo la mamma relativamente così bene, non mi so persuadere che non vi abbia ad essere rimedio e non so tralasciare di abbandonarmi qualche volta alla speranza; ma la è una ben piccola speranza, poichè i progressi del male sono lenti ma sicuri. Non puoi imaginarti la terribile sensazione di freddo che mi passa per le ossa all’idea di perderla presto. Dio volesse conservarla; ora che la malattia ha servito a riunirci, potrei vederla ancora di tanto in tanto.... comprendi dunque che ho motivo di essere triste senza contare la tua lontananza. Quella poi mi affligge e un poco mi spaventa. Oh! se tu potessi esser qui con me!.... In ogni modo la nostra separazione sarà lunga certo; è necessario dirti quanto ne dovrò soffrire, a te che conosci il mio amore? — E poi ti sei ancora allontanato maggiormente; sei a Parigi.... Mi amerai lo stesso? Come rideresti forse se ti avessi a dire tutte le mie paure e i pensieri tristi e pazzi insieme che molte volte mi assalgono e che non so respingere. Se avessi il coraggio di scriverteli qui ad uno ad uno, mi parrebbe già vedere il sorriso che spunterebbe sulle tue labbra, quel sorriso che tu solo possiedi e che mi ha rassicurata tante volte, e tante volte mi ha fatto tremare. È per me un supplizio il non poter parlare di te; ma nessuno ti nominò e sembra che per un tacito accordo tutti fingano d’ignorare quasi la tua esistenza; nessuno m’interrogò sul passato che hanno voluto obliare, e per ciò, silenzio! Alberto è una parola esiliata dalla casa e forse è meglio, ma ne soffro ancora più. Mi sfogo scrivendo dei volumi in folio a Maria, la cui amicizia è la mia seconda gioia quaggiù; a lei dico tutto, sì signore, forse più di quello che dico a te, perchè ella non sorride; ma tu non ne sei geloso, non è vero? Già, te lo dico in confidenza, è anzi una delle cose che qualche volta mi spaventa che tu non sei geloso, e non lo sei affatto, ma proprio niente.... A lei dico tutto come vien viene; ed ella m’intende e ha la pazienza di rispondere e di rassicurarmi e spinge l’adulazione fino a farmi incessantemente i tuoi elogi. Ben inteso che non scrivo a lei che dopo d’aver scritto a te, e a te voglio scrivere il più che sia possibile, anche tutti i giorni se ne ho tempo; non ti annoiano tutte le mie chiacchiere, non è vero? — Sai che qualche volta ho un po’ vergogna a mettermi a scrivere? Chi sa come sono queste mie povere lettere che non ho nemmeno tempo di rileggere. Ma già con te non so fare altrimenti, lascio che la penna vada come vuole, basta che ti abbia detto almeno cento volte che ti adoro con tutta l’anima e che ti supplico di pensare a me il più che puoi.... quando hai tempo. «Scrivi? — Già tu lavorerai con furore e frenesia e tanto che ti farà male. Bada a quello che fai, non stancarti troppo, abbiti cura, te lo chiedo per me. Non puoi imaginarti con quanta beatitudine penso che finalmente il tuo ingegno ha trovato la sua vera strada, che per te sono finiti i giorni dello scoraggiamento, che il successo nella nuova via ti compenserà fra poco del disinganno nell’altra, che la tua fronte si è rialzata e il raggio della speranza ritorna ad illuminare il tuo sguardo; il pensare che quando ci rivedremo non avrai più quelle lunghe ore di tristezza e di abbattimento provenienti dall’ozio al quale ti eri tu stesso condannato, e che il tuo genio non oserai più negarlo quando tutti l’avranno proclamato! Non posso fare a meno che sentire riconoscenza per chi ti ha mostrata la via che ti stava dinanzi e che tu non vedevi; per quello cui dovremo la tua gloria futura. Dovremo, quanto è dolce una tal parola! Io ti amo con tutte le forze dell’anima e ti amo con tutto l’orgoglio che deve avere la donna che tu hai prescelto. — Come vorrei esserti vicina ora che il sorriso della sicurezza è spuntato nuovamente sul tuo labbro, ora che tu non ti rinneghi più. Tu certo non sentirai troppo la separazione che mi riesce tanto penosa; perchè le nuove idee ti occuperanno, perchè sarai tutto assorto nel lavoro e troppo consolato dalla speranza. E mentre tu vivrai nella capitale del mondo, distratto dallo studio e dai divertimenti, io starò qui sola, al letto di mia madre, pensando a te, invocando la sua guarigione e il tuo ritorno. Oh abbi pietà di me, non dimenticarmi, amami e cerca di dirmelo il più presto che puoi! «Non voglio più annoiarti, nè stancarti; mi sono promessa di non parlarti più della mia gelosia, nè delle mie paure; ti dirò ora solamente che, se non avessi il dovere che mi trattiene qui e se il mio tempo non fosse tutto occupato dall’assistenza che ho la consolazione di poter prestare a mia madre, questi che passano per me non sarebbero giorni, sarebbero un tempo senza limite, senza scopo, senza vita. Lo sai che la mia esistenza è dove tu sei.» Quanto piacere e quanta tristezza insieme si trova nel conforto che le lettere portano all’assenza! Esse ne diminuiscono l’effetto e rallentano la inevitabile azione del tempo, ma non la impediscono nè l’arrestano. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto fa il suo lavoro, ogni spazio di tempo che passa aumenta la distanza. Alberto che sulle prime si sentiva isolato, triste, affranto, a poco a poco si abituò all’assenza, come abbiamo visto, e passava la vita tra il lavoro e le lettere che riceveva da Emilia, di cui abbiamo voluto dare un saggio. Sul principio egli le aspettava ansiosamente, con impazienza delirante; se tardavano s’inquietava, se mancavano non poteva più mettersi al lavoro, ma poi cominciò a riceverle come una cosa di abitudine e, internato nel suo lavoro che occupava ogni sua facoltà, molte volte non si accorgeva più del ritardo o della mancanza d’una lettera. Dobbiamo confessare tutto? Dapprima gli parevano dolci, ineffabilmente buone, adorabili, inimitabili, poi non poteva negare a sè medesimo che un poco si ripetevano, ch’erano motivi sulla stessa nota, e talvolta inquiete e paurose senza ragione, e interrogative senza scopo. Qualche volta il dover interrompere il suo lavoro per rispondere gli riusciva di peso; e allora la sua risposta era corta, frettolosa, ed Emilia per tutto il giorno seguente restava triste ed abbattuta. Alberto scriveva con una facilità, con una ispirazione di cui non si sapeva capace; una quantità d’idee nuove, lucenti gli si affacciavano in folla alla mente, la tessitura del suo lavoro egli se la vedeva tutta dinanzi allo sguardo, nell’insieme e nelle sue singole parti. Gli sembrava impossibile fermarsi; tutte le sue facoltà erano rivolte al suo manoscritto e il contento ch’egli risentiva gli sembrava superiore a tutti gli altri. Il suo volto s’impallidiva un poco stando tante ore rinchiuso, ma un sorriso di una soddisfazione sconosciuta spuntava sulla sua bocca dopo una lunga giornata di lavoro. Egli leggeva ciò che scriveva di volta in volta all’amico e questi doveva confessare ch’erano superate le sue proprie speranze. Dopo qualche, tempo gli parve che vi fosse una distanza incalcolabile tra la sua nuova vita e quella di prima, e la casetta lungo l’Arno gli sembrava di averla lasciata da un gran pezzo. Le vaghe speranze di Emilia non si avverarono, e molti mesi dopo le cose narrate la ritroviamo ancora seduta tristamente al letto di sua madre. Sono terribili quelle malattie in cui la morte è l’unica soluzione possibile; così lunghe e dolorose, ch’essa è aspettata come un angelo luttuoso ma liberatore. Ritroviamo Emilia assai mutata; la freschezza ha abbandonata la sua guancia e la vivacità il suo sguardo, che ha preso oramai una espressione di stanchezza rassegnata e una fissazione che fa male a chi la osserva. Persino nella posa vi è qualche cosa di più affievolito che in quella che le conoscevamo, e nel suo passo si osserva quella pesantezza propria di coloro che domandano a sè medesimi perchè si debba camminare. Nella lunga malattia di sua madre, nella inutilità dei soccorsi prestati, in quella lassitudine profonda che ne afferra quando sappiamo che la disgrazia temuta è inevitabile, vi è una sufficiente fonte di tristezza per giustificare il cambiamento che constatiamo — pure questi motivi non n’erano l’unica causa, nè la principale. — Il dubbio che da tanto la rodeva (se non quello di essere sacrificata, per lo meno quello di essere dimenticata) si era fatto certezza, e il suo cuore stava morendo in lei. Sentiva che i giorni lieti erano finiti. Fra la sua vita presente e quella di qualche mese prima vi era un abisso; allora ella viveva in pieno sole, respirando con delizia l’aura della gioventù; tutto le piaceva, tutto la divertiva, tutto aveva uno scopo ed ella sorrideva a tutto. La sua giornata era tutta occupata; l’amore illuminava ogni cosa con il suo raggio immortale; tutte le persone che l’avvicinavano l’erano simpatiche; dovunque si trovava nel proprio elemento. Ora invece, ad ogni nuovo mattino che veniva a risvegliarla doveva aprire gli occhi dolorosamente, domandando a sè medesima a che serve la vita; si alzava, si vestiva macchinalmente; parlava e le sembrava che il linguaggio che udiva non fosse il suo, si sedeva al letto di sua madre e quasi non se ne moveva che per andare a pranzo con gli altri, il che era un piccolo supplizio quotidiano. Poi, alla sera, appena lo poteva, si chiudeva nella sua stanza, scriveva tristamente ad Alberto, non più con l’espansione dei primi tempi, ma nascondendogli le sue pene per non annoiarlo inutilmente, e poi cercava il sonno. Si vestiva alla mattina e si svestiva alla sera, nè più si curava di quella eleganza sua propria che era uno dei distintivi del suo carattere; non le rimaneva che quella parte che nulla poteva toglierle. Se qualcuno di coloro che l’avevano incontrata a caso sulle montagne della Svizzera, con la veste grigia sollevata sopra la sottana rossa, l’occhio pieno di luce e di allegrezza, il piede fermo e il passo agile, la guancia rosea di gioventù e di salute — l’alpenstock alla mano e il cappellino tutto coperto di rose selvatiche; o nella sua piccola villa, di estate, tutta avvolta in una mussola fresca, leggera, che scorreva sveltamente sulla minuta sabbia dei viali, mentre si metteva le due mani alla bocca per chiamare Alberto dalla sua stanza del primo piano — la rivedesse ora, crederebbe avere dinanzi agli occhi qualcosa di somigliante alla visione di prima come l’ombra alla realtà. Scriveva alla contessa: «Non sono più quella che tu conosci; se mi avessi a vedere, saresti forse spaventata dal mio aspetto; le mie lettere ti mostreranno quanto si sia mutato il mio carattere e come ogni coraggio mi abbia lasciato. Il vuoto si fa intorno e dentro di me; capisco che in me stessa come nella mia vita c’è qualcosa che si rompe, sento che nulla più mi appartiene, fuorchè il passato. Ti ringrazio mille volte per le tue buone parole; e per la tua amicizia che è sempre la stessa, ti sono sempre egualmente riconoscente: ma che vuoi? da quando ci parlammo ad ora sono passati dieci anni per me. Come vorrei vederti! — Le mille paure che mi agitavano una volta non le sento più, e la gelosia non mi rode; ma sono certa che oramai sono qualcosa di ben secondario nella sua vita. Doveva essere così, ma è orribile saperlo. Non credo ch’egli sia cambiato, ma so di non essergli in alcun modo necessaria; egli mi ama forse ancora, ma è impossibile che pensi molto a me e l’oblio è ben vicino all’indifferenza. Essere dimenticata! il peggio di tutto. «Le sue lettere mi fanno un male indescrivibile; sono dolci e buone come sempre, ma scritte per coscienza; talvolta cortissime e frettolose; si vede ch’egli ruba a stento il quarto d’ora dedicato a provarmi che si ricorda di me; so che lo fa per abitudine e per pietà; glie ne sono grata malgrado tutto, ma ciò mi sembra ben crudele. Io lo amo come sempre e non lo incolpo affatto. Non poteva io sperare di riempiere la sua vita. Non m’interesso più a nulla, non leggo, parlo poco e vorrei non pensare. Vegeto, e ringrazio il cielo di essere utile nell’assistere mia madre. Oh! Dio, quanta tristezza mi circonda! Non so cosa succederà di me, ma credo che sarà ben poco. La primavera si avvicina; ieri era una giornata magnifica e stamane vedo dalla mia finestra la gente che va a spasso per godere del bel sole. Oggi voglio uscire anch’io tanto per distrarmi un tantino, ma non mi sento bene da un pezzo e la più corta passeggiata mi stanca. Talvolta un’idea fissa s’impadronisce di me e non me ne so più distaccare; questa notte per esempio mi ricordava gli spropositi e la figura grottesca d’un cicerone che ne condusse per il castello di Heidelberg e che non ho mai potuto rammentare senza ridere, e mi sentii nel cuore un’amarezza indicibile. Mi sento invecchiata e mi pare di essere lontana da tutto ciò che mi rese felice; pure sono i miei ricordi più recenti. Eppure sono calma; non vi è alcun mutamento nelle mie maniere, non mi accorgo quasi io stessa di soffrire, e quelli che mi avvicinano certo non se ne accorgono affatto. Il mio è un dolore purissimo, poichè non so darne a lui alcuna colpa e mi ci ero da un pezzo preparata; mi ritiro tutta in me stessa e non oso misurarlo. La malattia di mia madre intanto fa progressi incessanti; tutte le mattine il medico crolla il capo e non sa fare altro.» Alla morte di sua madre, Emilia pianse lungamente e quelle lagrime fu lenta a poterle rasciugare; ma d’un tratto si sentì estranea in quella famiglia, ch’era stata riunita solo per prestare assistenza a colei che non era più; ripassò per la medesima strada che aveva percorsa pochi mesi prima e ritornò nella casetta dei giorni felici. La prima impressione fu strana. Una serenità blanda e profonda la invase tutta e con essa una malinconia meno triste; ma la casa le sembrava il fantasma di quella che aveva abitato. Alberto aveva quasi terminato il suo lavoro. In breve avrebbe potuto cogliere il frutto delle sue fatiche. Il momento tanto atteso era vicino. Si sentiva circondato da un’aura di speranza. Tutto il resto scompariva dinanzi al suo sguardo. Lavorava indefessamente — quando, una sera, ricevette una lettera di Emilia con la data di Firenze e una larga riga nera all’intorno. Era una lettera breve, triste, calma; tra l’altre cose diceva: «non avendo oramai più nulla che mi tenesse colà, sono tornata qui per preparare e stabilire ogni cosa», ma non diceva «ti aspetto». — Alberto era occupatissimo e come preso in un vortice; non gli era possibile partire da un’ora all’altra, ma affrettò ogni cosa per poter presto raggiungere colei che certo lo aspettava con impazienza. Non poteva negare a sè medesimo che non l’amava più come una volta; desiderava molto rivederla, ma allo stesso tempo non si sapeva togliere ai novelli vincoli possenti e soavi che lo trattenevano. Oh s’egli fosse stato in una simile circostanza in altri tempi! Anche se trattenuto da un interesse fortissimo, come avrebbe lasciato ogni cosa, per correre da quella che tutta gli riempiva la vita! Ora invece voleva partire, ma quasi inconsciamente esitava a togliersi all’atmosfera inebriante in cui si trovava. E d’ora in ora ritardava, senza quasi rendersene conto. Benchè, partendo, andasse verso l’amore, verso il sole, pure provava uno strazio nel lasciare la sua nuova esistenza; l’attrazione lontana, sebbene non osasse confessarselo, era meno forte di quella vicina. L’amico indovinava tutto, ma non osava dirgli: «Non l’ami più come una volta», essendo certo di ricevere una smentita; calcolando però quanto Emilia fosse ansiosa di rivederlo e come dovesse soffrire del più piccolo ritardo, lo esortava a partire. Ella lo aspettava infatti. Non faceva altro. Vi erano dei momenti in cui le sembrava che non dovesse più venire. L’aprile s’inoltrava ed il giardino era tutto verde e fresco; ma in quella dimora piena di luce e di fiori ella era ben triste. La solitudine è terribile quando non è rischiarata dalla speranza. Ogni ora trascorsa le sembrava una nuova prova che Alberto non l’amava più: non aveva però alcun risentimento; nessuna di quelle idee volgari che agitano in tali casi la toccavano, ma soffriva. Non sapeva cosa non avrebbe dato perchè quell’uscio sul quale dal suo angolo vicino alla finestra volgeva sempre lo sguardo, avesse ad aprirsi. Aspettare qualcuno che non viene perchè dimentica è una delle grandi miserie della vita. Avrebbe compito qualunque sacrificio per affrettare di un’ora il suo arrivo. Al tempo stesso gli scriveva: «Puoi credere quanto desidero riabbracciarti, vieni appena puoi, ma non ti affrettare per me: fa tutto quel che devi fare». Ella soffriva intanto atrocemente. Trascinava penosamente i giorni lunghissimi in un’agonia di aspettazione. Era piena d’impazienza, di paura; le pareva che Dio la sottoponesse ad una prova superiore alle sue forze — ed interminabile. Il momento dell’arrivo ella se lo imaginava sempre. Egli aveva scritto: «Questa sarà la mia ultima lettera; non avrò tempo di scrivere in questi ultimi giorni, in cui affretto tutto per essere con te al più presto. Spero in breve di poter finire ogni cosa e verrò a sorprenderti». E la sorpresa ella l’aspettava sempre. Dal suo posto favorito guardava il cancello e diceva fra sè: «Ecco, io sentirò la carrozza e correrò ad incontrarlo nel giardino». E a un tale pensiero una gioia inenarrabile le rigonfiava il cuore. E ogni volta che passava una carrozza, si alzava per vedere e il cuore le batteva.... ma la carrozza tirava dritto. «E se invece venisse di sera?» pensava invece talvolta. Io sarei qui vicina alla lampada, ed egli entrerebbe d’improvviso senza che io me ne accorga.... Quando finalmente giunse davvero, fu ben altra cosa; era un minuto in cui meno se l’aspettava, quando a un tratto udì la sua voce; egli parlava col giardiniere, entrando. Impallidì e un tremito l’assalse, volle moversi, ma restò paralizzata sulla sedia. Egli entrò ed ella non seppe che stendere le mani, poichè le parole non venivano.... Fu uno di quei momenti che compensano di molti dolori. Egli era un po’ diverso, ma di bellissimo aspetto e lo sguardo contento. Vedendola tutta pallida con le sue vesti di lutto capì ogni cosa. Non ebbe bisogno di domandarle la causa del suo pallore e del suo decadimento. Scorse con uno sguardo tutto quello che aveva sofferto e come lo aveva aspettato. Ebbe rimorso di ogni ora che aveva perduto nel venire e si sentì nel cuore un’amara ed immensa pietà. Inoltre gli parve abbellita nel suo pallore. Oh! quelle prime ore come passarono veloci! come si sentì ristorata quando potè avvolgergli il collo con le braccia e piangere sul suo petto! Gli disse piano piano come se alcuno potesse udire: «Non sei più mio, ma mi vuoi ancora un po’ di bene, non è vero? ne ho tanto bisogno. Sai che ero così gelosa, ma come non te ne puoi fare un’idea! Ne vedevo tante di più belle, di migliori di me. Avevo torto e te ne chiedo perdono; nessun’altra è venuta a frapporsi fra noi due. Ora non lo sono più. Comprendo che non ne ami alcuna, ma sento che quel mondo che hai in te ha fatto piccolo il mio posto nel tuo cuore. Tu mi dirai che mi ami ancora; lo credo, ma so che non sei più mio. Tutto è finito; io temeva le altre ed avevo torto, ma in qualche modo doveva finire, e dopo che non hai più bisogno di chi ti consoli, che vuoi far di me? Non ti sono più necessaria». Egli la rassicurò lungamente, dolcemente; le parlò a bassa voce come ai primi tempi, la consolò con tutto l’amore che potè trovare, ed ella gli fu ben riconoscente per il suo tentativo pietoso. Tutti coloro che hanno perduto prematuramente una persona cara, sanno quali siano le angoscie, la disperazione prodotta da una malattia mortale che inaspettata, inesorabile piomba su di una casa come un uccello di rapina. L’anima si rivolta contro la Providenza, si fatica a trattenere la bestemmia che l’ingiustizia del dolore spinge sul labbro e la ragione la più sana è momentaneamente sconvolta dinanzi alla calma e tremenda inesorabilità del fato. Dio appare spietato; l’uomo crassamente ignorante nel non saper mettere un argine al prematuro lavoro della natura; i medici sembrano imperdonabili nella loro impotenza, e a un tratto tutto ne appar falso, bugiardo quaggiù. Allora il sole che irradia i campi e illumina l’azzurro del cielo con la sua luce tranquilla, l’aspetto trionfante della natura, l’immenso sorriso del firmamento, tutte quelle inenarrabili bellezze che prima ne consolavano il cuore, e ridonavano allo sguardo il raggio della speranza e dell’allegrezza, ne sembrano invece la più amara ironia; nè sappiamo con la terribil guerra che ne agita internamente perdonare al mondo la sua divina inalterabilità. Pochi mesi erano passati dal ritorno di Alberto, quando la sventura si abbattè d’improvviso sulla piccola villa ridente, ch’era stata spettatrice di tanta serena felicità. Sebbene ella avesse perduta la fede, pure la riunione dopo una sì dolorosa assenza aveva ridonato in parte ad Emilia la salute e le sue guance cominciavano a tingersi ancora di rosa; quando si mise un brutto giorno a letto con una febbre ardente. Dapprima fu creduta cosa passeggera, ma dopo prese il carattere tifoideo. Nei corpi indeboliti, e quando il morale ha avuto una troppo forte azione sul fisico, tali malattie perdonano raramente. Alberto non si mosse una sola ora dal suo letto; una tristezza incommensurabile s’impadroniva di lui dinanzi a quella vita tanto amata che si spegneva avanti sera; una tristezza profonda — ma calma. N’era addolorato sin nel fondo del cuore, sentiva che quella morte doveva porre il velo del lutto su tutta la sua vita, pure era il suo un dolore diverso da quello che avrebbe provato se una sì grande sventura gli fosse calata addosso prima che il nuovo scopo che ora si era prefisso l’avesse occupato. Quando veniva la sera, e i passi domestici finivano di farsi udire e ch’egli rimaneva solo vicino al letto di dolore dell’unica donna ch’egli avesse mai amato davvero; in quella stanza solo rischiarata dalla luce vacillante del lumicino da notte, mentre vegliava guardando tristamente quei capelli tanto baciati che soli non si confondevano nell’ombra con il cuscino su cui posava il volto impallidito, in mezzo alla stranezza di un dolore tanto inaspettato che talvolta gli pareva un orribil sogno, mille nuovi pensieri lo agitavano. Ripassava la sua vita; si ricordava quel tempo quando Emilia era tutto per lui, si ricordava la felicità dei primi istanti, tutte le cento note del magnifico concerto d’amore, e i giorni cattivi, e la risoluzione e la fuga, e la pienezza della vita giovane che ora finiva per lui, e i viaggi e i rumorosi divertimenti, e le allegre serate con gli amici e le serate a due vicino al focolare o nascosti in un palco mentre migliaia e migliaia di cuori palpitavano, ma non come i loro, dinanzi al duetto degli Ugonotti o del Faust — e la suprema dolcezza con la quale ella lo sapeva consolare dell’arte perduta; e poi il gaudio dell’ingegno che ritrova la via e la nuova speranza che sorge. Questa gli rimaneva. Pensava poi all’amico che ora stava occupandosi delle cose sue e alla probabilità di successo che lo aspettava, ma tutto gli sembrava bruno dinanzi a quel lutto. Quanto è triste quella serena dolcezza con cui parlano i moribondi, e quell’occhio sereno con cui vi guardano! Tutte le volte che Emilia parlava egli si sentiva morire con lei. Nell’ardore della febbre delirò qualche volta; in quelle parole disordinate tornava frequente l’idea: ora è finito: quell’ultima rivelazione del suo amore gli faceva male. I medici venivano ogni giorno e tentavano tutto inutilmente: Alberto loro faceva i discorsi più stravaganti, offriva loro tutto ciò che possedeva se la potessero salvare, li supplicava con le lagrime agli occhi, li strapazzava, come se essi potessero portare soccorsi là dove la potenza dell’arte finisce. Essa peggiorò sempre. Negli ultimi giorni ebbe ancora qualche momento di calma e potè parlare; i suoi discorsi erano amorosi come quasi non l’erano stati mai, ed egli piangeva ascoltando quelle cose dolci ch’ella trovava ancora per lui e tentava di dire col filo di voce che le restava: ma sempre tornava quell’idea che a lui riusciva amarissima: tutto è finito. Le conoscete le indimenticabili sensazioni di chi assiste agli ultimi istanti di qualcuno che porta via con sè la vostra gioventù e il vostro cuore? — I pianti, la tetra solennità della religione, l’angoscia suprema..... Poco dopo il funerale giunse ad Alberto una lettera in cui l’amico gli dava le migliori notizie e le più grandi speranze. La via si apriva bella dinanzi a lui; le difficoltà non mancavano, ma un po’ di fortuna e molto vigore le fanno sormontare. Quando si trovò solo e che potè riaversi un poco dall’orribile sbalordimento di un colpo così rapido, così violento, così inaspettato, si sentì tutto invaso da un immenso dolore, calmo e durevole. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Si sentì diverso. Dei pensieri che mai gli erano venuti li ebbe ora, nuove e più profonde voci gli si svelarono nel concerto del mondo, il suo occhio rattristato vide chiaramente molto che prima poteva solo intravedere, la sua fantasia si aumentò di una parte estraumana, ignota fino allora, la sua imaginazione prese un volo più vasto; quelle ali invisibili che tutti si sentono coloro che tentano di creare, d’improvviso se le senti più possenti — d’un tratto si risvegliò poeta. IL VIAGGIO DEL DUCA GIORGIO I Tra le nove e le nove e mezzo tutti gli invitati si accomiatarono l’un dopo l’altro e il duca rimase solo con Tibaldo, il suo intimo amico. Questo amico dal nome shaksperiano era un giovane di origine mezzo asiatica, dalla tinta olivastra, dai capelli neri, dai lineamenti irregolari ma espressivi e dal corpo esile, che per una singolare comunanza di gusti e d’idee insieme ad una certa facilità nel piegare alla volontà del più fermo, per la versatilità del suo ingegno, per la passione irreprimibile che lo spingeva verso i capolavori dell’arte e verso tutte le cose belle in generale, era diventato l’assiduo compagno del duca e — sebbene non del tutto — meglio di qualunque altro si poteva vantare di conoscerlo. Nella sua casa ai Champs Elysées dove il duca viveva solo, ma dove si vedeva circondato a suo cenno ed a sua scelta dalla società più alta o dalla più intelligente — o dalla più divertente — (dalla migliore insomma in qualunque senso si voglia prendere la parola) — vi era stato gran pranzo quella sera. Questa volta egli aveva riunito alla sua tavola una decina d’uomini soltanto, tutti celebri o vicino ad esserlo per motivi più o meno futili o meritevoli; ad un gran pranzo, se si badasse alla sontuosità della mensa, alla raffinata squisitezza dei cibi; ad un pranzo molto intimo, se invece al discernimento con cui si era fatto l’invito. La sala da pranzo era di un lusso severo, incomprensibile per qualunque arricchito da ieri; il legno di quercia, gli ornamenti in bronzo, il cuoio di Cordova, vero; le cesellature inapprezzabili al punto di vista artistico, dove le dorature avevano una parte squisitamente sobria; le alte credenze massiccie abbastanza per sostenere il peso degli enormi piatti, dei cristalli eleganti, dei vasi ingenti di ogni sorta che le coprivano, il tappeto turco dai colori vivaci — formavano un insieme assai armonioso, ma un po’ triste ed oscuro. A questo contrastava la tavola che nel mezzo della vasta sala, coperta da una magnifica tovaglia di Fiandra, tutta scintillante di cristalli e d’argento, rallegrata dai fiori e illuminata da quattro candelabri simili a mazzi di luce, ravvivava tutto intorno a sè e rendeva simpatica la severità delle pareti. Il pranzo era stato lungo, non essendo dappertutto seguita la moda di pranzare come se la locomotiva vi aspetti per partire, i piatti contenenti gli ultimi risultati dell’arte gastronomica avevano girato e rigirato, i bicchieri di Boemia avevano tinte le loro faccette talora del color del rubino, talora di quello del topazio a infinite riprese; la conversazione era stata svariatissima, persino seria talvolta. Come si usa in simili casi, si eran sfiorati quasi tutti gli argomenti possibili ed impossibili; ma verso la fine l’anfitrione era rimasto un po’ sopra pensiero, come gli accadeva talvolta. Dalla sala sontuosa adiacente a quella da pranzo, i due amici rimasti soli passarono nell’appartamento privato, composto di tre stanze: una da letto, un gabinetto per vestirsi ed uno studio. Entrarono in quest’ultimo. Era una stanza molto alta in proporzione della sua grandezza, dalle pareti e dalla volta ricoperte di velluto celeste, circondata su tutti gli angoli da una cornice nera intrecciata che seguendo poi l’arco della vôlta si riuniva nel mezzo al punto più alto in un rosone. Due pareti erano ornate da quattro magnifici dipinti di maestri della scuola Veneta; una larga finestra s’apriva sulla terza parete e su quella del fondo ammiravasi uno specchio circondato da una cornice in legno nero scolpita di un magnifico disegno barocco; sotto a questo un camino in marmo nero con un gran fuoco, una scrivania coperta di libri e carte, una libreria d’ebano intarsiato d’avorio, dei mobili di velluto celeste, bassi, soffici, orientali, una gran tavola coperta di mille ninnoli, di fiori, di miniature; qua e là qualche bronzo squisitamente elegante, in un angolo un ingente vaso del Giappone dal quale uscivano le foglie smisurate di una begonia rara, autorizzata dalla temperatura da serra, sul suolo un tappeto persiano, soffice come un prato a primavera..... Fuori nevicava — le poltrone stendevano le loro braccia di velluto, e una volta adagiati sopra di esse era difficile rialzarsi. Il duca si levò l’abito, si avvolse in una casacca di seta a colori smaglianti, accese il narguilhé che posava per terra, e appoggiati i piedi sulle sbarre del camino cominciò ad aspirare voluttuosamente il fumo odorante, mentre nel vaso il fuoco profumato crepitava. — Uscire stasera? egli disse, ma perchè si deve uscire? Pensa, Tibaldo, se sia possibile imaginare qualcosa di più stupido, di più insulso che mettersi in una carrozza fredda, e rotolare un quarto d’ora per andare in un teatro troppo caldo, dove si sta molto mal seduti ad ascoltare della cattiva musica, e di là passare in un club a dire e farsi dire delle bestialità e a perdere del denaro, oppure in qualche orribile sala male ammobigliata e fetente di gas a bere del cattivo vino e cenar male con delle donne brutte e vecchie, vestite con una eleganza falsa e coperte di profumi insopportabili. — Non hai del tutto torto e anch’io mi sento troppo pigro per movermi, e trovo che qui si sta piuttosto bene, rispose Tibaldo, pure mi sembri molto invogliato questa sera a volgere sopra le cose un occhio troppo malevolo ed a cercare il lato brutto della vita. Ma dico anch’io: chi deve uscire? Penso quasi di non tornarmene nemmeno a casa mia e di passare la notte su questa poltrona. Così dicendo appoggiò la testa come volesse dormire e stendendo le gambe sopra quelle del duca, aprì la bocca ad un semi-sbadiglio, segno piuttosto di pigro benessere che di noia. Il duca taceva; Tibaldo proseguì: — Sei però ingiusto verso le donne, ve ne sono ancora per l’Europa una dozzina di belle. Oggi vidi la Ximena a cavallo e ti assicuro che con quel busto di statua antica, con quell’occhio di fiamma e quei capelli d’oro era un’apparizione da far fermare chiunque, mentre passava di galoppo, stando in sella con quella suprema eleganza che in tutto la distingue e guidando con le sue mani di fata il magnifico morello che le ha dato Federico. — Peuh! fece il duca, non la posso soffrire! Oramai di donne belle non ne conosco più; dipenderà forse da ciò che non mi pare possibile di amarne alcuna, e che rimango affatto indifferente dinanzi a loro. Ma se avessi a fare una eccezione, mi trasporterei nell’alta società e nominerei Lady Isabella. Lady Isabella era una inglese appena giunta, giovanissima, sposa di un ex-ammiraglio assai maturo, donna di una bellezza più che ideale, troppo ideale: di materia non vi era in lei che quanto è necessario a contenere l’anima che ammaliava, visibile nei suoi grandi occhi azzurri; era una bellezza languente, vi era nel suo portamento qualche cosa di stanco e d’indeciso, il corpo lasciava a desiderare ed il pallore delle sue guance e l’estrema finezza del suo profilo bellissimo non sarebbero piaciuti a molti. — Lady Isabella! Tu sei un ammiratore di Lady Isabella! Chi lo avrebbe mai supposto! Ma non ti accorgi d’essere in aperta contraddizione con tutto quello che hai detto fino ad oggi? Tu, così pagano nei tuoi gusti, che non potevi capire altre bellezze che quelle delle statue greche o delle cortigiane della scuola veneta, confessi ora di trovar bella la più immateriale, la più eterea creatura ch’io abbia mai veduto; e che è bella soltanto di quella bellezza malaticcia e che si potrebbe chiamare moderna, essendo quasi sconosciuta prima di questo nostro secolo, ammalato esso pure e capriccioso. — Mi sono persuaso che qualunque bellezza è la bellezza. Il tipo maestoso delle epoche primitive e serene non esiste più, o assai raramente; la bellezza di Lady Isabella è come tu dici moderna, ma è vera bellezza. Tutto è imperfetto in lei, ma ella forma una perfezione. Il suo sguardo stancato, il suo languore, la guancia pallida, quell’aspetto di pianta che non ha potuto raggiungere lo sviluppo completo; quel sorriso mesto e strano, quella fiamma che traluce dai suoi occhi un istante per subito spegnersi, ne fanno la personificazione dell’epoca nostra piena di aspirazioni e di scoraggiamenti, che vede l’avvenire, ma dubita di avere forza sufficiente a raggiungerlo. Se d’un tratto una Venere greca avesse ad animarsi, se nel suo occhio senza pupilla d’improvviso sfavillasse lo sguardo e lasciando la sua posa immortale mi aprisse le braccia bianchissime volendo scendere dal piedestallo, certo la preferirei; ma dacchè il sorriso della Gioconda non sarà mai realizzato in una donna, dacchè le cortigiane del Tiziano non abbandoneranno mai, qualunque collare di perle loro avessi ad offrire, lo strato di velluto purpureo sul quale la loro bellezza sfida il tempo, capisco che Lady Isabella può far battere il cuore a quelli che s’innamorano. Il suo sguardo è ammaliante; esso contiene un po’ di quelle cose che tutti sentono, ma che nessuno dice e che perfino i poeti non sanno e forse non vogliono esprimere. Ciò che dissero i più grandi poeti è certo ammirabile, ma quanto più stupende erano certo le cose che sentirono e non dissero forse perchè la lira di quaggiù non avrebbe saputo resistere a quelle note! Nell’occhio di Lady Isabella si legge qualcuna di queste cose. Vi fu una pausa. Il duca sembrava riflettere sulle parole stesse che aveva pronunziate, e Tibaldo sognava, guardando fissamente uno dei tizzoni che stava sperdendosi in bragia. Un sorriso passò sulle labbra del duca, e come accade spesso, quando interruppe di nuovo il silenzio, i suoi pensieri avevano deviato, talchè soggiunse: — Non è vero, Tibaldo, che cotesta impotenza che provano i poeti ad esprimere i loro sensi più arcani, i pensieri reconditi che germogliano misteriosi e vergognosi talvolta nei più reconditi recessi dell’anima, noi comuni mortali — la proviamo a dire completamente le cose le più semplici; a svelare per esempio lo stato in cui ci troviamo in una fase della vita piuttosto che nell’altra? — Credo che non ti sarebbe però molto difficile il farlo adesso. Io lo saprò esprimere per te, conoscendoti forse più ancora di quello che lo immagini. Sei stato giovane troppo presto, e giovane come sei ancora ti senti vecchio, hai vissuto troppo e sei stanco ed annoiato di quasi tutto, sei andato troppo in fondo alle cose ed hai trovato che il fondo non è bello. La è una vecchia storia. — Ti sbagli, Tibaldo, ti sbagli profondamente. Porti su di me un giudizio, che, ne sono certo, è il comune; credo che il mio calzolaio dica di me quello che tu hai detto ora. Davvero, scusa, ma ne sono umiliato per te. Tibaldo non potè a meno di ridere, ma rispose: — Puoi negarlo, ma ti assicuro, mio caro, che c’è molta verità in quello ch’io ti ho detto, e fossi anche d’accordo col tuo palafreniere, il tuo palafreniere ha ragione. — Avete tutti torto. Nessuno è meno stanco e meno annoiato di me, e in un certo senso — spalanca pur gli occhi — lo sono meno di te. Sono annoiato a morte se vuoi dal complesso di questa vita arcimonotona nella sua varietà, ma nessuno quanto me sa gustare — se scendiamo al particolare — la più piccola cosa. Il divertimento più raffinato mi annoia spesso, ma in contraccambio sono divertito, più di qualunque altro, dal più volgare. Tutto mi interessa, tutto attira ancora la mia attenzione, il nemico più grande della noia, la curiosità, mi agita sempre, a proposito di tutto. Sono, come è naturale, abbastanza satollo di balli, di cene, di corse, di cavalli e di attrici, di ricevimenti ufficiali e di brutte copie delle orgie antiche; ma in mezzo al più noioso divertimento d’un tratto una piccola cosa mi attrae, mi occupa, mi rallegra. Pure qui, sono obbligato a condurre questa vita; per cambiarla davvero, non basterebbe nemmeno viaggiare come ho già provato, bisognerebbe partire cambiando di nome, di tutto, e vivere lasciando che la vita scorra come vuole in un paese ove mi fosse possibile l’uscire senza essere additato da tutti. Come si vede, la conversazione aveva subito — come accade spessissimo — una sensibile deviazione; dalla bellezza delle donne in generale e di Lady Isabella in particolare, si era passati a delle considerazioni sulla vita — e il duca, cosa per lui rarissima, era quasi sul punto di fare a Tibaldo delle mezze confidenze. Questi che lo conosceva abbastanza per sapere come la più piccola interruzione sarebbe stata sufficiente ad arrestarlo su quella via nella quale certo non s’impegnava che quasi involontariamente, si guardò dal fiatare. Infatti il duca riprese: — E ti confesso, Tibaldo, che da qualche tempo questa idea mi frulla spesso nel capo. Ma le abitudini sono un vincolo ben tenace; tutta quella gente cui non so perchè si dà il nome di amici, indifferenti affatto come mi sono, ho però l’abitudine di vederli; le sale noiose e i gabinetti più noiosi ancora, il club, i viali del bosco, i ridotti dei teatri, tutti quei luoghi che mi sono diventati uggiosi a forza di starvi, mi attirano, oserei quasi dire, per le stesse ragioni, per le quali mi respingono. Voglio bene a questa casa, mi rincresce di abbandonare i miei quadri, le mie coppe cesellate e i miei vasi rarissimi; talvolta, perfino non so risolvermi a lasciare i miei cavalli. Poi avrei qualche rincrescimento a star molto tempo senza vederti, mio carissimo. — Grazie del posto che mi assegni, disse Tibaldo ridendo: ma come! nemmeno io ti potrei accompagnare? — No. Altrimenti sarebbe come le altre volte. Ho già viaggiato, ma sempre seguìto da una parte delle mie abitudini di qui. Ora non si tratterebbe di viaggiare per viaggiare; vorrei provare, come ti dissi, di andare a vivere sotto un altro nome in un paese nuovo per me, e dove io fossi nuovo per tutti e sconosciuto. Se tu venissi il progetto sarebbe rovinato. — Se non mi vuoi, non verrò. Sarò del resto assai curioso di vederti al ritorno. È difficile supporre che tu possa diventare più stravagante di adesso, ma in te tutto è possibile. — Fuorchè possa stare molto tempo senza bere. Così dicendo, il duca agitò un campanello e poco dopo entrò un moretto vestito di giallo portando sul palmo della mano all’altezza del capo un piccolo vassoio d’argento con un’anfora piena di vino color d’ambra ed alcuni bicchieri. Il colloquio dei due amici durò ancora tanto che il fuoco era pressochè spento, il lume della lampada cominciava a vacillare, il narguilhè non susurrava più e l’anfora era vuota mentre parlavano ancora. Se qualcuno avesse potuto star nascosto dietro le tende ad ascoltare, non avrebbe certo pensato che i loro discorsi mancassero di varietà. La conversazione scendeva e saliva come i raggi di un fuoco d’artifizio; talvolta languiva e sembrava si addormentasse, poi, ravvivata da una parola gettata a caso, riprendeva nuovo vigore, entrando in un’altra via. Parlarono d’arte e di donne, dell’ultima commedia e della vita futura, dell’India e delle caccie alla volpe, di corse e di musica, di cento altre cose e del progetto del duca. La pendola di lapislazzuli segnava già le prime ore del mattino, quando finalmente Tibaldo prese congedo dall’amico, giurando di non avere sprecato la sua sera, e questi, accompagnato dal moretto che faceva lume, passò nella stanza ove il letto lo aspettava — un letto bassissimo all’orientale. II Certo il nome del duca di Westford non può riuscire affatto sconosciuto ad alcuno. Ebbe una di quelle rinomanze non durevoli, se si vuole, ma abbastanza estese perchè il suo nome non sia nuovo anche per coloro che non ebbero la fortuna di conoscerlo e che vissero lontani dai luoghi ch’egli frequentò maggiormente. La sua figura, la sua ricchezza, il suo ingegno, il suo nome, l’inarrivabile eleganza, i gusti squisiti e strani, la sua passione per le cose d’arte, l’orientale prodigalità ne resero il nome popolare. Pure rimase un tipo a sè. Il suo carattere era originale quanto la sua figura e la sua eleganza. Inoltre quanto era eclettico nei suoi gusti, altrettanto era cosmopolita. Lo era un po’ per nascita, molto per educazione, completamente per abitudini e per gusto. D’inglese non aveva che il nome, suo padre avendo passato quasi tutta la vita sul continente, per ragioni che è inutile l’esporre, dove si era ammogliato con una italiana, figlia unica e bellissima di un patrizio romano. Questa morì dando alla luce il nostro eroe, il quale passò con suo padre, rimasto solo, tutta l’infanzia e l’adolescenza viaggiando, e non andò che due volte in Inghilterra. Il duca morì egli pure poco dopo, e Giorgio si trovò giovanissimo a Parigi, duca di Westford e padrone di un patrimonio colossale. Era stanco di girare, si trovava nella capitale del mondo, più a casa sua che a Westford o a Londra, e perciò comperò una casa elegante con un bel giardino, e vi si stabilì. Non vogliamo certo raccontar qui tutte le sue follie, nè descrivere il lusso inimitabile di cui si circondò; solo la descrizione esatta della sua camera e la breve dipintura di una delle sue feste basterebbero a fare un volume; che il lettore si rassicuri, non è nostra intenzione il farlo. Diremo soltanto che dopo di aver vissuto più e meglio di molti altri, dopo di aver speso la sostanza di una mezza dozzina di ambasciatori plenipotenziari, dopo di esser riuscito a far parlare di sè, dopo d’aver sontuosamente viaggiato, dopo di aver avuto i più bei cavalli, i più ricchi appartamenti di Parigi, dopo di aver dato alle donne meno brutte i più preziosi gioielli, lo troviamo, al momento in cui ebbe con Tibaldo il colloquio memorabile trascritto nel capitolo precedente, privo di molte illusioni prima di averle provate, un po’ stanco della vita che conduceva e volendo, ma non sapendo risolversi a cambiarla. Vi era però in lui una potenza inesaurabile d’interessarsi anche alle più piccole cose, purchè per un lato qualunque meritassero interesse; nessuna delle sue facoltà intellettuali era in alcun modo affievolita, e purchè potesse cambiare di scenario, vivere senza che la sua più piccola azione fosse discussa ed imitata, spogliandosi della sua riputazione di cui era annoiato e cercando i divertimenti più semplici di cui era meno stanco, non avrebbe certo conosciuta quella più terribile delle malattie, la noia. Abbiamo detto ch’egli aveva molto vissuto, e davvero non aveva sprecato il tempo; ma appunto il suo stato eccezionalmente ricco ed indipendente che gli aveva concesso di soddisfare tutti i suoi desiderii, gli aveva impedito di risentire quelle emozioni che sono la parte del più gran numero. A questo giovane che aveva provato tutto, quello anche cui quasi nessuno può raggiungere, erano mancate le più comuni tentazioni; egli ignorava la lotta, la gioia della cosa a lungo vagheggiata invano ed il trionfo di ottenerla, la passione contrastata; sentiva qualche volta un vuoto che a lui stesso riusciva inesplicabile. La sua vita non era stata sempre frivola ed allegra, come una festa per la quale il mattino non giunge mai; egli conosceva l’amore; aveva amato con passione, con tutte le raffinatezze dell’anima sua eletta e del suo ingegno superiore; ma in amore, come nel resto, nel senso più egoistico della parola, era stato fortunato. I suoi amori erano sorti chiari, luminosi, inevitabili; la via gli si era aperta dinanzi fiorita e senza spine, con abbastanza ostacoli e mistero per renderla interessante, ma senza urti violenti o lagrime amare, avevano durato quello che dovevano, ed erano finiti come un bel tramonto di una bella giornata di luglio, dorati, fulgenti, senza scossa, senza rimorsi, senza ferita sanguinosa, serenamente. Chi lo avrebbe detto? Questo felice mortale si sentiva talora invidioso a sua volta di quelli che lo invidiavano. Invidiava quei figli di famiglia, novizi nella vita, pei quali egli era un re: invidiava loro gli amori contrastati, le difficoltà, i debiti, le impertinenze ricevute dalle belle sdegnose, e le acerbe rimostranze del padre o del tutore: invidiava loro i desiderii insoddisfatti, il cavallo che arrivava troppo tardi e la cambiale che scadeva troppo presto. Talvolta scendeva ancor più e invidiava allo studente i trionfi dei balli publici e gli esami non passati. Egli conosceva tutti, tutte le società — la buona e la cattiva. La sua curiosità invincibile lo spingeva dovunque, i suoi mezzi gli avevano dato facoltà di tutto approfondire. Quando la sua carrozza passava, quella perfezione di gusto che era il sogno non realizzato di ogni membro del Jockey Club, tutti dicevano: è il duca Giorgio (come si aveva preso l’abitudine di chiamarlo). Di tanto intanto, cambiava bruscamente di vita, tanto la sua natura irrequieta era avida di varietà, e tanto cercava di moversi nel circolo largo, ma ristretto per lui, in cui si trovava. Ora lo si vedeva sempre, ora non lo si vedeva che in pochi luoghi privilegiati, ora non lo si vedeva più. Queste eclissi totali erano le meno frequenti, ma accadevano talvolta; allora qualcuno lo credeva partito, ed egli non si era mosso da Parigi e qualche volta da casa. Se fosse stato possibile assegnargli una nazionalità, per quanto indecisa, lo si sarebbe detto francese, per lo spirito ed il brio e per la noncuranza: ma dal padre aveva ereditato la freddezza inglese e gli occhi chiari, dalla madre una facilità di percezione e una impetuosità italiana che scoppiava talvolta, e i capelli oscuri. Il suo volto possedeva quella bellezza suprema in cui la regolarità stessa dei lineamenti dona l’espressione; e sarebbe stato un tipo classico, se la finezza non fosse stata perfino un poco esagerata e l’occhio un po’ troppo allungato di forma. Non sarà difficile perciò l’immaginarselo; tranne in una cosa: impossibile farsi un’idea del suo sorriso. Chi lo vide una volta non lo dimenticò più; per quanto egli fosse ricco, crediamo che in esso stesse la sua maggior ricchezza. Per chi possiede un tal sorriso, la parola diventa un accessorio; diceva dei volumi, accompagnava, rinforzava, contraddiceva lo sguardo. Persuadeva, intimava, rassicurava, chiedeva perdono e l’otteneva sempre; era talvolta di un’audacia invincibile. — Quel sorriso strano, capriccioso, irregolare per così dire, che si abbozzava in mezzo a quel viso senza difetti, contrastava con la bellezza classica del profilo, nè se ne sarebbe creduta capace quella bocca cesellata a perfezione. Del resto bello della persona, con la mano finissima e un piede da donna, svelto nelle movenze, di statura media, ma con l’apparenza di un uomo alto per la eleganza del portamento, era una di quelle figure che attirano l’attenzione, e forse sarebbe stato osservato anche non chiamandosi il duca di Westford. È poi indubitabile che la sua riputazione non era unicamente dovuta al suo nome e alla sua ricchezza, e nemmeno alla sua bellezza ed alle sue follie. Il suo ingegno e più ancora il suo spirito vi entravano certo per una gran parte, e insieme a coteste qualità principali, altre minori: per esempio la perfetta noncuranza dell’opinione, i suoi modi inimitabili, la sua gentilezza mista ad un’ironìa fina e che non feriva mai, la sua generosità per cui le voci della riconoscenza soffocavano quelle dell’invidia. La sua passione per il bello lo spingeva di predilezione verso i frutti della fantasia, e la sua passione ed intelligenza nelle arti era tale che i suoi giudizi avevano qualche peso, ed erano certo improntati di molta giustezza insieme a molta originalità. Quando egli incominciò a vivere a Parigi, giovanissimo come era allora, eccitò talmente l’interesse generale che si parlò di lui solo per molto tempo. La sua comparsa fu un trionfo. E durò perchè le sue facoltà erano svariatissime e le sue originalità veramente originali. Tutto gli era permesso, tutto gli era accessibile. Il suo lusso era di una ricercatezza sconosciuta. Non crediamo tutte le storielle che si narrano sul suo conto, ma in tutto ci deve essere una base di vero. Egli aveva pochissimi parenti in Inghilterra, molti a Roma, ma questi non se ne curavano, la più parte non conoscendolo che di nome. I primi però si occuparono di lui, suo malgrado, ben inteso, e combinarono di fargli sposare la figlia di un principotto tedesco, mediatizzato. Egli rifiutò subito, ma come accade sempre, si sparse per qualche tempo la voce che fosse vero, e creò una commozione stranissima; poi altrettanto interminabili furono le ciarle a proposito del suo rifiuto. Il progetto ch’egli aveva confidato a Tibaldo da qualche tempo lo occupava, ma rimase lungamente anche dopo il colloquio di quella sera allo stato di semplice progetto. Trovò il tentativo di romper le sue abitudini ancor più difficile di quello che credeva. Fu però fermo nel proposito di non tenerne parola, con alcuno, e Tibaldo mantenne scrupolosamente il segreto, talchè quando finalmente fu alla vigilia di effettuarlo, nessuno lo sospettava, nulla affatto ne era trapelato. Le sue disposizioni furono presto prese. Incaricò un uomo di confidenza di vendere i cavalli, tranne i suoi tre favoriti, ma non volle che alcuna delle persone al suo servizio fosse licenziata. Raccomandò che si avesse molta cura delle opere d’arte ch’egli tanto prediligeva, acciò non soffrissero alcun danno durante la sua assenza, che naturalmente doveva esser lunga. Non salutò nè la Ximena, nè alcuna delle donne «di un carattere leggiero» che si vantavano di conoscerlo, nè andò a baciar la mano a Lady Isabella, nè ad alcuna delle dame più in voga. La vigilia della partenza — mentre il suo fido cameriere si occupava degli ultimi preparativi, — egli condusse la sua vita solita, e nessuno di quelli cui rivolse la parola, ebbe nemmeno una lontana idea di non rivederlo all’indomani. Verso le quattro, comparve in una carrozza nuova tirata da due sauri puro sangue, uno dei quali era montato da un ragazzo di quindici anni, che con la sua giacchetta celeste e argento e le sue guance rosee sembrava un cherubino in livrea. Disse una parola di complimento alla Fiorelli, la celebre prima donna, sul modo divino con cui aveva cantato la sera prima nei Vespri, offerse alla duchessa di M. il fiore che portava all’occhiello, parlò per cinque minuti con un segretario del ministro. — Alla sera si affacciò al suo palco. All’indomani la duchessa di M., passando per caso in carrozza un po’ dopo mezzogiorno dinanzi alla casa del duca, non potè quasi credere ai suoi occhi vedendo chiuse tutte le imposte, il giardino deserto e tutta l’abitazione improntata dei segni dell’assenza. Fu la prima a raccontarlo, e subito la notizia si sparse con la celerità del telegrafo. Fu creduta, contradetta, commentata, ma constatata. — Westford era partito! Tibaldo fu subito interrogato, ed egli che non aveva più motivo di tacere, confermò che Giorgio aveva lasciato Parigi. — E dov’è andato? — Non so. — E quando tornerà? — Non me l’ha detto. III Il paese d’Europa il più pittoresco, e allo stesso tempo non troppo lontano dai grandi centri della vita attuale, è certamente la Spagna. L’influenza moderna che tutto uniforma e toglie ai costumi dei popoli il loro carattere speciale, non vi ha penetrato ancora che in parte, e, abitandovi, vi potete credere ad una distanza molto maggiore di quello che siete realmente dalle città dove le continue relazioni hanno tolto ogni fisonomia speciale. Inoltre, la vicinanza dell’Africa per la natura, per i monumenti e le tradizioni il lungo dominio dei Mori, v’imprimono una originalità spiccata ed un fascino che può conoscere soltanto chi lo ha provato. Nelle città, le vie strette, tortuose, le case dalle tettoie sporgenti, gli ornamenti moreschi, il pavimento inuguale, il bianco caldissimo del nastro di cielo che si ha sopra la testa, rammentano talvolta l’Oriente; ma più ancora la campagna con i suoi paesaggi aridi e caldi, con le roccie quasi cotte dal sole, con l’abbagliante bianchezza del suolo e l’infuocato splendore del cielo che dà a momenti l’illusione del deserto. La tristezza luminosa di quell’atmosfera bianca e incendiata è affatto nuova per chi è abituato a considerare sempre un raggio di sole come un sorriso, e suscita nell’anima una malinconia orientale, serena, pesante che ne lascia intravedere quale dev’essere la mestizia delle sfingi, seppellite fino al collo da secoli nella sabbia ignea dell’Egitto. Sulle prime il paesaggio non diverte. Quella monotonia di tinte, quella malinconia dorata sparsa sopra tutto, quei vasti spazi che di tratto in tratto si stendono uniformi davanti allo sguardo, non rallegrati nè da un bosco nè da una forte ondulazione di terreno, ma solo da qualche cespuglio e da qualche scoglio di forma strana, quelle montagne a picco in distanza, stancano moltissimo. Ma a poco a poco si capiscono quelle bellezze cui non si è abituati, e s’intravede la tranquilla e serena poesia di quel suolo perpetuamente accarezzato dal caldissimo dardeggiare del sole e l’orientale maestà di quel cielo bianco — lietissimo, ma non sorridente. Inoltre la piaga dei ciceroni non vi è ancora penetrata, si può annoiarsi e divertirsi senza che qualcuno ve lo dica, ed ammirare coi propri occhi e non per mezzo d’interprete; poi rammentando le molte avventure accadute nei luoghi stessi che si traversano, si gioisce della sola idea di trovarsi in pieno decimonono secolo in un paese dove le avventure sono ancora possibili. I viaggiatori di fervidissima immaginazione possono perfino nutrire la vaga lusinga di essere attaccati dai briganti. Nelle campagne e fra i monti il costume del paese si vede ancora di frequente, tanto più che spesso lo vestono in viaggio anche gli abitanti delle città, i quali però a casa pongono ogni loro ambizione nell’esser vestiti altrettanto male quanto altrove. Spesse volte perciò le tinte brune e severe delle rocce ed il bianco della pianura dove l’occhio cerca invano dei colori vivaci, vengono d’improvviso rallegrati da una macchietta variopinta ed animata. Sulle prime, specialmente l’occhio poco esercitato dello straniero non sa distinguere cosa sia, ma poi si accorge che quella oasi mobile di colori è composta d’una piccola carovana di persone vestite del pittoresco costume di maio e montati su dei muli tanto bizzarramente e riccamente bardati da lottare in eleganza con gli stessi cavalieri. E davvero alletta gli occhi abituati a non vedere che l’abito del progresso, il guardare quelle giubbette in velluto nero, coperte di ricami, quelle cinture rosse con le lunghe frangie che svolazzano al vento, quei cappelli ornati di nastri e di fiocchi.... E si capisce come talvolta lo stesso viaggiatore sia invogliato ad assumere il costume gaio del paese, a sedersi sul mulo come un’amazzone, appoggiando il gomito al ginocchio, tenendo fra le dita il papelito, e ad essere scambiato dagli Inglesi che s’incontrano coi torero che vanno a farsi applaudire nel circo della più vicina città. E credete pure che una volta indossato quel costume vi sentite diverso. Tutte le vecchie abitudini, i pregiudizi, si lasciano negli abiti che si sono tolti, e appena avvolti nei mantelli dalle lunghe pieghe e coperto il capo col sombrero si sente molto meglio la bellezza del paesaggio e si soffre meno il caldo essendo più coperti, a seconda del proverbio nazionale. La propria città sembra a un milione di miglia di distanza, la vita passata scompare e si ha l’illusione di non essere nati per altro che per girare, al lento passo di un mulo, le stradelle malsicure delle montagne iberiche. Sembra un poco più di un secolo che non si passeggi sul lastrico liscio d’una via, e si ride come d’una supposizione temeraria e stravagante all’idea di trovarsi ancora una qualche sera nella noia armoniosa di una sala da ballo. Si dimenticano perfino molte cose che non si credeva possibile di dimenticare, pensando che a Madrid, a Siviglia e a Barcellona si potranno vedere i piedini della marchesa d’Ameguï, gli occhi neri e le labbra di corallo tanto decantate, e perfino delle magnifiche chiome bionde — come in Fiandra si trovano tante pupille nere e treccie d’ebano. E come si è potuto vivere fino allora senza una corsa di tori alla domenica? Questi erano presso a poco i pensieri che si aggiravano nella mente del nostro amico Giorgio di Westford, mentre vestito del costume il più ricamato che si sia veduto mai e montato su di un mulo dalla groppa lucente e dalla fisonomia eminentemente iberica, costeggiava una stradicciuola vicino a un precipizio poco attraente ma molto pittorico, circondato dalla sua piccola carovana e contento come un uomo che si trova a moltissime miglia di distanza dai vari macadam conosciuti. Il suo sogno era realizzato. Aveva avuto l’energia sufficiente per porre in esecuzione il suo progetto, rompendo le tenaci abitudini, ed ora gioiva della soddisfazione da tanto tempo ricercata di trovarsi incognito, libero delle sue azioni e dei suoi pensieri, lontano dalla monotonia parigina, in un bel paese dove egli non conosceva nessuno, dove non era costretto a niente e poteva vivere a modo suo e senza essere notato ogni volta che si soffiava il naso. Le contrade ch’egli attraversava avevano per lui tutta l’attrattiva della novità; allo stesso tempo risentiva la dolcezza dei ricordi, poichè gli rammentavano talvolta il paesaggio d’Oriente che aveva visitato qualche anno prima. Ma quale differenza tra quel viaggio, impreso sotto il suo vero nome, in compagnia di alcuni amici, con quattro servitori francesi e molti indigeni, e questo nel quale si trovava solo, con un nome fittizio, e distaccato completamente da quanto gli rammentava la sua vita abituale! Egli aveva molto letto a proposito della Spagna ed era contentissimo di essere riuscito al tempo stesso ad effettuare il suo progetto e a visitare un paese pel quale da lungo tempo sentiva una irresistibile curiosità. Era però, sotto un certo punto di vista, un cattivo viaggiatore, preferendo sempre errare alla ventura piuttosto che seguire fedelmente un itinerario qualunque. Girò e rigirò, nelle orrende diligenze che facevano allora il servizio tra un villaggio e l’altro, oppure sui muli dall’aspetto tanto nazionale che sono le guide migliori sulle nude e scoscese montagne: ora dimenticandosi per delle intere giornate nelle interminabili pianure, ora passando a fianco, senza vederlo, a qualche stupendo effetto di natura o a qualche strano avanzo d’arte. Sulle prime, al solito, il paese gli apparve molto diverso da quello che si era figurato, e a dire il vero l’impressione era piuttosto al di sotto che al disopra dell’aspettativa. Lo credeva diverso. Si aspettava qualche cosa di più colorito, di più animato, di più nuovo. Capiva alcune bellezze, vedeva che tutto era pittoresco, ma non ammirava nulla. Alcuni paesi infatti, come alcuni poeti, non si comprendono che gradatamente. Al primo momento, si può quasi dire che deprimono invece di esaltare. Poi lentamente, quasi inavvertitamente, la loro bellezza comincia a diventare palese, e senza che ne sia dato il sentirlo, siamo imbevuti a poco a poco del loro significato. Allora ci accorgiamo che il fascino raccontato dagli altri lo sentiamo anche noi e diventiamo a nostra volta un oggetto di stupore pei nuovi arrivati che sul principio sentono, come sentimmo, una specie quasi di scoraggiamento. Appena Westford ebbe compreso le bellezze che al primo momento gli erano state oscure, fu innamorato del paese che aveva scelto e si sentì fortemente invogliato — mentre ammirava il paesaggio con la intensità d’intelligenza che ne presta la solitudine — a conoscerne anche la vita ed i costumi. Eseguiva in tal modo assai male il proprio piano, che era di visitare tutto ciò che vi fosse di più rinomato prima di far soggiorno in una città qualunque; ma la solitudine, che gli era sembrata tanto aggradevole nei primi giorni, cominciò presto ad essergli di peso e un violento desiderio lo afferrò di provare la vita indipendente che il suo incognito gli assicurava in una città. Fu per ciò che prima ancora di avere nemmeno fatto il pellegrinaggio dell’Alhambra, l’incontriamo sul suo mulo riccamente bardato, mentre prendeva i più corti sentieri di traverso per raggiungere la diligenza che lo doveva condurre a Madrid. Colà nessuno lo aspettava, nè amici nè conoscenti, e nulla sapeva di sicuro sul grado d’interesse che quella capitale gli avrebbe presentato. Come tutti, aveva molta curiosità per quei costumi speciali, sebbene sapesse benissimo che in alcune cose l’attendeva il disinganno. Egli che ne avrebbe potuto avere cento, non portava seco nemmeno una sola lettera di raccomandazione, tanto aveva voluto esser fedele al suo programma. IV Ritrovando il nostro protagonista un mese e qualche giorno dopo il suo arrivo nella nobilissima ed insigne capitale della Spagna, siamo costretti ad accorgerci dal suo alloggio e dall’attitudine nella quale lo troviamo che la sua smania di vagabondare si è scemata di molto. Lo ritroviamo infatti seduto in un’ampia poltrona, vestito il più leggermente che sia possibile, vicino a una finestra del terzo piano di una casa pulita e affatto moderna, in una via tortuosa d’uno dei vecchi quartieri. I vetri erano chiusi e Giorgio coi piedi più alti del capo in una postura ultramericana, teneva un libro alla mano, la cui lettura però sembrava interessarlo mediocremente, poichè di tratto in tratto gettava uno sguardo indagatore tra gli interstizi delle cortine di mussola bianca, come volesse spiare qualcosa dalla parte opposta della via. Questa, malgrado fosse stretta assai, non era però triste come lo sono le viuzze nelle città settentrionali, tanto il sole ardente sa in quel paese penetrare dovunque; e nel giorno caldissimo di cui parliamo, gettava un raggio che rischiarava molto pittoricamente la parte più alta della casa in faccia a quella ov’era Giorgio, lasciandone la base nella relativa frescura dell’ombra. Quella casa era, si può dire, l’opposto di quella abitata dal duca, poichè, sebbene di aspetto povero e poco pulito, aveva un carattere di vetustà assai romantico ed era di un’architettura barocca e contorta, affatto speciale. In quegli ornamenti spezzati, in quei fregi interrotti qua e là, in quelle pitture quasi cancellate oramai, v’era un contrasto assai spiccato di opulenza passata e di decadenza presente, che è pur troppo un carattere abbastanza spagnolo. La finestra, posta precisamente di contro a quella del nostro protagonista, e sulla quale sembrava posarsi il suo sguardo tutte le volte che lo spingeva attraverso i vetri, avrebbe certo da sè sola invogliato un pittore a fermarsi per farne uno schizzo. — Il contrasto di cui parlammo or ora era qui assai palese, giacchè tutt’all’intorno girava una cornice di pietra rozzamente, ma riccamente intagliata, i cui arabeschi mozzi mostravansi qua e là coperti da un pugno di verde muschio o erba, che vi aveva vegetato, Dio sa come, e lo stipite si vedeva esser stato ricco assai, mentre i vetri della finestra erano color di piombo e malamente incassati in una cattiva intelaiatura di legno dipinto in verde chiaro. Al di sotto intravedevasi come un avanzo di scudo sul quale uno stemma doveva essere stato inciso altre volte, ma la parte di esso che sembrava meno obliterata, era a metà coperta da un panno bianco posto sul parapetto ad asciugare al sole. Sopra un’assicella al di fuori un grosso vaso panciuto in terraglia comune gialla a disegni turchini conteneva dei garofani in piena fioritura che toccavano un punto vivace sul fondo grigio della casa ed animavano, si può dire, la finestra, del resto affatto deserta in quel momento. La stanza abitata da Giorgio era piccola, ma pulita ed allegra, ed egli con le sue abitudini di eleganza, l’aveva già assettata in modo da renderla simpatica. I vasi e le scatolette a coperchio d’argento di un nécessaire, ordinati su di una tavola coperta di bianco, contrastavano con la semplicità delle pareti nude, dei mobili in legno comune e delle sedie di paglia. Da mille indizi indescrivibili si capiva però che quella stanza era stata scelta da Giorgio per farvi una dimora di qualche tempo — il che ne fece dire che sentisse già il bisogno della quiete. Appena giunto a Madrid, era sceso ad uno dei grandi alberghi. In qual modo dunque, poco più di un mese dopo, lo troviamo nella viuzza in questione? — La spiegazione sarà certo già presentita dalla lettrice, ed essa non sarà troppo stupita se le diciamo che proprio in uno dei momenti in cui il duca volgeva più attento lo sguardo verso la finestra di faccia, questa si aprì, ed una figura di donna vi apparve che sicuramente avrebbe fatto molto piacere anche a quel pittore che abbiamo supposto arrestato nella via a schizzare le linee sbiadite di quelli ornati ridotti quasi a vestigia. Era il suo il vero tipo spagnolo — non precisamente quello che fuori di Spagna si reputa tale, e che è piuttosto il tipo arabo o moresco. L’irregolarità bellissima dei suoi lineamenti non era quella che c’imaginiamo quando parliamo delle manolas, avendo un carattere di grazia un po’ manierata ed indescrivibile che ne sarebbe forse sembrata piuttosto francese, e la sua pelle era bianchissima. La bocca piccola e porporina, gli occhi allungati, espressivi, un po’ infantili nello sguardo, il collo robusto e snello ad un tempo, le mani lunghe, strette, un po’ magre, l’ovale del volto graziosissimo, ed una espressione derivante dal sorriso della bocca e più ancora da quello degli occhi, dall’arco delle sopracciglia, dalla linea del naso e del mento che solo il pennello potrebbe forse tradurre, rendevano la sua bellezza molto originale. I capelli neri, attortigliati in massa sulla nuca, erano tenuti da un alto pettine di tartaruga tutto traforato, di strano disegno, come in tutte le famiglie spagnole si tramandano di madre in figlia. Il suo vestito non aveva nulla di speciale, poichè il costume nazionale va perdendosi a poco a poco anche nelle classi meno alte, ma la sua veste bruna e casalinga disegnava delle forme che molte duchesse avrebbero invidiato. Ella si affacciò alla finestra tenendo nella destra una caraffa piena d’acqua che versò tutta sui fiori, quasi già avvizziti dal sole, ed essi si rianimarono d’un tratto sotto quella benefica pioggia di cui avevano gran bisogno. Per amore della verità, dobbiamo però constatare che nel far ciò, gettò sbadatamente uno sguardo alla finestra opposta e vedendola ben chiusa, depose la caraffa, e si appoggiò al parapetto, guardando ora i suoi fiori che sembravano ringraziarla allargando le corolle, ora i rari passanti nella via. In uno di questi momenti, Giorgio aperse a sua volta lentamente la finestra e si affacciò, osservando fissamente il bel quadretto che aveva davanti. — Ma questa manovra non gli riuscì troppo, chè appena la bella fanciulla, sollevando ancora gli occhi, se ne accorse, senza affettazione ma abbastanza prestamente si tirò indietro, e come si accorgesse allora dei raggi cocenti del sole che le battevano sulla fronte, abbassò la tenda di paglia grossolanamente dipinta a fiori e foglie — calando così, per lo spettatore di faccia, il sipario prima che la scena fosse incominciata. Come avrebbero riso sgangheratamente i suoi amici se avessero veduto Westford nell’esercizio di quella manovra da collegiale! E siamo certi che anche il lettore ne taccierà d’inverisimiglianza e non saprà comprendere come quel giovane, che aveva tanto e così svariatamente vissuto, potesse giungere ad alloggiarsi in faccia ad una bella fanciulla qualunque con lo scopo semplicissimo di farle comodamente gli occhietti. Ma siamo obbligati a dire che i suoi amici (e questo non stupirà certo) non lo conoscevano punto se ridevano per una tal cosa; e che noi, con nostro grande rincrescimento, non abbiamo saputo in tal caso delineare come volevamo il carattere piuttosto eccezionale del duca. Infatti, uno dei distintivi principali di esso era di seguire spessissimo la sua prima impressione. Inoltre, non bisogna dimenticare ch’egli poteva trovare interesse oramai solo nelle cose che non aveva fatto prima, e che la semplicità doveva riuscirgli più nuova della raffinatezza. Dopo qualche giorno di dimora a Madrid, il primo entusiasmo di trovarsi davvero indipendente, il piacere della solitudine nella folla e dell’incognito, diminuirono, e dovette confessare a sè medesimo che il progetto che gli era sembrato così divertente non lo era troppo, posto in esecuzione, e che perfino questo tentativo di mutamento non riusciva. Gli venne una terribile paura che Tibaldo ed il suo calzolaio avessero ragione e ch’egli fosse proprio irrimediabilmente blasé. Riuscì a scuoterla però; ma malgrado questo, quando ebbe visitato tutti i monumenti, penetrato in tutte le chiese, ammirati tutti i quadri, dai paradisiaci Murillo fino ai Goya ed ai Ribeira tenebrosi e mistici, passeggiato e ripasseggiato al Prado guardando le senoras avvolte nel velo e mostrando le belle manine agitando il ventaglio irrequieto, fumato tutte le qualità di tabacco, bevute tutte le bevande e gustati tutti i sorbetti nazionali, capì che non sapeva bene cosa farebbe della propria persona all’indomani. Acquistò un nuovo costume completo da un sarto indigeno, fece ampia conoscenza con la cucina spagnola, tentò di far la corte ad una signora che stava nel suo albergo, ma tralasciò per paura di riuscire, — e finalmente dovette ammettere che si annoiava. Un combattimento di tori (che la lettrice non chiuda il libro troppo precipitosamente! non lo descriveremo) che lo divertì per la novità e l’eccitamento dello spettacolo, e qualche conoscenza fatta per caso, al caffè, lo aiutarono a sopportare la noia incipiente che lo invadeva, ma non bastarono a distrarlo. Solo lo divertiva il far delle lunghe chiacchiere e discussioni con i suoi nuovi amici, di cui quasi ignorava il nome; buoni ragazzi, fra i quali alcuni artisti di teatro che lo trattavano con tutta famigliarità e quasi con un poco di protezione che lo faceva ridere internamente. Lasciando Parigi, egli s’era solo proposto di cercare le attrattive di un paese nuovo e di una vita diversa, e l’idea di mischiarsi in avventure era lontanissima dalla sua imaginazione. L’elemento femminile non entrava nel suo progetto. Ma si accorse ben presto che uno dei mezzi che cominciava, quasi involontariamente, ad adoperare per cacciare quelle prime nebbie di noia minacciose, era di fare degli studi artistici molto assidui su tutte le donne che passavano e che potevano forse esser belle. Non gli dispiaceva punto lo sguardo di fuoco che le donne spagnole gettano con molta rapidità su tutti indifferentemente. — Ma le bellezze che vedeva erano molto al disotto dell’ideale che se ne era formato. Singolare pretesa che si ha infatti talvolta di volere che in un dato paese tutte le donne siano belle! Malgrado tutto ciò, non si divertiva, senza che però si pentisse in alcun modo del suo viaggio, poichè perfino la noia era diversa dalla solita. Pure capì che una qualche distrazione ci voleva. Un giorno vide passare la fanciulla che presentammo al lettore in principio del capitolo, e la trovò più bella di quante avesse incontrate fino allora. Aveva quella simpatica camminatura viva e cadenzata particolare alle Spagnole, ed il suo piedino, calzato a perfezione da una scarpina che ne copriva solo la punta, era elegante di forma e pareva nel camminare raccontasse molte cose. L’accompagnava una donna vecchia, che un poco le rassomigliava. Sicuro che nessuno dei suoi amici lo vedeva, la seguì e la vide entrare nella casa che abbiamo descritto. Un cartello sulla casa in faccia annunziava che al secondo piano si appigionava; egli entrò, e prese le due stanze verso strada, proprio in faccia alla dimora della incognita. Dava per pretesto a sè stesso, che era stanco di stare all’albergo e che così eseguiva meglio il suo piano. L’indolenza del suo carattere, e per dire il vero, la quasi indifferenza che, malgrado tentasse combinare un romanzetto, egli sentiva per la fanciulla, impedirono che egli diventasse molto intraprendente, e siamo costretti di confessare che dopo qualche giorno non si curò molto dello scopo che lo aveva condotto nella sua nuova dimora e non si metteva che assai di raro al suo posto di osservazione alla finestra, dove lo abbiamo sorpreso. Pure, quelle volte che vi era stato lungamente ed aveva attentamente osservato col suo occhio scrutatore, l’aveva trovata molto bella, e di una bellezza che artisticamente gli rivelava un orizzonte nuovo e modificava un poco il suo gusto. Egli infatti, come abbiam veduto, era prima di tutto (chi gli darebbe torto?) ammiratore della bellezza pura, sculturale, greca. La Venere di Milo era la prima sulla lista — dopo, le altre. In mancanza di quella bellezza assoluta e completa di forme e di linee, amava l’espressione, l’anima, il carattere impresso sulla fisonomia, ed acconsentiva a non darsi cura di molte imperfezioni purchè gli occhi fossero eloquenti, i lineamenti espressivi, la fisonomia originale, il sorriso caratteristico, purchè insomma ogni linea raccontasse la sua storia. Nella bellezza della fanciulla che ora aveva il progetto di corteggiare non vi era nè la bellezza altissima che Fidia e Prassitele resero immortale, nè quella bellezza che Tibaldo aveva chiamato moderna nel parlare di Lady Isabella. La era semplicemente la bellezza della grazia, della freschezza, del capriccio. Il suo occhio non era profondo e non rivelava molto, la sua espressione era allegra, vivace e nulla più, le sue forme e le sue linee erano belle, ma non perfette. Il suo viso inoltre non raccontava una di quelle storie che ne invogliano a studiare l’anima della persona che lo possiede. In compenso però sembrava aspettare che qualcuno gli narrasse la propria. Giorgio intanto si abituava alla sua vita nuova e tornava ad essere assai contento di aver posto la sua idea in fatto. I suoi nuovi amici, che quasi non conosceva, lo divertivano molto. Fece con loro qualche gita nei dintorni. I giorni si succedevano; ed egli che, malgrado tutto, era uomo di abitudine, cominciava a dire: «Chi sa quando cambierò?» V Penetriamo nella casa in faccia. Pensate all’impressione di Faust che per la prima volta entra nella stanza di Margherita; invece della semplicità tedesca imaginate il pittoresco spagnolo, invece dell’arcolaio un lavoro in lana a colori vivacissimi e una chitarra; invece del letticciuolo bianco, dei mobili lucenti e dello specchietto accuratamente ripulito della eroina di Goethe, un’alcova semichiusa da una tenda di lana bruna e rossa, nell’ombra della quale si travede una palma, una Madonna ed una candela benedetta; dei mobili rozzi, di stile barocco, anneriti e guasti dal tempo, ed uno specchio a cornice anticamente inargentata — solo di tanto in tanto come rischiarato dalla graziosa imagine che vi si riflette — ed avrete un’idea dell’effetto che produceva la stanza di Paquita a chi si soffermasse sull’uscio per la prima volta. Per completare il quadro potete imaginare la graziosa fanciulla vicina alla finestra, curva sul lavoro incominciato; ma ella non vi stava con troppa costanza, poichè la sua natura viva, irrequieta, leggiera, le faceva cambiare sovente di posto e girar qua e là con quel passo saltellante che le era particolare. Ella era padrona in casa. Sua nonna, con la quale viveva, aveva sempre fatto ogni sua volontà. Ben inteso che in contracambio la Paquita era da tutti i conoscenti giudicata un modello di ragazza. Essi erano quasi ricchi per la loro condizione, sebbene in realtà quasi poveri; ma con le economie della nonna, una piccola pensione ed il lavoro della fanciulla se la passavano bene e talvolta andavano al circo o si sedevano a tavola con qualche amico dinanzi a delle natillas preparate dalle bianche mani di Paquita. Un giorno vi si assise anche il duca di Westford, senza, è d’uopo il dirlo? che le due donne sapessero quale illustre invitato esse avevano.... L’accesso nella casa di Paquita non era certo facile; come aveva dunque fatto egli, con la sua indolenza per di più, a penetrarvi? — Ne duole più che mai, ma siamo costretti a dire che non fu nè gettandosi in mezzo alle fiamme per salvare le due donne, nè fermando col pugno un cavallo che correva a schiacciarle, nè saltando in un torrente, e nemmeno riportando loro una croce d’oro smarrita o un fazzoletto caduto dalla finestra. Nulla di tutto ciò. Un giorno egli passeggiava solitario, assorto presso a poco in questo soliloquio: «Sono felicissimo d’esser lontano e libero, questa vita mi aggrada assai, ma la è monotona e non come me l’aspettavo. Bisognerà che io scuota la mia inerzia, che parta, che vada a vedere l’Alhambra e a studiare la poesia delle altre città, che salga sulle montagne altissime donde si devono godere delle vedute di cui non ci possiamo fare un’idea, e dove forse, chi sa? incontrerò perfino i briganti!... Si vede che il pensiero di Paquita non lo tormentava poi troppo. D’improvviso egli fu interrotto da un giovane che aveva conosciuto a caso, il quale venne a battergli amichevolmente la spalla con la mano e si unì a lui nel passeggio. Giorgio aveva una certa simpatia per questo povero diavolo, che viveva Dio sa come, non trovando lavoro di sorta, benchè ne avrebbe accettato uno qualunque. — Il nuovo arrivato chiese a Giorgio cosa avrebbe fatto quella sera. — Davvero, non lo so, rispose il duca. — Allora verrete con me. — Dove? — Dove vorrete. — Ma prima, e per deciderci, vi condurrò a pranzo da mia zia; la tavola non è sontuosa, ma mia zia è la miglior donna della terra e Paquita una delle più belle fanciulle di Madrid. Sarete ricevuto come me. È molto tempo che non vi vado; vedrete che festa ne faranno. Giorgio, felice all’idea di vedere un interno spagnolo e non volendo rifiutare un invito così cordiale, s’incamminò con l’amico ed a sua grande sorpresa si trovò in faccia a casa sua. — Io abito in quella casa, disse al compagno. — Allora avrete certo veduto Paquita. Quella è la finestra della sua stanza, rispose l’altro accennando alla ben nota finestra ornata di fiori. Giorgio seppe a stento rattenere un senso di grata sorpresa — e trovandosi un quarto d’ora dopo come uno di casa seduto a tavola tra la vecchia e Paquita, pensò quanto fosse vero qualche volta che la fortuna ne sorprende addormentati. Pensò che se invece di accontentarsi di gettare di tanto in tanto uno sguardo dalla sua finestra a quella della fanciulla egli avesse tentato di penetrare nella casa in qualche modo o di attaccar discorso, forse sarebbe stato mal ricevuto e poco ascoltato, mentre invece, avendo tutto lasciato in balìa del caso, si trovava d’un tratto accolto in un modo famigliare. Ciò che vide però, aiutato dal suo fino spirito di osservazione, non gli fece certo nutrire speranza di «toccare il cuore» di Paquita; subito si capiva che non era una conquista facile, e che chiunque non si fosse presentato pour le bon motif avrebbe fatto meglio a tirar dritto per la sua strada. Quando era entrato nella stanza, appena Paquita lo vide, si era fatta rossa fino nel bianco degli occhi, il che aveva mostrato chiaramente al duca ch’egli era stato riconosciuto; e quando l’amico lo aveva presentato, il saluto della fanciulla era stato freddo ed imbarazzato, e tale che lo si poteva interpretare in vari modi. Egli provava davanti a Paquita una sensazione che non si ricordava di aver provato, e si accorse, quando ebbe udito la sua voce, che esercitava un fascino non posseduto da alcuna delle cento donne da lui conosciute fino allora. Si pranzava in una piccola stanza — adiacente a quella di Paquita da una parte ed alla cucina dall’altra — che sebbene semplicissima, era pulita assai e ornata di fiori e di un grande armadio in legno dipinto, bizzarramente intagliato. — A destra di questo era un quadretto rappresentante due guerrieri a cavallo su di una strada in riva al mare, che forse aveva qualche valore; ed a sinistra un altro quadro di quasi eguale dimensione, coperto da una tendina rossa, che eccitava non poco la curiosità di Giorgio. Egli non poteva distaccare gli sguardi da Paquita, ed ella, sebbene tentasse sembrare distratta, lo guardava pur molto a sua volta, e quando gli occhi loro s’incontravano, le belle guancie di lei si coprivano di nuovo di un leggero rossore che non era prodotto solo dalla timidità naturale. Ben inteso che Westford era stato presentato sotto al suo nome falso ed era creduto un pittore, certo non ricco, venuto per studiare i capolavori della scuola iberica. Nulla nel suo vestire o nei suoi modi poteva far dubitare del contrario, tanto egli aveva saputo, da perfetto attore, assumere l’aspetto della persona che voleva rappresentare; ma la sua bellezza e la sua distinzione non passavano perciò inosservate, e Paquita confessava a sè medesima che era difficile trovare un giovane più compito dell’amico di suo cugino. Bisognerà però ammettere che gli sguardi assassini e la sapiente cortesia di Giorgio avevano certo molto influenzato un tale giudizio. Il pranzo, affatto spagnolo e molto modesto, fu animato ed allegro assai, e Giorgio pensava quanto si potesse esser felice con poco. La vecchia era una buona donna un po’ grossolana ne’ suoi modi, ma sebbene ridesse spesso fragorosamente, aveva impressa sul suo volto quell’ombra di mestizia che lascia il dolore da lungo tempo trascorso. La conversazione era allegra, divertente, un po’ chiassosa. Giorgio piacque molto alla nonna. Egli sapeva benissimo raccontare, e si crederà facilmente che di aneddoti di ogni specie ne conosceva in gran copia. Vi era nel suo discorso qualcosa di così svariato ed originale, che in chiunque lo ascoltasse per la prima volta attirava straordinariamente l’attenzione. Il sole era già tramontato ed essi si trovavano ancora a tavola, non trattenuti dalla varietà dei cibi o dei vini, ma dalle risa e dall’interesse che le storielle di Giorgio suscitavano. Il suo cattivo accento spagnolo, anzichè diminuirla, aumentava la vis comica; e con quel tatto finissimo che lo distingueva in sommo grado aveva subito saputo stabilire la confidenza fra sè ed i suoi nuovi amici e stare nel modo più adatto ad esser simpatico nell’ambiente in cui si trovava. Il rossore ch’era montato alle guancie di Paquita, appena vedutolo entrare, e che gli aveva provato d’essere stato subito riconosciuto, erasi mutato dopo in un pallore proveniente forse da una emozione nuova, che non aveva più abbandonato le guancie della bella fanciulla; mentre, al tempo stesso, v’era qualcosa di non naturale nei suoi modi e non sembrava partecipare francamente dell’allegria comune (ella tanto allegra di solito), come accade quando un pensiero ne preoccupa fortemente. Fu proposto di uscire a prendere il fresco della sera. L’aria era soavemente profumata, il caldo un po’ meno eccessivo, le vie piene di gente. Giorgio che si era, a tavola, occupato un po’ troppo di Paquita, cominciò ad intrattenere la vecchia, mentre la fanciulla camminava dinanzi a loro, conversando col cugino. — La mia Paquita è una perla, signore, diceva la vecchia. È la mia consolazione; dopo tanti guai e tanti dispiaceri, Dio mel perdoni! al passato non penso quasi più, tanta è la gioia che sento nel cuore quando l’ascolto ridere nella stanza vicina. Voglia il cielo ch’ella possa esser felice! — E come può essere altrimenti? — Sono vecchia, e V. S. comprenderà che se non la marito prima di andarmene, la poveretta resterà sola al mondo, senza appoggio, senza consiglio, senza mezzi.... Or qui sta appunto la difficoltà. — Come? bella com’è vostra nipote, non trova pretendenti? — Non ne trova? Dieci, cento alla volta, se li volesse. Ma ella rifiuta tutti! — E senza andar lontano, il vostro amico, suo cugino, un bravo giovane, non troppo fortunato, ma eccellente, la sposerebbe stassera; ma per quanto l’abbia pregata, consigliata, volete credere ch’ella rifiutò sempre? Quando tornarono verso casa era notte inoltrata. Camminavano come prima, adagio adagio, due a due. Ma i posti erano cambiati; il cugino e la vecchia rimanevano indietro, il duca e Paquita davanti. Nè l’uno nè l’altra forse aveva avuto l’intenzione (Paquita no, certamente) di mettersi vicini, ma vi si trovavano. Il povero diavolo si lamentava ad alta voce con la nonna dell’ostinato rifiuto di Paquita ed aggiungeva che non era mai stata così poco cortese con lui quanto quella sera. La vecchia lo esortava ad aver pazienza, al solito, ed a lasciar agire il tempo. — E i due davanti di che parlavano? Non lo sapremmo dire con esattezza, poichè le poche parole che proferivano, erano pronunziate a bassa voce come fossero in chiesa. VI «Cosa diavolo diventa quel pazzo di Giorgio? — pensava Tibaldo. — Egli ha fatto il contrario di ciò che io aveva predetto. Come credere infatti, abituato come era, che non si avesse ad annoiare? Ma con lui non si è mai sicuri di nulla. Partito senza nemmeno dirmi dove andava; passarono due mesi senza che io sapessi se egli fosse vivo o morto, buddista o maomettano, re di un’isola deserta o fotografo. Finalmente si è degnato scrivermi una pagina da Madrid, poi mezza pagina ancora da Madrid, poi cinque righe, poi una, poi niente, e sempre da Madrid! Poi, silenzio continuato. Non par vero, ma sono sette mesi che è partito, e da tre non so più nulla e torno a cadere nella inquietudine di prima. Che si sia fatto frate in qualche convento spagnolo?» Così soliloquizzava l’amico Tibaldo. E non aveva torto. Egli aveva creduto fermamente che la prova tentata da Westford sarebbe fallita, e si aspettava di vederlo tornare in capo a un mese. Sette invece ne erano passati, e non solamente Giorgio non tornava, ma non scriveva nemmeno più. Ciò provava chiaramente a Tibaldo che il suo amico si divertiva; se si fosse annoiato, avrebbe scritto. E non impediva del resto che se qualcuno gli domandasse nuove del duca, Tibaldo prendesse un’aria d’importanza e desse delle risposte sibilline e oracolari, poco soddisfacenti, ma di uno che sa tutto e non vuol dir nulla. Intanto egli stesso si perdeva in vane congetture. Egli pensò che Giorgio girasse le montagne in cerca di emozioni, che avesse organizzato qualche caccia di nuovo genere, che si fosse dato agli studi scientifici, che facesse delle indagini storiche sulla Inquisizione, che stesse raccogliendo dei disegni del Goya, che imparasse la nobile professione del torero, che passasse le giornate intere con le castanette fra le dita, persino che si fosse implicato in qualche agitazione rivoluzionaria. Gli venne anche più volte, a dire il vero, il sospetto ch’egli si fosse incapricciato di una qualche strana zingara — dalla tinta dorata, dall’occhio fosco e magnetico, e regalmente avvolta nelle sue vesti cenciose — ma egli conosceva Giorgio abbastanza per sapere che un capriccio di tal genere sarebbe stato breve, che presto sarebbe subentrata la sazietà, e che una tale avventura lo avrebbe anzi spinto più presto sulla via del ritorno. — Quale dunque, fra tutte codeste ipotesi, poteva essere la vera? — Nessuna, come sa il lettore. L’idea stravagante, inammissibile, ch’egli fosse innamorato per davvero, se gli passò come un lampo per il capo, altrettanto rapidamente sparì. In questo non possiamo a meno di dichiarare, che Tibaldo era pienamente giustificato. Com’era possibile infatti che un giovane, il quale appena fuori dell’infanzia era stato affatto indipendente, che aveva amato ed era uscito incolume dalla battaglia, si avesse ad innamorare come un eroe da romanzo? — Difficile com’era poi e per le doti dello spirito e per la bellezza fisica — per questa specialmente! Egli ch’era vissuto, per così dire, nell’intimità dei capolavori dell’arte, egli troppo amante delle statue greche e dei quadri antichi per poter giudicare belle le signore alla moda, egli che oltre di essere stato assai fortunato in amore, aveva in casa sua tutto un harem di donne dipinte — la miglior medicina contro l’amore per chi ha occhio d’artista — egli avrebbe dovuto per innamorarsi trovare una donna bella più di tutte le donne conosciute in carne ed ossa, in marmo e in tela, appassionata come Saffo, affascinante e côlta come Aspasia. Era questo possibile? Ah, Tibaldo, chi lo direbbe, chi lo avrebbe detto, chi lo crederà? Paquita ha bastato. — Ella non ha nè la maestà di Cleopatra, nè la bellezza di Frine, nè fascino di spirito, nè sapienza di alcuna sorta, nè ricche vesti o collane di perle, nè profilo classico, nè portamento da regina — non ha che uno sguardo di fuoco, un sorriso tutto suo, solamente suo, ed un cuore nuovo. Le sue perle non le mostra che quando ride, non stende il suo manto che quando si scioglie i capelli. — Eppure...! O fralezza umana! Malgrado la sua riputazione, Westford non era un don Giovanni. Piaceva assai e sapeva piacere, ma non era nè attento, nè ipocrita, nè freddo abbastanza. Nella vita ordinaria era di una indolenza senza pari e di una strana indifferenza; dimenticava un appuntamento come un altro avrebbe dimenticato un debito. Si esaltava difficilmente; la bellezza non sembrava mai bella ai suoi occhi guastati. Ma, curiosa contraddizione, egli sentiva molto; dimodochè se un capriccio lo afferrava, abbastanza forte per farlo uscire dalla sua indifferenza, subito, oltre l’imaginazione, il cuore vi entrava un tantino, e tutti sanno che il cuore è un elemento contrario al successo. Provava per Paquita una passione capricciosa, ma forte e non mai provata. Se Mefistofele gli fosse stato vicino, egli avrebbe detto come Faust: «Vedi quella fanciulla? io la voglio». La bramava intensamente, pazzamente, con una forza di cui egli stesso non si credeva capace. — Intanto viveva una vita nuova; più non si curava delle altre cose, non aveva ancor veduto l’Alhambra, non pensava più a correr pei monti in cerca di avventure, non aveva più curiosità per le opere d’arte, abbandonava i suoi amici di un giorno, tranne il cugino, non guardava più le belle signore ai balconi dei palazzi, non andava più al Prado. Ma tutti i giorni, o quasi, trovava modo di vedere Paquita, nella cui casa era altrettanto bene ricevuto dalla nonna quanto dalla nipote. Non era necessario affermare la virtù di Paquita; bastava guardarla, per convincersi ch’ella era pura. Sebbene Westford fosse creduto un pittore, pure era in posizione sociale già un po’ troppo al di sopra della loro, perchè la vecchia credesse ch’egli potesse sposare la fanciulla. Una tale idea non l’era mai passata per la testa, e lo vedeva volontieri sovente perchè non pensava che vi fosse alcun pericolo e anzi credeva che con la sua influenza potesse far decidere il cugino, e perchè era tanto buono, cortese e simpatico. E Paquita? Ella l’amava. L’amava come si ama a diciott’anni, a Madrid. Finalmente aveva trovato quello pel quale aveva rifiutato tutti gli altri, compreso il cugino, addolorando la nonna. Ella amava la distinzione, e questa non l’aveva trovata che nel pittore Giorgio. Ben inteso che non s’illudeva e che resisteva alla passione da cui era invasa, sapendo benissimo che un bel giorno egli sarebbe partito. Pure l’amava. Giorgio non ne dubitava, se n’era prestissimo accorto. Ma, lo ripetiamo, non era un don Giovanni, e andava già da mesi in casa della fanciulla, senza esser molto avanzato. Quel tempo gli era trascorso con una velocità sorprendente; quei mesi gli erano sembrati settimane. Non aveva un’idea ben precisa di quando era cominciato quel tempo, non sapeva del tutto quando sarebbe finito. La sua vita era chiara e limpida come il cielo che aveva sul capo, ma un forte desiderio lo rodeva. A Paquita egli sembrava la realizzazione di un ideale lungamente atteso. Nei primi sogni dei quindici anni ella aveva travisto una figura che non aveva riscontrato che il giorno in cui Giorgio si era affacciato all’uscio. Ella era nata con un sentimento di eleganza e di distinzione tale che nessuno dei rozzi pretendenti che le si erano presentati avevano potuto piacerle. All’istesso tempo ella non gettava mai uno sguardo agli eleganti vestiti alla parigina, che incontrava al passeggio della domenica, perchè la nonna, sapendo da che parte stessero i pericoli, li aveva tutti mostrati sotto l’aspetto di canaglia ben vestita e di seduttori infami. In Giorgio trovava ciò che in quelli che la corteggiavano mancava, senza che fosse nella categoria proibita. Allo stesso tempo però non si faceva alcuna illusione e cercava di soffocare la passione nascente. Vi era in lei molta di quella fierezza spagnola che in quel paese si riscontra spesso anche nelle classi meno elevate. Senza avere alcuna delle vane affettazioni di convenienza tanto comuni in questo secolo stranamente morale, vi era in lei la purezza della donna sicura di sè. Non le sembrava possibile di poter essere mai di altri che dell’uomo che l’avrebbe amata profondamente e che le avrebbe dato tutto quello che possedeva. Ella rideva volontieri di tutto, non si scandalizzava facilmente, non teneva gli occhi bassi, non portava il velo sul viso, non si turava ad ogni momento le orecchie, non arrossiva tutti i cinque minuti; ma per lei diventare la favorita di un re era abbassarsi quanto per una figlia di re sposare un poeta. Westford capì subito dunque che il partito cui si sarebbe appigliato un Lovelace qualunque, di svelarle il suo vero nome, far scorrere su di lei un torrente di diamanti e offrirle un palazzo principesco, era precisamente il peggiore di tutti. Per quanto ciò gli ripugnasse un poco, era necessario continuare a fingere e tentare di alimentare sempre più l’amore che aveva già inspirato, sembrandogli, e giustamente, che se fosse possibile vincere, la vittoria non gli poteva essere accordata che dal piccolo Dio dagli occhi bendati, i cui strali qualche volta rendono le sue vittime cieche quanto lui. Quando considerava pacatamente la sua condotta e comprendeva a cosa veniva spinto, la sua coscienza protestava contro il suo progetto, il rimorso lo assaliva e prendeva i più fermi proponimenti di lasciare ogni cosa, di partire all’indomani, di essere forte e generoso. Ma quando la vedeva, restava. Cercava di persuadersi che questo amore in fine non era che un capriccio e nulla più, che se avesse avuto il coraggio di troncare e partire, dopo un mese non se ne sarebbe forse più ricordato, ed ora si sentiva il bisogno di tornare alla sua vita solita, come prima si era sentito quello di cambiarla; aveva le stesse aspirazioni verso le noie parigine, che prima aveva avuto verso la libertà dell’incognito, e cominciava davvero a pentirsi di aver posto il suo piano in esecuzione. Ma come prevedere una così strana cosa, ch’egli avesse ad amare veramente? Stupiva di sè stesso quanto avrebbe stupito Tibaldo. Talvolta ne rideva. Intanto continuava a decidere tutte le mattine di partire, ma se vedeva Paquita nella giornata, decideva di restare. Ed ogni giorno s’innamorava di più perchè ogni giorno capiva più chiaramente di essere amato. Ella tentava di fingere ancora, ma dissimulava con la sublime disadattaggine della passione, e quando la sua bocca taceva o negava, lo sguardo, il gesto, il sorriso, tutto affermava; ogni cosa la tradiva, l’amore traspariva da ogni suo movimento. Vi era in lei quella stanchezza derivante dalla lotta con la passione che invade, la sua voce si raddolciva sempre più, la sua mano pareva accarezzare qualunque cosa toccasse, il suo velo sembrava cascarle sul viso in pieghe più molli. Giorgio la vedeva spessissimo; la sua vita si era fatta monotona e calma; il suo tempo si divideva in due parti; quello in cui la vedeva e quello in cui non la vedeva; questo era la tenebra, il nulla; quello era la vita. La nonna era però quasi sempre presente, ed essi non si erano mai confessato completamente i loro sentimenti; ma in ambedue il labbro solo taceva. Essi erano avvolti da quell’aura profumata e inebriante, sembravano circondati da quel nimbo luminoso con cui l’amore corona la gioventù e la bellezza nell’esordio della passione, il loro silenzio era di una eloquenza strascinante, un fluido magnetico passava nei loro sguardi; e quando si toccavano la mano non dubitavano più. Qualche volta, spesso anzi, il duca pensava, quanto i suoi amici avrebbero riso dei suoi scrupoli. Evocava l’ombra dei Lauzun e dei Richelieu; accusava sè stesso di essere, quanto un poeta qualunque, affetto dalla malattia del secolo, che snerva, che ammollisce, che rende tenero e indeciso. Pensava a mille modi per ottenerla, non rifuggiva davanti a nulla, gli sembrava ridicolo di non osare, pensava quanti non sarebbero stati per un sol momento nemmeno toccati dai rimorsi che lo arrestavano. Altre volte invece temeva, si accusava, disperava, voleva partire, giurava a sè stesso di non aver nulla da rimproverarsi. Essi si amavano, senza quasi esserselo detto, come due fanciulli; vedendoli insieme sembrava impossibile che l’amore non li avesse a riunire. Quando la nonna era nella stanza vicina e che essi si trovavano soli nella povera cameretta di Paquita, allora che il duca di Westford, l’uomo alla moda, l’impareggiabile, l’inimitabile, sembrava uno scolaro, quando i loro sguardi s’incontravano ogni volta che si sfuggivano, quando le mani si univano involontarie, quando la sedia di Giorgio come inavvertitamente si avvicinava a poco a poco a quella della fanciulla, quando le labbra pronunziavano una parola e l’orecchio ne udiva un’altra, quando il loro silenzio li tradiva ed il cuore palpitava, erano una di quelle imagini come ben di rado si presentano tanto vaghe alla fantasia dell’artista. — La modesta cameretta sorrideva, rallegrata dal raggio di sole vivissimo che, penetrando dalla finestra, illuminava quelle due teste che pendevano l’una verso l’altra; i vecchi mobili, l’oscura alcova, lo specchio annerito, gli angoli rimasti nell’ombra, tutto pareva più lieto, vi era nell’aria qualcosa di fluttuante e di misterioso. Era una di quelle scene che devono costringere gli angeli stessi a sorridere, pur celando il viso purissimo fra le ali azzurre — e che i piccoli spiriti astuti, in agguato di tali cose, certo osservano con attenzione, ridendo a bassa voce di un riso sonoro, argentino, un po’ beffardo, come esperti abbastanza della fralezza umana per sapere quanto siano inutili certi proponimenti. Gli augeletti che cantavano dal loro nido della gronda, sembravano irridere al loro turbamento, l’aura estiva susurrava negli alberi che a lor volta parevano dir loro: «noi ci abbandoniamo alle ondulazioni che il vento c’imprime, perchè volete resistere?» VII Una domenica, il duca, Paquita, la nonna, il cugino e qualche amico passeggiavano e prendevano il fresco in un vasto recinto, mezzo giardino, mezzo orto, appartenente ad un giardiniere, loro conoscente. Il sole tramontava incendiando l’orizzonte di una luce purpurea, il riflesso chiarissimo di un caldo crepuscolo cominciava già ad invadere una parte del cielo, i fiori lasciavano cadere languidamente le loro teste, gli alberi si agitavano lentamente, mossi dall’aura vespertina — ed alla dolce malinconia di quell’ora contrastavano, ma non contraddicevano, le risa fragorose degli allegri crocchi e i giuochi delle fanciulle che correvano spensieratamente sull’erba del prato. Paquita saltava come le altre, ma non vi era nei suoi movimenti la franca allegria, la spensieratezza abituale, e di tanto in tanto rivolgeva il suo occhio bruno verso Giorgio, il quale appoggiato contro una pianta, nell’ombra, non era osservato e gioiva di essere però veduto da lei. Mille pensieri gli si agitavano in folla nella mente; non era mai stato tanto turbato, cambiava ad ogni istante di decisione; voleva partire all’indomani, voleva rapirla, voleva dirle tutto, almeno chiedere il suo amore. Ogni partito gli sembrava il peggiore; sapeva solo che quella povera fanciulla, di cui qualche mese prima ignorava persino l’esistenza, esercitava ora su di lui uno strano potere. Correndo, ella gli passò vicino ed egli allora quasi involontariamente pronunziò il suo nome. — Paquita! Ella si fermò. — Ah! come sono stanca! ella disse, mi avete chiamata? — Sì. — Cosa volete? — Venite a fare un giro con me, ho bisogno di parlarvi. Come Tibaldo sarebbe stato stupito! La sua voce tremolava. Ella si fece seria, udendo quelle parole dette seriamente. S’internarono in un viale: camminando adagio, ad una certa distanza l’uno dall’altro. Giorgio era deciso a parlare d’amore; a dirle tutto; non sapeva più tacere; i profumi della sera lo inebriavano, la guardava fissamente e non poteva togliere lo sguardo dai suoi bruni capelli che l’aria agitava di momento in momento, da quelle guance rosee, ombreggiate dalle lunghissime ciglia, da quegli occhi per la prima volta abbassati. Mille parole gli venivano alla bocca, ma non le pronunziava; pensò che alcuni lo credevano un seduttore e gli venne quasi voglia di ridere, pensò più che mai a tutti i don Giovanni passati e presenti, ai suoi amici di Parigi, al suo cameriere che lo proclamava il più bel gentiluomo della cristianità, fece uno sforzo inaudito e disse: — Non credete, Paquita che.... dopo di aver corso in quel modo, quest’aria vi possa far male?... — No davvero, ella rispose, vi sono abituata. Vi fu una pausa; camminarono ancora qualche passo. Giorgio si avvicinò a lei, quasi appoggiandosi. — Torniamo indietro, ella disse. Egli fece uno sforzo sovrumano. — Vi dissi or ora che ho bisogno di parlarvi. Ella si fermò; alzò gli occhi, lo guardò e li tornò ad abbassare; ma quello sguardo aveva bastato ad inebriarlo ancora più ed a mostrarle il turbamento che prima le era svelato dalla voce soltanto. Si fece subitamente rossa come bragia, e balbettò: — Che avete a dirmi? Ella si era fermata vicino ad un grosso albero il cui tronco enorme accennava un secolo di vita. D’un tratto vi si appoggiò. — Mi pare che lo sappiate. Egli disse queste parole con voce bassa e rauca; quasi non intelligibile, poi non disse più nulla; ma del braccio la cinse come per sostenerla, e quasi inconsciamente piegò il viso su quello impallidito della fanciulla. Ella chiuse a metà gli occhi, e si svincolò respingendolo con ambe le mani.... ma il bacio era stato restituito. Ella si fece forza, si raddrizzò e tornò verso il prato; si tenevano quasi involontariamente per mano. Quando furono al limitare del viale, prima di esser veduti, ella lo guardò ancora. Egli se la strinse di nuovo fra le braccia e questa volta ella non seppe resistere, la sua testa si piegò sulla spalla di Giorgio, ma con un filo di voce tremante, pronunziò queste parole: — Lo direte alla nonna. Egli la lasciò andare ed ella corse verso le compagne che la chiamavano ad alta voce. Giorgio rimase più che mai turbato; quelle ultime parole della fanciulla avevano d’improvviso risvegliati tutti i suoi rimorsi assopiti e gli scrupoli che l’ebrezza del momento aveva fatto tacere. Paquita, come dicemmo, aveva resistito all’amore perchè nulla sperava da Giorgio; ma non avendo potuto quella sera essere forte contro la passione che la invadeva, nel confessarla, aveva gettato quella parola, come una preghiera, un comando, un grido supremo. Con quella parola ella diceva tutto e si salvava ancora; gli diceva chiaramente ciò che aspettava da lui e perciò rendeva più violenta la lotta tra il suo amore e la sua coscienza. Bisognava o chieder la sua mano, o partire; oppur andare fino in fondo alla colpa. Quando quella sera Giorgio andò a casa, il ragazzotto che gli serviva da cameriere gli porse una lettera di Tibaldo — la quindicesima forse alla quale non rispondeva — ch’egli gettò sul tavolo senza leggerla. Poi si lasciò cadere sopra una poltrona e pensò. In certi momenti egli era un uomo abbastanza positivo. Guardò la questione da tutti i lati; e capì che il partito migliore era di partire al più presto e cercare di sradicare quel sentimento, forse solo tenace in apparenza: giacchè, se restava, bisognava prometterle() di sposarla, e poi? Abbandonarla? Egli rifuggiva da un tale pensiero. Mantenere la promessa? E se non fosse che un capriccio? Legarsi per la vita, contradire tutte le proprie idee, le proprie massime, la propria gioventù, pentirsi dopo, rinunziare a cento progetti, perdere la propria indipendenza, sagrificare forse ad una passione del momento la felicità di tutto l’avvenire, rendersi ridicolo dinanzi ai suoi amici, dar ragione ai moralisti? Era possibile? Ma all’idea di partire una profonda tristezza lo afferrava, e quasi rimproverava sè stesso di non avere il coraggio di restare e veder poi. Pure la sua decisione fu presa e questa volta più ferma delle altre. Passò quasi tutta la notte a fare i suoi preparativi, e all’indomani, verso mezzogiorno, col cuore palpitante e nell’animo un vuoto, traversò la strada per andare ad annunziare la sua decisione a Paquita. Ella pure non aveva dormito. Non si dorme dopo una sera come quella che aveva passato. Ella era amata, ella amava, lo aveva confessato, lo sapeva; una vaga speranza, benchè incerta, l’agitava, egli sarebbe venuto! avrebbe parlato! Egli aperse l’uscio col suo discorso già preparato. — Ma ella lo ricevette come non aveva mai fatto, gli stese le due mani e le tenne strette lungamente fra le sue. I suoi occhi sfavillavano per la gioia di non dover più fingere. Egli non ebbe allora più la forza di dire ciò che doveva, ogni coraggio l’abbandonò. Assaporava le parole di Paquita ad una ad una, beveva i suoi sguardi, dimenticava tutto, ridiventava fiacco, la sua decisione non era più. Il caso fece sì che la nonna — cosa rarissima — fosse uscita, ma essi parlavano a bassa voce come qualcuno li udisse; si dissero quelle mille cose che da molto tempo pensavano e che non si erano dette mai; ed egli uscì più innamorato, più indeciso di prima; lasciando lei — poveretta! — ormai piena di quella speranza cui il giorno prima non osava ancora affidarsi. Qualche tempo passò ancora così; i giorni si succedevano per ambedue con una rapidità insolita; la nonna cominciava a sospettare, ma si fidava completamente di sua nipote, benchè temesse che fossero vane illusioni e che non si dovesse nutrire alcuna speranza. VIII Non accadeva sovente che Paquita uscisse sola, ma pochi giorni dopo la scena narrata andò, senza che la nonna si decidesse ad accompagnarla, a trovare una sua amica, figlia di un antiquario, la cui bottega era situata nel quartiere elegante e perciò ad una certa distanza. Era una giornata caldissima, e quando ella giunse, fu felice di potersi riposare nel patio al quale si penetrava dal fondo della bottega, e dove una piccola fontana tranquillamente zampillante nel mezzo procurava una benefica frescura. Una porta aperta permetteva facilmente di vedere quelli che entravano nella bottega, senza essere veduti. L’antiquario faceva dei buonissimi affari ed infatti nessuno possedeva una sì ricca collezione di armi antiche, di vasi, di mobili, nessuno sapeva meglio di lui vendere dei Murillo in gran copia ai forestieri. Le due ragazze ciarlavano già da una buona mezz’ora, e Paquita si disponeva a partire quando d’improvviso cambiò colore. L’amica le domandò la causa di un tal turbamento. «Nulla, nulla,» ella rispose, e si rimise a discorrere, dimenticando di partire e gettando spesso uno sguardo nella bottega. Giorgio era entrato e stava guardando con attenzione alcune navaje molto curiosamente ornate. Chiese il prezzo della più ricca, ch’era molto elevato, la pagò senza dire una parola e la intascò. Paquita era attonita dallo stupore; in che modo Giorgio spendeva una sì grossa somma per una cosa inutile? All’istesso tempo, un sospetto che non l’era mai venuto, la colpì rapidamente. In quell’istante una carrozza aperta si fermò alla porta della bottega; un servitore in livrea aperse lo sportello ed una signora elegantissima, una vera parigina, scese ed entrò. Dal suo cappellino scendeva un velo piuttosto folto sul viso che lasciava però travedere una bocca bellissima e la punta di un nasino aristocratico. — Signora duchessa, disse il mercante in cattivo francese, le trine sono all’ordine com’ella desiderava, ora avrò l’onore di mostrargliele. Era la duchessa di M., venuta a Madrid per far visita ad alcuni suoi parenti. Ma ella non ascoltava le parole del mercante; guardava fissamente Giorgio, il quale invece stava in disparte, cercando di sfuggire all’attenzione ed aspettando il momento favorevole per svignarsela senza esser veduto. Egli sperava di non esser riconosciuto e ne aveva ben d’onde. Si era lasciato crescere la barba ed era tutto vestito di tela, con un gran cappello di paglia, abbassato sopra gli occhi. Ma ella, sotto pretesto di guardar bene alcuni vasi chiusi in una vetrina, si avvicinò a Giorgio, e quando lo ebbe ben guardato disse ridendo: — Riconosciuto, signor duca, malgrado quella tinta bruna e quella barba. Ah, ah! è la Spagna che ci trattiene sì lungamente! — Silenzio, duchessa, sono qui sotto il più grande incognito, per dei motivi.... politici, rispose Giorgio che, non potendo più schivare l’incontro, aveva subito riacquistata la sua disinvoltura. — Davvero? Se sapeste come s’è parlato di voi a Parigi! La vostra scomparsa fu un avvenimento. Tutti assediano quel povero Tibaldo d’interrogazioni, ma egli si ostina a tacere. Probabilmente, perchè non sa nulla nemmeno lui. Tutti dicono: chi sa dov’è? chi sa cosa fa? Vi credono in China per lo meno. Ho molto piacere di vedervi; state certo che manterrò il vostro segreto. — Grazie; ve lo raccomando, sapete, in diplomazia non si scherza. E ditemi in che modo ho la fortuna d’incontrarvi? — Sono qui pel matrimonio di mia cugina con un grande di Spagna, alto come il vostro bastone. Intanto vedo Madrid. Adoro questa città. Domani sarò presentata a corte. Ma voi, cosa fate, caro duca? non credo molto alla vostra politica, sapete? — Avete torto, disse Giorgio seriamente. Si tratta di cose molto gravi. — Se sapeste come mi fate ridere quando prendete quell’aspetto serio. Ma Dio mio! dimentico che il tempo vola e che mia cugina mi aspetta per andare dal gioielliere. Addio, duca. Sono contenta di avervi incontrato. Ah! è la Spagna che vi attira! Qui c’è sotto un mistero. Ma silenzio! siate sicuro di me, sono muta come la tomba. Dovreste però farmi le vostre confidenze. Addio, duca. — Silenzio! disse Giorgio, ridendo questa volta, sono qui incognito. — Già, già, come un cospiratore. Non monta, venite a trovarmi. Prendete: questo è il mio indirizzo. Addio. Questa volta vado davvero. E così dicendo la bella duchessa, ripetendo le sue raccomandazioni al mercante e seguita a distanza dallo strascico del suo vestito, salì in carrozza, mandò a Giorgio un ultimo saluto con la mano, e partì. Giorgio uscì dalla bottega, un po’ annoiato e un po’ divertito da quell’incontro, ma senza nemmeno sospettare la controscena che aveva avuto luogo nel cortile. Nel mentre la duchessa, con le sue volubili parole, interpellava il duca ad alta voce, a Paquita si rivelava un segreto fatale per lei, nell’alta posizione di Giorgio, e le si svelava ogni inganno. Fu talmente turbata che quasi svenne, senza che la sua amica, la quale l’abbracciò inquieta e fece ogni cosa per riconfortarla, potesse indovinare la causa di quella subita indisposizione. Ma ancor più sorpreso fu Giorgio, quando tornando a casa un paio d’ore dopo con l’intenzione di andare più tardi da Paquita, vi trovò questo biglietto: «Signore, vi domando per grazia, vi supplico di tralasciare le vostre visite fino a nuovo avviso, per delle ragioni molto importanti. Non vi posso dire di più per ora. Vi vedrò per un’ultima volta, poichè sento che non ne posso fare a meno, e perchè forse vi devo una spiegazione. Ma ora non venite se davvero mi volete un po’ di bene. «Paquita». Queste righe turbarono Giorgio in un modo che non è possibile descrivere. Che significava un tale mistero? Cosa era accaduto? Quali potevano essere le ragioni molto importanti per le quali egli doveva cessare le sue visite a Paquita? E perchè quella forma cerimoniosa? Vi era in quelle poche righe qualcosa di freddo, di nascosto, di duro che lo spaventava. E sopratutto «vi vedrò per un’ultima volta». Dunque tutto doveva esser finito fra di loro!... Sembrerà forse strano, ma al primo momento non ebbe nemmeno il sospetto della verità. Come supporre infatti che il suo colloquio con la duchessa di M. fosse stato udito? Fu quasi tentato, di andar subito da Paquita malgrado la proibizione, di disubbidire per prima cosa, ma pensò poi ch’ella era una fanciulla intelligente assai e d’animo forte, e certo non di quelle che si spaventano per nulla; se dunque ella diceva: «non venite se davvero mi volete un po’ di bene», doveva certo esservi un motivo ben serio. Quelle ultime parole specialmente lo addolorarono e gli fecero un male sì intenso, ch’egli capì di amarla ancor più di quello che credeva: «....se davvero mi volete un po’ di bene», dunque ella dubitava di lui, dunque la confidenza non vi era più, dunque tutto si doveva ricominciare! E non una parola d’amore, non un accento vero, nulla! Ella lo supplicava a non andare, egli doveva dunque ubbidire, ella lo avrebbe veduto — forse fra poco — era dunque necessario aver pazienza ed aspettare. Ma qual vuoto nell’anima, quanti dubbii, quante congetture, quante vane speranze, quale tormento in quel tempo! L’idea di restare a lungo in quello stato d’impazienza febbrile, di tristissima indecisione, lo atterriva; era una prova che gli sembrava superiore alle sue forze. Egli la amava davvero, non vi era più da dubitarne oramai, non poteva più, come il giorno prima temere o sperare che fosse solo un capriccio passeggiero, mentre invece dubitava dell’amore di lei di cui il dì innanzi era tanto sicuro ed orgoglioso. Era precisamente il rovescio della medaglia. In mezzo a questo sorgeva un’idea che gli riusciva piacevole. Egli dunque si calunniava quando poneva in dubbio di poter sentire come gli altri. Era quasi contento di soffrire. Cinque giorni passarono — cinque secoli — senza ch’egli avesse alcuna nuova di Paquita. Stava, come prima di conoscerla, lunghe ore alla finestra, con lo sguardo fisso sulla finestra opposta, ma i vetri non si aprivano, non una piega delle tende si moveva, i fiori del vaso appassivano — dimenticati. Non sapeva che fare; si annoiava come non si era mai annoiato; qualunque più piccolo rumore lo faceva sperare; ma nessuno veniva. Egli non uscì di casa, tranne che per cercare il cugino dal quale forse avrebbe potuto ottenere qualche informazione, ma non lo potè trovare. Il caldo gli riusciva insopportabile. Tentò di scrivere a Tibaldo, ma non vi riuscì; la più piccola occupazione gli era di peso. Finalmente, la sera del quinto giorno, gli furono consegnate queste parole: «Venite domani alle due.» Quella notte che passò pieno d’indecisione, agitato or dal timore or dalla speranza, quella notte interminabile, e come certo da molto tempo non ne aveva passata una simile, gli mostrò il cambiamento operatosi in lui. Si ricordò i balli splendidi in cui tanto si annoiava, le signore bellissime che lo lasciavano freddo, le fanciulle che non gli sembravano belle, le cortigiane che gli parevano insipide. Pensò alle cene sontuose e pazze nelle quali l’allegria fragorosa ed ebete non valeva a farlo sorridere, pensò alle pazze innamorate che non gli facevano battere il cuore — pensò come nulla più lo interessasse qualche mese prima, e comprese quanto era mutato, ora che una riga di Paquita lo riempiva di gioia e di tormento. Traversò la strada come volando, montò la scala, entrò. Paquita era in piedi, vicino alla finestra, pallidissima e con la fisonomia talmente diversa dalla solita, che perfino la sua bellezza aveva quasi mutato carattere. La sua voce era malferma assai, quando disse: — Signor duca.... Giorgio impallidì. — Signor duca, voi m’avete ingannata, ma io vi perdono e per prova ho voluto vedervi ancora, ma come vi scrissi, questa sarà l’ultima volta.... — Paquita!... — Vi prego di non interrompermi. Ho bisogno di parlarvi; la nonna è fuori; ho saputo mandarla via, lo feci perchè aveva bisogno di parlarvi da sola. Ella non deve sapere nulla. — Paquita, che vi importa chi io sia, se vi amo ugualmente e se vi giuro.... — Mi avete ingannata. Ora lasciatemi parlare e non m’interrompete, ve ne prego. Venite con me. Così dicendo ella passò nella stanza vicina, quella dove avevano pranzato il primo giorno che Giorgio era venuto in casa, e avvicinandosi al quadro coperto che — ve ne ricordate? — aveva eccitata la curiosità di Giorgio, lo scoperse prestamente. — Era un ritratto di donna molto ben dipinto, ma di scuola moderna, sebbene la bellissima figura che vi era rappresentata fosse vestita di un costume del cinquecento; il vestito, quadrato per davanti, mostrava il collo e il petto bianchissimi sul quale pendeva una collana di perle; i capelli, nerissimi, erano pure intrecciati con perle. Del resto, uno sguardo ardente, dei lineamenti purissimi, una bocca voluttuosa e nella fisonomia una forte somiglianza con Paquita, sebbene l’espressione fosse meno caratteristica e meno simpatica. — È il ritratto di mia madre, disse Paquita, che io non conobbi. Era assai più bella di me e, come vedete, portava la seta e le perle, ma fece molto dispiacere alla nonna ed ella stessa non fu felice. Ne so poco di più, poichè non conosco la sua storia che molto imperfettamente. Mia nonna le ha tutto perdonato e perdendola portò un lutto, che io sola, ella disse, poteva consolare. Ho fatto il mio possibile per riuscirvi. — E siete tutto per lei. Perchè dunque.... — Non m’interrompete, signor duca. Io amo d’immenso affetto questa povera mia madre che non mi fu dato conoscere, poichè la nonna mi disse: «Ella mi ha fatto soffrire e mi ha fatto molto piangere e pregare per lei, ma ora è lassù e può ella pregare per noi; tu le devi venerazione. Ma più di tutto le devi d’essere virtuosa; io forse ti dovrò abbandonare presto; se ti lascerò senza appoggio, tu non dimenticare mai, e miralo ogni giorno, questo ritratto velato agli occhi degli altri, ma che ti deve servire di salvaguardia. Guardati dagli inganni e sopratutto dalle dolci parole piene di false promesse. — Ma nulla è falso in me. — Tutto lo può essere, dacchè il vostro nome è falso. — Dio! se la nonna lo sapesse, ella che sempre mi raccomanda di star lontana dai signori! Voi mi avete ingannata. Dio ha voluto che io fossi salvata udendo il vostro discorso con quella bella signora che vi chiamò col vostro titolo; cosa ho sentito in quel momento, possiate, signor duca, nol sentirlo mai!... Ho voluto vedervi ancora una volta, sebbene forse sia male, ho aspettato cinque giorni per trovare la forza, ma è solo per darvi una spiegazione; sono decisa a non vedervi più; vi amo forse ancora, ma non ho paura dinanzi a questo ritratto. Addio, vi stendo la mano, stringetela e partite; è la mano di una fanciulla che è fiera del suo nome quanto voi.... Giorgio la prese e la baciò, come avrebbe fatto ad una regina. — Mi permettete di dire due parole a mia giustificazione? Io era qui sotto un falso nome perchè aveva voluto cambiare completamente il mio modo di vivere; ma con voi l’inganno mi pesò fin dal primo giorno. Quando vi ho amato e ho sperato di essere corrisposto, una lotta terribile s’impegnò in me stesso; ma vinsi poichè decisi di dirvi tutto e partire. Dopo quella sera nel giardino — vi ricordate? — quando ci capimmo ambedue, feci uno sforzo di cui non mi credevo capace e venni per dirvi addio. Voi mi stendeste le due mani, mi guardaste, ed io non ebbi più la forza. Perdonatemi, lo potete, perchè non fui altro che debole e perchè vi amo troppo. Che la mia memoria resti pura, siate felice, ma ricordatevi qualche volta.... — Addio, disse Paquita, vi ripeto che tutto è perdonato — e sebbene lontano il mio.... affetto vi resterà — Addio. — Addio, mormorò Giorgio ancora, baciandole di nuovo la mano, poi si diresse verso l’uscio; ma nell’aprirla cento idee, buone e cattive, si presentarono d’improvviso alla sua mente. Una voce maligna gli susurrava all’orecchio: Imbecille! perchè partire così; sai bene che ella è più innamorata di te! Il suo cuore si gonfiava e sentiva che non poteva risolversi a non vederla più. Tornò indietro — le prese le mani fra le sue ed esclamò: — Paquita! lo sapete che non posso partire! Come lo volete? Dite, non mi amate più? Non si può cessare di amare. Come volete che tutto sia finito fra di noi? Come volete che io vi dimentichi? Come volete che io non vi abbia più a vedere? Ditemi cosa posso fare, ditemi.... — No, partite. Ella ritirò le mani dalle sue. Non voglio più sentirvi parlar d’amore; non avete il nome col quale mi avete conosciuta, non siete dunque più quello che io amo. Addio. Ella era pallidissima e si scorgeva che soffriva orribilmente, ma vi era tanta freddezza nelle sue parole, che Giorgio credette quasi di non essere più amato ed uscì. IX Quale vi sembra lo scioglimento più probabile? Ch’egli sentendosi scoperto, non sapendo prendere mia decisione, dubitando quasi persino dell’amore, si decida a partire, a ritornare alla vita di prima — non più suscettibile di alcuna passione, tranne estetica — sebbene col cuore ripieno di un ricordo soave, triste, puro, che nulla può cancellare? Questo sarebbe certo accaduto se egli fosse stato uno di quegli uomini fermi nella decisione, pronti a porre il pensiero in fatto, che trovandosi un nodo dinanzi hanno il coraggio di tagliarlo. Ma, come sappiamo, egli era tutt’altro. Tre giorni dopo infatti, invece di vederlo in viaggio per ritornare a far le sue confidenze a Tibaldo, lo ritroviamo, come ai bei tempi, alla finestra con lo sguardo più che mai rivolto alla finestra opposta. Quella parte di stranezza che vi era nel suo carattere cominciava a prendere il di sopra, ed egli non ragionava più. Del resto, per quanto guardasse, non vedeva nulla, tranne i fiori affatto appassiti oramai e le tendine inesorabilmente chiuse. Lo scopo della vita gli mancava e non aveva nulla da sostituire; si sentiva nell’anima un vuoto triste. Guardava stupidamente per delle ore intiere gli ornati quasi cancellati della finestra, non avendo quasi coscienza di esistere. Del resto era perfettamente calmo; ma non lottava più, l’idea di tentare uno sforzo supremo e partire, non gli passava nemmeno per la testa. Pensava: a quest’ora ella mi crede partito e forse si è già consolata — ma talvolta invece una voce segreta gli diceva che era amato ancora. A quest’idea non sapeva più resistere; i rimorsi, la voce del dovere, tutto passava, egli voleva il suo amore, lo voleva anche per forza, non era più trattenuto da nulla. Questo ultimo pensiero ebbe il sopravvento; la passione lo accecò totalmente. Non fece più altro che aspettare il momento favorevole per penetrare ancora da Paquita e sorprenderla. — Gli venne l’idea che forse ora sposerebbe il cugino e non la poteva sopportare. Finalmente vide la nonna uscire tutta coperta del suo velo. Era vestita con una certa ricercatezza e quando fu in fondo alla via voltò a sinistra. Andava certo a fare qualche visita e sarebbe stata assente per un po’ di tempo. — Il momento era giunto; non lottò nemmeno più — e un minuto dopo si trovò dinanzi all’uscio della camera di Paquita. Era confuso ed agitato, e, senza rendersi ben conto di quanto facesse, senza picchiare, socchiuse lentissimamente la porta e guardò. Paquita era seduta, con la testa tra le mani, e dal movimento lievemente sussultorio delle spalle si capiva che piangeva. Giorgio si avanzò, trattenendo il fiato, e con tanta precauzione che giunse vicinissimo alla fanciulla, senza ch’ella se ne accorgesse. Stette qualche istante immobile a guardarla. Un senso lieve di compassione ed uno immenso di gioia lo empiva. I dubbii di quei tre giorni scomparvero dinanzi a quella testa, agitata dal pianto come un fiore dalla tempesta. Piegata, lasciava vedere il collo bianchissimo e la massa dei capelli bruni. Sentì qualcosa che non aveva mai sentito, e piegandosi sfiorò con le labbra i capelli della fanciulla. Ella diede un grido e voltatasi prestamente gli mostrò il suo viso, bello anche nel dolore, guardandolo attraverso al velo che le lagrime le ponevano sugli occhi. Egli non poteva quasi parlare e non sapeva che dire, si lasciò cadere vicino a lei, e piegando la testa sulla sua l’abbracciò lungamente, senza ch’ella sapesse in alcun modo resistere. Ella era a quel punto della passione, quando la donna, nella sua sublime debolezza, non sa più che cedere; si sentiva vinta. Lo stringeva fra le sue braccia e non sapeva far altro; poichè quando egli era entrato ella piangeva disperatamente all’idea di averlo perduto per sempre. Egli, senza saperlo, aveva ben scelto il momento. — M’ami dunque sempre? mormorò Giorgio. Ma come ripetere le parole frivole ed altissime di coloro che si amano? Ella lottava invano. — Perchè sei venuto? Sono felice di vederti una volta ancora, ma la è una felicità amarissima. Siamo forti, addio. Va, parti. — No, non posso, resto. Se mi ami davvero, devi tutto dimenticare. — Sai che oramai non posso avere una volontà. Tu puoi fare di me tutto quello che vuoi; dopo non mi resterà più che morire. La fanciulla virtuosa e fiera non sapeva più dir altro. — Giorgio tremava di gioia. — A un tratto vide tutto sotto un nuovo aspetto, pose in non cale una quantità di cose cui prima dava importanza, fu preso di ammirazione, si sentì pieno di amore, capì che ella per lui era tutto e ch’egli tutto le doveva dare, giacchè ell’era vinta. Dimenticò Parigi, gli amici, Tibaldo, tutti gli ostacoli che prima gli erano sembrati insormontabili, e susurrò, soffocato dall’emozione, queste parole all’orecchio della fanciulla inebriata: — Tu parli di morire? Rifiuteresti dunque di essere duchessa di Westford?... X Il castello di Westford è un sontuoso fabbricato della ricca architettura del tempo di Elisabetta. Fu là che Giorgio e Paquita passarono la luna di miele. Il vivace fiore meridionale fu trapiantato nella merry old England. — Illuminata dall’amore ella trovò bellissime le tinte fredde di quel cielo pensieroso, ed il verde tenero che non si trova che colà, le piacque assai. — Dopo, tornarono a Parigi, dove furono raggiunti dalla nonna, il cui stupore e la cui gioia il lettore dovrà imaginarsela, poichè noi non la sapremmo descrivere. Tibaldo giurò ch’egli non aveva saputo nulla prevedere, poichè si aspettava a tutto, tranne che a veder Giorgio tornare ammogliato. Del resto, Paquita era nata duchessa. In un certo senso era davvero figlia di sua madre, poichè amava la distinzione ed il lusso. Se non avesse trovato Giorgio di Westford, forse le paure della nonna si sarebbero avverate, ella non avrebbe voluto trovar marito. La sua educazione era stata accurata assai e molto superiore al suo stato, dimodochè non ebbe che a perfezionarsi. Portava la seta e il velluto come se non fosse mai stata vestita d’altro. Quando comparve per la prima volta in publico, impressionò tutti fortemente. Tutti ammiravano la sua bellezza e non potevano credere ch’ella fosse una povera fanciulla. La si guardava con una curiosità eccessiva; chi diceva: «È la sposa di Westford, la storia è tutto un romanzo»; altri: «chi avrebbe detto che Giorgio si sarebbe ammogliato sì presto?»; qualcuno soggiungeva: «egli che ha rifiutato la mano della figlia di un principe del sangue!» Vedendola, esercitava un tale fascino, che anche le invidiose ammettevano che la sua fortuna era meritata. Inoltre, Giorgio, con la sua riputazione, poteva fare tutto quello che voleva, certo di essere lodato, difeso, imitato. Il suo matrimonio ebbe degli effetti morali e insieme democratici, poichè molti giovani eleganti si ammogliarono, e alcuni colla figlia della portinaia. La sua bellezza cambiò un po’ carattere e, se si vuole, aumentò, in quella metamorfosi dell’allegra manola in gran signora; si fece più maestosa, più aristocratica, non perdendo nulla della sua vaga originalità e specialmente della sua blanda gentilezza. Certo era nata perchè la si chiamasse Her Grace. Giorgio si era accorto di essersi sbagliato credendo che l’amore non esistesse più per lui. Non gl’importò più nulla di non poter realizzare le fantasie dei pittori: la semplice fanciulla di Madrid aveva compito ciò di cui le donne più seducenti sarebbero state incapaci, aveva fatto battere il cuore di quel giovane che tutto sdegnava e che da nulla era commosso. Ora era davvero contento del suo viaggio. La duchessa di Westford rimane un tipo di gran signora, piacente, simpatica, piena di doti e di qualità. Ma molti sanno ch’ella prima non si chiamava che Paquita. Giorgio, approfittando della sua elegante impunità, non ne fa mistero alcuno. Nessuna è più elegante, più bella di lei in publico. Se l’avete veduta al ballo, in teatro, alle corse, certo l’avrete ammirata e in tal caso sarete contenti di sapere la sua storia. E avrete veduto che quella donna, così gran signora in tutti i suoi movimenti, in ogni parte della sua acconciatura, si appoggia con orgoglio e con un’aria di suprema distinzione al braccio del duca. Ma state certo che nei mesi che passano in campagna, nel vecchio castello di Westford, soli nella gran sala vicino al camino gotico, o nei lunghi giri a cavallo nel parco vastissimo e pallidamente verdeggiante, egli è sempre per la Paquita il povero pittore, venuto a studiare la maniera di Murillo, e innamorato esclusivamente del tipo spagnolo. LA CANZONE DI WEBER I Era una vecchia casa piena di memorie; grande, bruna, uniforme, coperta qua e là del verde severo dell’edera. Stava su di una piccola altura e vi si arrivava per un lungo viale, tetro ed aristocratico, fiancheggiato d’ambe le parti da piante secolari. In fondo vedevasi un gran cancello di ferro irrugginito dal tempo, che cigolava mestamente ogni volta lo si facesse girare sui malconnessi cardini. In confronto al vecchio castello feudale, le cui superbe rovine scorgevansi su di una collina lontana, la casa di cui parliamo sembrava nuova; ma se la si fosse paragonata invece alle bianche casuccie e alla moderna chiesuola del villaggio sottoposto, inspirava già un profondo rispetto. E benchè non avesse, come il castello là in alto, veduto svolgersi tra le sue mura i tenebrosi drammi del medio evo, ed a’ suoi piedi passare i cavalieri vestiti di ferro, pure a molte e molte cose aveva assistito essa pure. Edificata sul finire del regno di Luigi XIV, aveva avuto tra le sue sale le magnifiche feste di quel tempo, coi marchesi dalle enormi ed arricciate parrucche, con le belle dame dal viso dipinto e dall’occhio scintillante di promesse... tutte coperte di raso e di gemme, gonfie di gonnelle e d’orgoglio. Più tardi aveva veduto le orgie della Reggenza trasportate da Parigi alla vie de château, e rammentava la cipria ed i talloni rossi dei gentiluomini e le bianche mani effeminate degli abbatini galanti. Il soffio terribile della rivoluzione era passato sul suo capo senza abbatterla; le guerre dell’Impero l’avevano rispettata. Dopo le cene della Reggenza, aveva assistito ai bagordi del Direttorio; tra le sue mura si era udito imprecare contro il Buonaparte (come i sostenitori dell’antico stato di cose chiamavano l’imperatore), ed ora nella prima metà di questo secolo se ne stava al suo posto ancor forte ed altera, sebbene un po’ mal in arnese per la noncuranza dei proprietari. Apparteneva ai conti di Montsauron, una gran famiglia già illustre al tempo delle crociate. Ma di quella lunga stirpe, coi suoi blasoni tutti coperti d’inquartature, chi restava oramai? — un vecchietto, reliquia vivente di un’epoca trapassata, che attraverso alle scosse della rivoluzione e alle vittorie dell’imperatore aveva conservate le sue idee per intero, i suoi beni in parte, la sua cipria ai capelli, e le sue fibbie dorate alle scarpe. Non era un uomo senza ingegno, ma ostinatamente aggrappato ai suoi pregiudizi, come l’edera a una rovina, pieno di boria e dello spirito ormai rancido del suo tempo. Ricco ancora malgrado le vicissitudini politiche, non poteva però più tenere la sua casa nello splendore di prima; ed ora la gramigna vegetava tra le pietre spezzate della corte d’onore, e le grandi terrazze e le balaustre riccamente ornate erano tutte verdeggianti di umidità. I parassiti viventi avevano finito il loro regno nell’interno ormai quieto assai, ma in compenso sulle mura esterne tutta una vegetazione parassita si arrampicava in disordine con libertà veramente rivoluzionaria. — Le grandi sale erano nude, fredde e severe. Quelle sedie della malcomoda e disgraziosa forma che si usava sotto l’Impero, quei tavoli coperti di gelido marmo bianco o venato, con le gambette ornate in alto da bocche di leone dorate, e assottigliantisi verso il basso, quei sofà dritti dritti e duri coi cuscini attaccati alle sbarre di legno con de’ nastri, davano un’idea assai sconfortante e poco in relazione con le abitudini moderne. I sopraporte, di stile Pompadour, avevano nulla a che fare col resto. — Nel giardino i regolari disegni e le figure in cui erano stati foggiati gli arbusti secondo la moda d’allora, avevano ripresa completa e pazza libertà e stendevano i loro rami nella più disubbidiente licenza. E là viveva il vecchio gentiluomo, solo con sua figlia, una fanciulla sui vent’anni, bella, alta, dal corpo elegante, dalla espressione delicata, dai lineamenti finissimi. La quale possedeva de’ magnifici capelli castani chiari che alla gran luce prendevano dei riflessi impossibili a ritrarre, e due grandi occhi azzurri, pensosi e appassionati, che vi guardavano come ben pochi occhi guardano. E tranne il curato del villaggio e di tratto in tratto qualche famiglia dei dintorni e i vecchi servitori — che si credevano un po’ della casa e portavano la loro sdruscita livrea verde e oro con la fierezza con cui il loro padrone portava il costume di corte — egli non vedeva nessuno e viveva solitario con la sua Ida, la cui gioventù era come un raggio di sole che attraversasse la vecchia casa. I domestici ricordavano ancora il tempo quando il loro padrone viveva a Parigi, tra i molteplici divertimenti della società, e non lasciava quel brillante soggiorno che per pochi mesi, i quali però invariabilmente veniva a passare nella vecchia dimora. Allora, per otto mesi all’anno, le vôlte delle lunghe sale non erano colpite da alcuna eco, le imposte stavano chiuse ermeticamente e tutto non ripigliava vita che nell’autunno. All’approssimarsi di codesta stagione si vedevano sfilare lungo il tetro viale le carrozze impolverate che giungevano da Parigi, tirate da quattro vigorosi cavalli montati da postiglioni vestiti della livrea del conte, che facevano allegramente scoccare le loro fruste. Ora invece la sua vecchia casa non la lasciava più, abitandola le quattro stagioni di seguito. Pranzava, con sua figlia, in una gran sala a pian terreno servito da cinque servitori, molto affaccendati a far nulla; e certo tanta opulenza nella solitudine a molti sarebbe sembrata ben triste. Un bel giorno il vecchio conte ricevette una lettera con un gran sigillo stemmato. L’aperse frettolosamente, e leggendo le prime righe, un lampo di gioia gli passò negli occhi. La rilesse più volte con visibile contento e per tutto quel giorno fu d’umore insolitamente faceto, come se una decina d’anni gli fosse stata levata a un tratto dalle spalle. Camminava tutto svelto e ringalluzzito, chiacchierava assai più del consueto — sorridente con tutti — ad ogni momento baciava sua figlia in fronte e le diceva che non l’aveva mai veduta così bella. All’indomani poi il suo contegno divenne decisamente stravagante. Sembrava che avesse cambiato natura. Egli, che amante dell’ordine a modo suo, non voleva fosse mosso un mobile da una stanza in un’altra; egli nemico dichiarato di tutti i trambusti, cominciò a porre tutto sossopra, a fare e rifare, a riaccomodare quanto si vedeva d’intorno. Pareva volesse dare una nuova fisonomia alla sua vecchia casa, che pure amava tanto com’era. Le grandi sale di ricevimento, chiuse da molti anni, furono aperte; le coperte di tela levate dai mobili, le pieghe maestose delle tende accuratamente spolverate, le ragnatele spazzate dagli angoli della vôlta dove si stendevano comodamente, i veli tolti agli specchi, i vasi riempiti di fiori. Il magnifico servizio in argento massiccio, dono di un duca di Savoia alla casa di Montsauron, fu tolto da un vecchio armadio dove stava al buio chi sa da quanto tempo. I servitori si aggiravano frettolosamente dovunque, interrogandosi sommessi l’un l’altro, molto stupiti dell’ordine ricevuto di pulire alla meglio e d’indossare le livree di gala. Si strappò la muffa ch’era sul terrazzo. Il giardino fu pettinato, le foglie cadute levate dai viali, i fiori appassiti strappati; i rami troppo lunghi tagliati, e si tentò di far ripigliare ad alcuni degli arbusti l’architettonica figura primitiva. Certo doveva accadere qualche cosa di straordinario. Di tutto questo Ida non sapeva nulla. Ella non osava mai disturbare suo padre, quando egli non venisse da lei. Quella mattina dunque, non avendolo veduto comparire, si era già posta nella sua dimora favorita, una sala d’angolo che si trovava in fondo all’ala sinistra della casa. Là vi era il suo più intimo amico, il pianoforte. E qui è a dirsi della passione fortissima che Ida aveva per la musica. Essa sapeva suonare il cembalo per istinto, — cantava perchè Dio le aveva detto di cantare. L’unico maestro che aveva avuto, e assai tardi, era un giovane protetto dal conte, che apparteneva ad una famiglia rifugiatasi dopo il Terrore in quel tranquillo villaggio. Suo padre, benchè povero e sconosciuto, era un vero artista — uno dei tanti che passano, fulgenti ma non veduti. Egli pose tutte le cure della sua vita nella educazione del figlio. La madre era morta; il povero fanciullo non aveva che sedici anni quando anche il padre morì. Egli si trovò solo, ricco soltanto di gioventù e di speranze. Il conte di Montsauron si diede a proteggerlo: fece comperare alcune sue composizioni da un editore a Parigi, e l’incaricò di dar lezioni a sua figlia. — A molti parrà strano che un uomo con le idee del vecchio conte avesse a mettere così vicino a sua figlia un giovane di venticinque anni, ma bisogna pensare che Paolo era serio, posato, e che Ida lo aveva veduto per tanto tempo da doverlo considerare come parte della mobilia di casa. Inoltre, in quei tempi in cui l’aristocrazia sosteneva ancora fieramente tutti i pregiudizi di casta, non poteva entrare nemmeno un momento in capo al conte che sua figlia potesse volgere un solo sguardo verso una persona cotanto oscura qual era il povero artista. Assisteva anche spesso alla lezione. Ida dunque aveva aperto il cembalo e lasciava che le sue belle dita errassero alla ventura sui tasti, — quando a un tratto il conte entrò — cosa insolita a quell’ora. Era vestito con molta cura ed il suo viso sembrava irradiato da una espressione di contento. Si avvicinò a sua figlia, le prese le due mani nelle sue e baciandola in fronte le disse: — Ti raccomando, mia cara, che oggi ti abbi a far bella, più bella che sia possibile. E un sorriso che voleva dir molte cose passava intanto sulle sue labbra. — Perchè, mio padre? domandò Ida, fissandolo coi suoi grandi occhi azzurri. — Perchè? Lo vedrai fra non molto. — Attendete forse qualcuno? Un nuovo sorriso, più prolungato del primo, venne ad illuminare il volto del conte. E in poche parole raccontò a sua figlia, la quale molto si stupì di un avvenimento tanto straordinario, come davvero attendesse qualcuno, il marchese di Sentis, un parente lontano. — La lettera che mi hai veduto leggere era sua. Egli deve arrivare oggi. È un bravo, simpatico e bel giovane, buon gentiluomo e padrone di grasse terre in Normandia che quei briganti del 93 non gli hanno potuto carpire. Solo i possedimenti del castello di Sentis gli rendono cinquanta mila scudi all’anno. Un paio d’ore dopo il marchese giunse. Ida trovò che suo padre le aveva detto il vero. Poteva avere dai trentacinque ai quarant’anni; alto, benissimo fatto, coi lineamenti regolari, col viso distintissimo e che dinotava un uomo di un certo ingegno. Aveva bellissimi modi, un timbro di voce assai simpatico ed era vestito con una eleganza sobria che lo caratterizzava uomo di gusto dal capo ai piedi. Arrivò in una gran berlina da viaggio, ne scese prestamente e montò i gradini del terrazzo (dove il vecchio conte era venuto ad incontrarlo) col cappello alla mano e il sorriso sulle labbra. Rispose calorosamente all’accoglienza calorosa che gli fece il signore del luogo, e poi, voltosi ad Ida, che se ne stava un po’ in disparte, le baciò la cima delle dita con una galanteria rispettosa che rammentava Versailles, dicendole: — Mia bella damigella, permettete che un vostro cugino vi presenti i suoi omaggi. Son venuto preparato ad ammirare la bellezza e la grazia, ma se avessi saputo la realtà che mi aspettava non avrei creduto poterla trovare senza uscire dai confini della terra. Dopo di che si rivolse al conte, e si dedicò affatto a lui come se Ida non ci fosse stata. Un po’ più tardi si andò a tavola, e per tutto il tempo del pranzo il marchese sostenne una conversazione brillante e fiorita, essendo sempre cordialissimo col padre, e colla figlia di una galanteria che datava da due secoli. Quella notte Ida dormì male. Un avvenimento qual era l’arrivo sì poco aspettato di quell’elegante cugino non poteva a meno di occupare la sua immaginazione. Inoltre una voce segreta, ch’ella stessa non sapeva ben spiegare, l’avvertiva che il marchese di Sentis era venuto per lei. Ne pare di aver già detto che Ida aveva quasi vent’anni. La sua bella gioventù le splendeva in fronte come un’aureola e le cantava in cuore come una sirena. Pure era vissuta ben tranquillamente. Ella sapeva poco del mondo; l’esistenza brillante che le giovani sue pari conducevano nella capitale, quella splendida cerchia di divertimenti e di noie, non la conosceva che di nome. Il suo cuore batteva, ma non aveva mai palpitato. Il soffio inebriante della primavera, che fa sembrare più fragranti le rose e più lucenti le stelle, era passato su di lei — pure ignorava ancora l’amore. Era di quelle nature passive e indifferenti in apparenza, sovente piene d’ardore nascosto — ma ella lo ignorava. Le avevano dato, per l’epoca, una buona educazione — nella quale i più severi principii religiosi tenevano il primo posto — e le avevano ben ficcato in testa che i Montsauron erano tra le prime famiglie di Francia, e che ella era destinata ad un gran matrimonio. Le sue previsioni riguardo al marchese non erano errate. All’indomani suo padre entrò di buon mattino nella sua camera, la baciò ancor più affettuosamente del giorno prima e si assise al suo fianco dicendole che aveva a parlarle di cose importanti. In due parole le disse che il marchese di Sentis era venuto apposta dal fondo della Normandia per vederla — perchè voleva prender moglie e l’unione con la loro casa la credeva un onore — che l’aveva trovata più bella di quel che si aspettava e che domandava la sua mano. Ch’egli aveva ancora alcuni affari da terminare al castello di Sentis, ma fra poco sarebbe tornato a prendere la risposta. — Egli ha un gran nome ed è assai simpatico. Ieri mi pareva che non ti dispiacesse. Mia cara, non dubito della tua risposta. Tutto ciò Ida se lo aspettava un poco. Perchè dunque le parole di suo padre le fecero uno strano effetto? Si sentì una fitta al cuore ed il leggiero rossore, che le era montato al viso in principio, si cambiò in pallore. Era forse un presentimento? Il conte, attribuendo tale confusione a tutt’altro motivo che al vero, soggiunse sorridendo sapientemente: — Non rispondi, mia cara? Già, il silenzio in queste circostanze è la maggior risposta, e così dicendo uscì frettolosamente. Ida, rimasta sola, si sentì turbata. Si assise e pensò. Pensò per un buon quarto d’ora, con le mani incrocicchiate, l’occhio fisso al suolo, la testa bassa, la fronte oscurata. A che pensava? — Non lo sapeva troppo nemmeno lei; i suoi pensieri andavano, andavano senza che ella si potesse render conto della via che percorrevano. Chi sa fino a quando sarebbe stata a quel modo se a un tratto non avesse udito picchiare all’uscio. Entrò la cameriera, dicendo: — Il maestro di musica è nella sala verde ed attende madamigella. La sala verde è quella di cui abbiamo già parlato, quella dov’era il pianoforte. Derivava la sua appellazione dalla tappezzeria d’un verde pallido, sbiadito dal tempo. Non era molto grande, ma altissima; poco addobbata e assai in disarnese, ma dalla finestra aperta si godeva di una vista splendida e del susurro del vento tra le foglie di un castagno i cui rami si stendevano davanti. In mezzo era il pianoforte, il clavecin, come dicevasi allora. Anch’esso, come il resto dei mobili, era della forma empire, alto e stretto, di un legno chiaro tutto intarsiato. Quando Ida entrò, Paolo era al cembalo e sonava alla sordina un pezzo di Gluck. Al suo apparire egli si alzò, la salutò con una inflessione di voce che dinotava a un tempo e la famigliarità derivante dal vedersi assiduamente e il rispetto dovutole. Ida gli si sedette vicino e la lezione incominciò. Eran quasi due anni che ciò accadeva due o tre volte per settimana. Paolo era stato di rado a Parigi e non aveva, per così dire, mai avuto il tempo d’esser giovane. Era costretto a soffocare le prepotenti aspirazioni della sua età. La vita gli era apparsa fin dai primi anni con una ben seria fisonomia, e l’aspra lotta con le necessità e la scuola della sventura avevano posto sulla sua fronte un marchio di maturezza precoce. È da stupirsi se la compagnia frequente d’Ida lo avesse ad impressionare fortemente? In una parola — per quanto avesse tentato di lottare contro il sentimento che lo invadeva, non potendo esso avere che tristi conseguenze — dovette però alla fine confessare a sè stesso che l’amava. E veramente l’amava al punto da non osare più esaminare pacatamente il proprio animo; temeva la vertigine e non voleva guardare nell’abisso. E Ida? Dell’amore non sapeva ancor nulla, pure l’anima sua impressionabile e più di tutto quell’innata passione per la musica — la più grande traduzione dell’amore che vi sia sotto il cielo — dovevano a vent’anni ben presto commuoverla. Fra quei due non si era pronunziata una parola non frivola, ma esisteva già un vincolo — l’armonia. Molte volte, quando le belle dita della fanciulla correvano sui tasti d’avorio del vecchio cembalo, facendolo vibrare con gli accenti appassionati della musica italiana o delle soavi melodie tedesche, il cuore le batteva stranamente e non osava voltarsi a guardare il suo maestro, che immobile dietro la sedia, suo malgrado, adorava. E quando cantava e ripeteva le armonie dei grandi maestri che in quel momento parevano improvvisazione dell’anima sua — con l’occhio d’azzurro che guardava lo spazio e si accendeva di una luce arcana, come avesse veduto una visione del cielo aprirsi d’un tratto — coi capelli mossi dal vento ch’entrava dalla larga finestra — oh! in quel momento il povero artista avrebbe dato la vita per poterla stringere fra le braccia, sentendola sua! Ma aveva saputo contenersi e niuna parola era mai uscita dalla sua bocca. Ella, dal canto suo, era gentile con lui, talvolta amichevole, ma nulla più. Questa volta dunque la lezione incominciò come al solito. Paolo era pallido, di un pallore che non gli era abituale. Soffriva assai. Egli aveva tutto udito. L’arrivo del marchese era stato per lui una rivelazione e un colpo di fulmine. Subito aveva capito lo scopo da cui era condotto. E sebbene il suo amore per Ida fosse privo d’ogni speranza — pure quell’annunzio di un matrimonio imminente gli aveva fatto l’effetto di una fredda lama di pugnale che gli venisse piantata in cuore. Maritandosi, Ida sarebbe partita. Quel conforto, che n’era pur uno, di vederla quasi sempre, di venire sovente a sedersi al suo cembalo, di udire la sua voce adorata.... gli veniva tolto crudelmente. E saperla d’un altro!... Egli non si poteva arrestare a questo pensiero. E poi il tormento, la tortura di dover assistere alla gioia degli altri col viso sereno e l’inferno nel cuore, di dover essere spettatore della festa, della cerimonia forse!... E la paura di tradirsi!... Avrebbe egli saputo tacere all’ultimo momento, comprimere i battiti del suo cuore, rattenere le lagrime dagli occhi? Avrebbe avuto la triste forza di recitare bene la sua parte fino alla fine, di tenere sempre la maschera che si era messa? Anche Ida era triste. — D’improvviso lasciò il pezzo che sonava e si appoggiò al leggìo con la testa tra le mani. Paolo taceva. Ella si rialzò dopo pochi istanti, e invece di continuare il pezzo incominciato, cantò la sua canzone favorita. Era una canzone di Weber — non sappiamo più bene quale — una di quelle in cui il gran Tedesco ha infusa tutta la sua anima d’artista. Il motivo sorgeva semplice, chiaro — una melodia mesta, triste, piena di dolci languori e di accenti strazianti, incantevole come una poesia d’amore, tetra come lo sperdersi di una speranza. Poi si accendeva, si animava, diventava forte come il muggire di una tempesta, combattuta come una lotta del cuore. Il motivo intanto filtrava attraverso. Poi si ritrovava ancora solo e finiva con un’eco ripetuta e morente. Ida la sonava e cantava venti volte al giorno. E come lo faceva!... In quei momenti era tanto bella da non sembrare quasi più una creatura terrena. Questa volta con l’anima involontariamente piena di mestizia, cantò quelle note sublimi con tanta espressione che parevano un grido supremo del cuore. A Paolo le note di quel canto sonavano tutte come una nota straziante d’addio. Quando la musica cessò, agitato e non potendo più resistere alla brama di sapere la verità, l’intera verità (sebbene si fosse promesso di non aprire bocca su tale argomento), disse con voce sommessa e che tentava invano di render pacata: — Madamigella, scusate la mia indiscrezione.... avrei una domanda da farvi. — E quale? — Intorno a qualche cosa che vi concerne molto.... molto intimamente. — Dite, dite, rispose Ida, impallidendo suo malgrado. — È vero che.... Il povero giovane si sentiva soffocare. — Che il marchese di Sentis ha chiesto la mia mano? interruppe Ida vivamente. — Sì, è vero. Disse queste parole rapidamente con accento franco e sicuro.... pure era turbata. Si alzò e chiuse il cembalo. Stette un momento immobile e pensierosa, disse che bastava per quel giorno, salutò Paolo che pareva impietrito, ed uscì. Quando fu solo, prese il posto che Ida aveva lasciato e si nascose la faccia fra le mani. Ida dal canto suo aveva tutto indovinato dalla commozione di Paolo. Per una rivelazione subitanea, aveva al tempo stesso traveduto l’amore e compreso ch’egli l’amava. Intanto il matrimonio progettato le sorrideva assai poco. Sentiva per il marchese un’antipatia, non certo motivata, ma invincibile. E dichiarò quella sera a suo padre che non lo avrebbe sposato. Ma allora cominciò da parte del conte un lento lavoro di persuasione. L’accarezzò come non aveva più fatto da molto tempo. Le seppe dimostrare che rifiutando la mano offertale rifiutava la propria felicità; le disse ch’ella certo avrebbe poi amato il marchese; e tutte insomma le ragioni buone e cattive che potè trovare. Le cantò le lodi del marchese enumerando le sue molteplici qualità, lusingò la giovane immaginazione di lei con la dipintura del lusso e dei trionfi che l’attendevano a Parigi. Disse tanto e così bene ch’ella finalmente si lasciò piegare, e diede il suo consenso. Ah imprudente!... Non sapeva quel che faceva. Quel cuore che ella si lasciava persuadere di concedere ad un altro, non era già più suo. Non tardò ad accorgersene. La sera si ritirò nella sua stanza presto e si trovò ben triste per la decisione presa. Le parve che le sarebbe impossibile di lasciare quella casa ove era nata, di abbandonare suo padre e i pochi suoi vecchi amici. E quel povero Paolo?... — Non canterò più con lui quella canzone di Weber che io adoro e ch’egli ama tanto ascoltare!.... Pensando a tutto questo, là nella solitudine notturna della sua stanza virginale, che presto doveva lasciare, il suo cuore a un tratto si gonfiò, sentì una tristezza ignorata fino allora e diede in un pianto dirotto. O amore!... Tu eri giunto! All’indomani, quando uscì dalla sua stanza, trovò nella sala Paolo. Perchè era venuto, mentre non lo si vedeva che nelle ore prescritte per la lezione? — Era pallido ed il suo sguardo spento indicava una lunga notte d’insonnia. Ida sentì il cuore che le balzava contro la seta del vestito. La povera fanciulla era un po’ esaltata. — Paolo, ella disse, ho acconsentito. Era la prima volta ch’ella lo chiamava così. Egli capiva che non resisteva più. — Ho acconsentito, ella ripetè. Oggi mio padre scrive al marchese di Sentis, che non tarderà ad arrivare. — E fra un mese sarò sua moglie.... e dovrò lasciare questa casa.... e mio padre, e gli amici.... Nascose il bel viso nel fazzoletto e pianse ancora. Paolo era bianco e il suo labbro tremava convulso. — Madamigella, le disse alfine, e dei vostri amici di qui ve ne ricorderete qualche volta?... — Sì, sempre.... mormorò Ida. Ma ora addio. Così dicendo gli stese la mano. Egli la prese; era gelida. La strinse passionatamente. — E l’argine fu rotto. — Voi partite, madamigella, ed io resterò; ma per poco. Non posso vivere senza di voi, e quando sarete marchesa di Sentis io morirò. — Mi ero giurato di tacere, ma le forze umane hanno dei limiti. Vi amo, Ida. In quest’ultima ora, in quest’ora tristissima d’addio, non so come osi dirlo, ma lo dico. Vi amo, vi adoro, non vivo che per voi. So quanto ne separa. Voi non avreste mai potuto amarmi. Avete fatto bene ad accettare la mano del marchese. — Siate felice, Ida.... ma pensate qualche volta che vi è uno quaggiù che morrebbe col sorriso sulle labbra se potesse morire per voi.... — Paolo, anch’io.... In quel momento l’uscio s’aprì ed il conte entrò nella sala. All’attitudine dei due giovani ebbe una rapida intuizione di ciò che si passava. La sua fronte si corrugò. — Paolo, perdendo completamente la testa, fuggì. Ida era esaltata. — Mio padre, esclamò, non sposerò mai il marchese di Sentis, mai! mai! mai!.... — Lo sposerai invece tra una settimana, disse il conte. La sua voce era ferma, ma dolcissima. Entrò in un lungo discorso. Le disse ch’egli capiva benissimo che questo subitaneo cambiamento dipendeva da un capriccio di fanciulla per Paolo. — Le mostrò affettuosamente, paternamente come un tal sentimento abbisognasse combatterlo. — Ella già non lo poteva sposare, dunque?... Egli fu dolce, ma inflessibile. Per la seconda volta Ida fu quasi vinta dalle parole di suo padre. E quando egli la lasciò, si era molto acchetata. Ella era, al pari del conte, imbevuta delle idee aristocratiche del tempo. Sapeva che Paolo non poteva diventare suo marito. — Perchè dunque non accettare la mano del marchese? — Perchè arrecare tanto dispiacere a un padre che la adorava? — Un mutamento di vita le farebbe molto dimenticare; il marchese era un uomo amabilissimo, e poi.... Paolo lo potrebbe vedere ancora qualche volta.... di rado, come un amico.... Ella pensava ciò ingenuamente. Insomma, a poco a poco si riconciliò coll’idea del matrimonio; e quella sera, stanca delle emozioni della giornata, non tardò a dormire — un po’ triste, ma quieta. All’indomani Paolo venne all’ora solita. Egli aveva riflesso lungamente sulla sua posizione. Comprendeva che venendosi a frapporre al momento del matrimonio tra Ida e il marchese, sarebbe stato ingratissimo verso il conte, cui doveva pur tanto, arrecandogli un fortissimo dolore, mentre inceppava l’avvenire d’Ida senza alcun vantaggio. Ei l’amava perdutamente, ma giurò a sè stesso di esser forte. Si presentò dunque pallido e mestissimo, ma rassegnato. Ida gli narrò come avesse decisamente acconsentito. Espose a nudo l’anima sua; non sapendo più tacerlo, confessò il suo amore con quel sublime accecamento della passione che non esclude il pudore, e al tempo stesso cercò di partecipare a lui un po’ della propria forza fittizia. Gli disse di ricordarsi ch’ella non avrebbe mai amato che lui sulla terra, — ma aggiunse ciò ch’egli già pur troppo sapeva: che quest’amore era impossibile. Che ella gli avrebbe sempre dimostrata la sua affezione e che sperava — tra un anno — di vederlo al castello di Sentis. — Mai, egli rispose, non potrò mai vedervi di un altro. — Avete ragione, madamigella; sposate il marchese, egli forse vi saprà render felice, e.... dimenticatemi. Io non verrò più per la lezione. Il conte mi ha detto che ora sareste talmente occupata dei preparativi da non aver più tempo per la musica. Egli fa bene.... è assai meglio che non vi veda. Prima della vostra partenza.... — qui la sua voce si commosse, pur continuò: — tornerò un’ultima volta a dirvi addio. Ida si sentiva voglia di piangere, — non poteva parlare. — Gli stese la mano. Egli la portò alle labbra, e partì. In pochi giorni, con una forza di sentimento che non aveva mai provato prima, la malinconia d’Ida si cangiò in una tristezza nera, cupa, spaventevole. Un amarissimo pentimento di avere acconsentito l’afferrò bruscamente, così violento che pareva un rimorso e le rodeva la coscienza. L’amore sorgeva invece lentamente e fortemente in lei, e tutta la riempiva. Avrebbe sacrificato ogni cosa per non aver acconsentito, ma ormai capiva che non poteva più retrocedere, e come presa da vertigine, camminava dritto verso il precipizio. Se ella avesse pregato suo padre, egli avrebbe trattata la sua preghiera di capriccio.... chi sa?... l’avrebbe forse forzata. Di giorno in giorno la sua tristezza aumentava. Confessava dolorosamente a sè stessa che ora al marchese di Sentis avrebbe preferito il convento; sentiva pur troppo, che non sarebbe mai stata che una vittima rassegnata. Il marchese arrivò. Nè la sua gentilezza, nè la sua galanteria compita riuscirono a diradare la nube di mestizia che pesava sulla fronte della fanciulla pentita. Il conte si persuase che era meglio affrettare le cose, ed il matrimonio fu stabilito per la ventura domenica. Gli invitati arrivarono da Parigi. Erano i pochi parenti del conte, e gli amici numerosi del marchese di Sentis. La vecchia casa silenziosa e tranquilla fu ancora, per un momento, piena del rumore e del brio che l’avevano agitata altre volte. Il conte si mostrò splendido verso i suoi invitati. — Furono giorni di continua festa. In mezzo a tutto quel frastuono Ida finì col distrarsi un tantino. Ma svegliandosi alla mattina del sabato l’orrore della sua posizione le si affacciò gigante. — È domani, pensò. Domani tutto sarà finito. Paolo non l’aveva più veduto. Non osava pensare alla sua promessa di tornare a dirle addio.... Cercava anzi di scacciarne il pensiero.... ma il pensiero tornava. Ella andò nella sala del cembalo e cominciò a cantare la sua favorita canzone. Acquistava ora un nuovo incanto a’ suoi occhi; era quella che l’ultima volta aveva cantato con lui. L’ultima mesta nota aveva mestamente echeggiato quando l’uscio si aprì, e Paolo entrò. Non si può descrivere il suo aspetto. — Madamigella, sono venuto a dirvi addio. Vedete che in questi giorni non vi ho disturbata. Questa è l’ultima volta. Vostro padre non sa che io sia qui; non lo vedrebbe volentieri. Non ho dunque tempo di fermarmi. Addio, Ida, addio per sempre. Così dicendo le prese la mano, coprendola di baci.... Poi fece uno sforzo violento, e si diresse verso l’uscio. — Paolo, restate ancora un istante, mormorò una voce dietro a lui. Egli tornò, e le si sedette vicino. Ida avrebbe voluto non piangere.... ma nel parlare i singulti le tagliavano la parola. — Voglio cantarvi per l’estrema volta la canzone di Weber, proseguì. È il canto d’addio. E con quella voce in cui vi erano delle lagrime, incominciò.... Non la potè finire. A metà si fermò e diede in un pianto dirotto. Allora solo comprese quanto amasse colui che le stava a fianco. Paolo aveva voluto esser forte, ma ora tutte le sue risoluzioni lo abbandonarono. E con una mano afferrò la mano d’Ida, mentre con l’altro braccio le cinse la vita, scosso da una agitazione irresistibile. La povera fanciulla si abbandonò. La sua bella testa piegò come un fiore carico di rugiada e venne a posarsi sul petto del giovane. Era un anno che lo amava senza quasi saperlo — ora non poteva più vivere che per lui. Come fu che le loro labbra si riunirono e si presero in un lungo bacio?... Quei due cuori, che il momento dopo doveva separare per sempre, battevano l’un contro l’altro, come avessero tentato compenetrarsi.... Ma a un tratto le si risvegliò il suo instinto di donna; l’idea terribile che non si apparteneva più le balenò alla mente. Comprese d’improvviso la parola dovere — e si sciolse con forza dall’abbraccio di lui. Poco dopo si calmò. — Poi le venne paura che suo padre avesse ad entrare, e Paolo partì. Partì quasi felice. Egli era amato. Ida ebbe la febbre tutta notte e delirò nel modo il più stravagante; il medico fu chiamato. Si decise ch’era meglio ritardare il matrimonio. Il marchese venne a farle una visita e si mostrò afflittissimo di tale ritardo. Ma ella non volle. — Si alzò, disse di star bene. — Vestì il sontuoso abito da sposa tutto coperto di trine mandato da Parigi; si lasciò posare sulla testa la corona nuziale, e bianca come il suo vestito, con l’occhio fisso, col passo sicuro, fu condotta all’altare. Il conte comprese allora, suo malgrado, che non era una sposa, ma una vittima che quell’altare doveva ricevere. Pure si volle illudere ancora, e pensò che le magnificenze del castello di Sentis ed i fragorosi divertimenti della vita di Parigi le avrebbero ben presto fatto tutto dimenticare. È difficile farsi un’idea dell’affetto che il conte portava a sua figlia. Ella era tutto per lui. Egli era rimasto, reliquia di un secolo morto, solo, senza amici (la maggior parte non vivevano più o eran passati nelle file degli altri partiti), e Ida, l’imagine vivente di sua madre, la sola donna ch’egli avesse veramente amato, era allora l’unico scopo della sua esistenza. — Fu spaventato dallo sguardo fisso ch’ella aveva quella mattina. La cerimonia fu breve. Ida pronunziò il «sì» sacramentale con voce ferma, ed uscì dalla cappella a braccio di suo marito con l’istesso passo, e pallida come era entrata. Le sue idee erano confuse. Il dolore era scomparso. Si sentiva la testa diventar leggiera. Un mesto sorriso le sfiorò le labbra. Nel passare dalla gran sala di ricevimento si rammentò il posto ove era caduta a cinque o sei anni da una delle alte sedie a braccioli, su cui si era arrampicata. Il suo occhio era fisso e mi po’ vitreo. Non era più una donna; era una bella statua che camminava. Tutto era finito per lei quaggiù. La prima gioia era fugata, la estrema speranza sparita. Ora la sua ragione cominciava a vacillare. La scossa era stata talmente forte, così violento lo sforzo fatto per vincersi, provava tanta ripugnanza per il vincolo che assumeva, quel momento d’amore cui non aveva potuto resistere le aveva rivelato con tanta dolorosa evidenza quanta fosse la sua passione, il delirio della notte l’aveva sì fattamente agitata, che tutto, dinanzi all’orribile realtà del suo sacrifizio, si confondeva, si ottenebrava. In quei giorni ella aveva sofferto più di quello che sapeva, e l’effetto di quella sofferenza ora le piombava adosso fulminante. Quando l’epoca del matrimonio era stata fissata e che i giorni si succedevano con la loro inesorabile velocità, le pareva che quel tempo fatale passasse con una rapidità vorticosa e sentiva un senso di dolorosissima impotenza nel non poterlo arrestare. Ma per quanto si abbia la triste certezza di dover giungere ad una mèta triste, finchè non vi si è giunti, un lieve raggio di speranza s’ostina a posare sul nostro cammino — ma, una volta la mèta toccata, dinanzi all’innegabile realtà, esso pure si spegne e ne lascia nel buio. Sorrideva sempre — e il conte fu atterrito da quel sorriso. Rispondeva a caso, balbettava parole incoerenti. Ella era calma e quieta, ma la mente sembrava oscurarsi. Si poteva temere che la pazzia, spetro orribile, la stesse aspettando per piombarle adosso. Ci si permetta una parentesi. Queste specie di demenze, che vengono ad afferrare tra la penultima ora e la tomba chi ha lottato intera in un’ora la lotta della vita, fanno sì che il pensatore si arresti dubitando. Infatti, questi delirii sono veri delirii? O non è forse invece questo svanire della natura umana, all’ultimo momento, la saggezza d’una nuova vita che sembra follia in questa? Quell’occhio che non distingue più chiaramente le cose di quaggiù, è reso cieco da una tenebra che lo ha invaso, o è invece abbagliato dalla luce del cielo?..... Quelle parole incoerenti che la bocca pronunzia e che non s’intendono, sono vuote di senso e prive di ragione — o invece non sono comprese solo perchè le prime sillabe di un’altra favella?..... Torniamo alla povera Ida. Nella sala ricevette le congratulazioni degli invitati con aspetto distratto, ma la sua forza fittizia scemava d’istante in istante e si sentiva soccombere sotto allo sforzo troppo grande. Dovette cedere. Si ritirò nella sua camera e tutta vestita come era, con i fiori dell’arancio in testa, si coricò sul suo letto di vergine. Il conte, inquietissimo per lo stato della sua figlia adorata, lasciò gl’invitati, abbandonandoli alla brillante conversazione dello sposo, e corse nella stanza d’Ida. La trovò più calma, ma sempre con lo sguardo fisso e quel sorriso sinistramente dolce. — Lasciatemi, ella disse, voglio dormire. E infatti non tardò ad addormentarsi. Quando la vide assopita, la baciò in fronte e si ritirò sulla punta dei piedi. Ella dormì più di un’ora, d’un sonno nero, pesante. Quando si svegliò non seppe raccapezzare alcuna idea e le pareva d’aver perduto la memoria; solo si ricordava d’aver molto sofferto. D’improvviso si toccò la fronte con la mano come si fosse a un tratto risovvenuta di qualcosa. S’alzò e con passo calmo e lento uscì dalla stanza. Traversò le lunghe sale, la galleria, i corritoi ed entrò nella sala verde. S’assise al cembalo, ed accompagnandosi, cantò la canzone di Weber. La sua voce non sembrava quasi più di questa terra. Dopo un istante, tutta la sala era impregnata di quegli accenti.... Nell’uscire trovò Paolo. Non sembrava vederlo, benchè lo fissasse coi suoi grandi occhi pieni di luce ignota. Egli le prese le mani, coprendola di baci. Ma ella le ritirò e scoppiando in un riso convulso che echeggiò stranamente tra le vecchie pareti, disse con voce rotta: — Non mi toccate, signore. — Sono la marchesa di Sentis. La misera fanciulla non potè più ristabilirsi. S’ammalò e la malattia fu lunga, e sebbene non dolorosa, senza rimedio. Le cure dei medici, le preghiere, le sollecitudini dell’affetto paterno, tutto fu inutile. Vi furono in mezzo ai giorni di dolore alcune ore di speranza, ma ahi tosto spenta! Tutto si tentò per salvarla, ma il male fu inesorabile. Ell’era di quelle che all’urto delle passioni si spezzano, ell’era di quelle che muoiono. Nella sua delicata giovinezza il morale era strettamente unito al fisico. Finalmente giunse il termine di quella lunga agonia. Il curato del villaggio ed il conte stavano inginocchiati vicino al letto. Un po’ più indietro il marchese di Sentis. Ebbe un istante di tregua e parlò per poco. I suoi discorsi erano incoerenti e strani, ma affettuosi per suo padre. — Il nome di Paolo tornava ad ogni momento. Le sue ultime parole furono: «Lasciatemi dormire». Così dicendo appoggiò la bella testa all’indietro e chiuse gli occhi. II Tre giorni dopo, la chiesa del villaggio mostravasi sontuosamente parata di nero e d’argento. — I paesani in folla erano inginocchiati sui gradini. Sopra un gran cartello, sormontato dallo stemma dei Montsauron inquartato con quello dei Sentis, leggevasi in lettere bianche su fondo nero: ALL’ANIMA DELLA NOBILE DAMA IDA DI MONTSAURON MARCHESA DI SENTIS DA SUBITANEO MALORE RAPITA LA SERA DELLE NOZZE LASCIANDO ORBATO LO SPOSO IL PADRE INCONSOLABILE CONCEDA DIO L’ETERNO RIPOSO LA CORONA DEL PARADISO. R. I. P. Null’altro rimaneva di quell’angelo passato sulla terra che una pomposa iscrizione di dodici righe. L’interno della chiesa era imponente. Le torce funebri l’illuminavano di una luce bianca e severa. Come al di fuori era tutta parata di nero e d’argento. In mezzo sorgeva il cataletto su cui era posata una ghirlanda di fiori. Il dolore del vecchio conte fu terribile e spaventevole. Dal suo occhio non scese una lagrima — ma in due ore pareva invecchiato di dieci anni. — Volle egli stesso presiedere a tutto ciò che concerneva il funerale, perchè l’ultima dei Montsauron venisse sepolta onorevolmente. Assistette alle esequie dalla tribuna della casa. Poi accompagnò il corteo fino alla tomba di famiglia. Fu deposta vicino alla contessa di Montsauron. Sulla tomba non leggevasi che il nome, con la data della nascita e quella della morte. Dopo adempiti codesti strazianti ufficii, il conte andò a piedi, accompagnato dal marchese e dal curato, fino al limitare del villaggio, dove una carrozza di posta lo aspettava. — Là dove Ida è morta, diss’egli, additando la vecchia casa, io non ci voglio star più. Il marchese aveva offerto di accompagnarlo, ma egli aveva rifiutato. Nessuno aveva voluto, tranne il suo vecchio cameriere, che triste egli pure salì dietro la carrozza. Il marchese ed il curato, col cappello alla mano ed il viso commosso da un dolore così fiero e così fieramente sopportato, lo sorressero mentre montava in carrozza. — Egli strinse loro la mano e gridò al cocchiere: — A Parigi! La pesante carrozza si mosse e i quattro cavalli partirono di galoppo. Il marchese di Sentis tornò alle sue terre di Normandia. Paolo non si consolò mai della morte d’Ida — ma non ne morì. Il tempo e l’arte sono grandi consolatori. Partì per Parigi dove non tardò a farsi un nome. Il dolore che fu veramente immenso fu quello del vecchio. Dolore grande, augusto. È solo di questo che ne resta a parlare. III Cinque anni sono trascorsi dagli avvenimenti che abbiamo narrato. In un albergo d’un piccolo borgo, in una brutta stanza bassa, tappezzata d’una carta ch’era stata rossa mezzo secolo prima, un signore dal dorso curvato, dai capelli bianchi, dal viso rugoso, è seduto in un’ampia poltrona, e sembra assorto in pensieri. Affrettiamoci di dire che questo vecchio è il conte di Montsauron, altrimenti non lo si riconoscerebbe certo. Il conte era d’eccellente costituzione e di tempra fortissima; questo solo l’avea salvato dal seguire sua figlia nel sepolcro; poichè il dolore che lo aveva fulminato era di quelli che ben sovente uccidono; perdendo lei, egli aveva perduto tutto ciò che ancora lo riteneva quaggiù. Come avesse sopportato il terribile colpo l’abbiamo visto più sopra. Solo, come fu già detto, non si era sentito la forza di tornare in quelle mura dove Ida aveva reso l’ultimo sospiro, ed era partito per Parigi. Qui tentò distrarsi, ma invano. Comperò dopo qualche tempo una piccola villa sulle ridenti rive della Senna, ed ebbe un momento la speranza che una vita tranquilla, in un sito ameno e bello, ben lontano dalla scena della disgrazia, potesse a poco a poco chiudere la piaga che sanguinava ancora. Vi stette due mesi, ma la solitudine aumentava anzi di giorno in giorno la sua tetra malinconia. — Decise allora di viaggiare. Qui cominciò lo spettacolo tristissimo di quel vecchio che andava, andava, fuggendo il suo dolore. Percorse tutta l’Italia e la Spagna, e dappertutto non trovò altro che l’imagine di sua figlia morente — e le ultime sue parole e l’ultimo suo sguardo egli le udiva, lo vedeva sempre. — Fuggiva invano quei pensieri che lo seguivano come fantasmi: pareva che si fossero in lui incarnati. Inoltre, a poco a poco, suo malgrado e benchè cercasse combatterlo, un nuovo sentimento si era impossessato di lui. Un nuovo male lo rodeva, un male più grande che si aggiungeva al primo: il rimorso. Questo pensiero orrendo ch’egli non fosse innocente della morte della sua Ida, s’infiltrò adagio nella sua mente, a gradi a gradi, e una volta padrone di lui, non gli lasciò più un momento di pace. Era certo ch’ella era morta di dolore. E al matrimonio col marchese egli non l’aveva forzata, ma pure... Qualche volta si svegliava di notte in sussulto e gli sembrava vedere in mezzo alla stanza la sua Ida ancora vestita da sposa, ma già pallida dell’ultimo pallore. Egli non era mai stato superstizioso; pure v’erano ora dei momenti in cui aveva paura della solitudine. Lo ritroviamo — cinque anni dopo — stanco di viaggiare. Un bel giorno si era sentito un violentissimo desiderio assai strano. Come subito, dopo la disgrazia, egli aveva voluto fuggire dalla sua vecchia casa, così invece provava ora una brama intensissima di tornarvi. La malinconia che lo seguiva dovunque era ora raddoppiata da quel nuovo sentimento non da tutti compreso, che si potrebbe chiamare la nostalgia del dolore. Non potendo obliare, voleva che tutto gli parlasse della sua sventura; non volendo consolarsi, trovava un’acre voluttà nel bere fino all’ultima goccia la coppa d’amarezza. Bramava rivedere la stanza ov’era morta e deporre de’ fiori sulla sua tomba. Stanco di tutto, egli voleva affogarsi nella sua afflizione. Fu per ciò ch’egli compì il viaggio del ritorno con la stessa celerità con la quale era stata effettuata, cinque anni prima, quella partenza che rassomigliava a una fuga. Per istinto e per indole, per educazione e convinzione, il conte era eminentemente religioso. E i conforti della religione gli aveva cercati, ma erano stati vani essi pure. Tutte le consolazioni che gli furono date per lenire il suo male, non valsero a nulla. Cosa triste alla sua età, perfino la fede scemava in lui! La superstizione subentrava. Tutto ciò che nel lungo corso della sua vita aveva udito raccontare che si riferisse a storie sopranaturali, quegli aneddoti di fantasmi e di spettri di cui abbiamo avuto tutti la nostra parte, ora gli tornavano alla mente e lo agitavano e conturbavano. Gli pareva che tutti avessero a ripetersi per lui; e veramente — sebbene non se lo volesse confessare — non era senza inquietudine che pensava alla prima notte nella sua gran camera, così grave con la tappezzeria di lampas giallo e la vôlta a dorature annerite dal tempo. Questo però non diminuiva per nulla la brama intensa di tornare in quelle mura dove sua figlia era spirata — e il timore, ch’egli voleva scuotere, ma che pure aveva, delle apparizioni notturne, timore derivante dal rimorso, non faceva che aumentare il desiderio di essere ancora nella vecchia casa. Aveva, per così dire, la curiosità della paura; voleva vedere cosa ben gli potesse accadere. Egli se ne stava dunque, quando lo ritroviamo, seduto in un ampia poltrona in quella brutta stanza d’albergo, inabissato ne’ suoi tristi pensieri. Arrivando in quell’ultima stazione del suo viaggio di ritorno, spinto da quella febbrile impazienza che aveva di risoffrire dove aveva sofferto, agitato da una tremenda curiosità, aveva deciso, sebbene stanchissimo, di passarvi solo la notte e ripartire all’indomani. Alla mattina infatti, Antonio, il vecchio cameriere entrò nella sua stanza. — Signor conte, egli disse, i cavalli sono attaccati e tutto è pronto. — È inutile. Non parto oggi, rispose il conte. All’indomani fu lo stesso. Finalmente diede l’ordine che non si pensasse alla partenza fino a nuovo avviso. Abbiamo talvolta simili tetri avvertimenti che sembrano venire dall’alto. Il presentimento si mette sulla nostra strada e ne addita l’abisso. Il conte, sapendosi a poche leghe dalla sontuosa tomba di famiglia dove la sua Ida riposava, sentiva già un fremito arcano per la vicinanza. La paura del sopranaturale si faceva ogni giorno più forte e diventava terrore. Tutto in lui era contraddizione. — Voleva vedere la sua antica casa, ma temeva. E triplicato dal presentimento che pesava su di lui lo spavento soprastava. Rimase così una quindicina di giorni in quel brutto albergo e non si decideva a partire. Egli era come un uomo che teme d’aprire una porta. Una notte ebbe un sogno. Gli pareva d’esser vicino al monumento di sua figlia; ma la tomba era trasparente ed ella agitava le braccia, e malgrado gli occhi chiusi, il suo volto pallido era radiante. L’espressione del suo viso era d’una tristezza ineffabilmente dolce. Quella visione lo impressionò gravemente. Si sentì addolorato e pieno di rimorso per la soave malinconia impressa sulla faccia della sua morta. Pure il desiderio di rivedere quella tomba ridivenne più gagliardo della paura dei fantasmi. Anzi, sebbene in fondo all’anima conservasse una tema indistruttibile, arcana, pure non erano più le apparizioni che paventava. Che paventava dunque? Non lo sapeva più. Ida ora l’aveva vista e quella visione non gli era stata un incubo, ma anzi quasi un conforto. Pure quel terrore vago e indefinibile lo provava ancora, e peggiore forse perchè segreto ed ignoto. Ma superò tutto la brama di rivedere la sua casa, Non frappose più verun indugio. La sua impazienza a un tratto si fece delirio. Si alzò, ordinò i cavalli, fece in fretta e in furia i suoi preparativi e mezz’ora dopo la pesante carrozza rotolava già sulla strada postale. Era il tramonto. Sul terrazzo della vecchia casa stavano riuniti domestici e contadini e con essi la cameriera d’Ida. Tutti protendevano avidamente lo sguardo verso la strada. Un bisbigliare animatissimo serpeggiava tra i gruppi. Perchè accorsi tutti? Per l’annunzio di un servitore che dichiarava di aver veduto dalla finestra una carrozza sulla strada postale. Non sembrava che un punto nero; ma si dirigeva verso la casa. — Tutti sapevano che il conte doveva presto arrivare, quella carrozza in vista suscitò dunque una gran commozione. — Mi par che non arrivi più. Non sarà stato lui, disse finalmente il giardiniere. Non aveva finito di pronunziare queste parole, che si vide spuntare in fondo al magnifico viale, la carrozza tutta nera e impolverata del conte. I cavalli, benchè sembrassero stanchi, coperti di sudore e di spuma, salirono bravamente di galoppo fino al terrazzo. Lì la carrozza si fermò. — Fu, per gli assembrati, un momento d’indicibile emozione. Tutti si sentirono un brivido passare per le ossa. L’istante era solenne. Il loro vecchio padrone, cui volevano tanto bene, che avevano veduto fuggire, abbattuto da quel colpo tremendo, la morte dell’unica sua speranza, ora lo vedevano tornare dopo cinque anni di assenza, che ben sapevano essere stata vana a calmare il suo dolore. Lo sportello si aprì e il conte si affacciò, e ristette un momento. Provava come un’ultima esitazione. Com’era cambiato!..... Finalmente scese, e curvo, appoggiato da ambe le parti, salì lentamente i gradini del terrazzo. Tutti gli si erano precipitati incontro, baciandogli le mani, le falde dell’abito, sorreggendolo.... Egli li ringraziò con voce malferma. Quando entrò nella sala, si videro due lagrime silenziose che gli scendevano lente lente per le guancie. — Dopo la morte d’Ida piangeva per la prima volta. Passò nella gran sala da pranzo dove trovò già apparecchiato. Cenò servito da tutti, discorrendo con tutti, ringraziando tutti, domandò notizie di quel che si era fatto nella sua assenza. Egli era ben contento di ritrovarsi alfine, nella vecchia casa; si felicitava di aver avuto il coraggio di venire. Dopo si ritirò nella sua camera da letto, e si coricò. Quando fu solo ancora per la prima volta dopo tanto tempo, nella sua gran stanza così severa, non potè frenare un momento di paura. Pure finì coll’addormentarsi, ed il suo sonno non fu turbato in alcun modo. Insomma, e per abbreviare, un mese passò senza che nulla gli accadesse di straordinario. Era stato molte volte anche nella stanza dove Ida era morta, aveva posato la sua vecchia testa su quel cuscino dove la povera sposa aveva esalato l’ultimo sospiro, aveva pianto come un fanciullo, poichè oramai poteva piangere, ma nulla gli era accaduto. Aveva girato le sale silenziose, le lunghe gallerie, i corritoi, ma nulla egli aveva veduto d’insolito o di sopranaturale. Le sue apprensioni, le sue superstiziose paure cominciavano a diminuire. Ma le apparizioni egli non le temeva: Ida gli era apparsa e gli aveva sorriso. L’inquietudine, il presentimento ch’egli provava così fortemente, da che derivavano dunque? Un giorno egli usciva dalla biblioteca e vide aperto un uscio che ordinariamente stava chiuso. Metteva a un lungo corridoio, conducente nel fondo dall’ala sinistra della casa. In fondo a quel corridoio trovavasi la sala verde, quella che conosciamo, la sala del pianoforte, il luogo favorito della povera Ida. Gli balenò al pensiero che, dopo il suo ritorno, non vi era mai stato. Dipendeva probabilmente da abitudine, poichè anche prima non usava andarvi. Era un luogo amato da sua figlia; egli che non respirava più che per quella sacra memoria si sentì subito invogliato ad entrarvi. Passò nel lungo corritoio, e appoggiandosi al bastone (che non lo abbandonava più oramai), si diresse verso la sala verde. Andava curvo, con l’occhio spento, la testa bassa. Sentiva in cuore una tristezza più forte della consueta. Spinse l’uscio ed entrò. — Subito le sue superstiziose paure lo assalirono. Sebbene in pieno giorno tremava più che di notte nella sua stanza tetra. Tutto nella sala era al suo posto, tutto come l’ultima volta che Ida vi aveva messo il piede. Nessuno dopo quel giorno eravi penetrato. L’antico clavicembalo stava aperto e sul leggìo vedevasi aperta una musica. Era la canzone di Weber — la canzone favorita ch’ella aveva ripetuto tante volte con Paolo, quella che li aveva fatti cadere nelle braccia l’un dell’altro, e scambiarsi quel lungo bacio d’amore che fu il loro unico istante di felicità; quella che aveva sonato l’ultima volta, con lo sguardo fisso, col cuore spezzato, con l’accento d’un inconsolabile dolore, con una voce che non era già più di questo mondo. Quella triste melodia d’amore aveva echeggiato lungamente tra le vecchie pareti. E quand’ebbe finito, tutta la sala pareva impregnata di quegli accenti.... Al vedere quella musica sul leggìo e quel cembalo ancora aperto, il conte si sentì rabbrividire. D’un tratto, le sue guancie si coprirono d’un pallore mortale, le gambe gli tremarono, un freddo sepolcrale gli passò per le vene, e dovette appoggiarsi al cembalo — aggrappandosi con le due mani per non cadere. Una musica lieve lieve si faceva udire. Il cembalo senza che alcuna mano visibile lo toccasse, mandava degli accenti. Era un motivo triste triste; una dolce melodia che pareva il lamento di un cuore gonfio d’amore.... Era la canzone di Weber. E le note, quelle meste note abituate ad echeggiare in quella stanza, sorgevano, sorgevano con una espressione straziante che non pareva più appartenere a questa vita. Sul principio la voce fu lieve, un filo di voce, come venisse da lontano, come partisse da sotto terra. Al padre pareva sorgesse dalla tomba.... e preso da indicibile terrore si tenne con tutta forza al cembalo. Il suo presentimento si avverava: egli non temeva più le apparizioni, ma sapeva che qualcosa lo attendeva. Ora sentiva un’orribile paura, e non vedeva fantasmi. La voce sorgeva, sorgeva, e si faceva più forte. Sembrava il fragore della tempesta, sembrava l’irrompere del pianto, sembrava una battaglia del cuore. E le note succedevano una all’altra, chiare, distinte, spiccate, con un accento arcano, come se una mano maestra e divina avesse toccato i tasti. Le mani del conte si agitavano convulsivamente. Il suono proseguiva. Il canto prendeva degli accenti inimitabili di musica celeste. Artisticamente, era la più splendida esecuzione che si potesse imaginare. Era infatti una esecuzione come nessuna mano mortale o voce umana possa mai sperare di rendere. V’era in quelle note una sonorità così strana, in quegli accenti una espressione così divinamente straziante, che certo se avesse dovuto uscire da un petto umano, l’avrebbe infranto. Era di quei canti che fanno morire. Qualunque creazione d’arte è un tentativo; l’artista non esterna mai tutto quello che lo agita internamente, non esprime mai tutto quello che vorrebbe. Qui invece tutto il pensiero di Weber era forse espresso. Era una nuova edizione del suo canto, riveduta e corretta in cielo. Si sarebbe detto che gli angeli vi avevano messo mano. Pareva in quelle note sentire il fruscio delle loro ali azzurre..... La canzone continuava forte, intricata come il lottare degli elementi; ma il triste motivo del principio s’udiva sempre — pareva filtrare per entro. Quella voce angelica, che somigliava alla voce d’Ida, s’udiva fra quella divina tempesta di note. Il conte balbettava parole incoerenti. Finalmente quella burrasca, ch’era giunta al colmo e pareva il tuono d’una collera celeste, cominciò insensibilmente a scemare. Si acchetava lentamente, a poco a poco. E il primo motivo, quella dolce melodia d’amore, che si era sempre udita attraverso tutto, ma fiocamente, ora tornava a dominare. Il conte tremava. Un gelo mortale gli serpeggiava pel corpo. Le sue labbra tentavano di pronunziare una preghiera. Finalmente il motivo fu nuovamente solo, ma questa volta lieve lieve come l’eco di un’altra vita. Poi, d’improvviso, gli accenti divennero talmente sonori, arcani, che pareva il cembalo dovesse spezzarsi. Le ultime note erano tremende di dolore. — Erano gli ultimi gridi di un’anima che un male troppo intenso strappa violentemente dalla spoglia mortale. Il vecchio si sentiva mancare la vita. Il canto continuava — un’agonia di note. Poi l’ultima vibrò lunga, tetra, triste, sopranaturale, con un accento che una mente umana non può imaginare. Pareva partire dalle viscere della terra e come una freccia volare in cielo. Era il grido supremo, era il grido di chi muore d’amore. Al conte sembrò riconoscere in quell’accento l’accento d’Ida. Le sue mani persero a un tratto ogni vitalità e abbandonarono la sbarra del cembalo, a cui si era per tutto il tempo di quella strana agonia tenuto abbrancato; di pallido ch’era si fece subitamente bianco e con un rantolo soffocato, stramazzò per terra. Quell’ultima nota echeggiava ancora. CAPRICCIO I In quei tempi dorati quando la Pompadour era regina di Francia per grazia degli amori, quando le dame della corte non si mostravano troppo sovente crudeli e s’abbandonavano spensieratamente ai dolci capricci, la bellezza era ancora quasi altrettanto stimata nell’uomo che nella donna. Nei nostri tempi invece, se un giovane ha ricevuto dal cielo una di quelle figure che gli artisti vagheggiano assiduamente, ma ben di rado trovano, molto spesso la sua bellezza non gli serve a nulla. Era ben diverso ai bei tempi della cipria e del velluto, quando Richelieu finì col innalzare vicino al trono la piccola Vaubernier, che divenne la ben nota contessa Dubarry...... Allora non era impossibile che un bel giovane, pel solo fatto di esserlo, divenisse maresciallo di Francia e cugino del re. Chiunque giungeva ad essere presentato in società (non era facile però), era sicuro di fare una certa impressione al primo apparire, anche se figlio di un ciabattino, purchè avesse una figura elegante ed un portamento svelto e distinto. È ciò che accadde ad Armando M., giovane pittore recatosi a Parigi a studiare, quando venne presentato in società dal cavaliere di Verny, famoso mecenate, protettore di tutti gli artisti che sembravano promettere qualche cosa. Ai nostri giorni... non avrebbe forse fatto impressione, e tutt’al più alcuni si sarebbero occupati di lui in ragione del suo merito; allora invece, nessuno domandò che avesse mostrato nè se dava speranze, ma non vi fu una sola dama che non osservasse quel giovane senza nome e senza fortuna, ma idealmente bello. — Nessuno vedendolo l’avrebbe creduto figlio di un falegname, e nato in un villaggio; vi era tanta finezza nei suoi lineamenti, tanta distinzione nella sua fisonomia e nei suoi modi, che per essere gentiluomo non gli sarebbe mancato che d’esserlo, mentre è così sovente il contrario. Di statura media, superbamente fatto, bello nella freschezza dei suoi vent’anni, con due occhi pieni di fuoco, esprimenti una strana potenza d’affetto, come avrebbe potuto passare inosservato? La prima volta che venne condotto ad un ballo fu guardato assai, e molti fra i giovani cavalieri l’avrebbero volentieri mandato a tutti i diavoli. Egli si aggirava tra quella folla dorata, inebriato dal frastuono della musica, dalla luce, dalla ricchezza degli abiti e delle sale, dalla bellezza delle donne. I raggi delle gemme e degli sguardi lo accecavano ad un tempo, i profumi delle signore gli montavano alla testa. La festa era brillantissima, ma a lui tutta quella gioia, cui, per la sua posizione inferiore, non era dato prender parte, non infondeva che un senso insolito di tristezza. Se ne stava in un angolo della sala, confuso da tutto quel rumore, abbagliato da ciò che vedeva, rattristato dall’allegria. La prima signora cui lo si presentò fu la marchesa di Saint-Aubin, una delle più alla moda, e che il cavaliere di Verny conosceva molto. Tutti ammettevano, anche i più difficili, che la sua riputazione di bellezza non era usurpata. Il giorno in cui la vide, Armando ne fu colpito. Egli che poco sapeva del mondo, trovandosi d’improvviso davanti a una di quelle donne più che regine, armate dello scettro magico della bellezza, sentì un’ondata di pensieri nuovi che gli empivano la mente e fu come sbalordito da un senso di stupore e di ammirazione. Era turbato alla vista di quella donna così bella, circondata da tanta eleganza e da tanta opulenza. È indubitabile che l’appartamento ricchissimo della marchesa aveva un po’ di parte nella sua ebrezza, e che con l’occhio suo d’artista e d’adolescente sognava a un tempo davanti ai belli occhi della signora, e alle graziose e ricche cesellature dorate delle cornici e della vôlta. E aveva ben ragione. Erano pur splendide ambedue, la donna e la sala! Questa era addobbata in damasco rosso e argento, la vôlta dipinta nello stile di Boucher, tutta a puttini e festoni e fiori e nuvolette d’azzurro e di rosa e dorature ed arabeschi; i mobili coperti di oggetti d’arte e di lusso, oppure fulgenti d’oro e lucenti di seta. Le poltrone larghe di forma farebbero ora arrestare l’occhio di un conoscitore sulle loro linee graziose, curvate nel buon stile, massiccie e insieme leggiere; allora, coperte di raso, invitavano ad adagiarvisi. Le tende della stessa stoffa della tappezzeria cadevano riccamente in magnifiche pieghe e frammischiavano per terra le loro frangie d’argento alle morbide lane del tappeto. Ah! quel tappeto! — Tutto a fiori e ghirlande di vivacissimi colori, con le tinte così perfette da far bene a un occhio avido d’armonia, e poi così dolce al tatto, così soffice sotto i piedi! Come era possibile non inginocchiarsi sopra un tal tappeto, davanti una donna come la marchesa? Ella era bella d’incontestabile bellezza. Figuratevi una donna in tutta la maturità dei suoi vezzi, in tutta la pienezza della sua avvenenza, con l’occhio penetrante che dice dei volumi ad ogni sguardo; col corpo che avrebbe potuto servire da modello ad uno scultore, se non fosse stato un po’ troppo maestoso, coi lineamenti ben disegnati, sebbene capricciosi; con delle mani bianche, eminentemente patrizie, che non sembravano esser state create che per essere baciate. La prima volta che Armando la vide ella era seduta vicino al fuoco vivissimo che fiammeggiava nell’ampio camino in marmo venato, di cui ogni ornamento, ogni amorino era un piccolo capolavoro. Guardava molto fissamente, pensando certo a tutt’altro, un fiore del tappeto, mentre una mano giocava con un gioiello, che le pendeva dal collo, e l’altra faceva girare macchinalmente tra le dita di neve un piccolo parafuoco chinese. Davanti a lei, in piedi, appoggiato alla seta del camino, stava un gentiluomo ben incipriato ed elegante, di bella figura, che poteva avere un quarantacinque anni, benchè fosse assai ben conservato. Non sapeva il perchè, ma al primo vederlo, Armando lo trovò poco simpatico. La loro conversazione fu subito troncata; e poco dopo il signore partì, lasciando Armando solo con la marchesa. Solo con lei!... Mille pensieri si aggiravano in quell’istante nella sua mente. Egli pensava, guardando le pareti di quella sala così sontuosa, quanto avrebbero potuto raccontare se avessero avuto la favella. Quante protestazioni d’amore avranno udito, quante bugie dorate, quanta eloquenza sprecata, quanti baci derubati o permessi! — E poi innalzava alla marchesa uno sguardo timido e fuggevole e un’immensa amarezza gli riempiva il cuore. Oh! quanto avrebbe bramato allora essere un giovane ricolmo di tutti i beni della fortuna, coperto di tutti gli orgogli, come tanti ve n’erano che lo meritavano meno di lui, per poter con la testa alta, il sorriso sulle labbra, l’occhio illuminato dalla speranza, tentare la sua sorte ai piedi della dea! E così?..... S’egli, il giovane tollerato solamente in quella superba società, il povero pittore, volesse ora arrischiare una di quelle parole di cui mille gli salivano dal cuore, come verrebbe accolta? — Gli pareva, pensandovi, di udire già quello scoppio di risa femminile, che insultante, sottile, chiaro e vibrato come lo zampillare d’una fontana, avrebbe tagliato a mezzo la sua timida dichiarazione. La marchesa fu la prima a rompere il silenzio un po’ imbarazzato ch’aveva seguito la partenza dell’elegante visitatore; e il colloquio cominciò e finì, essendo durato una mezz’ora nella quale fu detto nulla. Armando viveva una vita abitualmente ritirata, coi suoi compagni, tutto assorto nei lavori cui si dedicava con passione; — pure di tanto in tanto rivide la marchesa, e il pensiero di quella donna così seducente s’impadronì di giorno in giorno maggiormente di lui. Il cavaliere l’introdusse ancor più in società, e presto molte altre sale dorate socchiusero un battente delle loro porte per lasciarlo passare. — Oltre i palazzi, anche le petites maisons gli furono aperte. Ma nessuna di tante distrazioni valse a scemare di molto l’impressione che aveva fatto su di lui la bellezza della signora di Saint-Aubin. Ciò ch’egli sentiva egualmente dovunque e che lo rattristava di più era la posizione subalterna in cui si trovava in faccia ai gentiluomini che lo circondavano. Anche nella più facile società delle belle impure (come dicevasi allora) egli sentiva sempre l’inferiorità di chi si trova in una società che non è la sua e dov’è accettato per grazia. Infatti nei gabinetti delle ballerine e delle donne galanti si ritrovavano gli stessi profumati ed orgogliosi signori che si vedevano a corte. Nè sì grande era la differenza tra gli appartamenti. Boucher e Watteau avevano con eguale cura coperte dei loro elegantissimi dipinti tanto le sale della marchesa di Saint-Aubin, quanto il gabinetto della Champrosé, una delle più belle di quel reggimento di belle fanciulle ch’era il corpo di ballo ai tempi della Camargo. Le dorature della vôlta erano altrettanto finamente scolpite in un luogo che nell’altro, e non mancavano nemmeno gli stemmi, poichè dalla Champrosé vedevasi quello del conte di Pois, il suo amante del momento. Qui si radunava tutto il demi-monde d’allora, e sebbene anche in questo genere di società, Armando fosse assai bene accolto, ciò non impediva che quando rientrava nel silenzio della sua stanzuccia sentisse molte volte una profonda malinconia scendergli nell’anima, e tanto la cagionavano le belle ragazze dal cuore facile che aveva veduto dalla Champrosé, quanto le dame della corte. L’inferiorità della sua condizione e un po’ la sua timidezza gli ponevano sulla fronte l’impronta di una serietà precoce. Se la fortuna gli avesse rivolto francamente il suo sorriso da sirena, e presolo per mano lo avesse condotto nella strada della vita per sentieri cosparsi di fiori, quella nube che gli oscurava il viso si sarebbe dissipata e la sua naturale bellezza avrebbe fatto il suo effetto. Ma il secolo della Chateauroux e della Pompadour non era certo adatto ai Werther, e Armando avrebbe abbisognato di uno sguardo più animato, di un sorriso più vivace per far breccia nei cuori. E intanto egli aveva la mente piena d’imagini e di pensieri che la mano fremeva di porre in esecuzione; e ciò che più è, il cuore giovane e bramoso di passione. — Orfano, raccolto dal cavaliere a cui lo legavano solo i vincoli della riconoscenza, non aveva un affetto sulla terra. — E non amato da alcuna, poco considerato da tutti, fiero malgrado la sua povertà, orgoglioso del suo ingegno, vivendo tra le più belle donne che sia possibile ideare, era inevitabilmente infelice.... Lo sapevano esse che facevano battere il cuore, turbavano la mente, accendevano l’imaginazione tanto all’oscuro pittore quanto al più dorato e ricamato dei gentiluomini? Lo sapevano esse che si può voler amare senza chiamarsi nè Rohan nè Montmorency? Quando si trovava solo e che si sentiva la mente assediata da idee e da sogni, pensava con forzata umiltà quanto fosse inutile per lui il suo ingegno. Guardandosi nello specchio fantasticava, e poi pensava quanto gli fosse vana la sua bellezza. — Che diavolo avete, mio caro? gli chiese un giorno il cavaliere, andiamo, scuotete codesta malinconia. Eh! per Bacco, chi direbbe che alla vostra età si possa avere un aspetto così triste! Cosa avete? — Siete innamorato? — Male, amico. Gli artisti non dovrebbero mai essere innamorati, altrimenti, addio! non fanno più nulla. Intanto per distrarvi, questa sera verrete con me dalla marchesa, dove siete invitato. È un mese che non vi si vede più in nessun posto. Se fate così sarete ben presto dimenticato, e allora i vostri quadri?..... Armando andò al ballo. La marchesa era bella più del solito. Magnificamente vestita, se ne stava accogliendo i suoi invitati con le ampie riverenze all’indietro le più aristocratiche, e con un sorriso stereotipato che lasciava vedere una fila di dentini fatti apposta per mordere il pomo d’Eva. Portava un abito di broccato rosa laminato d’argento, aperto davanti, che lasciava vedere un sott’abito di broccato bianco; le sue spalle nude folgoreggiavano di diamanti e di smeraldi. Aveva un’altissima acconciatura di testa sapientemente architettata, dove al bianco della cipria si frammischiavano rose e brillanti, che torreggiava insolentemente sulla sua piccola fronte di alabastro; e si faceva vento con un tenue ventaglio, vero gioiello d’oro e di madreperla, pazientemente miniato e guarnito di finissime e lunghe piume di cigno. Un neo vicino alla fossetta del mento dava al suo visino un nuovo brio. Vi era nel suo sguardo qualcosa d’ancor più trionfante del solito: ogni suo più piccolo moto aveva un segno di conquista. Rispose quel che doveva al profondo saluto d’Armando, dopo di che, essendo egli penetrato tra la folla nella sala dove si ballava, non la vide più per qualche tempo. Anche questa volta egli era mesto per la gioia sontuosa che gli si aggirava d’intorno, e non avendo, nelle piccole commedie che si recitavano davanti a lui, che un posto di spettatore, e di spettatore che non poteva sempre intendere, non si divertiva troppo e sentiva il bisogno di starsene in qualche angolo appartato dove potesse meditare e sognare senza che il suo aspetto pensieroso avesse a dar troppo nell’occhio. In fondo alla lunga serie di sale, una più risplendente dell’altra, che formava l’appartamento della marchesa, di cui la sala da ballo era il centro, si trovava un gabinetto quasi sempre deserto. Era un piccolo ma elegantissimo ritiro. Tutto coperto di lampas celeste, con la vôlta carica di dorature, era lievemente illuminato da una lampada d’argento di vezzosissimo disegno, chiusa da vetri smerigliati e appesa ad un cordone di seta, che spandeva una luce misteriosa e leggiera, invogliante alla calma; e rischiarando blandamente i muri celesti del gabinetto, invitava al riposo e insieme alla voluttà. Se ne stava lì già da quasi mezz’ora, immerso nei suoi soliti pensieri. Egli fuggiva l’incanto di quegli sguardi eloquenti, di quei diamanti e di quelle perle, di quegli òmeri nudi e di quelle chiome fantastiche. Un enorme specchio, con una massiccia cornice di stile barocco, in cui le foglie e i fiori degli ornati racchiudevano alla lor volta mille specchietti faccettati che luccicavano come gemme, era davanti a lui ed egli vi si poteva ammirare da capo a piedi. Non poteva esser malcontento dall’esame della sua persona. Al tempo stesso sentivasi una potenza d’amore che abbisognava di espandersi, e nella sua mente tanti pensieri si affollavano da non dubitare che se avesse potuto parlare francamente a una di quelle donne che vedeva a pochi passi da sè, sarebbe stato di una facondia ben persuasiva e trascinante. Dall’uscio aperto egli ne scorgeva una, la contessa di Grives, che in quel momento si diceva avesse avuto l’onore di essere osservata dal re, e che se ne stava conversando con un signore vestito del color dell’ambra. Quanto era bella!... Di un’avvenenza affatto diversa da quella della Saint-Aubin, non era per questo meno seducente. Alta di statura, sottile d’asta, il suo busto si allargava come il calice di un fiore dallo stelo, mostrando le più bianche spalle, che siano mai state create; il profilo del suo viso era purissimo e i suoi grandi occhi celesti avevano un’espressione calma ed ingenua che contrastava con la sensualità della sua bocca purpurea. Armando la guardava fissamente, ma che poteva egli pretendere? D’improvviso la bella visione scomparve. — Porgendo la mano al suo cavaliere, la contessa se n’era ritornata nella sala da ballo, ed egli si trovò di nuovo completamente solo ed avvolto nelle sue fantasticherie; quando inaspettatamente un lieve fruscìo di gonna dietro a lui gli fece voltare rapidamente il capo. Nella penombra formata da una portiera di seta che, chiusa, non si vedeva, stava la padrona di casa, bellissima e sorridente al solito di quel sorriso dolce ed ironico a un tempo che tanto turbava il nostro eroe. Ell’era stata nelle sue stanze ed ora passava a caso per quel gabinetto solitario, dove non si aspettava di trovare Armando. Questi, commosso, arrossì fino agli occhi, si alzò in fretta e balbettò qualche parola incoerente. — Ah, ah, tutto solo, signor pittore! esclamò la marchesa. Ma che fate mai qui? Proseguì fingendo di non accorgersi del suo imbarazzo: — State studiando ciò che Watteau ha dipinto qui così capricciosamente (accennando col suo ditino di fata), o vi staccate dalla folla solo poeticamente per sognare ai belli occhi della fanciulla del vostro cuore?.... Era la prima volta che la marchesa gli parlava su questo tono. I discorsi che avevano tenuti fino allora, anche nelle rarissime volte che si erano trovati soli, erano sempre stati dei più frivoli e cerimoniosi. Perchè ora gli parlava così, certo ella non se non lo sarebbe saputo spiegare nemmeno a sè stessa. Armando si sentì stranamente turbato, benchè vi fosse nella sua maniera una punta d’ironia maligna che non sapeva capire. Non se l’era mai detto, ma oramai il suo cuore palpitava per la marchesa come non aveva mai palpitato. Il turbamento che qualunque delle belle donne ch’egli vedeva cagionavagli, non era da confrontarsi con l’estasi in cui la contemplazione della marchesa lo immergeva. Le altre gl’infiammavano l’immaginazione, questa il cuore; era invidioso dei giovani che avvicinavano la contessa di Grives o la Champrosé, di chi corteggiava la marchesa era geloso. Inoltre, quella sera ell’era diversa dal solito. Le sue guancie erano tinte di un roseo più vivace, i suoi occhi scintillavano più micidiali del solito; vi era in ogni sua parola, in ogni suo movimento una straordinaria animazione; e nella lentezza regale dell’incedere qualcosa di più trionfante che mai. Armando in quel punto era fuori di sè, e con voce tremante rispose: — No, signora marchesa, non mi è permesso sognare. Non mi è lecito nemmeno di pensare a quella a cui darei la vita. Appena pronunciate queste parole, che gli sgorgarono quasi involontariamente, il rossore della confusione gli montò al viso. La marchesa, con quell’istinto di donna che non sbaglia mai in simili casi, comprese tutto e un sorriso satirico passò sulle sue labbra rosee. — Volle spingerlo fino in fondo, e rispose con una intonazione dolcissima: — Davvero? Ve ne compiango. Ma perchè siete tanto persuaso della crudeltà femminile? Con la vostra figura...... col vostro ingegno.... potete aspirare a molto.... e uno sguardo inebriante seguì queste parole. Armando sentì tutto il sangue che gli rifluiva al cuore. — Fatemi le vostre confidenze, proseguì la marchesa con un’espressione indescrivibile e uno sguardo da sirena. Chi è la bella? Armando volle rispondere qualcosa, ma le parole non gli venivano. Aveva la testa sconvolta. Afferrò febbrilmente la mano della marchesa e la coperse di baci ardenti. Ella, cui non si osava che baciare rispettosamente la cima delle dita, non se ne offese, ma continuò pacata e sempre con una strana espressione: — Questa non è una risposta. Ditemi chi è questa bella che v’innamora tanto, invece di baciar le mani a me, soggiunse ridendo affatto. E non osate nemmeno pensare a lei? Ma chi è mai dunque? forse la contessa di Grives? Al povero pittore pareva che il gabinetto girasse innanzi agli occhi. Fu preso da una specie di vertigine e dimenticò tutto. Dimenticò di esser povero, di essere un oscuro artista, non si ricordò più la distanza che lo separava dalla donna che gli stava davanti; svanirono tutti i suoi proponimenti di morire piuttosto che svelare il suo segreto, tutte le sue paure del ridicolo non le comprese più, tutte le sue fierezze scomparvero. Egli cadde ai piedi della marchesa. — Siete voi!..... gridò con esaltazione, siete voi che amo, voi per cui darei tutto, voi che mi avete turbato il cuore, la mente; voi cui appartengo dal primo giorno che vi vidi, voi che siete bella, che siete splendida, voi che d’un uomo potete fare un dio! oh abbiate pietà poichè vi amo!...... Non mi respingete, siate buona quanto siete bella. Vedete, non sono pazzo, ma se tacevo ancora, lo diventavo. E avrei taciuto sempre se nei vostri occhi divini, sfavillanti, non mi fosse sembrato scorgere un po’ di perdono. Ma voi m’avete parlato, m’avete perdonato, m’avete..... Uno scoppio di risa il più franco, il più schietto, fu la risposta. — Intanto molte signore e gentiluomini, attirati dal rumore, si erano avvicinati. Tra questi vi era il signore color d’ambra che prima parlava con la contessa di Grives. Era Richelieu. — Venite, signori, venite, disse la marchesa, alzando la voce allegramente, qui c’è la commedia a buon mercato. Il signor..... come si chiama?.... sapete, il pittore..... che mi fa una dichiarazione. Ma non faccio per celia; una vera dichiarazione in tutta forma! Tutti si avanzarono guardando Armando. I più vicini si misero a ridere con quell’insolenza che allora era di moda. Egli cadde su una sedia, coprendosi la faccia con le mani..... La marchesa, data la mano a Richelieu, rientrò nelle sale sorridente come prima. — Oh, oh? è innamorato di voi il protetto di Verny, disse il duca, e glielo permettete? — No, duca, ella rispose, è stata un’idea pazza che mi è passata per il capo. Mi sono divertita un poco a sue spese. Sapete, noi altre donne ci divertiamo talvolta a far delle vittime. — Eh, lo so pur troppo!..... replicò Richelieu con un sospiro. — Voi non avete poi diritto a lamentarvi. Avete preso la nostra parte, soggiunse la marchesa, lanciando un’occhiata che diceva molto. — Non mi lamento, disse il duca, baciandole la mano!.... E a proposito di vittime, cosa avete fatto di Breteuil? Temo che ve ne ricordiate ancora. — Avevo dimenticato la sua esistenza. Oh, ma eccolo là su quell’uscio. Guardate come ha l’aspetto triste. Se Armando fosse stato lì, avrebbe riconosciuto in Breteuil il signore che aveva veduto dalla marchesa nella sua prima visita. — Non ho dunque più rivali... continuò Richelieu. — Nessuno, duca. Uno forse. Quel pittore che porta, credo, il vostro nome. — Ma se l’avete maltrattato? — Non importa! — Dunque, marchesa, vi piace? — Oh, alla follia! replicò la Saint-Aubin, ridendo come una pazza. Lo diceva ironicamente, ma chi sa? — forse non del tutto. II Fu assai forte l’impressione che cotesta scena crudele fece su Armando. Ne fu sbalordito e intimamente addolorato. Sentì che la società non era fatta per lui. Egli non era della sua epoca. Un altro non si sarebbe lasciato abbattere da uno scacco, anche insultante; avrebbe aspettato con pazienza, avrebbe strisciato, avrebbe imparato l’arte del cortigiano, avrebbe assunto quella maschera di allegra sfrontatezza che piace, avrebbe lavorato assiduamente a farsi un nome e sarebbe riuscito a molto. Forse sapendo fare, eccitando la curiosità di quella donna capricciosa, come Richelieu aveva soppiantato Breteuil, egli si sarebbe fatto cedere il posto da Richelieu! Tutto era possibile sotto il regno della Pompadour. Ma bisognava essere abile, ed egli non lo era; bisognava essere freddo, ed invece il suo cuore batteva fortemente; bisognava vincere audacemente gli ostacoli, saper sopportare umiliazioni e sconfitte, farsi piccino per parare i colpi e potersi poi sollevare ad abbattere gli altri, ed egli invece era timido e sincero. Egli si rinchiuse nella sua soffitta, nascondendosi a tutti. Aveva cambiato alloggio e nemmeno Verny lo seppe ritrovare. Usciva solo e di rado in qualche luogo solitario, e nessuna delle donne che aveva conosciuto, nè le dame della corte, nè le fanciulle leggiere non lo rividero più. — E il vostro protetto? domandò un giorno la Champrosé al cavaliere, lo avete abbandonato? Perchè non lo si rivede più? — Non lo so neppur io, rispose Verny. È per me un enigma. Non capisco davvero che grillo gli sia venuto in capo. Non so neppure dove andarlo a cercare. È un vero peccato perchè prometteva assai. Il cavaliere non risparmiò alcuna indagine per trovare il luogo di ritiro del suo protetto, ma tutte le sue ricerche furono lungamente infruttuose. Tre mesi passarono senza ch’egli potesse averne alcuna notizia. Finalmente un giorno il suo cameriere vide Armando per via, ed avendolo seguito, venne a portare al padrone l’indirizzo da tanto tempo cercato invano. In questo modo Verny venne a scoprire il rifugio dell’artista e all’indomani, salite faticosamente le sporche scale di una casa situata in una delle vie più oscure del Marais, picchiò all’uscio della soffitta d’Armando. — Avanti! fu detto dall’interno. Egli spinse l’uscio ed entrò. Era una stanza piccola, bassa, informe, ma chiara. Il sole dardeggiava contro i vetrini impiombati della finestra e illuminava allegramente le malinconie del pittore. Un letto, un tavolo, due sedie e uno sgabello erano la mobilia. Armando era stato ammalato — ed ora non lavorava più ed era povero. Però davanti allo sgabello stava un cavalletto. Vi era sopra una tela, ma coperta da uno strato di seta verde. Armando lo riponeva quando il cavaliere entrò. Verny fu dolorosamente stupito del suo aspetto. La malattia era stata forte ed egli aveva per molti giorni delirato, ripetendo allora ad ogni momento il nome della marchesa. Ora era guarito, ma i bei colori della salute non erano tornati sul suo viso; un gran mutamento era visibile in lui. Nel suo viso dimagrato spiccavano le orbite cinte d’un cerchio color di piombo; solo lo sguardo brillava. Naturalmente esile, stancato dagli studi, dalla povertà, il tocco della passione gli era stato terribile. L’aria mefitica delle sale non era fatta per lui. Intanto, una tosse leggiera, ma continua, ostinata, non lo abbandonava più. Il male faceva quotidianamente rapidi progressi, e la vita che conduceva non poteva che affrettarne il corso. Verny ch’era un uomo di spirito e di cuore, fu addolorato dello stato d’Armando e cercò ogni modo possibile di distrarlo. Gli rimproverò vivamente di essersi per tanto tempo nascosto. Egli sapeva confusamente la scena del ballo, e senza particolareggiare tenne ad Armando un lungo discorso sulle donne e sull’amore, dicendogli (come sempre in simili casi) ciò che il giovane sapeva quanto lui, ma non per questo poteva porre in esecuzione. Partì, essendosi fatto promettere dal suo protetto di cercare le distrazioni. Che accadeva intanto della marchesa? Nei tre mesi che erano trascorsi dalla notte del ballo non aveva più pensato ad Armando. Ritroviamola ora la mattina del giorno in cui finalmente Verny aveva scoperto il ritiro dell’artista. I dodici colpi del mezzogiorno erano già scoccati, eppure le imposte della sua camera da letto erano ancora socchiuse. La cameriera, vedendo che la sua padrona dormiva sempre, ne aveva soltanto semi-aperta una ed era ripartita. Da questa un indiscreto raggio di sole veniva baldanzoso a far visita alla bella signora, come rimproverandola della sua indolenza, e con una famigliarità un po’ impertinente le si posava sul bel viso addormentato. Ella si scosse, socchiuse gli occhi ed apri la bocchina in tutta la sua estensione, dando in un prolungatissimo sbadiglio. In quell’istante, d’improvviso così, senza un motivo, come quel raggio di sole era penetrato a posar sul suo letto, un pensiero le attraversò la mente: il pensiero d’Armando. Eran tre mesi ch’ella non lo aveva veduto ed in quel tempo, di ben altro occupata, non si era più affatto ricordata di lui. Perchè dunque, si dirà, proprio quella mattina un tal pensiero le attraversò la mente? Perchè? Ah, la saprebbe lunga chi sapesse il perchè di tutti i pensieri che passano per il capo delle signore come la marchesa di Saint-Aubin! Il fatto sta che la mattina di quel giorno la marchesa pensò ad Armando. Pensò a lui — e un sorriso le sfiorò le labbra. Un sorriso che per tradurlo, se fosse possibile, ci vorrebbe la coltura d’Aspasia, l’esperienza di Ninon de l’Enclos e l’immaginazione di un poeta orientale. Questo nuovo pensiero la occupò talmente, che malgrado avesse già guardato l’ora alla pendola dorata del camino, pure restò per una mezz’ora immobile, sostenendosi la testa con le mani incrocicchiate sotto la nuca e guardando fissamente lo spazio. Finalmente si scosse, allungò il braccio bianchissimo, facendo scorrere in giù la manica tutta coperta di trine, verso il cordone di seta del campanello, e diede un lieve colpo che fece apparire all’istante la cameriera. — Berta, disse la marchesa, spalancate la finestra, portatemi una tazza di cioccolata, preparatemi una veste da camera e andate a dire a Larose che corra dal cavaliere di Verny e gli annunci che ho assoluto bisogno di parlargli e che lo supplico di venire all’istante. Berta, senza scomporsi, eseguì in silenzio questi molteplici comandi l’un dopo l’altro e con un’ammirabile precisione; e un quarto d’ora dopo, la marchesa, avvolta in un’ampia veste da camera rosa tutta coperta di trine, era seduta in una poltrona con una tazza di cioccolata tra le mani, illuminata dal sole ch’entrava dalle finestre, solo difese dalle cortine di seta che coprivano i vetri, e riceveva da Larose la risposta del cavaliere, il quale le prometteva di venire all’istante. La stanza da letto della marchesa era tutta color albicocco. Il letto, in legno bianco e oro, aveva delle tende ampissime dello stesso colore a frangie d’argento e oro, foderate di raso bianco. I mobili, pure in bianco e oro, erano elegantissimi di forma, ma pesanti e pure di color albicocco, tranne la poltrona su cui era seduta la marchesa, ch’era di damasco bianco. Verny entrò ed ella subito gli chiese d’Armando. Egli rispose quello che sapeva, raccontò come l’avesse trovato e in quale stato e finì dicendo con un sorriso, che sospettava un poco lei di essere, in parte, la causa del male. Il viso della marchesa prese una strana espressione. — Se sono io che ha fatto il male, voglio rimediarvi, cavaliere. Non sapeva tutto ciò. Andate dal vostro protetto, ve ne prego, e ditegli che voglio parlargli. — Sarà fatto, marchesa. Ma non credo che verrà. — Ed io dico di sì. Andate, andate, mio caro, e vogliate darmi subito la risposta. Il cavaliere andò da Armando e tornò nella stessa giornata dalla marchesa. — Il nostro amico non vuol venire; mi ha pregato di farvi le sue scuse. Credo che non sia ancora guarito abbastanza per moversi. E Verny, così dicendo, sorrise. La marchesa, rimasta indispettita, non lasciò però nulla travedere, e ringraziatolo, congedò Verny molto amabilmente. Appena fu uscito, andò a sedersi a un piccolo mobile in laque posto vicino alla finestra. Prese una penna e tracciò le seguenti righe sopra un foglio di carta profumato all’ambra. «Avete torto. Perchè mi tenete ancora il broncio? Volete stare eternamente in collera? Ho veramente bisogno di parlarvi, di darvi una spiegazione. Non dubito che questo vi deciderà; venite, ve ne prego. Vi aspetto con impazienza, non voglio vedere alcuno prima di voi. «Marchesa di Saint-Aubin.» Poi agitò un campanello d’oro che stava sulla tavola. — Berta, mandate questa lettera al suo indirizzo. Il biglietto era stato accuratamente piegato, un piccolo sigillo con inciso un amorino, impresso nella ceralacca odorosa, era stato applicato in un angolo, e sull’altra parte leggevasi l’indirizzo di Armando, datole dal cavaliere. Mezz’ora dopo Larose portava la risposta. La marchesa l’aprì con impazienza. Era assai laconica; solo due righe nelle quali si scusava di non poter ubbidire al suo cenno, causa la salute ancor malferma. Ella si morse le labbra e quella sera litigò per un’ora con Richelieu, annoiandolo talmente, che contro alle sue abitudini di diplomazia galante, ne parlò alla marchesa di Prie, che appunto allora incominciava a corteggiare. III La Corte si era trasportata a Versailles. Il re, con la Marchesa, come i cortigiani chiamavano la Pompadour, vi andavano spesso, preferendo i giardini di Lenôtre al Louvre; e in quello splendido soggiorno, ancora tutto pieno delle memorie del gran re e del gran secolo, le feste si succedevano, una più variata dell’altra: balli, ricevimenti, caccie, recite, e frammezzo a tutto questo, i facili intrighi, improntati della leggerezza del tempo, si legavano, rompevano e riannodavano incessantemente. Poche sere dopo ciò ch’è stato narrato, le sale di Versailles si aprivano ad un ballo sontuoso. Le sale di Diana e d’Apollo, quelle della Primavera e delle Muse, e tutti que’ magnifici appartamenti, improntati del marchio di mitologia galante che Luigi XIV aveva posto su tutto, erano illuminati a far impallidire il sole. Le belle signore passavano e ripassavano, dando la mano, anzi la punta delle dita, ai loro affettati cavalieri, e camminando un po’ di profilo per non guastare i loro paniers, tutte fulgenti di gemme, in cui i mille lumi dei candelabri si riflettevano mille volte, tutte superbamente vezzose ed abbellite dai loro trionfi. La loro bellezza non era quella che avrebbe innamorato un amante della natura, poichè la cipria nascondeva i loro capelli, il belletto ed il bianco coprivano le loro guancie d’un leggiero strato come di vernice, le labbra erano ravvivate dal minio, le ciglia, gli occhi, tutto era dipinto; i fianchi erano artificiali. Pure erano ben sontuosamente belle, con le loro bocchine di corallo, coi loro vestiti luccicanti, con le affettate movenze di testa e di spalle, con la pronunzia smangiata e coi loro sguardi sapienti. — Nella sala da ballo, accompagnate dall’orchestra, venti coppie ballavano il minuetto. I gentiluomini, coperti di raso e di velluto al par delle signore, facevano strisciare la punta de’ piedi, tenendo sollevati i loro alti talloni rossi, e si movevano effeminatamente, porgendo con grazia la destra alla ballerina, con un movimento arrotondato del braccio, mentre la sinistra poggiava sulle impugnature d’oro e di madreperla delle loro spade, che ne’ sottili foderi di velluto, sollevavano le ampie falde degli abiti di color tenero e riccamente ornati. — Pareva intanto che le galanti pastorelle e i mille amorini della vôlta sorridessero a quello spettacolo e si movessero lievemente anch’essi, tra i dolci suoni dei violini, frammezzo alle loro ghirlande di fiori. — Le pareti erano ornate dei capolavori di Vanloo, e Luigi XIV, in piedi, in fondo alla sala, imponeva ancora, benchè dipinto. In una sala d’angolo, dalle pareti coperte di quadri, vi era un piccolo crocchio che circondava il conte di Choisy, uno dei signori più alla moda, il quale stava raccontando qualcosa che pareva interessasse moltissimo il suo piccolo uditorio. Egli aveva una gran riputazione d’uomo di spirito, ma non troppo meritata. — Si deve confessare, stava dicendo la contessa di Grives, ch’è uno de’ più bei giovani che si possano vedere. — Questo poi sì! esclamò una piccola signora, che sebbene sembrasse vicina ai cinquant’anni, aveva ancora molta pretesa. Io non lo aveva molto guardato; chi guarda quella specie di gente? Ma ora che l’ho ben osservato devo confessare ch’è un piccolo Apollo. — E lo sa la marchesa di Saint-Aubin, soggiunse Choisy ridendo. Vi assicuro l’autenticità di ciò che vi ho narrato. — Ma ne siete certo? — Certo quanto che voi siete questa sera d’una bellezza irresistibile, contessa. Mi voglio appiccare domani se non è vero che ho veduto coi miei occhi Larose che saliva la scala della dimora di quel pittorello — di cui non so, del resto, perchè si parli tanto, aggiunse stizzosamente. — Ma siete certo che abita dove dite? — Me ne sono informato e lo so di sicuro! — E il più bello di tutto è che il giovane è etico marcio e dicono che sia per colpa della marchesa. Pretendono che sul principio ella si sia beffata di lui. Forse qualcuno se ne ricorderà; parlano d’una scena successa ad un ballo. Io era allora in Inghilterra. — Oh mi par di ricordarmene!.... Ma sapete che se è vera la storia è stranamente bella e che fra due giorni farà il giro di Parigi? Si susurra che il re voglia fermarsi qui solo alcuni giorni. Appena a Parigi me ne informerò. Il piccolo crocchio si sciolse e Choisy appoggiandosi al braccio di Breteuil, rientrò nella sala da ballo. — Ne sei sicuro, conte? — Sicurissimo, cavaliere, rispose Choisy. Ora poi si dice anche di più, si pretende che pure la contessa di Grives ne sia un pochino invaghita. Aveva un bel fare la disinvolta, si vedeva ora che il mio discorso la interessava molto. — Per Dio! questo pittore è noioso! Ma ora si racconta che è ammalato, pallido da far pietà. — È forse quello che piace. Le donne sono tanto capricciose!.... In quel momento un giovane delle guardie di S. M. si avvicinò a loro: — Parlate del pittore? — Sicuro, capitano, rispose Breteuil. Oramai non si parla più che di lui... — Sapete che la Champrosé ieri sera mi disse che ne è innamorata? — Anche lei?.... Il diavolo le porti tutte! esclamò Choisy. — Ma guardatelo là! — disse Breteuil. — Anche a Versailles deve venire? Infatti se ne stava vicino ad una porta, conversando con Verny. Egli era pallidissimo. Si vedeva che il suo male inesorabile progrediva e che malgrado i suoi apparenti trionfi, tutto era finito per lui. Ma, dirà il lettore, come è avvenuto un tale mutamento? Perchè se ne parlava tanto? — Perchè? — Ah! domandar dei perchè ai tempi di Lebel! Tutto allora era guidato dal capriccio. La sua storia con la Saint-Aubin, svisata, raccontata in mille modi diversi; la simpatia che la marchesa poi sembrava realmente aver sentito per lui, l’avevano d’un tratto messo di moda, e subito dall’esser nulla, divenne l’eroe del quarto d’ora. Sotto la Pompadour questo non era insolito. La sua figura triste che lo aveva sul principio quasi reso antipatico e che aveva impedito alla naturale bellezza di fare il suo effetto, dopo la specie d’intrigo con la marchesa era diventata un vezzo, e il suo pallore malaticcio che non poteva piacere senza motivo a’ tempi di Richelieu, ora che se ne sapeva il perchè e che dava luogo ai pettegolezzi, lo rendeva interessante, come se fosse vissuto a’ tempi di Goethe e di Byron. Larose, il ben noto cameriere della signora di Saint-Aubin, era stato veduto mentre saliva le scale del pittore con una lettera in mano. Dunque egli era l’amante della marchesa. Povero ragazzo! Era ben lungi dall’esserlo; ma ciò era bastato per metterlo di moda. Com’era venuto a quel ballo? — Il cavaliere credendo che un po’ di distrazione gli farebbe bene, l’aveva quasi costretto a venire. Verny gli voleva bene; ma dacchè non aveva più la febbre lo credeva in via di guarigione e supponeva che i divertimenti lo guarirebbero anche dai mali morali, tanto più ora che sembrava avviato sulla strada della fortuna. Ma quanto si sbagliava! Armando era veramente ammalato e al ballo di Versailles stava peggio del solito. Benchè semplicemente vestito egli era però talmente bello nel suo pallore, che pochi nelle sale potevano venirgli paragonati. Venne presentato alla contessa di Grives, la quale lo accolse con una così marcata preferenza da far girare un tantino la testa all’uomo il meno vano della terra. Ella stette con lui assai lungamente, quasi compromettendosi, e furono tante le occhiate, le parole a doppio senso, che Armando ne rimase un po’ sbalordito. Ma ormai ogni forza di volontà, ogni scintilla era spenta in lui, e con la sua solita timidità per di più, non poteva pensare a vendicarsi della scena del ballo. La festa sontuosa, splendida, durò fino al mattino e le mille fiamme dei candelabri lottarono coi raggi del sole ch’entravano dalle finestre e che subito valsero a far fuggire le signore. Ma Armando non potè restare. Fu preso da una febbre ardente e dovette andarsene. La cura del cavaliere era sbagliata completamente; le distrazioni, le emozioni specialmente non potevano che peggiorare il suo stato. — Il medico disse che il caso si faceva gravissimo; la tosse aumentava. Il cavaliere portò nella dimora dell’artista tutti i conforti che la ricchezza può dare, e fu curato il meglio possibile. Ma l’etisia progrediva. Intanto, di giorno in giorno, Armando continuava ad essere più in voga. Ricevette venti lettere dalla Champrosé, che non ebbe la pazienza di leggere tutte. Un’altra delle più alla moda lo mandò a invitare ad una delle sue cene intime. La contessa di Grives andava tutti i giorni, nel suo cocchio dorato, a prenderne le notizie. Perfino la marchesa fece lo stesso; anzi chiese di vederlo. Ma oramai era troppo tardi. Tutto era finito, e dei trionfi che avrebbe potuto avere, dell’amore e perfino della gloria non si curava più. Ora la stessa società che lo aveva disprezzato, lo portava alle stelle, ma che gliene importava? E intanto, essa che lo aveva respinta si occupava ora di quel morente, lassù in quella soffitta, come certo non se ne sarebbe mai occupato se non fossero state le circostanze che influivano sulla moda del momento. Contro i comandi del medico, egli stava alzato e dipingeva. Il cavaliere lo lasciava fare, pensando ch’era inutile contrariarlo. Il quadro a cui lavorava era quello, coperto misteriosamente di seta verde, che Verny aveva veduto la prima volta che lo aveva trovato. Era la testa della marchesa di Saint-Aubin ch’egli disegnava di memoria. Nei giorni di vita e di passione l’aveva abbozzata; ed ora, sull’orlo della tomba, quasi staccato dalle cose terrene, gli venne il desiderio di finirla, — unico resto del morto amore, ultimo addio al mondo, che pur lasciava senza rimpianto. Egli si sentiva il bisogno di lavorare indefessamente, ansiosamente, e di finirla. Si mise al lavoro e terminò prima il disegno che aveva schizzato sulla tela. Allora avvenne una cosa straordinaria..... La sua mano non rispondeva più alla mente. Egli era come spinto da una forza superiore, e ciò che la matita segnava non era più quello che suggeriva l’immaginazione. Egli voleva tradurre sulla tela quel profilo fino, aristocratico, capriccioso; quel modello di donna forte, voluttuosa... e invece il suo pennello tracciava una figura aerea, purissima, vergine, più d’angelo che di donna. Voleva segnare quell’ammasso di capelli coperti di cipria, in cui si frammischiavano fiori e gemme, e involontariamente invece sulla tela ondeggiavano delle chiome bionde sciolte, naturali, che cadevano su d’una veste candida e baciavano una guancia bianca, diafana. — La figura che appariva sul quadro era ideale, angelica, bella come un sogno di poeta, con due occhi celesti che ignoravano la terra. Egli continuava senza quasi accorgersi di ciò che faceva. Era spinto da qualcosa di fatale e una luce serena usciva dal suo sguardo. Una forza invincibile lo costringeva. Egli dipingeva.... Il cavaliere taceva, guardandolo attonito e addolorato. E sulla tela la mistica figura, lavoro quasi involontario, rivelazione dall’alto, si staccava a poco a poco dall’ombra del fondo..... Finalmente l’ultima ora scoccò. Il pennello gli cadde dalla mano. — Fu portato sul letto. Vedendolo, non lo si sarebbe detto un morente, poichè un sorriso passava sulle sue labbra. Oh quanto era lontano dagli appartamenti della marchesa e dalle sale di Versailles! — Nel suo occhio ingrandito mille visioni passavano. Eran figure di donna, ma figure celesti che non rassomigliavano agli angeli della terra; non erano più i sontuosi abiti di broccato e di raso, nè le alte pettinature incipriate, nè i visini aristocratici e imbellettati, ornati di qualche neo, nè le scarpette a talloni rossi, nè i ventagli miniati; — erano vesti bianche e cadenti, eran pupille azzurre e pure, eran chiome lunghe e finissime, erano sguardi pieni di bontà e d’amore!... All’estremo istante, la marchesa di Saint-Aubin entrò nella stanza. — Silenzio! disse il cavaliere. Fermatevi; egli non vi vede più, marchesa. Infatti, Armando non la vedeva; era ben lontano da lei. Nel suo occhio vi era il raggio supremo. Egli era assopito. La sua testa stanca posava sui cuscini; la bocca gli si agitava. D’improvviso una luce sembrò passargli sul viso. Si rianimò debolmente e allungò la mano bianca e magra verso il quadro. — Oh guardate! guardate!.... Si distacca dalla tela e viene verso di me.... disse con un filo di voce arcana. Oh, non vedete? Viene, viene, s’avanza..., mi stende le braccia!.... Oh come è bella!.... E non è una donna, è un angelo!.... Furono le sue ultime parole. La testa ricadde sui cuscini per non sollevarsi più. In quel momento un prete ch’era stato chiamato in fretta, entrò — troppo tardi. Il cavaliere uscì con la marchesa. Sulla scala trovarono la Champrosé che voleva per forza vedere Armando. Ma vide Verny che piangeva e non chiese più nulla. La marchesa le passò davanti sdegnosamente ed ella la guardò in traverso. La marchesa non si potè consolare della morte d’Armando che arrivando a prendere il posto della Grives nel cuore del Re. — Questa volle portare il lutto per il pittore, a grande scandalo di molti. La storia d’Armando fece una tale impressione che se ne parlò per quindici giorni. Ora non può accadere che si arrivi a parlare sì lungamente d’un avvenimento qualunque; ma in quei tempi rococó anche questo era possibile. UNA SCOMMESSA Ecco cosa seppe dirmi il mio amico a proposito del conte Sotowski, la cui insolita tristezza eccitava tanto la mia curiosità: Io lo conosco da molti anni ed avendolo sempre trovato divertente, allegro, brillante, fui stupito quanto te e gli altri del mutamento ch’ebbe luogo in lui. La cosa era infatti incomprensibile. Come sai, egli è favolosamente ricco, affatto indipendente, di figura aggradevole, di carattere lieto, ed in ogni cosa fortunatissimo; non fu mai conosciuto come una di quelle teste balzane che sanno crearsi dei fantasmi con la loro propria immaginazione; è continuamente accarezzato da tutti, ha una quantità di amici che farebbero qualunque cosa per lui. Come spiegare dunque che prima fosse vivace, sereno, scintillante, per così dire, e che d’improvviso, senza alcun motivo palese o presumibile siasi dato in preda a una cupa mestizia? Era qualche mese che io non lo vedevo, quando, incontrandolo a Nizza, mi accorsi della sua insolita malinconia. Non gliene chiesi il motivo, sapendo ciò affatto inutile, essendo egli uno di quelli che parlano solo quando vogliono parlare. Ma non potevo a meno di pensarvi sovente e mi torturava il cervello per giungere a scoprire qualcosa. Tu che conosci quanto m’interessino gli studi psicologici potrai facilmente fartene una idea. Naturalmente il primo pensiero che mi venne fu ch’egli soffrisse per qualche segreta passione. Quale altro motivo poteva infatti far cadere nella malinconia un uomo di così allegro carattere e sì fattamente ricolmo di tutti i beni della fortuna, se non l’eterna sorgente delle lagrime di quaggiù — l’amore? — L’idea di un delitto, di un rimorso, non si poteva ammettere per cento ragioni. E però la mia fantasia volava nei campi del possibile ed ogni giorno mi sorgeva dinanzi agli occhi una nuova imagine di eroina pel mio romanzo. Talvolta supponeva ch’egli avesse amato una fanciulla che, uccisa da lento malore, fosse morta nelle sue braccia; tal altra che fosse stato tradito da una donna seducente, fatale. Quanto mi sbagliava! — Una sera ch’eravamo insieme, lontano dal passeggio elegante, dalla parte del ponte del Varo, e ch’egli pareva ancor più preoccupato del solito, mi raccontò d’improvviso il motivo della sua tristezza, senza che io glielo chiedessi e quando meno me l’aspettava. Non vi era anima vivente per un lungo tratto di strada; il sole si apparecchiava a discendere nel mare, coprendo d’oro e di porpora la limpidezza del cielo, l’aria cominciava ad essere un po’ meno soffocante di quel ch’era stata durante il giorno, e le parole del conte risonavano stranamente in mezzo a quella solitudine e nel silenzio della natura che stava per assopirsi: — Bisogna che lo confessi, egli disse, e d’altronde ho subito veduto che ve ne siete accorto, una tristezza insormontabile mi penetra spesso da qualche tempo e non posso scacciarla. Capisco che quelli che lo vedono, conoscendomi da un pezzo, devono rimanerne molto stupiti; la fortuna mi ha colmato de’ suoi doni, e sono per di più dotato d’un carattere facile ed allegro. Fui sempre spensierato, vivace, non ebbi mai dispiaceri e non me ne procurai. Le sfortune d’amore mi sono sconosciute. — Davvero! risposi, io invece, pensando alla vostra malinconia subito ne accusai una passione infelice, non sapendo quale sventura vi avesse potuto colpire. — Infatti, io non conobbi mio padre e l’unico dolore di cui mi ricordo è quello della perdita di mia madre, ma avevo solo dieci anni e a quell’età non si sente molto e si dimentica facilmente. Dopo d’allora non ebbi mai una sola nube nera sull’orizzonte della mia vita. Tutto mi sorrise sempre; gli uomini e le cose. — Ma un male terribile procurato ad un altro e di cui io fui causa, sorto senza mia precisa colpa, e per un motivo stravagante e futile mi depose un’amarezza nell’anima che, temo assai, lascierà lunga traccia di sè. La è una storia abbastanza strana. — Raccontatela; non potete immaginare quanto m’interessate. Egli serbò il silenzio per un momento; come assorto nei suoi pensieri, poi mi domandò: — Non avete mai udito nominare Arnoldo D.? — Mi par di sì, risposi. È uno scrittore, se non mi sbaglio. — Era, dovreste dire. — È morto? chiesi io. — No; ma ha finito di scrivere. Egli era un giovane di straordinario ingegno, e che certo non sarà dimenticato da chi ha letto la poche sue cose. Ma per la sua vita poco regolare era antipatico a molti; povero, non fortunato, di una natura vivace e variabile, cercava spesso di affogare le noie nella ubbriachezza o di cercarvi una più pazza inspirazione. Egli era nato per essere ricco e spesso la miseria, spettro nefasto, si avvicinava a lui! Amava le cose belle, le ricche stanze, la luce dei doppieri e delle gemme, i morbidi tappeti, il lusso dell’oriente; avrebbe voluto tutte codeste cose, e invece non le possedeva che nei sogni, procurati dalla fantasia o dal vino. Il suo ingegno non era di quelli che fioriscono dovunque; abbisognava per espandersi di essere circondato dal benessere, dall’opulenza. Perciò quando guadagnava qualcosa, viveva per un mese da principe, poi si chiudeva a lavorare e certo con successo; ma ritrovandosi al verde, cadeva nell’abbattimento, l’ispirazione fuggiva e non era più capace d’altro che di bere per stordirsi. Soleva dire che se avesse avuto cento mila lire di rendita, sarebbe stato il più gran poeta del mondo. Tutti questi particolari mi vennero narrati in seguito; non ne sapeva nulla quando lo vidi per la prima volta. Parlo di varj anni fa. Dall’Italia io aveva fatta una corsa a Parigi e me ne tornava in Italia. Eravamo sul Cenisio; era notte, ed io dormiva tranquillamente nel mio posto d’angolo del coupé della diligenza. Degli altri due posti uno solo era occupato, quello dell’altro angolo naturalmente, da un uomo che vi stava incantucciato e tutto chiuso in un mantello che lasciava solo vedere gli occhi. Svegliandomi di tratto in tratto, avevo osservato ch’egli non dormiva, ma non mi era stato possibile vedere la sua fisonomia. Al comparire del giorno egli lasciò cadere il mantello, e il primo albore illuminando la sua faccia pallida riconobbi Arnoldo D., al quale non ero mai stato presentato, ma che aveva molte volte incontrato qua e là e dei cui scritti aveva letto qualche cosa. Gli rivolsi la parola pel primo, gli dissi che lo conosceva, e gli declinai il mio nome, ed egli, sebbene fosse un po’ ritroso da principio, presto cominciò a conversare con molta scioltezza e di tratto in tratto con spirito. La sua conversazione era divertente al sommo grado; aveva una maniera di esporre affatto originale e sentii presto per lui una simpatia fortissima, mentre al tempo stesso m’accorgeva di non dispiacergli, poichè ad ogni momento sempre più si animava, si espandeva con maggior famigliarità. Dopo qualche ora eravamo quasi amici. Mi disse i suoi progetti, le sue aspirazioni, le sue noie; mi confessò che non sapeva sopportare la povertà, che per lui era il più grande incaglio allo sviluppo del suo ingegno, mentre per altri era stata talvolta uno sprone a lavorare. Il mio nome non gli era sconosciuto ed egli sapeva quale colossale fortuna io posseggo. Mi disse che se egli ne avesse solo una ventesima parte, scriverebbe un libro che non verrebbe tanto presto dimenticato, e che lo arricchirebbe a sua volta. Parlammo d’arte lungamente. La stima del suo ingegno che io avevo acquistata leggendo le opere sue, si aumentò ancora e mi persuasi ch’era un giovane che avrebbe potuto arrivare alla gloria, purchè non si abbrutisse nei vizi. Ma questa era pur troppo la strada sulla quale egli s’inoltrava cinicamente. Il suo viso ne portava già le impronte, sebbene i lineamenti fossero assai belli e l’occhio pieno di luce e di pensiero; — e perfino i suoi discorsi se ne risentivano un poco, poichè di tanto in tanto divagava in ogni sorta di puerilità o usciva inutilmente in bestemmie ed imprecazioni. Malgrado ciò, quella giornata fu per me piacevolissima, e quelle ore in diligenza, d’ordinario tanto noiose, passarono invece veloci. Ho sempre ammirato il genio, sotto qualunque forma si mostri, e le opere della fantasia altrui hanno sempre potentemente eccitata la mia. — Egli era felice, si vedeva, di aver trovato qualcuno che lo capisse davvero, e parlò delle sue più intime cose con un abbandono che forse stupiva lui medesimo. La confidenza ch’era nata così spontaneamente fra due che per natura erano tutt’altro che espansivi, doveva certo essere cagionata da una segreta e quasi magnetica simpatia. Egli si riscaldava sempre più parlando, ed io lo ascoltava con un interesse sempre crescente, finchè uscendo anch’io dalla mia riserva abituale, gli confessai quanta ammirazione il suo ingegno destasse in me, e quanta speranza io avessi ch’egli si acquisterebbe un posto imperituro nella storia dell’arte. I suoi occhi brillavano d’entusiasmo mentre io gli diceva queste parole d’incoraggiamento. Egli si accese sempre più, mi disse dei versi, ch’erano pieni, armoniosi, possenti. Poi mi narrò i suoi progetti; mi espose la tela d’un romanzo che aveva intenzione di scrivere; mi parve ricca di nuovi effetti e lo esortai ad incominciarlo prontamente. Parlando di argomenti mi raccontò come egli avesse anche un gusto speciale per i soggetti poco comuni, stravaganti, hoffmanneschi. Fra gli altri me ne raccontò uno che non aveva ancora tentato di scrivere, e che forse non tenterebbe mai, essendo difficilissimo, ma che da moltissimo tempo gli frullava nel capo. Era infatti molto strano e di una difficoltà poco comune, poichè tutta la bellezza doveva consistere nel modo con cui era fatto e perchè bisognava per riuscirvi, quasi incarnarsi nella persona del protagonista. Era però bellissimo, e non dubitavo che se Arnoldo fosse riuscito a scriverlo, sarebbe stato un piccolo capolavoro. Mi piacque tanto l’argomento, e per la sua fantastica originalità talmente m’interessò, che restai silenzioso, pensandovi a mia volta. La stranezza era quasi raddoppiata dalla estrema difficoltà del porlo in opera. Per molto tempo tacemmo ambedue, immersi nello stesso pensiero; il primo a rompere il silenzio fu Arnoldo: — Questo è uno di quegli argomenti, egli disse, che non si possono sviluppare che in un momento d’inspirazione. È affatto inutile progettare d’incominciarlo alla tal ora o di finirlo alla tal altra; bisogna che in un dato giorno, che certo non possiamo scegliere, ci troviamo d’un tratto immedesimati nel nostro protagonista in modo da parlare ed agire come avrebbe parlato ed agito in quella data circostanza. È necessario che per un momento diventiamo lui, e allora, adoperando le sue espressioni, mantenendo i suoi gesti, la sua figura, il suo carattere, parliamo e facciamo talmente come lui, da dare al racconto, per quanto ideale, una impronta innegabile di verità. Il poeta in tal caso è veramente schiavo del quarto d’ora, fa se è giunto il momento di fare; bisogna che tralasci se la mente gli è ancora ribelle. E per quanto mi piaccia è inutile ch’io tenti nemmeno di comporlo a poco a poco, poichè deve uscire di getto, e bisogna pazientare ed attendere un giorno, forse lontano, nel quale prenderò la penna e lo scriverò, senza fermarmi e senza correzioni... Disse molte cose ancora in questo senso, aggiunse come la elevatezza dell’arte stesse talora appunto in questo, che non siamo solamente noi che compiamo il lavoro, ma inoltre una particella di fuoco sovrumano che scende in noi e ne rende possenti ad eternare nel fatto le idee labili e sbiadite che si disegnano vagamente tra le nebbie della nostra immaginazione. Mi spiegò tutte coteste cose con vera eloquenza e con profonda sicurezza di convinzione. Ma rideva facilmente di tutto; dopo che il suo labbro aveva preso una piega severa, subito si atteggiava ad un sorriso cinico e beffardo, e con molto spirito, in compenso della facondia, provava con giustezza il contrario di quello che aveva detto. Fece lo stesso nel caso di cui parliamo. Le sue parole calorose che mi avevano riscaldata la mente e costretto a pensare, echeggiavano ancora per così dire, ch’egli cominciò a dire il contrario. Rivoltò tutti i propri argomenti, mise in ridicolo le proprie idee e seppe quasi provarmi che tutta l’arte non è che un meccanismo, che ogni cosa si può fare con certi elementi e che, purchè si faccia uno sforzo di volontà, qualunque momento è buono. Trovava ora delle intonazioni così cinicamente giuste, come prima ne aveva trovate di entusiastiche, che durai fatica a combattere la sua ironia, malgrado fossi munito delle sue stesse armi. Lo tentava però e mi animava a mia volta nella discussione, quando d’un tratto ei disse, come per conchiudere: — Del resto, lasciando da parte le teorie, potrei spiegarvi con un esempio la verità che sostengo ora contro al mio falso entusiasmo di poc’anzi — e sono certo che non sapreste più cosa rispondere. — Ebbene, ditelo, io risposi, assai curioso di udire cosa diavolo mi avrebbe tirato fuori. — È un esempio facilissimo a capirsi, egli soggiunse. Mi accorderete, spero, che il soggetto eccezionale di racconto che vi esposi or ora è abbastanza difficile, perchè se io giungessi a provarvi che lo si può fare in qualunque momento, date però alcune circostanze, voi vi dichiarereste persuaso che l’ispirazione non è un elemento indispensabile. Bisognerà però che vi accontentiate di credere alla mia parola e che vi fidiate della mia convinzione, perchè certo non vorrete tentare la prova. Ascoltate: è molto tempo, come vi dissi, che questo soggetto mi occupa e mai lo seppi porre in fatto; sono quasi certo che il momento d’ispirazione non verrà mai, perchè non potrò mai entrare davvero nel carattere strano del mio eroe. Ebbene, or sono stanco dal viaggio, abbattuto, ho sonno..... — E lo scrivereste ora? io interruppi stupito. — Non credo, egli rispose, che lo potrei fare con la nessuna voglia che ne sento e in un momento così poco adattato, solamente per uno sforzo di volontà. Avrei bisogno di un eccitamento, ma capirete che se io lo potessi fare con un eccitamento non artistico sarebbe provato che il fuoco sacro non è necessario. Ebbene, se qualcuno mi dicesse: domattina sarai ricco, se questa notte scriverai il racconto, per dio! scommetterei di farlo. Io era ammaliato dalla originalità del mio nuovo amico. Un’idea pazza mi traversò rapidamente la testa: me ne venivano così molte in quel tempo. Gli dissi: che somma vorreste? — Una somma come certo non troverò alcun negromante che me la voglia dare. Cinquecento mila franchi, per esempio. — Li avrete domattina se la novella è fatta. Arnaldo non voleva credere. Mi disse che io scherzava. Io presi una cartella da viaggio contenente tutto ciò che occorre per scrivere e formolai chiaramente la mia promessa, poi sottoscrissi con tutti i miei nomi e gli consegnai il documento. Gli dissi: — State certo che non mi pentirò di quello che faccio ora. Se voi perdete, sarà una prova fortissima contro tutti quelli che non credono all’inspirazione; se guadagnate, avrò il piacere di aver contribuito al vostro avvenire, poichè il vostro ingegno, come lo diceste voi stesso, prenderà uno slancio novello e non abbisognerete più di cercare il coraggio nel..... — Avete ragione! egli m’interruppe. Non saprete mai il bene che fate in questo momento e quanta sarà la mia riconoscenza! Che le Muse vi benedicano! Egli non sapeva moderare la sua gioia; cantava, rideva, diceva ogni sorta d’insulsaggini. Era perfettamente sicuro di riuscire. Parlava pazzamente di cosa avrebbe fatto quando sarebbe ricco; diceva di esser sicuro oramai di farsi veramente un nome. Io era felice nel vederlo così allegro per merito mio; gongolava a mia volta (bisogna che lo confessi) all’idea dì aver fatto una cosa che non si fa certo tutti i giorni. Pensava, che se egli guadagnasse, forse passata l’ebbrezza del momento mi annoierebbe un poco il dare una sì grossa somma ad uno che in fine non conosceva che di nome; ma d’altra parte mi sembrava di tanto in tanto assai probabile ch’egli avesse a far fiasco, malgrado la sua sicurezza. Si giunse a Torino verso le undici, e appena scesi all’albergo egli ordinò la sua cena e disse di portargliela in camera. Ci stringemmo la mano ed egli mi disse: — Vado a lavorare. Domattina avrete la vostra novella. Io dormii profondamente tutta la notte essendo stanchissimo, e mi risvegliai verso le nove. Subito corsi alla camera d’Arnoldo e ne trovai la porta spalancata. Dentro nessuno. Scesi abbasso e chiesi nuova all’albergatore del signore che era arrivato con me. — È partito un’ora fa, circa. — Come! è partito? — Sì signore. Anzi.... non vorrei inquietarla, ma mi pare che gli debba essere accaduto qualcosa a quel signore. — E perchè? chiesi io, malgrado incominciassi a sospettare la verità. — Come ella sa, il suo amico si fece portare da cena in camera ieri sera quando arrivarono, il cameriere gli accese due candele, domandò se avesse bisogno di qualcosa, al che fu risposto: nulla! e partì. Or bene, il cameriere stette alzato quasi tutta la notte ed il lume brillava ancora alla finestra del suo amico. L’altro cameriere che si alzò alle cinque, quando quello andò a letto, vide il lume brillar sempre. Finalmente, verso le otto, il signore suonò il campanello, ed il cameriere che entrò nella sua stanza lo trovò seduto al tavolino, con delle carte dinanzi; le due candele pressochè finite, e (da questo fu molto impressionato) pallido come un morto. — E cosa gli disse? — Era di un pallore che faceva spavento e la sua voce corrispondeva al viso, poichè era tremante e un po’ rauca. Egli chiese a che ora partisse il primo treno, disse che si portasse giù la sua valigia, e avvoltosi nel mantello venne qui e si sedette su questa sedia ad aspettare che i cavalli fossero attaccati all’omnibus. Io stava a quel tavolo, scrivendo, e fingevo di non guardarlo, ma l’osservavo di soppiatto, e lo vidi battersi due o tre volte la fronte e pronunziare a bassa voce delle parole strane. Non osai chiedergli nulla, perchè mi sembrava talmente di cattivo umore, che certo non avrebbe troppo bene accolto la mia domanda. — E partì? — Sì signore. Montò nell’omnibus, diede — come distratto — una ricca mancia al cameriere, fu condotto alla stazione dove prese il treno di Genova, il primo che partisse. Tutti questi particolari mi restarono impressi nella memoria. Chiesi se non avesse lasciato nulla per me e mi fu detto di no. Un orribile sospetto mi afferrò subitamente e capii quanto la mia promessa fosse stata imprudente. Certo egli non aveva potuto scrivere il racconto, e con la sua facilità a cadere nei sentimenti estremi e ad abbandonarsi all’impressione del momento, era piombato nella disperazione. Con quella fantasia abitualmente strana, ed eccitata da un sì forte disinganno, tutto diveniva possibile; un brivido d’inesprimibile paura mi passò per le ossa. Chiesi a che ora partisse ancora un treno per Genova. Ero deciso di ritrovarlo. Tutte le mie ricerche furono infruttuose. Nè a Genova nè altrove potei aver notizia di Arnoldo D. Frugai dappertutto, alberghi, case, caffè, teatri, osterie. Annoiai per lo meno cento persone con le mie domande, nessuno mi seppe dir qualcosa di preciso. Certo non si era fermato a Genova. Ritornai a Torino, passai da Milano, cercai ancora e sempre inutilmente. Sapeva ch’egli aveva dei parenti a Venezia; vi andai. Quindici giorni intanto erano trascorsi. A Venezia finalmente fui informato della triste verità. Benchè la respingessi sempre, l’idea d’un suicidio si era presentata più volte alla mia immaginazione. La verità era forse peggiore: egli era diventato pazzo! - Il conte s’arrestò e camminò per qualche passo in silenzio, assorto nei suoi pensieri. Io non osai disturbarlo ed attesi finchè proseguì, questa volta a voce bassa e triste: — Capirete ora la causa di questa malinconia che mi segue sempre e dovunque. È una mestizia mista al rimorso. Per una idea balzana, prodiga, ho forse per sempre offuscato un ingegno non comune e gettata nelle tenebre un’anima che splendeva nella luce. Per consolarmi posso dirmi che io non poteva prevedere una tale catastrofe e che egli era già naturalmente troppo strano perchè si possa dare alla prova fallita tutta la colpa; ma queste ragioni non mi bastano. Fu tale l’abbattimento profondo, la rabbia, il dolore di non esser riuscito a far ciò di cui si credeva sicuro e che gli assicurava la ricchezza — il sogno della sua vita — che tutte le allucinazioni della sua mente, le sue stravaganze, le conseguenze del vizio, presero il di sopra e la sua ragione svanì. Io cercai di vederlo e lo potei circa due mesi dopo il giorno fatale; ma nulla lo potè togliere dalla sua pazzia. È ordinariamente triste, abbattuto, qualche volta quasi furioso; le sue parole accennano sempre a quella notte in cui lavorava mentre io dormiva, inconscio del male che quello sforzo non riuscito doveva fare in quel cervello ammalato. Era notte quando giungemmo alla casa di Sotowski. La luna riflettendosi nel mare calmo come fosse addormentato formava quella lunga striscia di luce tempestata di brillanti che sembra la via delle visioni; le stelle scintillavano. Io gli dissi che ora capivo tutto, lo ringraziai e gli strinsi la mano, lasciandolo forse meno preoccupato del solito, per lo sfogo avuto. Ora sappiamo la causa della mestizia profonda del conte; è strana, ma chiunque sappia cosa sia il rimorso d’aver fatto un gran male morale, anche involontario, la intenderà. Io vidi ancora il conte molte volte ed egli non tornò più su cotesto scabroso argomento, nè io osai spingervelo. Solo un giorno, molte sere dopo quella di cui ho parlato, mi disse che poteva darmi il complemento del curioso aneddoto che mi aveva narrato. — Lasciando D. quella sera, gli dissi che partivo per Firenze, ed egli due giorni dopo, prima che la sua sventura lo colpisse, m’indirizzò una lettera colà, che non lessi che una ventina di giorni più tardi, quando la pazzia, lo aveva già afferrato ed io sapeva la triste verità. Leggetela, ora vi potrà forse interessare; ma non ne parliamo più. Io ubbidii e all’indomani gli restituii la lettera senza aggiunger parole; ma davvero mi aveva interessato. «Al conte Sigismondo Sotowski. Genova..... «Non mi è possibile vedervi ancora, non lo posso! e perciò vi scrivo queste righe che indirizzo a Firenze dove vi recherete subito, com’è il vostro progetto. — Eschilo, Omero, Dante, Shakespeare e gli altri, li vedete fulgidissimi nel cielo del passato, circondati da luce eguale ed eterna? I posti sono già presi, nessuno può aggiungersi a quella schiera. Dicono: volere è potere. È falso. Io non ho potuto esser ricco, io che l’ho sempre sognato, io che avrei avuto il genio se avessi avuto il metallo, che avrei trovata la felicità se avessi fatto il racconto. Non l’ho saputo fare. Signor conte, non crediate per questo che l’ispirazione sia necessaria; è solo che il diavolo ci ha messo la coda. Se poteste immaginarvi qual è stato il furore del primo momento! ora sono molto più calmo, mi sento leggiero, stupido e tranquillo. Dalla mia finestra vedo il porto e mi pare che pochi godimenti siano quaggiù simili a quello di contare gli alberi dei bastimenti; ma è molto difficile perchè uno nasconde l’altro. Mi sembra strano che qualche giorno sia già passato: ho le idee molto più chiare del solito, ma qualche volta piango e poi rido senza un motivo preciso. Entrai dunque quella sera nella stanza dell’albergo, deciso a lavorare e sicuro di riuscirvi. Ero allegro e pieno di gioia; un mio sogno si era realizzato. Sì signore, è meglio che ve lo confessi, l’avventura che voi mi avevate procurata, io l’aveva sognata molte volte. Quando esclamavo: — se fossi milionario sarei un gran poeta! aggiungevo spesso: se qualcuno mi dicesse: scrivi qualcosa che possa restare, e domattina sarai ricco, non so cosa non sarei capace di fare! — Mi misi al tavolo e cominciai a pensare. Non avete provata mai quella strana sensazione dei pensieri che deviano per loro conto? che prendono, ribelli, la strada che vogliono? Io lo provai in quel momento. La mia immaginazione invece di rivolgersi al protagonista del racconto, nella cui persona io doveva entrare, mi faceva invece passare dinanzi agli occhi le cinquecento mila cose che sarei stato padrone di fare all’indomani coi cinquecento mila franchi, che intanto dimenticavo di guadagnare. Pensava che il mio ingegno sarebbe sbocciato, che avrei scritto un libro che avrebbe fatta la mia fortuna e in qualche anno avrebbe triplicato il mio capitale. Pensavo che finalmente i desiderii ognor repressi potevano essere soddisfatti, che le cose sempre invano vagheggiate potevano essere possedute: ch’erano miei il velluto ed il raso, i tappeti di Persia e le perle d’oriente, le cene, i viaggi, gli amori; ch’erano mie tutte le cose belle, buone ed aggradevoli che fino allora m’erano sembrate quaggiù retaggio esclusivo degl’imbecilli; che potevo viaggiare con un treno speciale come un monarca e far stampare le mie liriche su carta inargentata con dei caratteri d’oro! — Sognavo la soddisfazione, il successo, il gaudio, il compenso a tutte le miserie trascorse che l’avvenire mi preparava; mi pareva che d’un tratto il paradiso fosse divenuta cosa terrestre, mi pareva d’essere al di sopra di tutto, e un immenso orgoglio mi agitava pensando che avrei potuto fra poco vendicarmi di tutte le umiliazioni ricevute; mi vedevo, fra non molto, più ricco dei Rothschild, mi vedevo padrone di accontentare la mia prodigalità, che si sarebbe divisa in due ruscelli, d’oro e di parole, di diamanti e di rime! «Udii così scoccare la una. Scrissi poche righe. Ripensai. Mi pareva che solo qualche minuto fosse trascorso quando i due colpi si udirono alla pendola. «Un brivido mi passò per tutto il corpo. Mi sembrava che il tempo mi sfuggisse come una cosa che scivola tra le mani. Guardai con terrore il quinterno di carta bianco ch’era dinanzi a me. Intinsi la penna nell’inchiostro per continuare, ma le parole non venivano. Inoltre riflettevo che, prima di scrivere, era necessario entrare con lo spirito nel soggetto, pensare col protagonista. Feci uno sforzo violento ed obbligai il mio pensiero in quei limiti; ma di tanto in tanto deviava e non mi era possibile rendermi conto di quanto durasse quella deviazione. «Scoccarono le tre. Capii che bisognava reagire, farsi forte. Era sopratutto necessario di pensare bene prima e non avere troppa premura di scrivere, altrimenti il tempo passava in tentativi scorretti e la mia mente si confondeva in febbrili sforzi. M’alzai e cominciai a passeggiare innanzi e indietro, tentando di raccogliere i miei pensieri sull’unico punto su cui dovevano riunirsi. «Un’ora passò ancora così, e alla pendola del camino scoccarono le quattro. Allora il mio sangue freddo di nuovo mi abbandonò e fui preso da una orribile paura. Era d’uopo scrivere. Quella carta ostinatamente bianca dinanzi a me mi adirava. Cominciai risolutamente, in un modo qualunque, tanto per cominciare. Avevo scritto solo qualche riga, ma sentivo già una specie di sollievo.... Restai un istante immobile, non pensando a nulla. Ma volli poi continuare; ricominciai a pensare.... e pensai tanto lungamente che i cinque colpi suonarono alla pendola. «Goccie fredde di sudore m’inumidirono la fronte. Mi pareva che quei colpi maledetti vibrassero l’ora della mia condanna. Una specie di tremito nervoso m’assalse; mi morsi con violenza una mano. M’alzai e passeggiai ancora in lungo e in largo per la stanza come una belva in gabbia, e ciò mi fece un po’ di bene. Mi tornai a sedere più calmo — ma oramai i progetti di cosa avrei fatto con le mie ricchezze e i pensieri del mio protagonista mi brulicavano tutti insieme, confusamente nel cervello. Il tempo passava, la paura si faceva ad ogni istante più forte, cominciavo a capire che perdevo tutto, feci un tentativo supremo e scrissi una pagina intiera. La speranza rientrava lentamente nel mio cuore e mi sentiva un po’ riconfortato. «Pure, nel mentre stesso che scrivevo, mi ritornava di minuto in minuto più gagliardo e pauroso il pensiero che il tempo passava, che il lavoro era lungi dall’esser compito, che non riuscirei a compirlo. La mia penna correva velocissima, ansiosamente sulla carta; la mano mi tremava.... «D’improvviso mi accorsi che il tenue raggio biancastro dell’alba penetrava dalle imposte socchiuse e veniva a battere sul mio viso sconvolto insieme al fioco lume delle candele. Tutto era finito. Sentii una fitta tremenda al cuore e mi parve che la mia ragione si sconvolgesse. Tentai di scuotermi, pregai e imprecai nello stesso tempo. Rilessi quello che aveva scritto: nelle ultime righe mancava il senso. «La disperazione mi colse. Io aveva perduto! Non vi era più speranza. La mano mi tremolava talmente che non avrei nemmeno potuto più tenere la penna».............. ................. Qualche giorno dopo aver scritto questa lettera egli perdeva completamente la ragione. Ma, per carità, non dire a Sotowski che io t’ho narrato questa sua storia, perchè la vuol tenere segreta, conchiuse il mio amico. ALLUCINAZIONE I N’è sfuggito di memoria il nome della città dove visse il giovane di cui vogliamo narrare la storia, ma ci sembra che fosse in Germania. Era povero, buono, quieto, un po’ fantastico; abitava una stanzuccia molto vicina al tetto, e durante il giorno non ne usciva che per portare a chi gliel’aveva affidata la musica che copiava per campare la vita. Allo stesso tempo era, se si vuole, indolente; non di quella solita indolenza dei giovani che preferiscono il divertirsi allo studiare, ma d’una indolenza pensierosa; invece di occuparsi stava spesso lunghe ore immobile, lasciando vagare la sua fantasia nel regno vaporoso dei sogni. Egli era senza dubbio dotato di molto ingegno; ma di un ingegno lento, capriccioso, a sbalzi, che, se non possentemente aiutato, non gli avrebbe dato di che mangiare tutti i giorni. Ecco perchè la sua vita dividevasi in due parti: quella del lavoro materiale, consistente, come dicemmo, principalmente nel copiare, e quella dell’intelligenza, alla quale non poteva dedicare molte ore, ma che da sè sola costituiva la sua vita morale, e gli dava invece il pane dello spirito. Quando poteva finalmente gettare da parte l’ingrato lavoro al quale era obbligato e sedersi al cembalo a comporre, il suo cuore si allargava talmente, di tratto in tratto lo agitava sì fattamente il fuoco della ispirazione che diventava quasi bello, sebbene naturalmente non lo fosse. Era la sua una figura incolora, circondata da lunghi capelli biondi; i lineamenti non regolari, gli occhi dolci e lo sguardo un po’ stralunato e qualche volta ardente. I vicini, benchè lo conoscessero poco, gli volevano bene; poichè, senza essere molto loquace, era cortese con tutti. Sembrava però a tutti che vi fosse nelle sue abitudini un che di misterioso. Passava spesso intere giornate senza uscire di casa e non lo si udiva nemmeno dalle stanze adiacenti, mentre talvolta invece il cembalo gemeva e s’infuriava sotto alle sue dita inspirate e tutta la casa era riempita dalla musica sonora, triste possente, ora bellissima, ora solamente strana, delle sue composizioni. Egli viveva solo e ben di rado accadeva che qualcuno battesse al suo uscio. Bisogna però confessare che in ciò vi era una gran parte di colpa sua. Non gli erano mancati, sul principio, amici e protettori; ma egli li aveva scoraggiati con le sue stranezze e con l’ostinazione delle sue idee, nella quale nessuno lo superava, quando si trattava di cose d’arte. Non ascoltava affatto i consigli, non per superbia ma per convinzione profonda di essere sulla via giusta, e piuttosto che deviare solo un tantino dalle sue idee fisse, preferiva continuare solo la strada. La sua stanza era di una semplicità poverissima, ma pulita; un letto, due sedie e un gran cembalo a coda, posto nel mezzo, ne erano la mobilia. Egli aveva saputo ridurre i suoi bisogni al più stretto necessario per poter dedicare il più gran numero possibile di ore alle sue composizioni ed il minore al suo lavoro di copista. La sua vita era regolarissima; l’amore non entrava allora per nulla nella sua esistenza. Aveva un amico, ch’era però l’opposto quasi di lui, perchè passava il tempo il più gaiamente possibile, senza curarsi dell’indomani, senza disperarsi troppo quando gli rimanevano vuote le tasche, spendendola, appena vi trovasse una moneta; ma che, malgrado questo, simpatizzava con lui, coltivando egli pure la musica, nutrendo gli stessi pensieri, seguitando le medesime teorie, ed essendogli davvero affezionato. Lo vedeva però oramai assai di rado anche lui. Da qualche anno Guglielmo conduceva questa vita di quiete, di povertà, di raccoglimento, di lavoro volgare alternato dall’estasi artistica, e di quasi perfetta solitudine, poichè, oltre l’amico, vedeva solo di rado una famiglia, pure povera, che abitava nelle stanze precisamente al disotto delle sue; del resto, nessuno. Questa famiglia era composta di due fratelli, già vecchi ambedue, e d’una fanciulla d’un terzo fratello, morto da molti anni, e che essi, ancor piccina, avevano ricoverata ed allevata come figliuola. Ora s’avvicinava ai vent’anni, ma certo la Dea della bellezza non le aveva sorriso. Senza essere precisamente deforme, aveva le spalle curve e qualcosa di storto in tutta la persona. Sembrava gracile, benchè non fosse mai ammalata; il suo viso aveva un’espressione triste e sofferente, sebbene la bocca sorridesse quasi sempre. L’occhio era grande, ma molto incavato, e lo sguardo dolce e come stupito. Aveva quella tinta di pelle speciale a chi è mancata l’aria e il nutrimento, era bruna, ma non dal sole; e i suoi capelli castagni erano attortigliati in disordine sulla testa. Vi era in lei qualcosa di pigro, d’inerte, di stanco che si rivelava nella noncuranza completa di sè, che ne impedisce di scrivere quella frase, favorita dei vecchi romanzieri: poveramente ma pulitamente vestita. Non avendo speranza di piacere, non badava ad assettare i suoi cenci; e malgrado ciò vi era tanta bontà nella sua fisonomia, nel suo sguardo una sì soave rassegnazione della sua bruttezza e della sua povertà, ch’era davvero interessante. Chi l’avesse incontrata, mentre saliva o scendeva le scale, a piedi peggio che nudi, con un qualche filo nei capelli, cantando con una voce esile e monotona una canzone di cui ella stessa non capiva il senso, certo si sarebbe voltato a guardarla. E molto probabilmente ella avrebbe guardato lui e gli avrebbe sorriso in faccia, poichè la sua bruttezza le aveva tolto la timidità. Il suo carattere era piuttosto allegro, e i suoi due zii l’adoravano ed erano lieti di aversela vicina. Era talora chiassosa tal altra tranquillissima, un po’ capricciosa, ignorante, selvatica, e un tantino sfacciata nello stesso tempo. Nei giorni in cui si udiva il cembalo di Guglielmo, ella che amava istintivamente la musica, si appoggiava contro l’uscio della sua camera e vi restava immobile, a bocca aperta, finchè i suoni cessavano. Per lei egli era come dotato di una sopranaturale potenza, sembrandole sovrumani i concenti che faceva uscire dal suo pianoforte. Ella inoltre aveva fin da fanciulletta una forte simpatia per lui e la sua più grande gioia era quella (non frequentemente concessa) di penetrare nella stanzuccia dell’artista. Quando vi era, ella frugava dappertutto, guardava ogni cosa, apriva i fascicoli di musica e li percorreva lungamente con lo sguardo, come se avesse saputo decifrare le note, toccava quasi paurosamente i tasti del cembalo, faceva mille domande cui Guglielmo rispondeva talvolta ridendo, talvolta cupo; e sopratutto lo guardava lungamente come se nel suo viso avesse trovato la spiegazione di tutto ciò che le riesciva incomprensibile. Ogniqualvolta uscisse, egli la trovava sulla scala ed ella, a seconda della tristezza o della serenità della sua fisonomia, gl’indirizzava la parola, o gli faceva solo un lieve saluto col capo. Questa simpatia della povera fanciulla pel compositore copista, si modificò dopo qualche tempo in un sentimento più forte e da cui ella era turbata, benchè non si potesse ben render conto della sua natura. Quando lo vedeva, le riusciva difficile il distaccare gli occhi da lui e lo contemplava tra l’attonito e il trasognato. Quasi senza rendersene conto, cercava le occasioni d’incontrarlo e s’arrischiava di rivolgergli la parola più sovente che per lo passato. La voce di lui sembrava ammaliarla e se ne avesse ottenuto un sorriso o una parola gaia o dolce, sentivasi felice per tutta la giornata. Abitualmente però egli era concentrato e spesso non rispondeva che a monosillabi, benchè fosse sempre affabile e gentile. Si capirà facilmente che dovevano essere strani gli effetti dell’amore in quella fanciulla strana, brutta, allegra. Il corpo e lo spirito se ne risentirono; il riso diminuì sulle sue labbra e lo sguardo divenne più fisso, il viso si allungò un poco; inoltre si fece più seria. Come le altre sotto l’influsso dell’amore diventano più belle, così ella diventò quasi più brutta. II Non vi era motivo perchè alcuna cosa cambiasse in quella casa; se non che, dopo qualche tempo, tutti quelli che vi dimoravano, e specialmente Maria (chiameremo così la povera ragazza di cui abbiamo scordato il nome), si fecero inquieti sul conto del nostro protagonista; e di una inquietudine che andava tutti i giorni aumentando. La sua vita continuava in fatti, per così dire, a stringersi e diminuire da una parte e ad aumentare ed allargarsi dall’altra. La parte del lavoro materiale si riduceva ai minimi termini, quella dell’arte prendeva vaste proporzioni. Come viveva intanto? Bisognava pensare che egli fosse riuscito a far passare a poco a poco tutto il necessario nella categoria del superfluo. Non usciva quasi più di casa, quelli che gli avevano data della musica da copiare l’aspettavano inutilmente, mentre invece il cembalo si udiva più spesso e pareva fosse toccato sotto l’impulso di una inspirazione novella. Egli non era stato in alcun modo fortunato e l’unico suo tentativo grandioso era stato un grandioso fiasco; benchè anche i suoi nemici lo avessero giudicato un giovane d’ingegno affatto speciale. Ma egli aveva quella confidenza in sè stesso che è fortemente sicura, aveva quel coraggio che nulla può abbattere. Lo scoraggiamento momentaneo che aveva seguito la sconfitta e che si era tradotto in quel tempo in cui viveva meglio perchè copiava di più, era scemato, ed ora il coraggio riempiva di nuovo gagliardamente il suo cuore e si sentiva tutto invaso dalla speranza. Allo stesso tempo era naturale che la sua guancia, impallidentesi sempre più, le lunghe ore di reclusione cui si condannava e nelle quali soltanto pareva si dilettasse, dovessero inquietare chi lo conosceva da vicino. L’amico venne a vederlo e fu fortemente impressionato dal suo aspetto e dai discorsi scuciti che gli tenne. Egli, d’ordinario pieno di dubbii, sembrava ora tutto gonfio di superbia e parlava con sicurezza dei suoi trionfi per l’avvenire. Fece udire all’amico qualcosa delle sue ultime composizioni e questi fu afflitto dalla strana piega che il suo ingegno prendeva. Infatti, dopo alcune battute sublimi, venivano delle pagine intiere di robaccia. È necessario, per capire ciò che raccontiamo, farsi un’idea del carattere e della vita poco felice che aveva condotto Guglielmo. La sua era di quelle nature stanche e indolenti che non vogliono lottare; non tentò nemmeno di reagire contro alla sfortuna che lo lasciava nell’isolamento e metteva il suo ingegno nell’ombra. Si rassegnò mestamente alla povertà, alla solitudine, all’incognito. La vita non gli sembrava bella abbastanza da dover far troppa fatica per giungere a goderne in un buon posto; qualunque sforzo gli pareva soverchio, inutile ogni tentativo. Giudicava l’arte talmente bella per sè stessa e fonte di gioie intime tanto intense, da parergli vano il manifestare le proprie idee, puerile persino il cercare la gloria e l’applauso. In altri momenti invece cambiava completamente, e si sentiva nell’animo una tristezza amara vedendo i suoi sogni svanire e le sue illusioni cadere inesorabilmente una dopo l’altra. Ma tali momenti erano eccezionali, e, in generale, era rassegnato alla sua sorte, e tanto serenamente che pareva contento. Quando non era costretto a lavorare e che si metteva al cembalo, col leggìo da una parte per notare le idee di mano in mano che gli venivano, egli scordava tutte le sue miserie, pareva noncurante dell’avvenire, e tutto assorto nella felicità presente non avrebbe cambiato la sua sorte con nessuno. I giorni veramente tristi erano quelli in cui il cembalo era obbligato al silenzio. Egli fu dunque relativamente in piena felicità quando riuscì a ridurre i suoi bisogni talmente da poter dedicare quasi tutto il suo tempo all’arte e vivere così quella vita intellettuale che cominciava, come dicemmo, ad inquietare i suoi amici. Ma pur troppo la passione della solitudine, la indifferenza per tutto, tranne che per l’arte, quel sentimento di felicità in mezzo alle miserie, quell’estasi vana e non sempre possente, cominciavano a prendere a poco a poco il carattere di una monomanìa. Vi si dovrebbe forse aggiungere la completa mancanza d’amore in cui viveva, non conoscendo alcuna donna; non vedendone alcuna, tranne Maria, che dal canto suo lo guardava anche troppo, ma di cui egli naturalmente non si curava punto. Un’idea gli era venuta che gli pareva bellissima, vasta, nuova, — ed aveva con moltissima fede e qualche speranza incominciato questo nuovo lavoro. Era dunque indispensabile di abbandonare il resto, ed egli aveva tutto abbandonato, vivendo Dio sa come. Nulla lo arrestava, il suo coraggio paziente e calmo non conosceva ostacoli, la sua forza di volontà era invincibile. L’amico, udendo qualche cosa qua e là che gli parve sublime, e vedendo quella fermezza di propositi insieme a tanto fuoco sacro, credette per un momento che fosse davvero alla vigilia d’un capolavoro. III Si accorse ben presto e dolorosamente d’essersi sbagliato. Il lavoro di Guglielmo procedeva a sbalzi, irregolarmente, falsamente; qualcuna delle sue facoltà si era affievolita qualche altra eccisivamente esaltata. L’amico si rimproverò di averlo un poco abbandonato, e benchè non fosse sempre benissimo ricevuto, ripigliò le sue visite frequenti come prima. Era stupito, e qualche volta un po’ paurosamente, dell’umore variabilissimo di Guglielmo, il quale passava con la massima facilità, in un giorno, dall’orgoglio dell’assoluta confidenza alla triste spossatezza dello scoraggiamento. Lo trovò una sera in quest’ultima fase, completamente abbattuto. Se ne stava al cembalo con la testa tra le mani ed i gomiti appoggiati alla tastiera in un’attitudine d’istupidimento morale. Non si mosse punto udendo qualcuno entrare, e non fu che dopo aver fatto uso alternativamente delle preghiere e delle minaccie, come si fa coi fanciulli, che si potè udire il suono della sua voce. Ma, rotta la diga, uscì un torrente di parole che pareva non si dovesse arrestare. Ripeteva spesso, cambiando solo di modo, le medesime idee; disse che non vi era alcuna speranza per lui, che ogni tentativo era inutile, che gli uomini e le cose, tutto gli era ostile. Cadeva in contradizione, ora malediceva l’ingiustizia umana, ora diceva che nulla gli poteva arridere, ma che lo meritava, il suo genio essendo una illusione e nulla più. L’amico riuscì a calmarlo un tantino, ma lo lasciò senza poter nascondere a sè stesso che quello stato non era certo rassicurante. Nell’uscire trovò Maria sulla scala. — Dica, esclamò appena lo vide, come sta il signor Guglielmo? — Abbastanza bene, egli rispose, un poco stupito dell’inquietudine della fanciulla. — Ah! signore, riprese Maria, la guardi che non v’è bisogno d’essere a letto per essere ammalato. — Ma Guglielmo non è ammalato. — Voglia il cielo ch’ella possa aver ragione! Eppure, a dirle il vero, ho paura ch’ella si sbagli. Quel ragazzo si rovina a forza di studiare sulle note.... È impossibile farsi un’idea dell’effetto straziante che facevano quelle parole da nonna, dette da quella fanciulla. La voce malferma indicava poi chiaramente ch’ella era turbata. Che accadeva in quell’anima oscura? — Maria, disse il giovane, sono assai contento d’averti trovata; puoi essere utile a me ed a Guglielmo. Gli occhi infossati della fanciulla sfavillarono. — E come? — Ascolta: io dovrò probabilmente partire per qualche giorno, forse per qualche settimana. È meglio che ti confessi che anch’io non sono tranquillissimo sul conto di Guglielmo; badaci dunque tu più che ti sia possibile durante la mia assenza. Spero di poter venire ancora domani, ma se dovessi subito partire, te lo affido fin da oggi. Guarda come sta, osservandolo bene, e al mio ritorno, che affretterò, sappimi dire cosa fece in questo tempo. — Stia sicuro, si fidi pur di me. Le saprò dir tutto. — Poi aggiunse con una paurosa espressione di tristezza: — speriamo che stia bene. — Addio, Maria. Non dubito di te. Vedo che Guglielmo ti sta molto a cuore. Dicendo queste parole guardò fissamente la poveretta con un lieve sorriso, ed ella, forse per la prima volta, arrossì. È necessario dire quanto Maria fosse felice della missione affidatale? Ora aveva una scusa per entrare il più sovente possibile nella stanzuccia dell’artista (giacchè oramai l’aspettarlo sulla scala era inutile), una scusa anche verso sè stessa, per occuparsi di lui il più che le venisse concesso. L’indomani di buon mattino entrò da Guglielmo portandogli un mazzetto di fiori, di cui egli quasi non si accorse. Nella mezz’ora che rimase nella stanza si rese colpevole d’un furto che non vogliamo tacere: rubò un ritratto di donna che trovò a caso tra due fogli di musica. Lo stato di Guglielmo parve migliorare, poichè dallo scoraggiamento eccessivo era passato, come gli accadeva, alla eccessiva speranza. Era sicuro di riuscire, sentiva che sarebbe diventato il primo maestro del mondo, non si accorgeva più dei cento mali che prima lo facevano soffrire. Ma la Maria non era sì facilmente ingannata dalle apparenze, giacchè l’amore è talvolta assai meno cieco di quello che si crede, e deperiva ella pure contemporaneamente ai progressi che il male, forse da lei sola traveduto, faceva in Guglielmo. Quasi senza confessarlo del tutto nemmeno a sè medesima, come accade ben sovente, ella ne era davvero innamorata. Ogni suo pensiero, ogni suo sentimento era volto verso quella stanza; ella piegava tutta verso lui. In lui era la sua vita, solo su di lui i suoi occhi, fissandosi, non si toglievano più. Le preghiere, imparate da bambina, prendevano ora un significato novello; poichè la sua mente non poteva rivolgersi al cielo senza al tempo stesso rivolgersi a lui; pregava perchè fosse fortunato. Aveva, ancor più di prima, lunghissime ore di distrazione, talvolta non capiva quando le si rivolgeva la parola, tanto la sua mente era costantemente altrove. I suoi zii si accorgevano che una metamorfosi si stava compiendo in lei, senza che giungessero a comprenderla. Guglielmo dal canto suo non vedeva nulla, ed ella soffriva maggiormente di questa sua indifferenza che di qualunque altra cosa. Anche senza essere riamata, le sarebbe paruto un altissimo grado di felicità ch’egli indovinasse ciò ch’ella non osava dirgli. Perfino la sua gentilezza, non essendo motivata da alcun sentimento, le riusciva quasi molesta. Sarebbe morta per lui, ma non poteva sopportare la sua noncuranza. Se si volesse tentare di analizzare l’effetto prodotto dall’amore in quella meschina, si potrebbe scrivere lungamente senza forse aver finito. Quel sentimento era gradatamente penetrato in lei e l’aveva tutta invasa, ed ora non poteva più negarselo, poichè s’affliggeva, si tormentava, si struggeva e ben sovente nella notturna solitudine piangeva. IV Uno dei tristissimi spettacoli di quaggiù è certo quello d’un ingegno vivace che, per colpa delle circostanze e per mancanza d’aiuto, degenera a poco a poco. Al suo ritorno l’amico di Guglielmo andò subito a trovarlo e la prima persona che incontrò, entrando nella casa, fu Maria, che gli sembrò più pallida del solito e gli diede delle notizie non troppo buone. Egli salì prestamente la scala ed entrò nella stanza, dell’artista; ma quando lo vide gli parve che le relazioni di Maria fossero esagerate di molto — anzi, ebbe quasi la speranza ch’ella si fosse totalmente ingannata. Lo trovò infatti, sebbene molto sparuto, pure col viso sereno e lo sguardo limpido e vivace come non si ricordava di averlo veduto mai, un sorriso si disegnava sbiadito sulla bocca, e la sua voce, nel dargli il benvenuto, fu calma e lieta. Ma pur troppo, l’illusione non durò che pochi istanti. Appena gli ebbe parlato per qualche tempo, si accorse del disaccordo che vi era nelle sue facoltà e come in quella intelligenza, che tentava invano di essere forte, vi fosse certo qualcosa di spostato. Intanto, e forse per la prima volta, Guglielmo era felice. Il suo occhio, turbato dalla scossa che forse aveva ricevuto il cervello, non vedeva più gli oggetti esterni quali erano, ma bensì come la fantasia li dipingeva e come li avrebbe voluti. La realtà diventava falsa dinanzi al suo sguardo, e invece vere le visioni da cui la sua mente era allucinata. Nella sua musica egli non riscontrava più quello squilibrio tra la volontà creatrice e la forza d’esecuzione, che sempre e tanto affligge l’artista, o piuttosto non se ne accorgeva più, poichè non sapeva distinguere la parte che si era estrinsecata da quella che era restata dentro e udiva nelle sue note anche quella eco divina che sentiva, ma che non vi aveva saputo esprimere. Gli pareva che tutti i suoi sentimenti fossero stati tradotti, mentre invece manifestava meno di prima, allorchè la sua composizione lo addolorava sembrandogli sempre a mille miglia al di sotto del suo ideale. L’amico ne fu davvero rattristato, poichè capì che l’ingegno possente che prima innegabilmente possedeva, andava lentamente sperdendosi, e solo la stranezza rimaneva. Lo lasciò con l’anima piena d’una mestizia profonda, ma curiosa all’istesso tempo, e promettendosi di non abbandonarlo più. Il carattere di Guglielmo intanto migliorava ogni giorno, il suo umore facendosi sempre più eguale; egli era costantemente tranquillo, sereno e non aveva più quelle ore di abbattimento, quelle collere nervose che, prima, lo rendevano talvolta insopportabile. Era sicuro di sè, felice, sorridente. Guardava Maria molto più che per l’addietro, la riceveva sempre bene ogniqualvolta entrasse, si mostrava sempre contento di vederla, e la povera fanciulla quasi, in cuor suo, benediceva la monomania che lo rendeva più affabile. Non lavorando più egli era quasi in miseria, ma non se ne accorgeva punto. Il suo abito era lacero, tutto si faceva di giorno in giorno più scarso, mangiare diventava a poco a poco una cosa pressochè fantastica; — ma egli non si curava di tutto ciò. La sua immaginazione, solo nervosamente esaltata, diventava in realtà ogni giorno più sterile — e più la sua musica si faceva banale, più egli ne andava orgoglioso. In realtà il suo ingegno s’immiseriva e scemava, ed egli credeva che s’innalzasse trionfalmente. Non sembrava possibile che resistesse alla vita che conduceva. Non usciva, quasi non mangiava, non si moveva, non si distraeva; stava continuamente seduto al cembalo, assorto in una beata ammirazione delle povere cose ch’uscivano dalla sua mente ammalata. Cominciava a trovar tutto bello intorno a sè, come trovava sublime la propria musica, e non avrebbe scambiato le nude pareti della sua cella con la seta ed il velluto d’una reggia. Tutte queste sue illusioni andavano di giorno in giorno e fortemente aumentando. Quando la sua musica era veramente bella, i suoi nemici non potevano essere di buona fede, sprezzandola; ora l’avrebbero trovata brutta in coscienza! Forse avrebbero avuto soltanto compassione. Talvolta sonava e scriveva e tornava a scrivere ed a sonare e si estasiava su delle pagine nelle quali mancava quasi il senso, e gli parevano piene di fuoco e d’inspirazione le cose le più frivole e comuni. La voce stridula del suo vecchio cembalo scordato gli riusciva dolce ed armoniosa come quella d’un Erard affatto nuovo. Ed il mobile sdruscito e frusto gli sembrava rilucente e perfino, di tanto in tanto, come vagamente ornato qua e là e ricco d’intarsiature e d’intagli. Il cielo grigio gli pareva luminoso e se un tenue e smorto raggio di sole penetrava nel suo abituro, gli pareva che ogni angolo fosse vivamente rischiarato e che una luce quasi divina lo inondasse. Guardandosi nello specchio rotto che era presso al letto si trovava bello. La paglia delle sue sedie figurava nella sua immaginazione il raso e il damasco, le macchie dei muri erano dorature, le ragnatele erano trine. La sua fantasia riscaldata gli faceva intravedere vagamente grandi tende di mussola; ed un ammasso di vecchi libri e carte e cose senza nome rotte e gettate, accatastate in un angolo, erano per lui una ordinata piramide di oggetti d’arte, di carte rare e di ninnoli preziosi. In mezzo a tali visioni, a così bizzarre allucinazioni non era da stupirsi se, come era per gli occhi suoi splendido il suo tugurio, fosse anche divina per le sue orecchie la sua musica, oramai pur troppo! debole e senza senso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Una mattina un raggio di sole veniva proprio a posarsi sul leggìo del povero artista. Una serenità felice ed una ebrezza gaia gli riempivano il cuore. D’improvviso, e forse per la prima volta dopo moltissimo tempo, la sua memoria si volse al passato e rammentò confusamente le dolci cose troppo presto obliate e i suoi sogni d’amore e le fanciulle traviste nelle sue visioni di poeta! Le prime brezze primaverili entravano per la stretta finestra. Si sentì scosso da un fremito dimenticato ed avvolto in una estasi nuova, una fiamma di quasi vera ispirazione lo invase tutto. La passione cantava nell’anima sua e chi lo avrebbe detto? per la prima volta, dopo molto tempo, fece uscire dal cembalo delle note degne dell’estinto suo ingegno. Le sue dita battevano come febbrilmente i tasti; non pensava a mettere in carta ciò che componeva, creava per sè stesso e non per gli altri. Pure qualcuno ascoltava, tenendo il respiro. Senza che egli l’avesse udita, la Maria era penetrata nella stanza adagio adagio e beveva quei suoni in una estasi ignota, a bocca aperta, stupita, amorosa. Era qualcosa che rassomigliava a un canto d’amore e al tempo stesso a un brindisi voluttuoso e guerresco. Tutta la foga della passione, da tanto tempo costretta ad assopirsi, tutti i desiderii repressi e l’ebrezze vinte scoppiavano in quei concenti, pieni di dolcezza ammalata e d’indomabile voluttà. Tutti gli amori sognati si rivelavano in quelle note; ed egli, pallido, agitato, delirante, era perfino bello in quell’istante di risveglio possente. I suoni a poco a poco diminuirono e cessarono. Ed egli stette un istante, con un sorriso di strana beatitudine sulla bocca, con l’occhio infiammato, con la guancia lievemente colorita dall’entusiasmo, immobile e quasi inebriato.... Udì un sospiro dietro di sè, si voltò e vide Maria. La guardò lungamente e fisso. Allora, come gli era apparsa splendida la sua stanza oscura, come gli era sembrata sublime la sua musica, vide la misera creatura sotto una luce nuova e visionaria; quei lineamenti contorti divennero per lui regolari, quelle spalle curve, cadenti e rotonde; quell’occhio incavato lo abbagliò, quel corpo gli si mostrò perfetto, quelle vesti lacere e disordinate, ricche ed eleganti. Nella povera Maria, sempre sdegnata, della cui idolatria non si era mai accorto, travide la donna sognata mille volte e non trovava mai. Con lo sguardo acceso, col cuore palpitante, sentendosi per tutto il corpo un brivido arcano; non come se il suo sguardo si fosse falsato, ma come se un velo gli fosse tolto dagli occhi — cadde a’ piedi della fanciulla stupita e felice, e, come avrebbe detto ad una Venere fatta mortale che gli fosse sorta dinanzi, le disse, con un torrente di parole disordinate, tutto l’amore ch’era stato lungamente represso nel profondo dell’anima sua! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quando l’amico tornò a vedere Guglielmo, trovò la cella solitaria dell’artista trasformata in un nido. Egli aveva sposato Maria. La bontà e la felicità brillavano in lei attraverso alla bruttezza. Guglielmo, calmo, ordinato, curato maternamente dalla povera amante, era tranquillo e sereno, sebbene sempre allucinato. L’amico, ch’è un po’ filosofo, pensa che il migliore augurio che si possa far loro, e il lettore si associerà certo a lui, è ch’egli abbia a ritrovare il suo ingegno e anche a guarire — ma non del tutto. NARCISA Ella era bella più che sia possibile immaginare. Vedendola si aveva alfine dinnanzi agli occhi il compendio di tutti i sogni, di tutte le aspirazioni; l’ideale più alto e più perfetto. Riuniva tutte le visioni: un poeta nordico, amante delle pallide figure ossianesche, l’avrebbe trovata più completa di ogni sua creazione, e un pagano adoratore della forma l’avrebbe allo stesso tempo dichiarata la più magnifica espressione della donna. A un discepolo di Fidia sarebbe apparsa una bellezza greca; avrebbe innamorato Orazio quanto Byron, Rubens e Raffaello insieme, Gautier al pari di Hugo. Incontrandola, era impossibile non volgersi stupefatti ad ammirarla. Sarebbe stato assai difficile il volere spiegare fisiologicamente il mistero di tanta bellezza; il tipo de’ suoi genitori era regolare, ma comune, e certo un tal fiore non potevasi aspettare dal granello ch’era stato posto in terra. Fin dai suoi primi giorni aveva qualcosa d’insolito. Quando la madre si era visto davanti quel bianco visino — tutto circondato di trine, con quei due braccini d’alabastro che uscivano dalle fasce — insieme a quel primo scoppio di gioia dell’amore materno alla vista della propria creatura, si era unito un senso d’ammirazione per la perfettissima regolarità, per quanto fosse possibile, di quei piccoli lineamenti, per la miriade di cose che già quegli occhietti dicevano. — Crescendo in età crebbe costantemente in grazia naturale ed irresistibile. Non si può immaginare una bambina più incantevole di quello ch’ella era a cinque o sei anni. In quell’età in cui il desiderio di piacere non è ancor sorto, ella portava già istintivamente ciò che indossava con una fanciullesca eleganza da cui le altre bambine erano ben lontane. Ella correva e saltava quanto le altre; ma ogni suo movimento, ogni suo gesto era armonico. — Fin d’allora avea qualcosa di concentrato. Non era nè pensosa nè taciturna, come lo sono spesso i fanciulli quando l’intelligenza si sviluppa innanzi tempo; ma aveva un non so che di diverso dagli altri, difficile a definirsi. È strana la influenza che avevano su di lei gli specchi. Ogni volta che si trovava davanti a uno specchio, vi si fermava e vi stava lungamente, immobile e come estatica della propria bellezza. Naturalmente tutto ciò aumentò, e la bellezza e il suo modo bizzarro. Passò per tutti gli stadi dell’infanzia, facendosi di giorno in giorno più indifferente a ciò che forma la vita a quell’età; e giunse ai sedici anni senza che i suoi parenti avessero potuto scorgere in lei una tendenza, una predilezione per uno studio o per un divertimento qualunque. I suoi occhi erano pieni di espressione e certo non poteva mancare di attitudine per tutto; ma nulla la interessava, tranne le cose aventi relazione con la forma, con la bellezza materiale ed esterna, con l’estetica delle linee e dei colori. Nella storia non si riusciva ad appassionare che per le epoche pagane, o per le favole mitologiche in cui s’esalta il culto del bello. In tutto ella cercava il lato sensibile; preferiva una bella statua a un bel quadro, un quadro alla musica la più incantevole. Non aveva alcun desiderio d’irreligione, ma capiva poco la divina poesia del cristianesimo, e certo preferiva il Cristo giovane, bello di bellezza dolcissima e celeste, col fronte coronato dell’aureola e circondato da un nimbo di luce, al Cristo smunto, livido, scarno, inchiodato sulla croce della redenzione, bello solamente della sua fede e del suo sacrificio. Capiva l’arte per istinto; sarebbe rimasta delle ore assorta, in muta contemplazione, dinanzi a una Venere, sogno realizzato nel marmo. Quando leggeva il racconto di quei tempi impareggiabili in cui fiorivano Fidia e Pigmalione, si sentiva delle irresistibili aspirazioni verso i portici d’Atene, con la loro serena architettura irradiata dal sole purissimo della Grecia; avrebbe voluto correre sui gradini dei tempii frammezzo alle bianche colonne, o errare nei boschi penetrati, malgrado la foltezza delle piante verdeggianti, da quella luce splendida e illuminati dal riflesso di quel cielo azzurro. La prima volta che fu condotta in società, la sua apparizione ad un ballo impressionò così vivamente che per un mese non si parlò più che di lei. Ella era vestita di bianco, senza ornamenti, senza nulla, nulla, tranne il fulgore de’ suoi occhi il cui sguardo era una magìa, la pura bellezza de’ suoi lineamenti, il poema delle sue forme. Era modesta, ma non timida; non mancava di spirito e sapeva parlare, ma com’era possibile sostenere con lei una conversazione? L’ammirazione irreprimibile che in voi destava ogni suo gesto, ogni più fuggevole espressione del suo viso, ogni moto del suo corpo, vi distraeva al punto di non saper quasi nè ascoltare nè rispondere. Se parlando alzava una mano per rimettere al posto un nastro disubbidiente, la vista di quelle bianche dita, dalla forma allungata e perfetta, vi faceva perdere il filo di ciò che stavate dicendo. Ella intanto non manifestava alcuna predilezione ma la precocità fisica e intellettuale della sua infanzia non si era smentita, e a quell’età ella era già una donna. I suoi sedici anni le splendevano in fronte ed ogni volta che parlava, la sua voce arcanamente armoniosa sembrava cantasse l’inno della gioventù. Ella era dunque, la straordinaria fanciulla, giunta come le altre all’istante quando il primo palpito commove il cuore, e, senza far sparire il sorriso del mattino della vita, la prima lagrima spunta nel ciglio. Ell’era giunta all’istante quando il vento che passa tra i rami, l’aura che increspa la cima delle acque, il susurro della sera, il canto degli uccelli, tutto il leggero e potente soffio della natura diventa una sola voce e dice una sola parola; quando l’azzurro del cielo, il lucido contorno delle nubi, il verde delle foglie, le mille tinte calde ed armoniose della terra, sembrano confondersi in un sol colore e si traducono in un sol sentimento. — Eppure nulla si moveva, nulla palpitava in lei. Non si vide mai una più perfetta espressione della vergine; la sua bellezza incontestabile e quasi insolente era però ancor tutta vaga, le sue forme avvenenti ancora indistinte, sebbene complete; quasi il pensiero divino non si fosse tutto estrinsecato e una parte di lei fosse ancora altrove. Pure sembrava impossibile ch’ella potesse diventar più bella. — Pensava quasi continuamente alla propria bellezza e quasi di null’altro si occupava, ma lo faceva in modo che è assai difficile far comprendere. Non era mossa da civetteria femminile nè dall’ambizione; lo faceva con una serietà concentrata e distratta, quasi fosse necessario per lei il farlo; sembrava ubbidire ad una missione. L’ammirazione di sè stessa ed il sentimento della propria bellezza erano in lei come un divino istinto: pareva, occupandosene, compiere un ministero. Passava sempre lunghe ore dinanzi allo specchio e non aveva mai finito di mirarsi e di acconciarsi; ma non se ne nascondeva come le altre, lo faceva publicamente, quasi quel culto della propria persona fosse solamente artistico, e, per così dire, impersonale. L’amore di sè sembrava escludesse in lei la possibilità di un altro amore. I parenti osservavano, se in quella età pericolosa in cui si trovava, qualcuno avesse fatto palpitare per la prima volta il suo cuore o colpito la sua immaginazione; ma non sorpresero nulla, e davvero non c’era nulla da sorprendere. Vedeva i giovani i più seducenti, sia per un motivo, sia per l’altro, ma di nessuno si curava. Se ne accorgevano quasi con piacere, giacchè non essendovi simpatie preconcette da vincere, credevano che sarebbe stato facile lo scegliere per lei. Essi erano ricchissimi, ricchi tanto da poter aspirare molto in alto. Una tale occasione non tardò molto a presentarsi; un giovane, ultimo discendente di una illustre famiglia, che lui morto si sarebbe estinta, s’invaghì più di tutti della straordinaria bellezza della fanciulla e ne chiese la mano. Egli era ricco, simpatico a tutti; di un carattere buono e leale e certo non brutto, benchè d’una figura assai comune. Ella rifiutò. Suo padre non la volle forzare, ma fu dolentissimo di tale rifiuto ch’egli diceva mosso da un imperdonabile capriccio. Fu lo stesso di venti altri. Passarono così alcuni anni ed ella faceva veramente soffrire le persone che le volevano bene con tanta ostinazione. Ma l’idea del matrimonio le ripugnava. Dovette subire una forte lotta interna prima di giungere a comprendere che non è possibile a questo mondo voler esser tanto stravagante e che non poteva andar così direttamente contro alla volontà di tutti. Ma finalmente capì che bisognava far delle concessioni e disse a suo padre, rendendolo lietissimo, che accetterebbe la mano del primo giovane che si sarebbe presentato, purchè accontentasse quelli che da tanto tempo le consigliavano di cedere e non le dispiacesse troppo. Il primo che osò chiedere la sua mano fu il conte R.., abbastanza ricco e assai ricercato da tutti e che da molto tempo era stato colpito dalla superba bellezza di lei. Ella fu fedele alla sua promessa ed accettò. Aveva allora vent’anni. La sua bellezza, che diventava ogni giorno più intensa, era tale che chi non ebbe la fortuna di vederla non se ne può nemmeno fare un’idea. Aveva acquistata una fama universale; si parlava di lei dal palazzo di corte alla soffitta del miserabile. I poeti d’ogni calibro la cantavano su tutti i metri, e i pittori, vedendola, gittavano pennelli e tavolozza. Il conte era un bel tipo meridionale, alto e ben fatto; aveva occhi e capelli nerissimi, i lineamenti fini. Quanto al morale, era quieto, con intelligenza sufficiente ai suoi bisogni, piuttosto insipido e assai indolente. Il matrimonio ebbe luogo e fu come tutti i matrimoni, e seguito da un breve viaggio come tutti i viaggi di nozze e da una luna di miele delle più abituali. Al ritorno la nostra eroina, che ora potremo chiamare contessa, era molto cambiata. Sembrava impossibile, ma erasi ancora abbellita. La sua bellezza non aveva mutato carattere, ma si era fatta più splendida. Il poeta l’avrebbe forse preferita prima, non lo scultore. Sebbene nessuno, qualunque fosse il suo gusto, potesse rimanere insensibile dinanzi a lei, essendo ella, come già fu detto, il risultamento di tutti i sogni, pure molti — tutti coloro che ricercano le profonde delicatezze dell’anima — avrebbero trovato in lei una mancanza indefinibile, ma vera. Noi amiamo le cose umane; la nostra fragilità, i nostri errori, le nostre debolezze, perfino qualcuna delle nostre miserie, ci attirano e le vogliamo, le amiamo quasi fossero qualità e non difetti; siamo fatti d’una parte sopranaturale e d’una parte terrena, di qualcosa di superbo e di qualcosa di basso, ma la nostra argilla l’amiamo qual è. In lei mancava l’imperfezione, mancava la fragilità. Cosa dolorosa e disperante, in lei non v’era possibilità d’amore — la fralezza sublime. Ella era troppo perfetta e talvolta quella perfezione opprimeva e quella suprema serenità ne faceva male. Non si vedeva dove un sentimento veramente nostro avrebbe potuto prender posto tra quella calma desolante, e la sua bellezza appariva intangibile, inaccessibile. Maritata, fu costretta a prendere una parte più attiva nella vita comune, e parve quasi che si distraesse alquanto dalla sua preoccupazione abituale. Viveva presso a poco la vita di tutti, andava in società, riceveva; ma lo studio, l’amore di sè erano sempre il suo pensiero principale. Le donne non erano tanto gelose di lei quanto si sarebbe supposto. Prima di tutto era inutile il voler criticare la sua bellezza, in secondo luogo non avevano molto a temere da lei, perchè non scendeva in campo a combattere e le sue armi non si curava di adoperarle. Ferivano però e di ferite gravissime. Rinunciamo a raccontare tutte le passioni che suscitò, tutto il male ch’ella fece, davvero con la massima innocenza, poichè si empirebbero volumi. Quante amanti la maledirono, quante madri, vedendola, si sentivano gli occhi gonfiarsi di lagrime, quanti le chiesero pietà! Come si tentò in ogni modo di far vibrare la corda segreta del suo cuore, di turbare la limpidità serena del suo sguardo! — Ma ella possedeva la calma imperturbabile del marmo. A coloro che le rimproveravano la sua insensibilità, e parlando di chi la riputava una donna spietata, ella diceva: — Guardatemi. Come volete che io sia cattiva? Che colpa ne ho io se non posso vivere come le altre, se ho la fortuna di non soffrire?... E tutti rimanevano colpiti dalla pace raggiante del suo viso, mentr’ella pronunciava tali parole piene di una tranquillità sovrumana — abbagliati da quell’avvenenza invincibile. Accadevano spesso delle scene abbastanza strane. La contessa riceveva venti lettere al giorno, lettere d’amore, di preghiera, di gelosia, d’ira, di disperazione..... ch’ella gettava sul fuoco senza finirle. Gli artisti, i poeti, gli osservatori si occupavano di lei come d’un enigma vivente. La maggior parte la vollero conoscere, e siccome aveva intelligenza e spirito, le sue sale furono aperte all’aristocrazia dell’ingegno, come lo erano naturalmente alle altre aristocrazie. Il suo gusto era squisito nelle cose d’arte. L’appartamento n’era una prova visibile. Tutto, dalle vôlte, dalle cornici, dai mobili fino al più piccolo oggetto, aveva un valore artistico. Vi erano quadri scelti con sottile discernimento tra i capolavori delle migliori scuole, statue che rammentavano le greche, vasi della China e del Giappone, lavori di smalto e d’intaglio, velluti e damaschi cadenti in pieghe maestose, tappeti di Gobelins dai colori vivacissimi e armonizzantisi, e sopratutto specchi d’ogni sorta, dagli enormi dovuti alle fabbriche moderne che coprivano intere pareti fino ai piccoli, elegantissimi specchi di Venezia, con le cornici un po’ annerite dal tempo, coperte d’ornati baroccamente contorti e ingemmate di specchini microscopici. Tutte codeste cose erano disposte con quell’ordine di sobria eleganza che indica il gusto di artista spinto fino alle ultime conseguenze; l’armonia dei colori e delle forme, l’unione tanto difficile degli stili, era ottenuta con la sicurezza infallibile che dà la mano maestra. Ed era essa infatti che aveva presieduto a tutto, poichè dopo di aver pensato a sè, che cosa le rimaneva da fare se non pensare a ciò che la circondava? Ella amava le cose belle per istinto, per cui era giunta ad una conoscenza esattissima in arte alla quale non si arriva d’ordinario che dopo lungo studio e minute osservazioni; aveva la potenza divinatrice del bello negli oggetti antichi, come si fosse occupata sempre di archeologia, e in una bottega d’antiquario scorgeva a prima vista ciò che valeva d’essere comperato. Pittori e scultori le chiedevano il suo parere; questi le portava due o tre abbozzi perchè decidesse quale fosse meglio imprendere, quello la pregava d’andare al suo studio per dargli un consiglio sul modo di atteggiare una statua. E sempre rispondeva con sorprendente giustezza e spesso il suo occhio vedeva più in là dell’occhio dell’artista. Molte volte diceva: «Fate così» e l’artista non era persuaso, ma ubbidiva ciecamente, e terminato il lavoro comprendeva ciò che non aveva compreso prima e si felicitava di aver ubbidito. Vorremmo poter raccontare le mille impressioni differenti che faceva su tutti la bellezza della contessa, a seconda dei diversi modi in cui si manifestava. In casa, capricciosamente vestita, al passeggio, indolentemente posata nella sua carrozza o cavalcando con un’eleganza inimitabile; al teatro, con la mano divina posata sul velluto del parapetto, attenta piuttosto agli sguardi d’ammirazione che da ogni parte convergevano verso il suo palco, che alla musica di Verdi o di Meyerbeer.... Vorremmo, colla facilità concessa ai novellieri di penetrare dovunque muniti dell’anello dell’Ariosto, condurre il lettore nelle più intime stanze, farlo assistere alla toletta della contessa, che era un quadro improntato d’epicureismo antico, e svelare i tesori segreti di quella bellezza sovrumana, tanto avida d’ammirazione. La camera da letto ed i gabinetti erano divisi dal resto dell’appartamento. Là appariva ancor più che altrove il gusto squisito della bellissima, l’impronta sovrana ch’ella non poteva a meno di porre su tutto ciò che le stava vicino. Quelle stanze erano un santuario. Tutto ciò che si può immaginare riunendo la molle comodità delle nostre abitudini moderne con la maestà delle decorazioni antiche ritrovavasi colà. La camera, nello stile pompeiano, era piena di finissime estravaganti pitture, di fregi largamente e bizzarramente segnati che correvano intorno alla vôlta, coperta ella stessa d’ornati delicatissimi e di figure chimeriche; i mobili, le tende, le drapperie, tutto era perfettamente d’accordo con lo stile delle pareti. La stanza era divisa in due parti da un grande arco, ricco d’intagli, di decorazioni e di vaghissimi bassorilievi, dal quale pendevano tre lampade d’argento, antiche, del più puro e leggiadro disegno. Un’alcova chiusa da tende di seta molle e ondata conteneva il letto coperto d’uno strato di vera porpora a frange d’oro. Adiacente a quella stanza aprivasi una vasta sala, pure divisa in due parti, la prima delle quali serviva da gabinetto, la seconda da bagno. In questa era scavato un vasto bacino di marmo verde da cui usciva incessantemente lo zampillo d’una fontana che spingeva allegramente il suo getto fino alla vôlta; ai lati vi erano due vasche di porfido e due grandi tavole preziosamente scolpite, sostenenti i mille oggetti necessari ad una signora. Da un’altra porta della stanza da letto si entrava in due piccoli gabinetti affatto differenti e più piccoli. Il primo era elegantissimo. Da un rosone in mezzo alla volta scendevano delle tende di velluto, di quel rosa delicato e pallido che tinge l’interno d’alcune conchiglie, e coprivano tutta la stanza, vôlta e pareti, cadenti lunghissime su di un tappeto folto come l’erba d’un prato, pure rosa a fiori bianchi. I sofà e gli sgabelli erano pure dello stesso velluto. Il secondo gabinetto era più curioso ancora, poichè da qualunque parte vi volgeste non era possibile scorgere altro che specchi. Quattro candelabri erano posti negli angoli. Era davvero una scena che sembrava attendere il pennello d’un artista pagano quella che frequentemente aveva luogo in quelle stanze. Talora la contessa, circondata dalle sue donne, si vestiva ed acconciava lungamente, con una serietà che rammentava le dame romane, talchè un indiscreto nascosto dietro qualche tenda avrebbe potuto credersi trasportato d’improvviso ai tempi di Giovenale — tal altra invece, sola, si compiaceva voluttuosamente nello spettacolo incantevole della propria bellezza. Gettava intorno a sè le stoffe ed i veli che la coprivano ed appariva, abbagliando i suoi proprii occhi con tanta perfezione, bella come la Venere sorgente dai flutti. — -Sembrava quasi allora che un tremito misterioso agitasse le tende, che le figure dipinte sorridessero, che gli specchi sentissero l’immagine che riflettevano, quasi quelle forme scultorie dessero involontariamente la vita alle cose inanimate. Fossimo nati ai tempi d’Aspasia o di Frine! Chè allora ne sarebbe concesso descrivere minutamente quel corpo creato di getto in un momento supremo di celeste ispirazione — mentre invece la nostra qualità di scrittore moderno ci ingiunge di rinunziare a dire quelle eleganti curve, quelle linee perfette, quelle forme armoniose come una musica scesa dal cielo; e quasi nemmeno ne sarebbe concesso di cantare ad una ad una le strofe del poema del suo corpo. Non possiamo dunque parlare nè della superba linea del torso, nè delle braccia che si sarebbero date alla Venere di Milo, nè del piede simile a quello d’una dea che ha solo toccato la cima delle nubi, nè della gamba d’una rara purezza di contorno... e ci è forza lasciare che il lettore supplisca a tutto ciò con la sua immaginazione, e al posto della nostra eroina ponga il suo proprio ideale. A poco a poco le sue antiche abitudini presero di nuovo il di sopra, e la idea fissa dei primi anni l’afferrò ancora e forse con maggior forza di prima. Maritandosi, ella era stata costretta (come si è visto) a vivere un poco la vita di tutti, e ciò l’aveva un po’ distratta. Ora vi ritornava; nè vi è certo da stupirsi di questo, poichè non era possibile che le occupazioni della società le fossero sufficienti, e di cosa poteva occuparsi se non di sè, ella che non conosceva l’amore? — Suo marito che sulle prime aveva fortemente subìto il fascino ch’ella esercitava su tutti, si era presso a poco guarito della sua passione davanti alla passiva freddezza di lei. Tutto l’annoiava, e dopo il primo anno di matrimonio restò a lungo prima di ricomparire in società. Ben inteso che da ogni parte sorgevano lamenti per tale scomparsa, e che tutti se ne stupivano. Ma in lei la idea fissa si era quasi fatta malore. Avvicinandosi ai venticinque anni, la sua bellezza si avvicinava al punto culminante e prendeva un carattere di completa maturezza. Ella era ora la più perfetta espressione della donna in tutto ciò ch’ella ha di più maestoso. La numerosa schiera di quelli che l’ammiravano, o l’adoravano in segreto — avendo ben compreso ch’era inutile parlare — soffrivano di esser privati perfino della gioia di vederla. I pochissimi ammessi in una relativa intimità cercavano in ogni modo di persuaderla a distrarsi. Gli artisti, che la studiavano, capivano che ora la sua passione per sè stessa aumentava prodigiosamente. Suo marito, che non riusciva ad indovinarla, ma che vedeva con uno stupore pauroso la luce stranissima che sfavillava negli occhi suoi ogni giorno più vivamente, univa le sue preghiere alle loro, ma tutto fu vano per qualche tempo. Finalmente un giorno, con una decisione che sembrava un misto di volontà sua e di cessione alle ripetute preghiere, consentì ad aprire le sue sale ad una gran festa da ballo. La sera fu fissata e le carte d’invito cadendo in mezzo ai mille discorsi che si tenevano a proposito del suo desiderio di solitudine, tutti aggradevolmente stupirono. La sera tanto attesa giunse. Le carrozze arrivarono in lunga fila e versavano il loro contingente di signore e fanciulle, che ascendevano lentamente lo scalone coperto di fiori, avvolte nei candidi mantelli nascondenti tante bellezze che tra un momento dovevano essere accarezzate dalla luce splendente delle sale. Il magnifico appartamento, chiarissimo, tutto adorno di fiori, si riempiva a poco a poco. Il conte, in piedi nella prima sala, riceveva tutti con un sorriso stereotipato. Si era già ballato, quando apparve la contessa che in nulla seguiva l’uso comune. L’effetto ch’ella produsse fu indescrivibile. Nelle sale vi fu un silenzio come al giungere d’una regina. Il suo vestito — semplicissimo di fattura — era di velluto rosso e cadeva, fasciando i fianchi e allungandosi di dietro in un interminabile strascico. Sul suo petto posava una ricchissima collana di smeraldi. I suoi capelli, d’una tinta variante tra il biondo ed il castagno, avevano dei riflessi luminosi e fulvi che chiedevano il pennello del Tiziano e si frangevano in masse ondate e ricciute, si contorcevano in piccole spirali fantastiche, parevano talvolta accendersi di fiammelle dorate. La tinta bianchissima della sua pelle era però d’un pallore vivace e rosato. I suoi occhi, d’un taglio purissimo e d’uno splendore calmo, erano micidiali senza volerlo. Nel suo incedere vi era qualcosa di divino; il ritmo della sua voce si confondeva col ritmo dei suoi movimenti. Non aveva mai prodotto tanta impressione. La sua bellezza aveva aquistato qualche cosa di luminoso e di fatale. Irradiava e turbava ad un tempo. Tutti si estasiavano dinanzi a lei; alcuni sentirono una fitta al cuore. Un vecchio scienziato tedesco disse, parlando ad un amico che aveva vicino, mentre la contessa passava: — È strano il pensare che fra poco tutta questa bellezza sparirà e che le forme superbe e l’occhio fulgente non faranno più vittime!...» Benchè pronunciate sottovoce, queste parole giunsero all’orecchio della contessa. — -Si volse e rispose con un sorriso e una espressione inesplicabili: — No, dottore, vi sbagliate. Finchè sarò, sarò come mi vedete adesso. In quella notte ella sembrava molto distratta. Vi era talvolta qualche incoerenza nelle sue parole, e di tanto in tanto le passavano sulla bocca dei sorrisi pieni d’una poesia misteriosa. Il ballo era magnifico. Fu una di quelle feste che fanno epoca e che rimangono come pietra di paragone di tutte le altre e spesso per molto tempo come l’apice inaccessibile della ricchezza e della eleganza. Dal principio della sera la contessa non si era ancora guardata. Pareva temesse. Godeva dell’ammirazione altrui e voleva aspettare ad assicurarsi della propria. Assaporava intanto il trionfo, e l’orgoglio che la riempiva era tanto dolce che le pareva quasi difficile da sopportare. — Verso le due, al momento della cena e quando le sale si erano un poco sfollate, prese una improvvisa decisione e si diresse verso una specie di serra ch’era a lato della sala da ballo, in fondo alla quale stava un enorme specchio. Lo avvicinò lentamente, ad occhi bassi. Sembrava non osasse; finalmente alzò gli occhi. Parve che una luce si spargesse sul suo volto e che tutta la sua figura s’irradiasse. Stette immobile per qualche minuto, assorta, incantata, con un sorriso d’estatica compiacenza. Poi, d’improvviso, si voltò e attraversando con passo deciso i gruppi di persone che guardavano un poco attoniti, si diresse verso le sue stanze. Giunse al gabinetto degli specchi. Là, con un movimento rapido, sprigionò la massa dei capelli che si sciolsero in onde luminose sulle spalle bianchissime, strappò gli uncini della veste che cadde a terra, scosse ogni velo e si guardò intorno. Riunì le braccia sopra la testa, stando dritta, coi piedi vicini e il fianco un po’ sporgente, rammentando la postura della Frine dinanzi all’areopago, e sorrise, contemplandosi. D’improvviso un fremito l’agitò — impallidì tanto da sembrare il marmo di Pigmalione che appena fatto donna ridivenisse statua, poi lentamente accosciandosi come chi si sente mancare le forze a poco a poco, cadde sulle ginocchia, frammezzo alle sue vesti, poi piegò adagio all’indietro, incrocicchiando le braccia sul seno e tirandosi addosso tutto quello che potè con un gesto d’estremo pudore. Quel ballo, da cui la contessa si ritirò prima della fine, fu per molto tempo il principale argomento di discorso nella società elegante. Fu inoltre l’ultima volta ch’ella si mostrò in publico. — Non molto dopo ella si spense. — Nessuno ha certo dimenticato la sua morte, come nessuno ha dimenticato la sua bellezza. Morì dopo una breve e violenta malattia che i medici confessarono di non aver troppo capito. Il suo corpo venne imbalsamato. La sua fine fu misteriosa quanto la sua vita. Ella rimase un enigma per tutti. Certo la figura di una donna così bella, così seducente e insensibile, ma tutta invasa da una passione arcana, passata come un apparizione — oggetto di stupore e di desiderio — e poi subitamente sparita, resterà lungamente impressa nella memoria di chi la conobbe. Un giorno, in un crocchio d’amici, si parlava di lei. Chi si estasiava sulla sua bellezza, che rimarrà come un tipo inimitabile, chi tentava spiegare il problema della sua vita. Poi si venne a discutere sulla sua morte quasi più inesplicabile ancora. — Io ne so la causa, disse un poeta. È morta di bellezza. LA VILLA D’OSTELLIO I Le abitazioni d’ogni specie, palazzi, case, castelli, tutte hanno le loro vicende, la loro storia, come gl’individui ed i popoli. Attraversano fasi di prosperità, di splendore, di decadenza e di rovina. Talora sembrano felici, talora invece portano impresso dovunque il segno della desolazione. La fortuna delle dimore segue la fortuna degli abitanti. E, dall’inevitabile azione del tempo, dall’abbandono derivano le più disparate conseguenze. Talvolta il decadimento conduce alla miseria la più squallida, tal altra mirabilmente abbellisce, e agli stupendi edifici rôsi dagli anni aggiunge una novella e diversa poesia; mentre ad alcune costruzioni, scevre d’intendimento artistico, dona un incanto che non ebbero mai. Se in qualche via deserta, mal selciata d’una città di provincia, vedete ad un tratto sorgere al vostro fianco uno di que’ magnifici palazzi di stile barocco, che conservano ancora un pallido riflesso della sontuosità passata, con i suoi pesanti ornamenti spezzati qua e là, con le ricche inferriate arrugginite, con le malerbe ch’escono d’in tra le pietre e l’umido muschio che oblitera lo stemma del portone, avete di certo pensato, che nei lieti giorni della dovizia e della maestà non aveva quella bellezza vetusta che ora più d’ogni altra vi attrae e vi fa sostare. Ma se invece vi si presenta allo sguardo la elegante ed odiosa «casa di campagna» del negoziante di candele arricchito, tutta nuova e luccicante, dipinta a ghirigori giallognoli e rosa, con le persiane turchine, preceduta dal giardino «ben tenuto,» con la piccola barca ch’entra nella piccola grotta a lato del piccolo lago artificiale, non vi passerà mai per la mente che fra un secolo un poeta potrà forse fermarsi dinanzi a quel cancello e restare assorto davanti allo stupendo disordine che la natura, ritornata padrona di quell’angolo, vi avrà fatto, sostituendo alla cattiva prosa architettonica del droghiere defunto, la sua instancabile e feconda improvvisazione. La villa di cui raccontiamo la storia, ch’è quasi una leggenda, era situata in un punto che non vogliamo troppo determinare, non lontano da Tivoli; e mentre era stata altre volte sontuosissima e splendidamente abitata, lasciata ora quasi nell’abbandono e dimora soltanto d’un vecchio domestico, aveva precisamente subìto una di codeste trasformazioni. Anticamente i principi d’Ostellio che n’erano padroni, vi conducevano la splendida vita delle villeggiature romane e vi tenevano, come suol dirsi, casa aperta; ma ora da due generazioni avevano smesso d’andarvi. Il penultimo proprietario aveva sempre vissuto fuori d’Italia, scorrendo l’Europa per missioni diplomatiche ed era morto lontano e dimentico affatto della sua villa, che già aveva molto perduto dell’antico splendore. L’ultimo poi e presente padrone, era un giovane elegante che preferiva assai le vie delle capitali e si curava della villa ancora meno del padre. Pietro, il vecchio servitore lasciatovi alla custodia, vi abitava solo, e col lungo starvi aveva finito a far quasi parte della villa egli stesso. In quella solitudine era divenuto taciturno, scambiando solo qualche parola con i guardaboschi ed i contadini. Adorava i suoi padroni e tutti quelli che avevano con essi relazione, e forse più ancora adorava quella casa, cui gli doleva di vedere così abbandonata, quella casa dove aveva passata quasi tutta la sua lunga e monotona esistenza e dove avrebbe certo finito i suoi giorni. Ogni mattina, appena alzato spolverava le vaste sale, come se da un momento all’altro aspettasse l’arrivo di qualcuno, poi girava pel giardino e per il parco, — cercando in tutti i modi di riparare alla incuria dei signori, e circondando quel palazzo tutto suo di cure quasi paterne. Vedendolo aggirarsi per i vastissimi appartamenti, a passo un po’ incerto ma svelto ancora, con la testa china, incuteva il rispetto dovuto al vecchio ed al solitario; sulla fronte, nello sguardo, nell’atteggiamento, in tutta la sua persona, si scorgeva l’impronta lasciata sull’uomo da una sola idea, e la purezza di coscienza che deriva dalla tranquillità e dalla rassegnazione; e insieme si vedeva che fuori di quella villa e dei suoi padroni nulla esisteva per lui; la sua dimora e le sue affezioni erano parimente ristrette e vaste. Non tutti immaginano i curiosi effetti che talvolta derivano da una vita come quella del vecchio Pietro. La solitudine, le poche e semplici idee, che possono diventare idee fisse, hanno senza dubbio una influenza sul cervello. A forza di star solo, con i soliti pensieri in testa e gli antichi affetti rinchiusi in cuore, quel vecchio s’era fatto strano. Era diventato sordo, ed aveva preso l’abitudine di soliloquizzare ad alta voce. Quando discorreva con alcuno, parlava brevemente ed a sentenze. Ripeteva spesso le medesime cose, mostrando una grande tenacità di pensiero. Parlava abitualmente del giovane padrone che doveva arrivare, dello splendore che doveva nuovamente rifulgere sulla villa; scordandosi degli anni trascorsi senza che cotesta sua speranza si fosse avverata. Il principe era venuto soltanto qualche rara volta, con lieta e numerosa brigata; e benchè Pietro fosse allora stato scandalizzato da ciò che aveva visto e udito, pure era stato ben contento di quella breve visita; ne aveva lungamente parlato e aveva in cuor suo sperato che si ripetesse. Altra volta erano venuti gli amici senza di lui, il che, sebbene non gli avesse dato un gran piacere, tuttavia era stato per lui un avvenimento. Ma, da molto tempo, non s’erano più ripetute nemmeno queste brevi apparizioni; e quantunque sapesse il principe lontano lontano, pure non cessava mai dallo sperare. Ogni mattina, seriamente, tranquillamente, parlando con sè, scuotendo il capo, metteva ogni cosa in bell’ordine. Stava talvolta assorto in pensieri, guardando la sua imagine riflessa nei grandi specchi. Era nello stato d’animo di chi aspetta sempre. Se il principe fosse entrato d’improvviso, egli ne sarebbe stato lietissimo, ma non certo stupito. Desinava in un’ampia stanza, attigua alla cucina, a lato d’un alto camino in marmo bigio, dove d’inverno ardevano dei tronchi d’albero quasi interi, in compagnia d’una vecchia donna di casa, più sorda di lui, e d’un grosso cane nero, fedele e intelligente, che da lunghi anni divideva con loro il pasto e prendeva quasi una parte eguale nella conversazione. Nell’inverno, la villa era triste e oscura, il giardino desolato; e nel vasto parco non si scorgevano che gli scheletri degli alberi sul suolo indurito. Passeggiando per quei viali affatto spogli, con a lato i cespugli regolarmente tagliati in forme ornamentali, scorgendo qua e là tra i rami secchi le statue condannate alla nudità, quali bizzarramente mutilate, quali mal sostenute dai piedestalli infraciditi, vi sentivate un freddo penetrare nell’anima, derivante sopratutto dall’effetto del malinconico spettacolo. Il palazzo, superbo edificio nello stile del Rinascimento, con due grandi ali sporgenti, tutto a ornati e ricche lesene pittoricamente guaste, con davanti un vasto terrazzo che dava adito alle sale, a cui si saliva per cinque gradini larghissimi, vi rattristava esso pure; e più ancora se penetravate nelle vaste sale deserte, in cui nulla s’udiva tranne l’eco de’ vostri passi e non si vedeva alcuno se non i personaggi silenziosi degli affreschi impalliditi e dei logori arazzi. Ma di primavera, allo spuntare del primo fiorellino, tutto cambiava. Più che altrove era incantevole in quella villa abbandonata il risvegliarsi delle cose. Uno dopo l’altro tutti gli uccelli del bosco cominciavano il loro canto, e tutto un concento di trilli riempiva i lunghi viali. V’era qualcosa di tumultuoso nella rapidità con cui le piante verdeggiavano e i prati si smaltavano di fiori. Nessun giardiniere era pronto a correggere la intemperanza della natura. I folti cespugli erano pieni di rose, e le nuove frondi uscivano in disordine attraverso alle forme architettoniche a dispetto d’ogni simmetria. I ramoscelli sboccianti s’attortigliavano pazzamente intorno alle statue, e le dee di marmo sembravano sorridere nel vedersi abbracciate da quelle piante parassite; delle frondi novelle uscivano quasi d’improvviso dai tempii di verdura e in uno slancio inconsapevole prendevano d’assalto le Veneri di granito. Dovunque spiccavano le viole. Dalla prima giornata di primavera quel parco si sarebbe potuto paragonare ad una sinfonia, che cominciando lieta e leggera andasse a poco a poco allargandosi in un magnifico crescendo — per giungere finalmente alla pace profonda, fresca, indescrivibile dell’estate. Allora, alla garrula contentezza del principio, allo scoppio di allegria, succedeva una gioia intensa, rattenuta. Gli augelletti si nascondevano nei folti inaccessibili e cantavano sommessi. I verdi si facevano più oscuri, ed erano tanto fronzuti gli alberi, che internandosi per i sentieri tranquilli, in alcuni punti sembravano neri. Le cascate trasparenti e bianche scendevano con monotona armonia le scalinate di pietra annerita e verdeggiante. Una frescura di cui è impossibile farsi un’idea, regnava in quei siti. I raggi del sole non potevano farsi strada. V’era un’ombra impenetrabile deliziosa, non scevra di mistero. In alcuni punti non si sapeva più dove s’era, tanto apparivano profondamente freschi, umidi, solitari, lontanissimi dal resto del mondo. Uno di questi punti era a fianco dell’ala sinistra del palazzo. V’era un circolo irregolare di alte piante le cui cime frondose intercettavano i raggi, e non lasciavano scorgere che ad angustissimi spicchi l’azzurro del cielo. Alcuni rami si spingevano sul palazzo, coprivano gli stipiti a ghirlande, e pareva volessero entrare per l’ampie finestre del primo piano. Più sotto, foltissimi boschetti col loro cupo verde formavano un asilo quasi inaccessibile. In mezzo v’era un piccolo lago naturale, di forma elittica, irregolare; l’acqua n’era nettissima, ma non limpida. Specchiandosi pareva di guardarsi in un vetro opaco. Alcune piante acquatiche dalle larghissime foglie pallide galleggiavano qua e là. Proprio sull’orlo v’erano delle macchie di fiori candidissimi a pistilli colorati d’una specie assai curiosa. Gli alberi si riunivano al disopra formando una vôlta d’un verde tanto oscuro che in alcuni punti l’acqua era bruna. Qua e là i contorni delle foglie vi si riflettevano distintamente. Il suolo era quasi tutto coperto d’un’erbetta d’un verde smorto, morbidissima. Ivi regnava l’ombra e il silenzio. L’aria era profumata. Ma quel sito non era allegro; sembrava invece pieno d’un gaudio misterioso. Pareva che dovesse uscire da quei cespugli qualche apparizione mitologica; poteva credersi un recesso creato per celare agli occhi mortali gli amori delle dee. V’era una pace ineffabile, completa, amorosa. II Correva il mese di giugno. La villa e il giardino erano nel più bel momento. La indicibile calma del meriggio pesava sulla campagna. Il sole batteva a piombo — ma in quelle ombre tranquille, al fresco zampillare delle fontane, sull’erba umida regnava un’atmosfera paradisiaca. Le cascate sembravano aspettare che le ninfe del bosco nella loro olimpica nudità andassero a bagnarsi. Le statue parevano lamentarsi della loro solitudine. Il parco era uno splendore. Tutte le tinte di verde, dal più tenero al più severo, vi si univano. Persino il vecchio Pietro si sentiva ringiovanito da tutta quella festa estiva. Sorrideva da sè guardando dalle finestre aperte quel trionfo della natura. Ciò lo rendeva quasi allegro; più che mai scuoteva la polvere dalle tende di velluto, e toglieva le ragnatele dalle dorature degli spigoli. Un giorno — bellissimo tra que’ bei giorni — in quell’ora incantevole, in cui il calore comincia a scemare e una lievissima brezza spirando commove l’erba ed i fiori, il vecchio domestico se ne stava tranquillamente seduto sulla terrazza dell’ala destra, quando a un tratto si scosse, spalancò gli occhi e guardò fissamente verso un punto del viale, che con una vasta curva conduceva fino alla porta d’ingresso. Era una vista insolita. Su quel viale, a una ventina di passi di distanza, s’avanzava lentamente una fulgida coppia, un giovanetto e una fanciulla, stretti l’uno all’altro — come evocati dalla immaginazione d’un poeta. Egli era alto snello, simile a un paggio; ella era bionda, sontuosamente vestita da sposa, tutta in bianco, idealmente bella. Sembravano un’apparizione. Pietro, benchè non dovesse essere facilmente stupito da nessun arrivo, pure non osava credere ai propri occhi e temeva d’esser in preda a un’allucinazione: pure s’alzò e mosse incontro ai due che venivano; e più s’avvicinava, più s’accorgeva della realtà della loro presenza. Ma, allo stesso tempo, osservò su quei due visi giovanili l’espressione d’un mal celato turbamento che lottava con la balda contentezza dei loro sguardi amorosi. Procedevano lenti ed incerti, e quando videro il vecchio che veniva loro incontro, si soffermarono; ma poi, fattosi animo, ripresero il loro cammino. Egli era tanto elegante della persona, che perfino il brutto costume allora di moda (era sul principio del secolo) non gli stava male. Sul suo corpo di sculturale bellezza qualunque vestito sarebbe sembrato un anacronismo. Era alto, e la svelta ma virile prestanza della sua figura contrastava col viso delicato e troppo bello, da cui non era ancor sparita la rosea freschezza dell’infanzia. Aveva l’occhio grande, pieno di vita e di languore insieme, i capelli bruni e ricciuti che gli lambivano il collo bianchissimo, il suo costume era scuro, stretto al corpo; portava stivali e un piccolo mantello che gli s’attortigliava intorno e gli cadeva sul braccio sinistro. Al destro s’appoggiava con un indicibile abbandono la bellissima compagna; i cui capelli che parevano oro in fusione, e gli occhi color di cielo, contrastavano con quelli di lui, mentre s’accordava l’espressione, identica su quei due visi diversi. Ella pure era in quella età quando appena sboccia dalla fanciulla la donna. V’era nel suo incedere e nella ricchezza del suo abito da fidanzata qualche cosa di principesco. Eppure nulla potevasi immaginare di più blando del suo sorriso, nè di più dolce del suo sguardo; ma quando quella pupilla volgevasi a lui, facevasi ardente. Pietro potè solo accorgersi della suprema ed adolescente bellezza di quei due, nel primo momento; dopo, rimasto abbagliato e confuso, abbassò gli occhi e stette rispettoso come aspettasse i loro comandi. Ma essi del pari, come già s’è detto, sembravano imbarazzati. — In quell’istante s’udì un rumore di ruote, e poi si vide una carrozza passare tra gli alberi, allontanarsi; era certo quella che li aveva condotti. Allora il vecchio domestico, timidamente offrì loro i suoi servigi. Parve che a tali detti riprendessero coraggio; si consultarono prima con lo sguardo, poi si dissero qualche parola all’orecchio, e finalmente la fanciulla rivolse a Pietro il suo indescrivibile sorriso; ambedue accennarono di sì col capo e lo seguirono in casa. III Qualche tempo dopo, l’aspetto della villa era affatto mutato, quasi scomparsa la tristezza delle vaste sale. — Pietro s’affaccendava sempre più, tutto ringalluzzito; un misterioso sorriso di contentezza illuminavagli il volto, divenuto gioviale. L’atmosfera stessa pareva diversa. Le finestre dell’ala sinistra che guardavano su quel piccolo, freschissimo lago, di cui già s’è parlato, stavano aperte. Quello era l’appartamento abitato dai due ospiti sconosciuti; situato nella parte più antica della casa, si componeva di una vasta sala, riccamente addobbata, ma con le tappezzerie sdruscite assai; di due altre stanze, una amplissima, l’altra meno, tanto alte che sembrava d’essere in una torre; e di un gabinetto dipinto a fresco, dove il tempo aveva corretto la fantasia molto procace del pittore. Per giungere a questo appartamento bisognava attraversare la fila di salotti che riempivano il corpo di mezzo del palazzo. La camera, le cui finestre si aprivano sopra quell’oasi deliziosa, di cui s’è detto, non era stata abitata da tempo immemorabile. La vôlta, arrotondata quasi come la cupola d’un tempio, dipinta a colori delicatissimi e coperta di dorature, a fogliami e rabeschi, sarebbe stata abbagliante, se gli anni non avessero tolto il luccichìo degli ornamenti e sbiadite le tinte. Un magnifico drappo di seta celeste ed argento a fiorami, di tinta cangievole ed a riflessi più chiari, copriva le pareti. I mobili bizzarramente scolpiti. Il letto, altissimo, a colonne intagliate, tra le quali cadevano le cortine in pieghe sontuose, occupava quasi tutta una parete. In faccia le due finestre, per le quali la luce penetrava smorzata dalle frondose cime degli alberi. In questa stanza il silenzio pareva maggiore che nelle altre. Dal momento dell’arrivo dei due fanciulli, tutto era cambiato. Pietro, rimasto sbalordito, sedotto sulle prime, s’era poi come innamorato dei due innamorati. Li serviva come avessero appartenuto alla famiglia dei suoi padroni. Le sue giornate ora erano riempite; la sua vita aveva uno scopo. S’occupava di loro più che poteva; nelle ore di solitudine, o a mensa con la vecchia donna, stava forse più pensieroso che per lo passato, ma si sentiva meno triste. Quali fossero i vari pensieri che passavano in quella sua testa curva, non è certo facile l’indovinare. Senza dubbio, egli doveva, malgrado la contentezza che provava per quel poema vivente venuto ad illuminare la sua monotona esistenza, essere molto imbarazzato se tentava di spiegarsi l’arrivo straordinario di quei due. Ma, lo ripetiamo, non sapremmo proprio dire a che cosa riflettesse, quando se ne stava con la fronte in mano seduto vicino al focolare spento della vasta cucina. Supponeva forse che fossero amici del principe? Una o due volte aveva rispettosamente rivolto al giovine qualche domanda in proposito; ma ottenendo solo risposte assai incerte. Ma non poteva dubitare che quei due sposi (li credeva tali) fossero altissimi personaggi, e che il suo padrone sarebbe stato onorato di ospitare nella sua villa; benchè nel modo ch’erano giunti, nella loro taciturnità e in varie altre cose, vi fosse certo un non so che di strano e molto dell’inesplicabile. Ma sopratutto egli capiva che li amava. Subito aveva sentito per loro una irresistibile simpatia; il suo vecchio cuore da tanto tempo muto s’era come risvegliato dinanzi a loro, e provava per essi un affetto che di giorno in giorno cresceva. Agli altri abitanti della villa aveva detto che li conosceva, che dovessero servirli come fossero i padroni. Sulle prime s’era lambiccato il cervello per indovinare chi fossero e donde venissero; ma più voleva loro bene, meno s’occupava di ciò; con l’aumentare dell’affetto scemava in lui la curiosità. Dopo pochi giorni gli sembrò naturalissimo di vederli; e in fine comprese che non avrebbe più potuto vivere senza di loro; non gli passava per la mente che forse un giorno sarebbe giunto in cui avrebbero dovuto partire; li amava intensamente. E allo stesso tempo diminuiva a poco a poco in lui il suo consueto desiderio di rivedere il principe; poichè la fulgente presenza di quei due felici lo distraeva dal suo antico pensiero. Essi rappresentavano inconsci l’amore nella sua espressione più pura, più divina. Vivevano, ma sembravano al di fuori della vita; si vedeva che ne ignoravano tutto, le lotte, i dolori, le colpe. Più ancora che un sogno fatto reale, erano la incarnazione d’un poema. Dei cento colori ond’è dipinta l’esistenza, essi non ne conoscevano che uno — l’azzurro; dei sentimenti, ignoravano tutto fuorchè l’amore, e di questo non sentivano nè il fuoco che incendia, ne il veleno che rode, ma soltanto l’ambrosia celeste e la immensa luce che rischiara. Essi erano un purissimo romanzo in azione, una poesia; nessun dramma era stato tra di loro. Nel tumultuoso viavai d’una gran città, in quel vortice affaccendato d’interessi, di passioni, di cupidigie, dove il tragico passa rasente al comico, dove s’intralciano il male ed il bene, dove si vive in modo affrettato e febbrile, essi sarebbero stati uno straordinario contrasto, una nota isolata e dolcissima in fragoroso concerto. Nella solitudine invece della villa abbandonata e sontuosa, essi armonizzavano mirabilmente con la natura che li circondava. Quel parco verdeggiante e misterioso era lo scenario richiesto per quel roseo poema. Si vedevano la mattina, in quell’ora freschissima quando la notturna rugiada tremola ancora sull’erbe e sulle foglie, comparire sul terrazzo; e ogni volta sembravano al Pietro un’apparizione nuova, poichè non sapeva abituarsi a non ammirarli. Di là, passando pei larghi viali dalle curve eleganti, dove, allontanandosi, formavano una stupenda macchietta, s’internavano nel folto del parco, e andavano a perdersi negli ombrosi recessi, dove vedevano l’azzurro del cielo attraverso agli interstizi dei rami, senza altri testimoni che gli abitatori dei nidi, nascosti tra le frondi. E nelle calde ore del meriggio obliavano nella frescura di quei siti segreti, i raggi cocenti del sole che percotevano la casa ed i prati. E quelle ore passavano ineffabili; tutte d’una sola tinta, ma non monotone: rapidissime e lente. Appena che il vecchio domestico li scorgeva in distanza, il suo sguardo si fissava su di loro, nè più lo distaccava. Più li guardava, più rimaneva estatico; più cresceva in quel suo cuore, da tanto tempo vuoto, l’affetto che subito aveva loro portato, e che diventava ora quasi paterno. Con quanta gioia imbandiva loro la mensa frugale, ma ricca d’apparato, nell’ampio salotto a stucco ed a freschi, dove una volta i suoi padroni tanto allegramente banchettavano! Com’era lieto, quanta serena contentezza gli riempieva l’anima, quando nella luce dorata del crepuscolo, da una finestra, li vedeva in mezzo al prato, illuminati dai raggi purpurei del sole calante! Per la prima volta egli comprendeva tutta la indicibile bellezza di quei tramonti. Rimanevano là lungamente. Il verde degli alberi passava per tutte le tinte, poi l’ultimo raggio si spegneva, spariva e non rimaneva che la chiara e smorta luce del crepuscolo ad illuminare la scena. In quel fuggevole istante tutto prendeva in quel luogo un aspetto fantastico. Si sarebbe potuto dimenticare d’essere in questo mondo, e quei due, d’una bellezza soprannaturale, aiutavano a far obliare. Ma erano brevi assai quei crepuscoli; ben tosto la luna, già vagamente disegnata nel cielo, spandeva sul parco la sua bianca luce; e la tenebra calava d’improvviso. La forma dei cespugli e i profili delle statue si perdevano nella notte, i contorni si smarrivano, tutto facevasi indistinto, e a gruppi lucenti le stelle s’accendevano nel firmamento. Allora regnava una pace indescrivibile. V’era qualcosa in quella scena di solenne e di sacro. La vôlta celeste, oscura e sublime, si stendeva immensa, tutta tempestata di stelle, eterna traduzione dell’infinito per le menti umane. Nel parco e dovunque, silenzio profondo. Tutto riposava; solo dei soffi misteriosi correvano qua e là. La natura stessa dormiva; il vasto palazzo quasi non sembrava abitato. Ma, in un angolo dell’ala sinistra, alle finestre di quella camera che abbiamo descritta, e che guardavano su quel lago (di notte tanto opaco e quasi pauroso), dietro le pesanti cortine pareva che si sarebbe potuto scorgere una luce diffusa, indistinta. Quella luce appariva misteriosa e dolce. Pareva che su quel punto l’azzurro del firmamento fosse più profondo e le stelle fulgenti d’una luce più arcana, e che da quelle boscaglie e da quel lago sorgessero spiriti invisibili ed emanassero ignoti profumi. E quella parte di casa sembrava circondata da un nimbo, quasi fosse un tempio. IV Se una creatura sovrumana, librata nello spazio, avesse allora gettato uno sguardo su questa nostra terra oscura, certo quel punto le sarebbe apparso luminoso. Una immensa poesia era raccolta in quell’angolo obliato. È difficile immaginare qualcosa di più dolce di quel romanzo, di cui lo scenario è il palazzo ed il parco abbandonati, ed i personaggi quel vecchio solitario e quei due felici. Che v’era al di fuori, in quella società turbolenta, infelice, insaziabile? Essi non lo sapevano, non se ne curavano: qualunque catastrofe, qualunque trionfo avrebbe potuto accadere a pochi passi; era possibile che gl’imperi crollassero, che nuovi regni sorgessero, che tutto venisse sconvolto: essi non se ne sarebbero accorti. Che premeva loro? Al di là del ricinto il mondo finiva per essi. Come avevano potuto quei due sottrarsi alla legge comune? Com’era stato permesso che la villa, inutile da tanto tempo, avesse ora il cómpito di nascondere quei due evasi della prigione sociale? La sicurezza in cui si trovavano sarebbe durata a lungo? Era possibile che l’invidia non venisse tra poco a turbare quella calma beata e suprema? La loro parte di male non sarebbe venuta a incoglierli? Il destino li avrebbe per molto tempo ancora dimenticati? Essi conservavano una indicibile serenità, quella serenità che nega il male e non vi crede. Parevano una creazione del Tiziano fatta vivente, di quelle figure eternamente giovanili, bionde e felici, che il grande artista poneva in mezzo a una di quelle ricche scene veneziane, fulgenti d’oro e di porpora, con in fondo l’immutabile turchino del cielo. Essi non erano affetti da alcuna delle malattie moderne, e certo nessuna malinconia li poteva sorprendere, nessun presentimento funestare. Il tempo non esisteva quasi per essi, come non esisteva il mondo circostante. Nello stesso modo che non s’accorgevano della società, nel loro paradisiaco isolamento, così essi non sapevano ch’esistesse il passato e l’avvenire, tanto erano assorti nell’ora presente. Passato non ne avevano; poichè appena usciti dall’infanzia s’erano trovati immersi d’improvviso, non nella realtà; ma nella poesia dell’esistenza; avvenire non ne vedevano, non temendo nulla, nè potevano sperare di più, poichè tutto intorno e dentro loro si fermava nella suprema beatitudine dell’amore... Com’erano i loro volti rosei e fulgenti, senza possibilità di rughe, gli occhi tranquilli, illuminati ed incapaci di pianto, così i loro cuori scevri di timori e di mali, le loro menti prive di tenebra e di mestizia, Quelle due anime, come quei due corpi, erano belle, divine, fatte l’una per l’altra. Essi rappresentavano quella cosa tanto sublime e tanto rara quaggiù: l’unione di due esseri che realmente devono essere riuniti; l’amore nella sua perfezione. Poichè è impossibile non appaia chiaro a chiunque abbia molto pensato, che l’amore su questa terra è una eccezione. Negare l’amore è la più assurda bestemmia; pretendere che tutti lo sentano è diminuirlo e non comprenderlo. Moltissime vite son prive d’amore (naturalmente si prende qui la parola nel suo significato alto e completo), altre non ne conoscono che dei momenti fuggevoli, dei tocchi per così dire. Pochissimi lo sentono davvero in tutta la sua sublime pienezza; quelli amano per sempre. Tra questi fortunati, i nostri due erano fortunatissimi. Appartenevano alla classe privilegiata, e s’erano trovati. Quanti sarebbero capaci d’amare se s’incontrassero! Inoltre, il loro sogno s’era fatto reale in tutta la sua pienezza. Com’era ciò accaduto? Saremmo tanto imbarazzati a rispondere, quanto il vecchio Pietro. O non v’erano mai stati ostacoli fra di essi, o li avevano infranti; ora nulla li poteva dividere. Come uscivano essi da una società tanto malvagia e ammalata, irrequieta e falsa? Certo essi ne sorgevano, come talvolta tra le pietre d’un edificio solenne e senza poesia sboccia un fiore involontario, profumato. Ma scorre molto tempo prima che una ruvida mano lo venga a strappare? Sembrava non travedessero nemmeno la possibilità d’alcun pericolo. Le ore, i giorni passavano tranquilli e sublimi; senza che la loro serenità venisse mai meno. Parevano gli abitatori naturali di quel luogo, sorti d’in tra l’ombre del bosco, creazione spontanea, vivente emanazione di quella solitudine. Non si rammentavano certo d’esservi giunti poco prima, non ideavano di dover partire; quel loro soggiorno non aveva quasi avuto principio, non poteva certo aver fine. L’amore aveva come consacrato quel sito; quella profonda quiete aveva reso inaccessibile agli altri la loro felicità. Essi rappresentavano qualcosa di sovrumano; erano sotto una protezione suprema, e nulla di terreno poteva riuscir loro pauroso. E il vecchio Pietro, dopo la sua lunga vita monotona, si scaldava al sole di quell’amore. Istintivamente, d’improvviso, egli aveva compreso tutta la poesia che quei due emanavano; e stava assorto dinanzi a loro in continua contemplazione. Sul principio aveva talvolta sentito per essi delle strane, inesplicabili malinconie; ma ora erano sparite, non temeva più, tanto la serenità che spandevano d’intorno era contagiosa. V Una mattina il cielo si annuvolò. Pietro si sentiva mesto e se ne stava sul terrazzo, contemplando al solito i due giovanetti che venivano dal fondo del parco. Non gli erano mai sembrati così belli; s’avanzavano lentamente, con molti fiori di vivacissimi colori tra le mani. Un raggio di sole che squarciava due nuvoloni quasi neri, cadeva su di loro ad illuminarli. La fanciulla parlava ed il giovane ascoltava, guardandola. Quando furono giunti al palazzo dalla parte opposta a quella dov’era Pietro, si soffermarono un istante, poi salirono i gradini, ed entrarono. La malinconia del vecchio s’aumentò non vedendoli più ricomparire. Passò più d’un’ora senza che egli si togliesse dalla sua immobilità. Poi fu scosso da un rumore indistinto che gli colpì debolmente l’orecchio, ed un istante dopo vide due uomini in fondo al prato, due sconosciuti, che sembravano riccamente vestiti, e gesticolavano con molta vivacità. Questo spettacolo insolito lo turbò. Vide i due dopo un istante internarsi nel folto del parco. S’alzò e più presto che potè, si pose in cammino per raggiungerli, pigliando una scorciatoia. Girò un bel pezzo senza poterli incontrare; poi, quando meno se l’aspettava, se li vide dinanzi, attraverso ai rami d’un cespuglio che lo nascondevano agli occhi loro. S’accorse allora che non portavano dei ricchi costumi, come gli era sembrato in distanza, ma delle livree gallonate. Parlavano a voce abbastanza alta perchè, malgrado la sordità, potesse udire i loro discorsi: — Ah, caro mio, quando ci penso ne rido ancora! gli parve che l’uno dicesse. — Svignarsela il giorno stesso delle nozze e nella carrozza del padrone? l’altro rispose. — Dello sposo, soggiunse il primo. Pietro si sentì un freddo al cuore. — La più bella poi è d’esser venuti qui. — Quello sarebbe proprio.... (qui alcune parole a sommessa voce). Ma credi che siano qui? — Ne son certo. — Se si trovano, guai a loro! Il vecchio non volle udirne di più; pallido, tremante, corse verso casa. Non cercheremo di spiegare i pensieri che lo travagliarono in quel tragitto. Il cuore gli batteva forte, le labbra tremolanti balbettavano parole incoerenti. Tutte le sue paure s’avveravano; si presentavano dinanzi agli occhi — terribili. Salì frettoloso gli scaglioni del terrazzo, per correre ad avvisarli del pericolo. Traversò due grandi sale; alla terza s’arrestò di botto e sentì le ginocchia piegare sotto il peso dell’emozione. Tre altri uomini — signori questi — erano nella sala. Appena lo videro, uno di essi, un gentiluomo piccolo, grosso, tarchiato, con due occhietti cattivi, s’avanzò verso di lui. — Vecchio! egli disse, voi siete un servitore della casa? Di natura umile, timida, abituata all’obbedienza, Pietro non era mai stato coraggioso. Eppure, d’improvviso, si rinfrancò, non tremò più, guardò in faccia a colui che gli parlava e rispose senza esitare: — Sì, signore. Ho servito i principi d’Ostellio da cinquanta anni. Vi sono delle nature che in certi momenti supremi cambiano ad un tratto. Pietro era di queste. Chi lo rinfrancò? — L’idea stessa dell’imminenza del pericolo che sovrastava a quelle due teste adorate, di quel pericolo ancora ignoto e tremendo, che egli non comprendeva, ma che lo atterriva, fece a un tratto di quel vecchio intimidito dalla solitudine, un uomo risoluto. Quando aveva visto quei tre nella sala, aveva sentito d’esser giunto troppo tardi; ora gli pareva di poterli ancora salvare. — Giurate di rispondere la verità, continuò lo sconosciuto. — Lo giuro. — Avete ospitato in questa villa un giovanetto ed una fanciulla? — No, non li ho nemmeno visti. — Era forse la prima volta che Pietro mentiva. — Badate che io sono mandato dal vostro padrone; rispondendo a me, è come se rispondeste a lui. Pietro fu un po’ scosso da queste parole. ..... Non avete dunque ricoverato nessuno? — Nessuno, signore. Vi fu una pausa. Poi uno degli altri soggiunse: — Vedremo se avete detto la verità. — E vôlto agli altri: — È meglio assicurarci coi nostri occhi. Venite. Uscirono dalla sala dalla stessa parte d’onde Pietro era venuto. Appena fu solo egli precipitò dall’altra, salì una scaletta segreta e si trovò nell’ala sinistra del palazzo, all’uscio dell’appartamento dei due amanti, mentre gli altri giravano dal lato opposto della villa. Bussò, nessuno rispose. Gridò sommessamente: — Aprite, aprite per carità! — Bussò di nuovo; — invano. Goccie fredde di sudore gl’inumidivano la fronte canuta. Picchiò convulso, delirante; scosse la porta; nessuna risposta. Allora quel vecchio fu preso dalla disperazione. Proruppe in un profluvio di parole incoerenti; era una preghiera, eloquente nel suo fervore, disordinata e strana.... S’inginocchiò dinanzi a quell’uscio, lo afferrò con rabbia, tentò di scuoterlo piangendo, ma tutto inutilmente. Eppure egli era certo ch’essi erano in quella camera; prima perchè li aveva visti dirigersi per quella parte e non erano altrove, poi perchè l’uscio era chiuso di dentro. Cominciò a gridare; annunciò loro ch’erano perseguitati, che bisognava fuggire, li supplicò di aprire, di aver pietà di lui, di loro stessi; disse che il tempo stringeva, che s’udivano i passi dei loro nemici, che fra un minuto non si sarebbe più in tempo.... E, pregando con la facondia della passione, singhiozzava. Ma l’uscio rimaneva inesorabilmente chiuso. I passi s’avvicinarono, una porta si aprì e cinque o sei persone entrarono. Cosa incredibile! Pietro riprese ancora coraggio, intese che bisognava dissimulare, ed ebbe la forza di nascondere il terribile turbamento. — Non s’è trovato nessuno, disse uno che fin là non aveva parlato. Non ci rimane più che entrare lì. Apri quell’uscio. — È inutile, rispose Pietro. Non posso, non ho la chiave; è smarrita. È una stanza che serve da ripostiglio. Qui un nuovo personaggio entrò in scena; era un uomo alto, imperioso, dai capelli neri, dal viso abbronzito, dall’espressione cinica e dura. — Andiamo, Pietro, non far sciocchezze. Non mi riconosci? Apri quell’uscio. Il vecchio trasalì e spalancò gli occhi; era il suo padrone, il principe d’Ostellio, che da tanto tempo non aveva visto. Come lo aveva desiderato! Quanto aveva sperato di vederlo! Se fosse giunto qualche tempo prima, quando era solo nella villa, come sarebbe stato felice, felice d’una gioia indescrivibile! Come gli sarebbe caduto ai piedi al più piccolo cenno, come gli avrebbe baciate le mani! Ora non si mosse. V’era qualcuno ch’egli amava assai più del suo padrone. Sentiva una strana emozione e nel suo vecchio cuore uno straordinario sussulto. Involontariamente, gli occhi gli si empirono di lagrime. Ma la lotta fu breve, il nuovo amore fu più forte dell’antico. Egli balbettò, interrompendosi per l’emozione: — La riverisco, Eccellenza. Mi perdoni.... non posso aprire... la chiave non c’è.... è inutile... non c’è nessuno... La stanza è vuota... Mi scusi.... — Che hai, mio buon Pietro, perchè sei tanto turbato? Hai perduta la chiave? — Ebbene, signori, animo, abbattiamo quest’uscio. E s’avanzarono. Il vecchio aveva perso la testa. Un delirio lo colse. Quei due ch’egli amava alla follìa, se li vide dinanzi agli occhi, come in una visione. Bisognava salvarli! Questi non dovevano entrare! — Si vedeva davanti il suo padrone tanto rispettato una volta, ed ora sentiva d’improvviso d’odiarlo! Non pensò alla inutilità d’ogni suo sforzo. Si piantò fermo contro l’uscio, non più curvato, non più umile. Il suo occhio brillava, il suo corpo era dritto come quello d’un giovane, i suoi pugni erano stretti alla difesa. Tutti si soffermarono. Ma l’esitazione non durò che un istante. Due s’avanzarono, e lo scartarono d’un colpo. Poi tutti appoggiarono le spalle contro l’uscio, che con un forte rumore cedette e rovinò. Pietro cadde. Il principe entrò per il primo. La stanza era vuota. Non v’era nessuno. Erano scomparsi. Dalle finestre entravano i raggi del sole e l’olezzo dei fiori. Una calma da eden regnava là dentro. Un indistinto, penetrante profumo riempiva la camera. Qualche passero addomesticato era entrato, e se ne stava rannicchiato tra le cortine del letto. Quella stanza appariva allegra, festosa, quasi ironica. Era deserta; ma una immensa gioia v’era sparsa — accumulata. VI La realtà era giunta per spezzare l’incanto di quella poesia. Prima non v’era che un semplice poema; poi, d’improvviso, il dramma aveva fatto irruzione. — Ma, al presentarsi della lotta, quei due che rappresentavano l’ideale, non s’erano vôlti a far faccia, non se n’erano curati — erano semplicemente sfumati. Erano scomparsi in pieno giorno, nello stesso modo che le visioni dorate cominciano al crepuscolo e spariscono all’alba. Di quei due — così belli e felici — non poteva essere altrimenti. Essi, così sublimemente, isolati, all’apparire del dramma, non potevano che dissolversi. Dov’erano andati? V’è forse qualche rosea regione sconosciuta, confinante con la terra, dove avevano trovato rifugio; oppure s’erano confusi con la natura, erano diventati parte di quel fulgido sito, di cui prima sembravano una emanazione? S’erano forse compenetrati con gli alberi, coi cespugli e con gli arrampicanti della villa? V’era forse qualcosa d’essi nell’olezzo dei fiori, nell’ondeggiare dell’erba, nel mormorare del vento tra le frondi?.... Non lasciamoci trascinare dalla fantasia. La fine inesplicabile del fatto che abbiamo narrato rimase un mistero per tutti. Molti rinunciarono a comprenderlo, altri ne trovarono la spiegazione in quel lago profondo ed opaco, silenzioso e strano, e che certo non poteva lasciare indovinare i segreti che celava; altri invece sostennero che i due amanti erano fuggiti in qualche modo. Ma la leggenda popolare fu informata a idee sovranaturali. La villa d’Ostellio acquistò fama d’essere fatata — e a nessuno si può far credere che i due amanti non vi abitino ancora. Per i paesani, essi s’aggirano sempre, talvolta invisibili, tal altra indistintamente travisti, per gli ombrosi viali e i boschetti reconditi. È una storia che i popolani raccontano volontieri, abbassando la voce e guardandosi d’intorno, e alla quale credono fermamente e crederanno sempre. Molti anni sono ora passati; il vecchio Pietro dorme da molto tempo il suo ultimo sonno, la famiglia d’Ostellio s’è estinta, la villa è del tutto abbandonata; più nessuno vi dimora e non si sa quasi a chi appartenga. I cancelli corrosi s’aprono sotto la più lieve pressione, ma pochissimi osano penetrarvi. Quelli che vi si arrischiano sono reputati ésprits forts, ed i forestieri sono costretti a dare grosse mancie per trovarvi un cicerone. Eppure, entrando, non si scorge nulla di pauroso. Nessuno vi vide mai fantasma di sorta. Il paese ha anzi acquistato in poesia. Il disordine nella natura è sublime, e tale da innamorare un artista e far sognare chiunque. La vegetazione è più che mai lussureggiante e vivace. In certi punti l’ombra è impenetrabile. Le statue conservano la loro immobilità serena, ma sono ora del tutto coperte di muschio. Mille piante parassite abbracciano e soffocano i tronchi secolari. I prati si confondono coi viali; e questi a loro volta si perdono nel nulla. Qua e là dei tronchi d’alberi morti intercettano il cammino. Il bosco s’è fatto inaccessibile, ma gli augelli vi cantano sempre. Il palazzo è deserto, alcune finestre aperte, i vetri rotti. Dovunque è il decadimento, ma l’ideale traspira da ogni parte. Nessun passo turba il silenzio delle vaste sale. Nell’appartamento d’angolo, niuno ha più usato penetrare. In primavera un immenso epitalamio riempie quella splendida solitudine. Una indescrivibile gioia è sparsa dovunque, un gaudio sommesso pieno di misteriosa voluttà. I profumi sono dolcissimi. Chi vi penetra non è atterrito, ma incantato. E non vi può essere un pericolo in quella seduzione? Non s’arrischia forse di essere inebriati, attratti, addormentati da quel blando veleno d’amore sparso dovunque? S’è sicuri di poterne uscire? — Quelli che vi andarono, affermano d’aver visto in certi punti apparire delle forme vaghe, e aver udito qua e là delle risa sommesse, delle parole interrotte e un fruscìo di vesti. Intorno a quel lago, sempre più mistico e strano, spira un’aura voluttuosa che illanguidisce e dà un morboso piacere. E là, più che altrove, s’odono le risa e un mormorìo leggiero e talvolta un indescrivibile rumore, come uno scoccar di baci.... FINE