Giacomo Leopardi CANTI I. ALL’ITALIA O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio, Formosissima donna! Io chiedo al cielo E al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, Che di catene ha carche ambe le braccia; Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange. Piangi, che ben hai donde, Italia mia, Le genti a vincer nata E nella fausta sorte e nella ria. Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive, Mai non potrebbe il pianto Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno; Che fosti donna, or sei povera ancella. Chi di te parla o scrive, Che, rimembrando il tuo passato vanto, Non dica: già fu grande, or non è quella? Perché, perché? dov’è la forza antica, Dove l’armi e il valore e la costanza? Chi ti discinse il brando? Chi ti tradì? qual arte o qual fatica O qual tanta possanza Valse a spogliarti il manto e l’auree bende? Come cadesti o quando Da tanta altezza in così basso loco? Nessun pugna per te? non ti difende Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo Combatterò, procomberò sol io. Dammi, o ciel, che sia foco Agl’italici petti il sangue mio. Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi E di carri e di voci e di timballi: In estranie contrade Pugnano i tuoi figliuoli. Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi, Un fluttuar di fanti e di cavalli, E fumo e polve, e luccicar di spade Come tra nebbia lampi. Né ti conforti? e i tremebondi lumi Piegar non soffri al dubitoso evento? A che pugna in quei campi L’itala gioventude? O numi, o numi: Pugnan per altra terra itali acciari. Oh misero colui che in guerra è spento, Non per li patrii lidi e per la pia Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui Per altra gente, e non può dir morendo: Alma terra natia, La vita che mi desti ecco ti rendo. Oh venturose e care e benedette L’antiche età, che a morte Per la patria correan le genti a squadre; E voi sempre onorate e gloriose, O tessaliche strette, Dove la Persia e il fato assai men forte Fu di poch’alme franche e generose! Io credo che le piante e i sassi e l’onda E le montagne vostre al passeggere Con indistinta voce Narrin siccome tutta quella sponda Coprìr le invitte schiere De’ corpi ch’alla Grecia eran devoti. Allor, vile e feroce, Serse per l’Ellesponto si fuggia, Fatto ludibrio agli ultimi nepoti; E sul colle d’Antela, ove morendo Si sottrasse da morte il santo stuolo, Simonide salia, Guardando l’etra e la marina e il suolo. E di lacrime sparso ambe le guance, E il petto ansante, e vacillante il piede, Toglieasi in man la lira: Beatissimi voi, Ch’offriste il petto alle nemiche lance Per amor di costei ch’al Sol vi diede; Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira. Nell’armi e ne’ perigli Qual tanto amor le giovanette menti, Qual nell’acerbo fato amor vi trasse? Come sì lieta, o figli, L’ora estrema vi parve, onde ridenti Correste al passo lacrimoso e duro? Parea ch’a danza e non a morte andasse Ciascun de’ vostri, o a splendido convito: Ma v’attendea lo scuro Tartaro, e l’onda morta; Né le spose vi foro o i figli accanto Quando su l’aspro lito Senza baci moriste e senza pianto. Ma non senza de’ Persi orrida pena Ed immortale angoscia. Come lion di tori entro una mandra Or salta a quello in tergo e sì gli scava Con le zanne la schiena, Or questo fianco addenta or quella coscia Tal fra le Perse torme infuriava L’ira de’ greci petti e la virtute. Ve’ cavalli supini e cavalieri; Vedi intralciare ai vinti La fuga i carri e le tende cadute E correr fra’ primieri Pallido e scapigliato esso tiranno; Ve’ come infusi e tinti Del barbarico sangue i greci eroi, Cagione ai Persi d’infinito affanno, A poco a poco vinti dalle piaghe, L’un sopra l’altro cade. Oh viva, oh viva: Beatissimi voi Mentre nel mondo si favelli o scriva. Prima divelte, in mar precipitando, Spente nell’imo strideran le stelle, Che la memoria e il vostro Amor trascorra o scemi. La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando Verran le madri ai parvoli le belle Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro, O benedetti, al suolo, E bacio questi sassi e queste zolle, Che fien lodate e chiare eternamente Dall’uno all’altro polo. Deh foss’io pur con voi qui sotto, e molle Fosse del sangue mio quest’alma terra. Che se il fato è diverso, e non consente Ch’io per la Grecia i moribondi lumi Chiuda prostrato in guerra, Così la vereconda Fama del vostro vate appo i futuri Possa, volendo i numi, Tanto durar quanto la vostra duri. II. SOPRA IL MONUMENTO DI DANTE CHE SI PREPARAVA IN FIRENZE Perché le nostre genti Pace sotto le bianche ali raccolga, Non fien da’ lacci sciolte Dell’antico sopor l’itale menti S’ai patrii esempi della prisca etade Questa terra fatal non si rivolga. O Italia, a cor ti stia Far ai passati onor; che d’altrettali Oggi vedove son le tue contrade, Né v’è chi d’onorar ti si convegna. Volgiti indietro, e guarda, o patria mia, Quella schiera infinita d’immortali, E piangi e di te stessa ti disdegna; Che senza sdegno omai la doglia è stolta: Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti, E ti punga una volta Pensier degli avi nostri e de’ nepoti. D’aria e d’ingegno e di parlar diverso Per lo toscano suol cercando gia L’ospite desioso Dove giaccia colui per lo cui verso Il meonio cantor non è più solo. Ed, oh vergogna! udia Che non che il cener freddo e l’ossa nude Giaccian esuli ancora Dopo il funereo dì sott’altro suolo, Ma non sorgea dentro a tue mura un sasso, Firenze, a quello per la cui virtude Tutto il mondo t’onora. Oh voi pietosi, onde sì tristo e basso Obbrobrio laverà nostro paese! Bell’opra hai tolta e di ch’amor ti rende, Schiera prode e cortese, Qualunque petto amor d’Italia accende. Amor d’Italia, o cari, Amor di questa misera vi sproni, Ver cui pietade è morta In ogni petto omai, perciò che amari Giorni dopo il seren dato n’ha il cielo. Spirti v’aggiunga e vostra opra coroni Misericordia, o figli, E duolo e sdegno di cotanto affanno Onde bagna costei le guance e il velo. Ma voi di quale ornar parola o canto Si debbe, a cui non pur cure o consigli, Ma dell’ingegno e della man daranno I sensi e le virtudi eterno vanto Oprate e mostre nella dolce impresa? Quali a voi note invio, sì che nel core, Sì che nell’alma accesa Nova favilla indurre abbian valore? Voi spirerà l’altissimo subbietto, Ed acri punte premeravvi al seno. Chi dirà l’onda e il turbo Del furor vostro e dell’immenso affetto? Chi pingerà l’attonito sembiante? Chi degli occhi il baleno? Qual può voce mortal celeste cosa Agguagliar figurando? Lunge sia, lunge alma profana. Oh quante Lacrime al nobil sasso Italia serba! Come cadrà? come dal tempo rosa Fia vostra gloria o quando? Voi, di ch’il nostro mal si disacerba, Sempre vivete, o care arti divine, Conforto a nostra sventurata gente, Fra l’itale ruine Gl’itali pregi a celebrare intente. Ecco voglioso anch’io Ad onorar nostra dolente madre Porto quel che mi lice, E mesco all’opra vostra il canto mio, Sedendo u’ vostro ferro i marmi avviva. O dell’etrusco metro inclito padre, Se di cosa terrena, Se di costei che tanto alto locasti Qualche novella ai vostri lidi arriva, io so ben che per te gioia non senti, Che saldi men che cera e men ch’arena, Verso la fama che di te lasciasti, Son bronzi e marmi; e dalle nostre menti Se mai cadesti ancor, s’unqua cadrai, Cresca, se crescer può, nostra sciaura, E in sempiterni guai Pianga tua stirpe a tutto il mondo oscura. Ma non per te; per questa ti rallegri Povera patria tua, s’unqua l’esempio Degli avi e de’ parenti Ponga ne’ figli sonnacchiosi ed egri Tanto valor che un tratto alzino il viso. Ahi, da che lungo scempio Vedi afflitta costei, che sì meschina Te salutava allora Che di novo salisti al paradiso! Oggi ridotta sì che a quel che vedi, Fu fortunata allor donna e reina. Tal miseria l’accora Qual tu forse mirando a te non credi. Taccio gli altri nemici e l’altre doglie; Ma non la più recente e la più fera, Per cui presso alle soglie Vide la patria tua l’ultima sera. Beato te che il fato A viver non dannò fra tanto orrore; Che non vedesti in braccio L’itala moglie a barbaro soldato; Non predar, non guastar cittadi e colti L’asta inimica e il peregrin furore; Non degl’itali ingegni Tratte l’opre divine a miseranda Schiavitude oltre l’alpe, e non de’ folti Carri impedita la dolente via; Non gli aspri cenni ed i superbi regni; Non udisti gli oltraggi e la nefanda Voce di libertà che ne schernia Tra il suon delle catene e de’ flagelli. Chi non si duol? che non soffrimmo? intatto Che lasciaron quei felli? Qual tempio, quale altare o qual misfatto? Perché venimmo a sì perversi tempi? Perché il nascer ne desti o perché prima Non ne desti il morire, Acerbo fato? onde a stranieri ed empi Nostra patria vedendo ancella e schiava, E da mordace lima Roder la sua virtù, di null’aita E di nullo conforto Lo spietato dolor che la stracciava Ammollir ne fu dato in parte alcuna. Ahi non il sangue nostro e non la vita Avesti, o cara; e morto Io non son per la tua cruda fortuna. Qui l’ira al cor, qui la pietade abbonda: Pugnò, cadde gran parte anche di noi: Ma per la moribonda Italia no; per li tiranni suoi. Padre, se non ti sdegni, Mutato sei da quel che fosti in terra. Morian per le rutene Squallide piagge, ahi d’altra morte degni, Gl’itali prodi; e lor fea l’aere e il cielo E gli uomini e le belve immensa guerra. Cadeano a squadre a squadre Semivestiti, maceri e cruenti, Ed era letto agli egri corpi il gelo. Allor, quando traean l’ultime pene, Membrando questa desiata madre, Diceano: oh non le nubi e non i venti, Ma ne spegnesse il ferro, e per tuo bene, O patria nostra. Ecco da te rimoti, Quando più bella a noi l’età sorride, A tutto il mondo ignoti, Moriam per quella gente che t’uccide. Di lor querela il boreal deserto E conscie fur le sibilanti selve. Così vennero al passo, E i negletti cadaveri all’aperto Su per quello di neve orrido mare Dilaceràr le belve E sarà il nome degli egregi e forti Pari mai sempre ed uno Con quel de’ tardi e vili. Anime care, Bench’infinita sia vostra sciagura, Datevi pace; e questo vi conforti Che conforto nessuno Avrete in questa o nell’età futura. In seno al vostro smisurato affanno Posate, o di costei veraci figli, Al cui supremo danno Il vostro solo è tal che s’assomigli. Di voi già non si lagna La patria vostra, ma di chi vi spinse A pugnar contra lei, Sì ch’ella sempre amaramente piagna E il suo col vostro lacrimar confonda. Oh di costei ch’ogni altra gloria vinse Pietà nascesse in core A tal de’ suoi ch’affaticata e lenta Di sì buia vorago e sì profonda La ritraesse! O glorioso spirto, Dimmi: d’Italia tua morto è l’amore? Di’: quella fiamma che t’accese, è spenta? Di’: né più mai rinverdirà quel mirto Ch’alleggiò per gran tempo il nostro male? Nostre corone al suol fien tutte sparte? Né sorgerà mai tale Che ti rassembri in qualsivoglia parte? In eterno perimmo? e il nostro scorno Non ha verun confine? Io mentre viva andrò sclamando intorno, Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio; Mira queste ruine E le carte e le tele e i marmi e i templi; Pensa qual terra premi; e se destarti Non può la luce di cotanti esempli, Che stai? levati e parti. Non si conviene a sì corrotta usanza Questa d’animi eccelsi altrice e scola: Se di codardi è stanza, Meglio l’è rimaner vedova e sola. III. AD ANGELO MAI QUAND’EBBE TROVATO I LIBRI DI CICERONE “DELLA REPUBBLICA” Italo ardito, a che giammai non posi Di svegliar dalle tombe I nostri padri? ed a parlar gli meni A questo secol morto, al quale incombe Tanta nebbia di tedio? E come or vieni Sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente, Voce antica de’ nostri, Muta sì lunga etade? e perché tanti Risorgimenti? In un balen feconde Venner le carte; alla stagion presente I polverosi chiostri Serbaro occulti i generosi e santi Detti degli avi. E che valor t’infonde, Italo egregio, il fato? O con l’umano Valor forse contrasta il fato invano? Certo senza de’ numi alto consiglio Non è ch’ove più lento E grave è il nostro disperato obblio, A percoter ne rieda ogni momento Novo grido de’ padri. Ancora è pio Dunque all’Italia il cielo; anco si cura Di noi qualche immortale: Ch’essendo questa o nessun’altra poi L’ora da ripor mano alla virtude Rugginosa dell’itala natura, Veggiam che tanto e tale È il clamor de’ sepolti, e che gli eroi Dimenticati il suol quasi dischiude, A ricercar s’a questa età sì tarda Anco ti giovi, o patria, esser codarda. Di noi serbate, o gloriosi, ancora Qualche speranza? in tutto Non siam periti? A voi forse il futuro Conoscer non si toglie. Io son distrutto Né schermo alcuno ho dal dolor, che scuro M’è l’avvenire, e tutto quanto io scerno È tal che sogno e fola Fa parer la speranza. Anime prodi, Ai tetti vostri inonorata, immonda Plebe successe; al vostro sangue è scherno E d’opra e di parola Ogni valor; di vostre eterne lodi Né rossor più né invidia; ozio circonda I monumenti vostri; e di viltade Siam fatti esempio alla futura etade. Bennato ingegno, or quando altrui non cale De’ nostri alti parenti, A te ne caglia, a te cui fato aspira Benigno sì che per tua man presenti Paion que’ giorni allor che dalla dira Obblivione antica ergean la chioma, Con gli studi sepolti, I vetusti divini, a cui natura Parlò senza svelarsi, onde i riposi Magnanimi allegràr d’Atene e Roma. Oh tempi, oh tempi avvolti In sonno eterno! Allora anco immatura La ruina d’Italia, anco sdegnosi Eravam d’ozio turpe, e l’aura a volo Più faville rapia da questo suolo. Eran calde le tue ceneri sante, Non domito nemico Della fortuna, al cui sdegno e dolore Fu più l’averno che la terra amico. L’averno: e qual non è parte migliore Di questa nostra? E le tue dolci corde Susurravano ancora Dal tocco di tua destra, o sfortunato Amante. Ahi dal dolor comincia e nasce L’italo canto. E pur men grava e morde Il mal che n’addolora Del tedio che n’affoga. Oh te beato, A cui fu vita il pianto! A noi le fasce Cinse il fastidio; a noi presso la culla Immoto siede, e su la tomba, il nulla. Ma tua vita era allor con gli astri e il mare, Ligure ardita prole, Quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti Cui strider l’onde all’attuffar del sole Parve udir su la sera, agl’infiniti Flutti commesso, ritrovasti il raggio Del Sol caduto, e il giorno Che nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo; E rotto di natura ogni contrasto, Ignota immensa terra al tuo viaggio Fu gloria, e del ritorno Ai rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo Non cresce, anzi si scema, e assai più vasto L’etra sonante e l’alma terra e il mare Al fanciullin, che non al saggio, appare. Nostri sogni leggiadri ove son giti Dell’ignoto ricetto D’ignoti abitatori, o del diurno Degli astri albergo, e del rimoto letto Della giovane Aurora, e del notturno Occulto sonno del maggior pianeta? Ecco svaniro a un punto, E figurato è il mondo in breve carta; Ecco tutto è simile, e discoprendo, Solo il nulla s’accresce. A noi ti vieta Il vero appena è giunto, O caro immaginar; da te s’apparta Nostra mente in eterno; allo stupendo Poter tuo primo ne sottraggon gli anni; E il conforto perì de’ nostri affanni. Nascevi ai dolci sogni intanto, e il primo Sole splendeati in vista, Cantor vago dell’arme e degli amori, Che in età della nostra assai men trista Empièr la vita di felici errori: Nova speme d’Italia. O torri, o celle, O donne, o cavalieri, O giardini, o palagi! a voi pensando, In mille vane amenità si perde La mente mia. Di vanità, di belle Fole e strani pensieri Si componea l’umana vita: in bando Li cacciammo: or che resta? or poi che il verde È spogliato alle cose? Il certo e solo Veder che tutto è vano altro che il duolo. O Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa Tua mente allora, il pianto A te, non altro, preparava il cielo. Oh misero Torquato! il dolce canto Non valse a consolarti o a sciorre il gelo Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda, Cinta l’odio e l’immondo Livor privato e de’ tiranni. Amore, Amor, di nostra vita ultimo inganno, T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti parve il nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Al tardo onore Non sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno, L’ora estrema ti fu. Morte domanda Chi nostro mal conobbe, e non ghirlanda. Torna torna fra noi, sorgi dal muto E sconsolato avello, Se d’angoscia sei vago, o miserando Esemplo di sciagura. Assai da quello Che ti parve sì mesto e sì nefando, È peggiorato il viver nostro. O caro, Chi ti compiangeria, Se, fuor che di se stesso, altri non cura? Chi stolto non direbbe il tuo mortale Affanno anche oggidì se il grande e il raro Ha nome di follia; Né livor più, ma ben di lui più dura La noncuranza avviene ai sommi? o quale, Se più de’ carmi, il computar s’ascolta, Ti appresterebbe il lauro un’altra volta? Da te fino a quest’ora uom non è sorto, O sventurato ingegno, Pari all’italo nome, altro ch’un solo, Solo di sua codarda etate indegno Allobrogo feroce, a cui dal polo Maschia virtù, non già da questa mia Stanca ed arida terra, Venne nel petto; onde privato, inerme, (Memorando ardimento) in su la scena Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia Questa misera guerra E questo vano campo all’ire inferme Del mondo. Ei primo e sol dentro all’arena Scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto. Disdegnando e fremendo, immacolata Trasse la vita intera, E morte lo scampò dal veder peggio. Vittorio mio, questa per te non era Età né suolo. Altri anni ed altro seggio Conviene agli alti ingegni. Or di riposo Paghi viviamo, e scorti Da mediocrità: sceso il sapiente E salita è la turba a un sol confine, Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso, Segui; risveglia i morti, Poi che dormono i vivi; arma le spente Lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine Questo secol di fango o vita agogni E sorga ad atti illustri, o si vergogni. IV. NELLE NOZZE DELLA SORELLA PAOLINA Poi che del patrio nido I silenzi lasciando, e le beate Larve e l’antico error, celeste dono, Ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido, Te nella polve della vita e il suono Tragge il destin; l’obbrobriosa etate Che il duro cielo a noi prescrisse impara, Sorella mia, che in gravi E luttuosi tempi L’infelice famiglia all’infelice Italia accrescerai. Di forti esempi Al tuo sangue provvedi. Aure soavi L’empio fato interdice All’umana virtude, Né pura in gracil petto alma si chiude. O miseri o codardi Figliuoli avrai. Miseri eleggi. Immenso Tra fortuna e valor dissidio pose Il corrotto costume. Ahi troppo tardi, E nella sera dell’umane cose, Acquista oggi chi nasce il moto e il senso. Al ciel ne caglia: a te nel petto sieda Questa sovr’ogni cura, Che di fortuna amici Non crescano i tuoi figli, e non di vile Timor gioco o di speme: onde felici Sarete detti nell’età futura: Poiché (nefando stile, Di schiatta ignava e finta) Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta. Donne, da voi non poco La patria aspetta; e non in danno e scorno Dell’umana progenie al dolce raggio Delle pupille vostre il ferro e il foco Domar fu dato. A senno vostro il saggio E il forte adopra e pensa; e quanto il giorno Col divo carro accerchia, a voi s’inchina. Ragion di nostra etate Io chieggo a voi. La santa Fiamma di gioventù dunque si spegne Per vostra mano? attenuata e franta Da voi nostra natura? e le assonnate Menti, e le voglie indegne, E di nervi e di polpe Scemo il valor natio, son vostre colpe? Ad atti egregi è sprone Amor, chi ben l’estima, e d’alto affetto Maestra è la beltà. D’amor digiuna Siede l’alma di quello a cui nel petto Non si rallegra il cor quando a tenzone Scendono i venti, e quando nembi aduna L’olimpo, e fiede le montagne il rombo Della procella. O spose, O verginette, a voi Chi de’ perigli è schivo, e quei che indegno È della patria e che sue brame e suoi Volgari affetti in basso loco pose, Odio mova e disdegno; Se nel femmineo core D’uomini ardea, non di fanciulle, amore. Madri d’imbelle prole V’incresca esser nomate. I danni e il pianto Della virtude a tollerar s’avvezzi La stirpe vostra, e quel che pregia e cole La vergognosa età, condanni e sprezzi; Cresca alla patria, e gli alti gesti, e quanto Agli avi suoi deggia la terra impari. Qual de’ vetusti eroi Tra le memorie e il grido Crescean di Sparta i figli al greco nome; Finché la sposa giovanetta il fido Brando cingeva al caro lato, e poi Spandea le negre chiome Sul corpo esangue e nudo Quando e’ reddia nel conservato scudo. Virginia, a te la molle Gota molcea con le celesti dita Beltade onnipossente, e degli alteri Disdegni tuoi si sconsolava il folle Signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri Nella stagion ch’ai dolci sogni invita, Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe Il bianchissimo petto, E all’Erebo scendesti Volonterosa. A me disfiori e scioglia Vecchiezza i membri, o padre; a me s’appresti, Dicea, la tomba, anzi che l’empio letto Del tiranno m’accoglia. E se pur vita e lena Roma avrà dal mio sangue, e tu mi svena. O generosa, ancora Che più bello a’ tuoi dì splendesse il sole Ch’oggi non fa, pur consolata e paga È quella tomba cui di pianto onora L’alma terra nativa. Ecco alla vaga Tua spoglia intorno la romulea prole Di nova ira sfavilla. Ecco di polve Lorda il tiranno i crini; E libertade avvampa Gli obbliviosi petti; e nella doma Terra il marte latino arduo s’accampa Dal buio polo ai torridi confini. Così l’eterna Roma In duri ozi sepolta Femmineo fato avviva un’altra volta. V. A UN VINCITORE NEL PALLONE Di gloria il viso e la gioconda voce, Garzon bennato, apprendi, E quanto al femminile ozio sovrasti La sudata virtude. Attendi attendi, Magnanimo campion (s’alla veloce Piena degli anni il tuo valor contrasti La spoglia di tuo nome), attendi e il core Movi ad alto desio. Te l’echeggiante Arena e il circo, e te fremendo appella Ai fatti illustri il popolar favore; Te rigoglioso dell’età novella Oggi la patria cara Gli antichi esempi a rinnovar prepara. Del barbarico sangue in Maratona Non colorò la destra Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo, Che stupido mirò l’ardua palestra, Né la palma beata e la corona D’emula brama il punse. E nell’Alfeo Forse le chiome polverose e i fianchi Delle cavalle vincitrici asterse Tal che le greche insegne e il greco acciaro Guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi Nelle pallide torme; onde sonaro Di sconsolato grido L’alto sen dell’Eufrate e il servo lido. Vano dirai quel che disserra e scote Della virtù nativa Le riposte faville? e che del fioco Spirto vital negli egri petti avviva Il caduco fervor? Le meste rote Da poi che Febo instiga, altro che gioco Son l’opre de’ mortali? ed è men vano Della menzogna il vero? A noi di lieti Inganni e di felici ombre soccorse Natura stessa: e là dove l’insano Costume ai forti errori esca non porse, Negli ozi oscuri e nudi Mutò la gente i gloriosi studi. Tempo forse verrà ch’alle ruine Delle italiche moli Insultino gli armenti, e che l’aratro Sentano i sette colli; e pochi Soli Forse fien volti, e le città latine Abiterà la cauta volpe, e l’atro Bosco mormorerà fra le alte mura; Se la funesta delle patrie cose Obblivion dalle perverse menti Non isgombrano i fati, e la matura Clade non torce dalle abbiette genti Il ciel fatto cortese Dal rimembrar delle passate imprese. Alla patria infelice, o buon garzone, Sopravviver ti doglia. Chiaro per lei stato saresti allora Che del serto fulgea, di ch’ella è spoglia, Nostra colpa e fatal. Passò stagione; Che nullo di tal madre oggi s’onora: Ma per te stesso al polo ergi la mente. Nostra vita a che val? solo a spregiarla: Beata allor che ne’ perigli avvolta, Se stessa obblia, né delle putri e lente Ore il danno misura e il flutto ascolta; Beata allor che il piede Spinto al varco leteo, più grata riede. VI. BRUTO MINORE Poi che divelta, nella tracia polve Giacque ruina immensa L’italica virtute, onde alle valli D’Esperia verde, e al tiberino lido, Il calpestio de’ barbari cavalli Prepara il fato, e dalle selve ignude Cui l’Orsa algida preme, A spezzar le romane inclite mura Chiama i gotici brandi; Sudato, e molle di fraterno sangue, Bruto per l’atra notte in erma sede, Fermo già di morir, gl’inesorandi Numi e l’averno accusa, E di feroci note Invan la sonnolenta aura percote. Stolta virtù, le cave nebbie, i campi Dell’inquiete larve Son le tue scole, e ti si volge a tergo Il pentimento. A voi, marmorei numi, (Se numi avete in Flegetonte albergo O su le nubi) a voi ludibrio e scherno È la prole infelice A cui templi chiedeste, e frodolenta Legge al mortale insulta. Dunque tanto i celesti odii commove La terrena pietà? dunque degli empi Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta Per l’aere il nembo, e quando Il tuon rapido spingi, Ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi? Preme il destino invitto e la ferrata Necessità gl’infermi Schiavi di morte: e se a cessar non vale Gli oltraggi lor, de’ necessarii danni Si consola il plebeo. Men duro è il male Che riparo non ha? dolor non sente Chi di speranza è nudo? Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Teco il prode guerreggia, Di cedere inesperto; e la tiranna Tua destra, allor che vincitrice il grava, Indomito scrollando si pompeggia, Quando nell’alto lato L’amaro ferro intride, E maligno alle nere ombre sorride. Spiace agli Dei chi violento irrompe Nel Tartaro. Non fora Tanto valor ne’ molli eterni petti. Forse i travagli nostri, e forse il cielo I casi acerbi e gl’infelici affetti Giocondo agli ozi suoi spettacol pose? Non fra sciagure e colpe, Ma libera ne’ boschi e pura etade Natura a noi prescrisse, Reina un tempo e Diva. Or poi ch’a terra Sparse i regni beati empio costume, E il viver macro ad altre leggi addisse; Quando gl’infausti giorni Virile alma ricusa, Riede natura, e il non suo dardo accusa? Di colpa ignare e de’ lor proprii danni Le fortunate belve Serena adduce al non previsto passo La tarda età. Ma se spezzar la fronte Ne’ rudi tronchi, o da montano sasso Dare al vento precipiti le membra, Lor suadesse affanno Al misero desio nulla contesa Legge arcana farebbe O tenebroso ingegno. A voi, fra quante Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte, Figli di Prometeo, la vita increbbe; A voi le morte ripe, Se il fato ignavo pende, Soli, o miseri, a voi Giove contende. E tu dal mar cui nostro sangue irriga, Candida luna, sorgi, E l’inquieta notte e la funesta All’ausonio valor campagna esplori. Cognati petti il vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle somme vette Roma antica ruina; Tu sì placida sei? Tu la nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti vedesti, e i memorandi allori; E tu su l’alpe l’immutato raggio Tacita verserai quando ne’ danni Del servo italo nome, Sotto barbaro piede Rintronerà quella solinga sede. Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e l’augello, Del consueto obblio gravido il petto, L’alta ruina ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del villanello industre, Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le balze Quella l’inferma plebe Agiterà delle minori belve. Oh casi! oh gener vano! abbietta parte Siam delle cose; e non le tinte glebe, Non gli ululati spechi Turbò nostra sciagura, Né scolorò le stelle umana cura. Non io d’Olimpo o di Cocito i sordi Regi, o la terra indegna, E non la notte moribondo appello; Non te, dell’atra morte ultimo raggio, Conscia futura età. Sdegnoso avello Placàr singulti, ornàr parole e doni Di vil caterva? In peggio Precipitano i tempi; e mal s’affida A putridi nepoti L’onor d’egregie menti e la suprema De’ miseri vendetta. A me dintorno Le penne il bruno augello avido roti; Prema la fera, e il nembo Tratti l’ignota spoglia; E l’aura il nome e la memoria accoglia. VII. ALLA PRIMAVERA O DELLE FAVOLE ANTICHE Perché i celesti danni Ristori il sole, e perché l’aure inferme Zefiro avvivi, onde fugata e sparta Delle nubi la grave ombra s’avvalla; Credano il petto inerme Gli augelli al vento, e la diurna luce Novo d’amor desio, nova speranza Ne’ penetrati boschi e fra le sciolte Pruine induca alle commosse belve; Forse alle stanche e nel dolor sepolte Umane menti riede La bella età, cui la sciagura e l’atra Face del ver consunse Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti Di febo i raggi al misero non sono In sempiterno? ed anco, Primavera odorata, inspiri e tenti Questo gelido cor, questo ch’amara Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara? Vivi tu, vivi, o santa Natura? vivi e il dissueto orecchio Della materna voce il suono accoglie? Già di candide ninfe i rivi albergo, Placido albergo e specchio Furo i liquidi fonti. Arcane danze D’immortal piede i ruinosi gioghi Scossero e l’ardue selve (oggi romito Nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre Meridiane incerte ed al fiorito Margo adducea de’ fiumi Le sitibonde agnelle, arguto carme Sonar d’agresti Pani Udì lungo le ripe; e tremar l’onda Vide, e stupì, che non palese al guardo La faretrata Diva Scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda Polve tergea della sanguigna caccia Il niveo lato e le verginee braccia. Vissero i fiori e l’erbe, Vissero i boschi un dì. Conscie le molli Aure, le nubi e la titania lampa Fur dell’umana gente, allor che ignuda Te per le piagge e i colli, Ciprigna luce, alla deserta notte Con gli occhi intenti il viator seguendo, Te compagna alla via, te de’ mortali Pensosa immaginò. Che se gl’impuri Cittadini consorzi e le fatali Ire fuggendo e l’onte, Gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime Selve remoto accolse, Viva fiamma agitar l’esangui vene, Spirar le foglie, e palpitar segreta Nel doloroso amplesso Dafne o la mesta Filli, o di Climene Pianger credè la sconsolata prole Quel che sommerse in Eridano il sole. Né dell’umano affanno, Rigide balze, i luttuosi accenti Voi negletti ferìr mentre le vostre Paurose latebre Eco solinga, Non vano error de’ venti, Ma di ninfa abitò misero spirto, Cui grave amor, cui duro fato escluse Delle tenere membra. Ella per grotte, Per nudi scogli e desolati alberghi, Le non ignote ambasce e l’alte e rotte Nostre querele al curvo Etra insegnava. E te d’umani eventi Disse la fama esperto, Musico augel che tra chiomato bosco Or vieni il rinascente anno cantando, E lamentar nell’alto Ozio de’ campi, all’aer muto e fosco, Antichi danni e scellerato scorno, E d’ira e di pietà pallido il giorno. Ma non cognato al nostro Il gener tuo; quelle tue varie note Dolor non forma, e te di colpa ignudo, Men caro assai la bruna valle asconde. Ahi ahi, poscia che vote Son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono Per l’atre nubi e le montagne errando, Gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro In freddo orror dissolve; e poi ch’estrano Il suol nativo, e di sua prole ignaro Le meste anime educa; Tu le cure infelici e i fati indegni Tu de’ mortali ascolta, Vaga natura, e la favilla antica Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi, E se de’ nostri affanni Cosa veruna in ciel, se nell’aprica Terra s’alberga o nell’equoreo seno, Pietosa no, ma spettatrice almeno. VIII. INNO AI PATRIARCHI O DE’ PRINCIPII DEL GENERE UMANO E voi de’ figli dolorosi il canto, Voi dell’umana prole incliti padri, Lodando ridirà; molto all’eterno Degli astri agitator più cari, e molto Di noi men lacrimabili nell’alma Luce prodotti. Immedicati affanni Al misero mortal, nascere al pianto, E dell’etereo lume assai più dolci Sortir l’opaca tomba e il fato estremo, Non la pietà, non la diritta impose Legge del cielo. E se di vostro antico Error che l’uman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura offerse, Grido antico ragiona, altre più dire Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno, E demenza maggior l’offeso Olimpo N’armaro incontra, e la negletta mano Dell’altrice natura; onde la viva Fiamma n’increbbe, e detestato il parto Fu del grembo materno, e violento Emerse il disperato Erebo in terra. Tu primo il giorno, e le purpuree faci Delle rotanti sfere, e la novella Prole de’ campi, o duce antico e padre Dell’umana famiglia, e tu l’errante Per li giovani prati aura contempli: Quando le rupi e le deserte valli Precipite l’alpina onda feria D’inudito fragor; quando gli ameni Futuri seggi di lodate genti E di cittadi romorose, ignota Pace regnava; e gl’inarati colli Solo e muto ascendea l’aprico raggio Di febo e l’aurea luna. Oh fortunata, Di colpe ignara e di lugubri eventi, Erma terrena sede! Oh quanto affanno Al gener tuo, padre infelice, e quale D’amarissimi casi ordine immenso Preparano i destini! Ecco di sangue Gli avari colti e di fraterno scempio Furor novello incesta, e le nefande Ali di morte il divo etere impara. Trepido, errante il fratricida, e l’ombre Solitarie fuggendo e la secreta Nelle profonde selve ira de’ venti, Primo i civili tetti, albergo e regno Alle macere cure, innalza; e primo Il disperato pentimento i ciechi Mortali egro, anelante, aduna e stringe Ne’ consorti ricetti: onde negata L’improba mano al curvo aratro, e vili Fur gli agresti sudori; ozio le soglie Scellerate occupò; ne’ corpi inerti Domo il vigor natio, languide, ignave Giacquer le menti; e servitù le imbelli Umane vite, ultimo danno, accolse. E tu dall’etra infesto e dal mugghiante Su i nubiferi gioghi equoreo flutto Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima Dall’aer cieco e da’ natanti poggi Segno arrecò d’instaurata spene La candida colomba, e delle antiche Nubi l’occiduo Sol naufrago uscendo, L’atro polo di vaga iri dipinse. Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi Studi rinnova e le seguaci ambasce La riparata gente. Agl’inaccessi Regni del mar vendicatore illude Profana destra, e la sciagura e il pianto A novi liti e nove stelle insegna. Or te, padre de’ pii, te giusto e forte, E di tuo seme i generosi alunni Medita il petto mio. Dirò siccome Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre Del riposato albergo, appo le molli Rive del gregge tuo nutrici e sedi, Te de’ celesti peregrini occulte Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio Della saggia Rebecca, in su la sera, Presso al rustico pozzo e nella dolce Di pastori e di lieti ozi frequente Aranitica valle, amor ti punse Della vezzosa Labanide: invitto Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni E di servaggio all’odiata soma Volenteroso il prode animo addisse. Fu certo, fu (né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorel; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota d’affanno Visse l’umana stirpe; alle secrete Leggi del cielo e di natura indutto Valse l’ameno error, le fraudi, il molle Pristino velo; e di sperar contenta Nostra placida nave in porto ascese. Tal fra le vaste californie selve Nasce beata prole, a cui non sugge Pallida cura il petto, a cui le membra Fera tabe non doma; e vitto il bosco, Nidi l’intima rupe, onde ministra L’irrigua valle, inopinato il giorno Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia natura! I lidi e gli antri E le quiete selve apre l’invitto Nostro furor; le violate genti Al peregrino affanno, agl’ignorati Desiri educa; e la fugace, ignuda Felicità per l’imo sole incalza. IX. ULTIMO CANTO DI SAFFO Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato, Sembianze agli occhi miei; già non arride Spettacol molle ai disperati affetti. Noi l’insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo, Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell’onda. Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo. A me non ride L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure saluta: e dove all’ombra Degl’inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico piè le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge. Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara Di misfatto è la vita, onde poi scemo Di giovanezza, e disfiorato, al fuso Dell’indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame? Incaute voci Spande il tuo labbro: i destinati eventi Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre, Alle amene sembianze eterno regno Diè nelle genti; e per virili imprese, Per dotta lira o canto, Virtù non luce in disadorno ammanto. Morremo. Il velo indegno a terra sparto Rifuggirà l’ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator de’ casi. E tu cui lungo Amore indarno, e lunga fede, e vano D’implacato desio furor mi strinse, Vivi felice, se felice in terra Visse nato mortal. Me non asperse Del soave licor del doglio avaro Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno Della mia fanciullezza. Ogni più lieto Giorno di nostra età primo s’invola. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra Della gelida morte. Ecco di tante Sperate palme e dilettosi errori, Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno Han la tenaria Diva, E l’atra notte, e la silente riva. X. IL PRIMO AMORE Tornami a mente il dì che la battaglia D’amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia! Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, Io mirava colei ch’a questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. Ahi come mal mi governasti, amore! Perché seco dovea sì dolce affetto Recar tanto desio, tanto dolore? E non sereno, e non intero e schietto, Anzi pien di travaglio e di lamento Al cor mi discendea tanto diletto? Dimmi, tenero core, or che spavento, Che angoscia era la tua fra quel pensiero Presso al qual t’era noia ogni contento? Quel pensier che nel dì, che lusinghiero Ti si offeriva nella notte, quando Tutto queto parea nell’emisfero: Tu inquieto, e felice e miserando, M’affaticavi in su le piume il fianco, Ad ogni or fortemente palpitando. E dove io tristo ed affannato e stanco Gli occhi al sonno chiudea, come per febre Rotto e deliro il sonno venia manco. Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi La contemplavan sotto alle palpebre! Oh come soavissimi diffusi Moti per l’ossa mi serpeano, oh come Mille nell’alma instabili, confusi Pensieri si volgean! qual tra le chiome D’antica selva zefiro scorrendo, Un lungo, incerto mormorar ne prome. E mentre io taccio, e mentre io non contendo, Che dicevi, o mio cor, che si partia Quella per che penando ivi e battendo? Il cuocer non più tosto io mi sentia Della vampa d’amor, che il venticello Che l’aleggiava, volossene via. Senza sonno io giacea sul dì novello, E i destrier che dovean farmi deserto, Battean la zampa sotto al patrio ostello. Ed io timido e cheto ed inesperto, Ver lo balcone al buio protendea L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto, La voce ad ascoltar, se ne dovea Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse; La voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea. Quante volte plebea voce percosse Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese, E il core in forse a palpitar si mosse! E poi che finalmente mi discese La cara voce al core, e de’ cavai E delle rote il romorio s’intese; Orbo rimaso allor, mi rannicchiai Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, Strinsi il cor con la mano, e sospirai. Poscia traendo i tremuli ginocchi Stupidamente per la muta stanza, Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? Amarissima allor la ricordanza Locommisi nel petto, e mi serrava Ad ogni voce il core, a ogni sembianza. E lunga doglia il sen mi ricercava, Com’è quando a distesa Olimpo piove Malinconicamente e i campi lava. Ned io ti conoscea, garzon di nove E nove Soli, in questo a pianger nato Quando facevi, amor, le prime prove. Quando in ispregio ogni piacer, né grato M’era degli astri il riso, o dell’aurora Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato. Anche di gloria amor taceami allora Nel petto, cui scaldar tanto solea, Che di beltade amor vi fea dimora. Né gli occhi ai noti studi io rivolgea, E quelli m’apparian vani per cui Vano ogni altro desir creduto avea. Deh come mai da me sì vario fui, E tanto amor mi tolse un altro amore? Deh quanto, in verità, vani siam nui! Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, Alla guardia seder del mio dolore. E l’occhio a terra chino o in sé raccolto, Di riscontrarsi fuggitivo e vago Né in leggiadro soffria né in turpe volto: Che la illibata, la candida imago Turbare egli temea pinta nel seno, Come all’aure si turba onda di lago. E quel di non aver goduto appieno Pentimento, che l’anima ci grava, E il piacer che passò cangia in veleno, Per li fuggiti dì mi stimolava Tuttora il sen: che la vergogna il duro Suo morso in questo cor già non oprava. Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro Che voglia non m’entrò bassa nel petto, Ch’arsi di foco intaminato e puro. Vive quel foco ancor, vive l’affetto, Spira nel pensier mio la bella imago, Da cui, se non celeste, altro diletto Giammai non ebbi, e sol di lei m’appago. XI. IL PASSERO SOLITARIO D’in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finché non more il giorno; Ed erra l’armonia per questa valle. Primavera dintorno Brilla nell’aria, e per li campi esulta, Sì ch’a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; Gli altri augelli contenti, a gara insieme Per lo libero ciel fan mille giri, Pur festeggiando il lor tempo migliore: Tu pensoso in disparte il tutto miri; Non compagni, non voli, Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi; Canti, e così trapassi Dell’anno e di tua vita il più bel fiore. Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, Della novella età dolce famiglia, E te german di giovinezza, amore, Sospiro acerbo de’ provetti giorni, Non curo, io non so come; anzi da loro Quasi fuggo lontano; Quasi romito, e strano Al mio loco natio, Passo del viver mio la primavera. Questo giorno ch’omai cede alla sera, Festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla, Odi spesso un tonar di ferree canne, Che rimbomba lontan di villa in villa. Tutta vestita a festa La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; E mira ed è mirata, e in cor s’allegra. Io solitario in questa Rimota parte alla campagna uscendo, Ogni diletto e gioco Indugio in altro tempo: e intanto il guardo Steso nell’aria aprica Mi fere il Sol che tra lontani monti, Dopo il giorno sereno, Cadendo si dilegua, e par che dica Che la beata gioventù vien meno. Tu, solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza La detestata soglia Evitar non impetro, Quando muti questi occhi all’altrui core, E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro, Che parrà di tal voglia? Che di quest’anni miei? che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro. XII. L’INFINITO Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare. XIII. LA SERA DEL DÌ DI FESTA Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura onnipossente, Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già ch’io speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dell’artigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’è il suono Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s’udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core. XIV. ALLA LUNA O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, né cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova La ricordanza, e il noverar l’etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l’affanno duri! XV. IL SOGNO Era il mattino, e tra le chiuse imposte Per lo balcone insinuava il sole Nella mia cieca stanza il primo albore; Quando in sul tempo che più leve il sonno E più soave le pupille adombra, Stettemi allato e riguardommi in viso Il simulacro di colei che amore Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto. Morta non mi parea, ma trista, e quale Degl’infelici è la sembianza. Al capo Appressommi la destra, e sospirando, Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna Serbi di noi? Donde, risposi, e come Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto Di te mi dolse e duol: né mi credea Che risaper tu lo dovessi; e questo Facea più sconsolato il dolor mio. Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta? Io n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne? Sei tu quella di prima? E che ti strugge Internamente? Obblivione ingombra I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno, Disse colei. Son morta, e mi vedesti L’ultima volta, or son più lune. Immensa Doglia m’oppresse a queste voci il petto. Ella seguì: nel fior degli anni estinta, Quand’è il viver più dolce, e pria che il core Certo si renda com’è tutta indarno L’umana speme. A desiar colei Che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare L’egro mortal; ma sconsolata arriva La morte ai giovanetti, e duro è il fato Di quella speme che sotterra è spenta. Vano è saper quel che natura asconde Agl’inesperti della vita, e molto All’immatura sapienza il cieco Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara, Taci, taci, diss’io, che tu mi schianti Con questi detti il cor. Dunque sei morta, O mia diletta, ed io son vivo, ed era Pur fisso in ciel che quei sudori estremi Cotesta cara e tenerella salma Provar dovesse, a me restasse intera Questa misera spoglia? Oh quante volte In ripensar che più non vivi, e mai Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo, Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa Che morte s’addimanda? Oggi per prova Intenderlo potessi, e il capo inerme Agli atroci del fato odii sottrarre. Giovane son, ma si consuma e perde La giovanezza mia come vecchiezza; La qual pavento, e pur m’è lunge assai. Ma poco da vecchiezza si discorda Il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto, Disse, ambedue; felicità non rise Al viver nostro; e dilettossi il cielo De’ nostri affanni. Or se di pianto il ciglio, Soggiunsi, e di pallor velato il viso Per la tua dipartita, e se d’angoscia Porto gravido il cor; dimmi: d’amore Favilla alcuna, o di pietà, giammai Verso il misero amante il cor t’assalse Mentre vivesti? Io disperando allora E sperando traea le notti e i giorni; Oggi nel vano dubitar si stanca La mente mia. Che se una volta sola Dolor ti strinse di mia negra vita, Non mel celar, ti prego, e mi soccorra La rimembranza or che il futuro è tolto Ai nostri giorni. E quella: ti conforta, O sventurato. Io di pietade avara Non ti fui mentre vissi, ed or non sono, Che fui misera anch’io. Non far querela Di questa infelicissima fanciulla. Per le sventure nostre, e per l’amore Che mi strugge, esclamai; per lo diletto Nome di giovanezza e la perduta Speme dei nostri dì, concedi, o cara, Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto Soave e tristo, la porgeva. Or mentre Di baci la ricopro, e d’affannosa Dolcezza palpitando all’anelante Seno la stringo, di sudore il volto Ferveva e il petto, nelle fauci stava La voce, al guardo traballava il giorno. Quando colei teneramente affissi Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro, Disse, che di beltà son fatta ignuda? E tu d’amore, o sfortunato, indarno Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio. Nostre misere menti e nostre salme Son disgiunte in eterno. A me non vivi E mai più non vivrai: già ruppe il fato La fe che mi giurasti. Allor d’angoscia Gridar volendo, e spasimando, e pregne Di sconsolato pianto le pupille, Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi Pur mi restava, e nell’incerto raggio Del Sol vederla io mi credeva ancora. XVI. LA VITA SOLITARIA La mattutina pioggia, allor che l’ale Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce I suoi tremuli rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge benedico: Poiché voi, cittadine infauste mura, Vidi e conobbi assai, là dove segue Odio al dolor compagno; e doloroso Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna Benché scarsa pietà pur mi dimostra Natura in questi lochi, un giorno oh quanto Verso me più cortese! E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando Le sciagure e gli affanni, alla reina Felicità servi, o natura. In cielo, In terra amico agl’infelici alcuno E rifugio non resta altro che il ferro. Talor m’assido in solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, La sua tranquilla imago il Sol dipinge, Ed erba o foglia non si crolla al vento, E non onda incresparsi, e non cicala Strider, né batter penna augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o moto Da presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete; Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica Co’ silenzi del loco si confonda. Amore, amore, assai lungi volasti Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, Anzi rovente. Con sua fredda mano Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo Che mi scendesti in seno. Era quel dolce E irrevocabil tempo, allor che s’apre Al guardo giovanil questa infelice Scena del mondo, e gli sorride in vista Di paradiso. Al garzoncello il core Di vergine speranza e di desio Balza nel petto; e già s’accinge all’opra Di questa vita come a danza o gioco Il misero mortal. Ma non sì tosto, Amor, di te m’accorsi, e il viver mio Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi Non altro convenia che il pianger sempre. Pur se talvolta per le piagge apriche, Su la tacita aurora o quando al sole Brillano i tetti e i poggi e le campagne, Scontro di vaga donzelletta il viso; O qualor nella placida quiete D’estiva notte, il vagabondo passo Di rincontro alle ville soffermando, L’erma terra contemplo, e di fanciulla Che all’opre di sua man la notte aggiunge Odo sonar nelle romite stanze L’arguto canto; a palpitar si move Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano Ogni moto soave al petto mio. O cara luna, al cui tranquillo raggio Danzan le lepri nelle selve; e duolsi Alla mattina il cacciator, che trova L’orme intricate e false, e dai covili Error vario lo svia; salve, o benigna Delle notti reina. Infesto scende Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro A deserti edifici, in su l’acciaro Del pallido ladron ch’a teso orecchio Il fragor delle rote e de’ cavalli Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi Su la tacita via; poscia improvviso Col suon dell’armi e con la rauca voce E col funereo ceffo il core agghiaccia Al passegger, cui semivivo e nudo Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre Per le contrade cittadine il bianco Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi Va radendo le mura e la secreta Ombra seguendo, e resta, e si spaura Delle ardenti lucerne e degli aperti Balconi. Infesto alle malvage menti, A me sempre benigno il tuo cospetto Sarà per queste piagge, ove non altro Che lieti colli e spaziosi campi M’apri alla vista. Ed ancor io soleva, Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso Raggio accusar negli abitati lochi, Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando Scopriva umani aspetti al guardo mio. Or sempre loderollo, o ch’io ti miri Veleggiar tra le nubi, o che serena Dominatrice dell’etereo campo, Questa flebil riguardi umana sede. Me spesso rivedrai solingo e muto Errar pe’ boschi e per le verdi rive, O seder sovra l’erbe, assai contento Se core e lena a sospirar m’avanza. XVII. CONSALVO Presso alla fin di sua dimora in terra, Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo Del suo destino; or già non più, che a mezzo Il quinto lustro, gli pendea sul capo Il sospirato obblio. Qual da gran tempo, Così giacea nel funeral suo giorno Dai più diletti amici abbandonato: Ch’amico in terra al lungo andar nessuno Resta a colui che della terra è schivo. Pur gli era al fianco, da pietà condotta A consolare il suo deserto stato, Quella che sola e sempre eragli a mente, Per divina beltà famosa Elvira; Conscia del suo poter, conscia che un guardo Suo lieto, un detto d’alcun dolce asperso, Ben mille volte ripetuto e mille Nel costante pensier, sostegno e cibo Esser solea dell’infelice amante: Benché nulla d’amor parola udita Avess’ella da lui. Sempre in quell’alma Era del gran desio stato più forte Un sovrano timor. Così l’avea Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore. Ma ruppe alfin la morte il nodo antico Alla sua lingua. Poiché certi i segni Sentendo di quel dì che l’uom discioglie, Lei, già mossa a partir, presa per mano, E quella man bianchissinia stringendo, Disse: tu parti, e l’ora omai ti sforza: Elvira, addio. Non ti vedrò, ch’io creda, Un’altra volta. Or dunque addio. Ti rendo Qual maggior grazia mai delle tue cure Dar possa il labbro mio. Premio daratti Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende. Impallidia la bella, e il petto anelo Udendo le si fea: che sempre stringe All’uomo il cor dogliosamente, ancora Ch’estranio sia, chi si diparte e dice, Addio per sempre. E contraddir voleva, Dissimulando l’appressar del fato, Al moribondo. Ma il suo dir prevenne Quegli, e soggiunse: desiata, e molto, Come sai, ripregata a me discende, Non temuta, la morte; e lieto apparmi Questo feral mio dì. Pesami, è vero, Che te perdo per sempre. Oimè per sempre Parto da te. Mi si divide il core In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio Non vorrai tu donarmi? un bacio solo In tutto il viver mio? Grazia ch’ei chiegga Non si nega a chi muor. Né già vantarmi Potrò del dono, io semispento, a cui Straniera man le labbra oggi fra poco Eternamente chiuderà. Ciò detto Con un sospiro, all’adorata destra Le fredde labbra supplicando affisse. Stette sospesa e pensierosa in atto La bellissima donna; e fiso il guardo, Di mille vezzi sfavillante, in quello Tenea dell’infelice, ove l’estrema Lacrima rilucea. Né dielle il core Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio Rinacerbir col niego; anzi la vinse Misericordia dei ben noti ardori. E quel volto celeste, e quella bocca, Già tanto desiata, e per molt’anni Argomento di sogno e di sospiro, Dolcemente appressando al volto afflitto E scolorato dal mortale affanno, Più baci e più, tutta benigna e in vista D’alta pietà, su le convulse labbra Del trepido, rapito amante impresse. Che divenisti allor? quali appariro Vita, morte, sventura agli occhi tuoi, Fuggitivo Consalvo? Egli la mano, Ch’ancor tenea, della diletta Elvira Postasi al cor, che gli ultimi battea Palpiti della morte e dell’amore, Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono In su la terra ancor; ben quelle labbra Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo! Ahi vision d’estinto, o sogno, o cosa Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira, Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi Non ti fu l’amor mio per alcun tempo; Non a te, non altrui; che non si cela Vero amore alla terra. Assai palese Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi, Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre Muto sarebbe l’infinito affetto Che governa il cor mio, se non l’avesse Fatto ardito il morir. Morrò contento Del mio destino omai, né più mi dolgo Ch’aprii le luci al dì. Non vissi indarno, Poscia che quella bocca alla mia bocca Premer fu dato. Anzi felice estimo La sorte mia. Due cose belle ha il mondo: Amore e morte. All’una il ciel mi guida In sul fior dell’età; nell’altro, assai Fortunato mi tengo. Ah, se una volta, Solo una volta il lungo amor quieto E pago avessi tu, fora la terra Fatta quindi per sempre un paradiso Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza, L’abborrita vecchiezza, avrei sofferto Con riposato cor: che a sostentarla Bastato sempre il rimembrar sarebbe d’un solo istante, e il dir: felice io fui Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto Esser beato non consente il cielo A natura terrena. Amar tant’oltre Non è dato con gioia. E ben per patto In poter del carnefice ai flagelli, Alle ruote, alle faci ito volando Sarei dalle tue braccia; e ben disceso Nel paventato sempiterno scempio. O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra Gl’immortali beato, a cui tu schiuda Il sorriso d’amor! felice appresso Chi per te sparga con la vita il sangue! Lice, lice al mortal, non è già sogno Come stimai gran tempo, ahi lice in terra Provar felicità. Ciò seppi il giorno Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte Questo m’accadde. E non però quel giorno Con certo cor giammai, fra tante ambasce, Quel fiero giorno biasimar sostenni. Or tu vivi beata, e il mondo abbella, Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno Non l’amerà quant’io l’amai. Non nasce Un altrettale amor. Quanto, deh quanto Dal misero Consalvo in sì gran tempo Chiamata fosti, e lamentata, e pianta! Come al nome d’Elvira, in cor gelando, Impallidir; come tremar son uso All’amaro calcar della tua soglia, A quella voce angelica, all’aspetto Di quella fronte, io ch’al morir non tremo! Ma la lena e la vita or vengon meno Agli accenti d’amor. Passato è il tempo, Né questo di rimemorar m’è dato. Elvira, addio. Con la vital favilla La tua diletta immagine si parte Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave Non ti fu quest’affetto, al mio feretro Dimani all’annottar manda un sospiro. Tacque: né molto andò, che a lui col suono Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo Suo dì felice gli fuggia dal guardo. XVIII. ALLA SUA DONNA Cara beltà che amore Lunge m’inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O ne’ campi ove splenda Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome, Or leve intra la gente Anima voli? o te la sorte avara Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti omai Nulla spene m’avanza; S’allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s’anco pari alcuna Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella. Fra cotanto dolore Quanto all’umana età propose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora Questo viver beato: E ben chiaro vegg’io siccome ancora Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saria Simile a quella che nel cielo india. Per le valli, ove suona Del faticoso agricoltore il canto, Ed io seggo e mi lagno Del giovanile error che m’abbandona; E per li poggi, ov’io rimembro e piagno I perduti desiri, e la perduta Speme de’ giorni miei; di te pensando, A palpitar mi sveglio. E potess’io, Nel secol tetro e in questo aer nefando, L’alta specie serbar; che dell’imago, Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago. Se dell’eterne idee L’una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l’eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s’altra terra ne’ supremi giri Fra’ mondi innumerabili t’accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T’irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d’ignoto amante inno ricevi. XIX. AL CONTE CARLO PEPOLI Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso? È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. La schiera industre Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede l’alba tranquilla e vede il vespro, Se oziosa dirai, da che sua vita È per campar la vita, e per sé sola La vita all’uom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne Sudar nelle officine, ozio le vegghie Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi; E il mercatante avaro in ozio vive: Che non a sé, non ad altrui, la bella Felicità, cui solo agogna e cerca La natura mortal, veruno acquista Per cura o per sudor, vegghia o periglio. Pure all’aspro desire onde i mortali Già sempre infin dal dì che il mondo nacque D’esser beati sospiraro indarno, Di medicina in loco apparecchiate Nella vita infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opra e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno All’umana famiglia; onde agitato E confuso il desio, men loco avesse Al travagliarne il cor. Così de’ bruti La progenie infinita, a cui pur solo, Né men vano che a noi, vive nel petto Desio d’esser beati; a quello intenta Che a lor vita è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo, Né la lentezza accagionar dell’ore. Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano Provveder commettiamo, una più grave Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio e pena Non adempiam: necessitate, io dico, Di consumar la vita: improba, invitta Necessità, cui non tesoro accolto, Non di greggi dovizia, o pingui campi, Non aula puote e non purpureo manto Sottrar l’umana prole. Or s’altri, a sdegno I vòti anni prendendo, e la superna Luce odiando, l’omicida mano, I tardi fati a prevenir condotto, In se stesso non torce; al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci Medicine procaccia, onde quell’una Cui natura apprestò, mal si compensa. Lui delle vesti e delle chiome il culto E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequenti Sale, e le piazze romorose, e gli orti, Lui giochi e cene e invidiate danze Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto, Nell’imo petto, grave, salda, immota Come colonna adamantina, siede Noia immortale, incontro a cui non puote Vigor di giovanezza, e non la crolla Dolce parola di rosato labbro, E non lo sguardo tenero, tremante, Di due nere pupille, il caro sguardo, La più degna del ciel cosa mortale. Altri, quasi a fuggir volto la trista Umana sorte, in cangiar terre e climi L’età spendendo, e mari e poggi errando Tutto l’orbe trascorre, ogni confine Degli spazi che all’uom negl’infiniti Campi del tutto la natura aperse, Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside Su l’alte prue la negra cura, e sotto Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno Felicità, vive tristezza e regna. Havvi chi le crudeli opre di marte Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno Sangue la man tinge per ozio; ed havvi Chi d’altrui danni si conforta, e pensa Con far misero altrui far sé men tristo, Sì che nocendo usar procaccia il tempo. E chi virtute o sapienza ed arti Perseguitando; e chi la propria gente Conculcando e l’estrane, o di remoti Lidi turbando la quiete antica Col mercatar, con l’armi, e con le frodi, La destinata sua vita consuma. Te più mite desio, cura più dolce Regge nel fior di gioventù, nel bello April degli anni, altrui giocondo e primo Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto A chi patria non ha. Te punge e move Studio de’ carmi e di ritrar parlando Il bel che raro e scarso e fuggitivo Appar nel mondo, e quel che più benigna Di natura e del ciel, fecondamente A noi la vaga fantasia produce E il nostro proprio error. Ben mille volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati; Che nella ferma e nella stanca etade, Così come solea nell’età verde, In suo chiuso pensier natura abbella, Morte, deserto avviva. A te conceda Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo La favilla che il petto oggi ti scalda, Di poesia canuto amante. Io tutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettose immagini, che tanto Amai, che sempre infino all’ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Né degli augelli mattutini il canto Di primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni beltate o di natura o d’arte, Fatta inanime e muta; ogni alto senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforto allor mendico, Altri studi men dolci, in ch’io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortali E dell’eterne cose; a che prodotta, A che d’affanni e di miserie carca L’umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui Tanto nostro dolor diletti o giovi: Con quali ordini e leggi a che si volva Questo arcano universo; il qual di lode Colmano i saggi, io d’ammirar son pago. In questo specolar gli ozi traendo Verrò: che conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se del vero Ragionando talor, fieno alle genti O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, che già del tutto il vago Desio di gloria antico in me fia spento: Vana Diva non pur, ma di fortuna E del fato e d’amor, Diva più cieca. XX. IL RISORGIMENTO Credei ch’al tutto fossero In me, sul fior degli anni, Mancati i dolci affanni Della mia prima età: I dolci affanni, i teneri Moti del cor profondo, Qualunque cosa al mondo Grato il sentir ci fa. Quante querele e lacrime Sparsi nel novo stato, Quando al mio cor gelato Prima il dolor mancò! Mancàr gli usati palpiti, L’amor mi venne meno, E irrigidito il seno Di sospirar cessò! Piansi spogliata, esanime Fatta per me la vita La terra inaridita, Chiusa in eterno gel; Deserto il dì; la tacita Notte più sola e bruna; Spenta per me la luna, Spente le stelle in ciel. Pur di quel pianto origine Era l’antico affetto: Nell’intimo del petto Ancor viveva il cor. Chiedea l’usate immagini La stanca fantasia; E la tristezza mia Era dolore ancor. Fra poco in me quell’ultimo Dolore anco fu spento, E di più far lamento Valor non mi restò. Giacqui: insensato, attonito, Non dimandai conforto: Quasi perduto e morto, Il cor s’abbandonò. Qual fui! quanto dissimile Da quel che tanto ardore, Che sì beato errore Nutrii nell’alma un dì! La rondinella vigile, Alle finestre intorno Cantando al novo giorno, Il cor non mi ferì: Non all’autunno pallido In solitaria villa, La vespertina squilla, Il fuggitivo Sol. Invan brillare il vespero Vidi per muto calle, Invan sonò la valle Del flebile usignol. E voi, pupille tenere, Sguardi furtivi, erranti, Voi de’ gentili amanti Primo, immortale amor, Ed alla mano offertami Candida ignuda mano, Foste voi pure invano Al duro mio sopor. D’ogni dolcezza vedovo, Tristo; ma non turbato, Ma placido il mio stato, Il volto era seren. Desiderato il termine Avrei del viver mio; Ma spento era il desio Nello spossato sen. Qual dell’età decrepita L’avanzo ignudo e vile, Io conducea l’aprile Degli anni miei così: Così quegl’ineffabili Giorni, o mio cor, traevi, Che sì fugaci e brevi Il cielo a noi sortì. Chi dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta? Che virtù nova è questa, Questa che sento in me? Moti soavi, immagini, Palpiti, error beato, Per sempre a voi negato Questo mio cor non è? Siete pur voi quell’unica Luce de’ giorni miei? Gli affetti ch’io perdei Nella novella età? Se al ciel, s’ai verdi margini, Ovunque il guardo mira, Tutto un dolor mi spira, Tutto un piacer mi dà. Meco ritorna a vivere La piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte, Meco favella il mar. Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto obblio? E come al guardo mio Cangiato il mondo appar? Forse la speme, o povero Mio cor, ti volse un riso? Ahi della speme il viso Io non vedrò mai più. Proprii mi diede i palpiti, Natura, e i dolci inganni. Sopiro in me gli affanni L’ingenita virtù; Non l’annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista impura L’infausta verità. Dalle mie vaghe immagini So ben ch’ella discorda: So che natura è sorda, Che miserar non sa. Che non del ben sollecita Fu, ma dell’esser solo: Purché ci serbi al duolo, Or d’altro a lei non cal. So che pietà fra gli uomini Il misero non trova; Che lui, fuggendo, a prova Schernisce ogni mortal. Che ignora il tristo secolo Gl’ingegni e le virtudi; Che manca ai degni studi L’ignuda gloria ancor. E voi, pupille tremule, Voi, raggio sovrumano, So che splendete invano, Che in voi non brilla amor. Nessuno ignoto ed intimo Affetto in voi non brilla: Non chiude una favilla Quel bianco petto in sé. Anzi d’altrui le tenere Cure suol porre in gioco; E d’un celeste foco Disprezzo è la mercè. Pur sento in me rivivere Gl’inganni aperti e noti; E, de’ suoi proprii moti Si maraviglia il sen. Da te, mio cor, quest’ultimo Spirto, e l’ardor natio, Ogni conforto mio Solo da te mi vien. Mancano, il sento, all’anima Alta, gentile e pura, La sorte, la natura, Il mondo e la beltà. Ma se tu vivi, o misero, Se non concedi al fato, Non chiamerò spietato Chi lo spirar mi dà. XXI. A SILVIA Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all’opre femminili intenta Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno. Io gli studi leggiadri Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D’in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice Quel ch’io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi; Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d’amore. Anche peria fra poco La speranza mia dolce: agli anni miei Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell’età mia nova, Mia lacrimata speme! Questo è quel mondo? questi I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti? All’apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano. XXII. LE RICORDANZE Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea Tornare ancor per uso a contemplarvi Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar con voi dalle finestre Di questo albergo ove abitai fanciullo, E delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier l’aspetto vostro E delle luci a voi compagne! allora Che, tacito, seduto in verde zolla, Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto Della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi E in su l’aiuole, susurrando al vento I viali odorati, ed i cipressi Là nella selva; e sotto al patrio tetto Sonavan voci alterne, e le tranquille Opre de’ servi. E che pensieri immensi, Che dolci sogni mi spirò la vista Di quel lontano mar, quei monti azzurri, Che di qua scopro, e che varcare un giorno Io mi pensava, arcani mondi, arcana Felicità fingendo al viver mio! Ignaro del mio fato, e quante volte Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato. Né mi diceva il cor che l’età verde Sarei dannato a consumare in questo Natio borgo selvaggio, intra una gente Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo, Son dottrina e saper; che m’odia e fugge, Per invidia non già, che non mi tiene Maggior di sé, ma perché tale estima Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori A persona giammai non ne fo segno. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza Tra lo stuol de’ malevoli divengo: Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, E sprezzator degli uomini mi rendo, Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola Il caro tempo giovanil; più caro Che la fama e l’allor, più che la pura Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo Senza un diletto, inutilmente, in questo Soggiorno disumano, intra gli affanni, O dell’arida vita unico fiore. Viene il vento recando il suon dell’ora Dalla torre del borgo. Era conforto Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, Quando fanciullo, nella buia stanza, Per assidui terrori io vigilava, Sospirando il mattin. Qui non è cosa Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per sé; ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. Quella loggia colà, volta agli estremi Raggi del dì; queste dipinte mura, Quei figurati armenti, e il Sol che nasce Su romita campagna, agli ozi miei Porser mille diletti allor che al fianco M’era, parlando, il mio possente errore Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi, intorno a queste Ampie finestre sibilando il vento, Rimbombaro i sollazzi e le festose Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno Mistero delle cose a noi si mostra Pien di dolcezza; indelibata, intera Il garzoncel, come inesperto amante, La sua vita ingannevole vagheggia, E celeste beltà fingendo ammira. O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età! sempre, parlando, Ritorno a voi; che per andar di tempo, Per variar d’affetti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto, Inutile miseria. E sebben vòti Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro Il mio stato mortal, poco mi toglie La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta A voi ripenso, o mie speranze antiche, Ed a quel caro immaginar mio primo; Indi riguardo il viver mio sì vile E sì dolente, e che la morte è quello Che di cotanta speme oggi m’avanza; Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto Consolarmi non so del mio destino. E quando pur questa invocata morte Sarammi allato, e sarà giunto il fine Della sventura mia; quando la terra Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo Fuggirà l’avvenir; di voi per certo Risovverrammi; e quell’imago ancora Sospirar mi farà, farammi acerbo L’esser vissuto indarno, e la dolcezza Del dì fatal tempererà d’affanno. E già nel primo giovanil tumulto Di contenti, d’angosce e di desio, Morte chiamai più volte, e lungamente Mi sedetti colà su la fontana Pensoso di cessar dentro quell’acque La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, Piansi la bella giovanezza, e il fiore De’ miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso Sul conscio letto, dolorosamente Alla fioca lucerna poetando, Lamentai co’ silenzi e con la notte Il fuggitivo spirto, ed a me stesso In sul languir cantai funereo canto. Chi rimembrar vi può senza sospiri, O primo entrar di giovinezza, o giorni Vezzosi, inenarrabili, allor quando Al rapito mortal primieramente Sorridon le donzelle; a gara intorno Ogni cosa sorride; invidia tace, Non desta ancora ovver benigna; e quasi (Inusitata maraviglia!) il mondo La destra soccorrevole gli porge, Scusa gli errori suoi, festeggia il novo Suo venir nella vita, ed inchinando Mostra che per signor l’accolga e chiami? Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo Son dileguati. E qual mortale ignaro Di sventura esser può, se a lui già scorsa Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? O Nerina! e di te forse non odo Questi luoghi parlar? caduta forse Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, Che qui sola di te la ricordanza Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede Questa Terra natal: quella finestra, Ond’eri usata favellarmi, ed onde Mesto riluce delle stelle il raggio, È deserta. Ove sei, che più non odo La tua voce sonar, siccome un giorno, Quando soleva ogni lontano accento Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri Il passar per la terra oggi è sortito, E l’abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte La gioia ti splendea, splendea negli occhi Quel confidente immaginar, quel lume Di gioventù, quando spegneali il fato, E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna L’antico amor. Se a feste anco talvolta, Se a radunanze io movo, infra me stesso Dico: o Nerina, a radunanze, a feste Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle, Dico: Nerina mia, per te non torna Primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento, Dico: Nerina or più non gode; i campi, L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno Sospiro mio: passasti: e fia compagna D’ogni mio vago immaginar, di tutti I miei teneri sensi, i tristi e cari Moti del cor, la rimembranza acerba. XXIII. CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore; Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura Perché da noi si dura? Intatta luna, tale E` lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perché delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l’ardore, e che procacci Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s’avess’io l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale. XXIV. LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato. L’artigiano a mirar l’umido cielo, Con l’opra in man, cantando, Fassi in su l’uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua Della novella piova; E l’erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passeggier che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core. Sì dolce, sì gradita Quand’è, com’or, la vita? Quando con tanto amore L’uomo a’ suoi studi intende? O torna all’opre? o cosa nova imprende? Quando de’ mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d’affanno; Gioia vana, ch’è frutto Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena È diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana Prole cara agli eterni! assai felice Se respirar ti lice D’alcun dolor: beata Se te d’ogni dolor morte risana. XXV. IL SABATO DEL VILLAGGIO La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dell’erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella Solea danzar la sera intra di quei Ch’ebbe compagni dell’età più bella. Già tutta l’aria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre Giù da’ colli e da’ tetti, Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta. I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, E qua e là saltando, Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, Fischiando, il zappatore, E seco pensa al dì del suo riposo. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, E tutto l’altro tace, Odi il martel picchiare, odi la sega Del legnaiuol, che veglia Nella chiusa bottega alla lucerna, E s’affretta, e s’adopra Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba. Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia Recheran l’ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso, Cotesta età fiorita È come un giorno d’allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno, Che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’; ma la tua festa Ch’anco tardi a venir non ti sia grave. XXVI. IL PENSIERO DOMINANTE Dolcissimo, possente Dominator di mia profonda mente; Terribile, ma caro Dono del ciel; consorte Ai lùgubri miei giorni, Pensier che innanzi a me sì spesso torni. Di tua natura arcana Chi non favella? il suo poter fra noi Chi non sentì? Pur sempre Che in dir gli effetti suoi Le umane lingue il sentir proprio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona. Come solinga è fatta La mente mia d’allora Che tu quivi prendesti a far dimora! Ratto d’intorno intorno al par del lampo Gli altri pensieri miei Tutti si dileguàr. Siccome torre In solitario campo, Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei. Che divenute son, fuor di te solo, Tutte l’opre terrene, Tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia Gli ozi, i commerci usati, E di vano piacer la vana spene, Allato a quella gioia, Gioia celeste che da te mi viene! Come da’ nudi sassi Dello scabro Apennino A un campo verde che lontan sorrida Volge gli occhi bramoso il pellegrino; Tal io dal secco ed aspro Mondano conversar vogliosamente, Quasi in lieto giardino, a te ritorno, E ristora i miei sensi il tuo soggiorno. Quasi incredibil parmi Che la vita infelice e il mondo sciocco Già per gran tempo assai Senza te sopportai; Quasi intender non posso Come d’altri desiri, Fuor ch’a te somiglianti, altri sospiri. Giammai d’allor che in pria Questa vita che sia per prova intesi, Timor di morte non mi strinse il petto. Oggi mi pare un gioco Quella che il mondo inetto, Talor lodando, ognora abborre e trema, Necessitade estrema; E se periglio appar, con un sorriso Le sue minacce a contemplar m’affiso. Sempre i codardi, e l’alme Ingenerose, abbiette Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno Subito i sensi miei; Move l’alma ogni esempio Dell’umana viltà subito a sdegno. Di questa età superba, Che di vote speranze si nutrica, Vaga di ciance, e di virtù nemica; Stolta, che l’util chiede, E inutile la vita Quindi più sempre divenir non vede; Maggior mi sento. A scherno Ho gli umani giudizi; e il vario volgo A’ bei pensieri infesto, E degno tuo disprezzator, calpesto. A quello onde tu movi, Quale affetto non cede? Anzi qual altro affetto Se non quell’uno intra i mortali ha sede? Avarizia, superbia, odio, disdegno, Studio d’onor, di regno, Che sono altro che voglie Al paragon di lui? Solo un affetto Vive tra noi: quest’uno, Prepotente signore, Dieder l’eterne leggi all’uman core. Pregio non ha, non ha ragion la vita Se non per lui, per lui ch’all’uomo è tutto; Sola discolpa al fato, Che noi mortali in terra Pose a tanto patir senz’altro frutto; Solo per cui talvolta, Non alla gente stolta, al cor non vile La vita della morte è più gentile. Per còr le gioie tue, dolce pensiero, Provar gli umani affanni, E sostener molt’anni Questa vita mortal, fu non indegno; Ed ancor tornerei, Così qual son de’ nostri mali esperto, Verso un tal segno a incominciare il corso: Che tra le sabbie e tra il vipereo morso, Giammai finor sì stanco Per lo mortal deserto Non venni a te, che queste nostre pene Vincer non mi paresse un tanto bene. Che mondo mai, che nova Immensità, che paradiso è quello Là dove spesso il tuo stupendo incanto Parmi innalzar! dov’io, Sott’altra luce che l’usata errando, Il mio terreno stato E tutto quanto il ver pongo in obblio! Tali son, credo, i sogni Degl’immortali. Ahi finalmente un sogno In molta parte onde s’abbella il vero Sei tu, dolce pensiero; Sogno e palese error. Ma di natura, Infra i leggiadri errori, Divina sei; perché sì viva e forte, Che incontro al ver tenacemente dura, E spesso al ver s’adegua, Né si dilegua pria, che in grembo a morte. E tu per certo, o mio pensier, tu solo Vitale ai giorni miei, Cagion diletta d’infiniti affanni, Meco sarai per morte a un tempo spento: Ch’a vivi segni dentro l’alma io sento Che in perpetuo signor dato mi sei. Altri gentili inganni Soleami il vero aspetto Più sempre infievolir. Quanto più torno A riveder colei Della qual teco ragionando io vivo, Cresce quel gran diletto, Cresce quel gran delirio, ond’io respiro. Angelica beltade! Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, Quasi una finta imago Il tuo volto imitar. Tu sola fonte D’ogni altra leggiadria, Sola vera beltà parmi che sia. Da che ti vidi pria, Di qual mia seria cura ultimo obbietto Non fosti tu? quanto del giorno è scorso, Ch’io di te non pensassi? ai sogni miei La tua sovrana imago Quante volte mancò? Bella qual sogno, Angelica sembianza, Nella terrena stanza, Nell’alte vie dell’universo intero, Che chiedo io mai, che spero Altro che gli occhi tuoi veder più vago? Altro più dolce aver che il tuo pensiero? XXVII. AMORE E MORTE Muor giovane colui ch’al cielo è caro Menandro Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle Altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall’uno il bene, Nasce il piacer maggiore Che per lo mar dell’essere si trova; L’altra ogni gran dolore, Ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, Dolce a veder, non quale La si dipinge la codarda gente, Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via mortale, Primi conforti d’ogni saggio core. Né cor fu mai più saggio Che percosso d’amor, né mai più forte Sprezzò l’infausta vita, Né per altro signore Come per questo a perigliar fu pronto: Ch’ove tu porgi aita, Amor, nasce il coraggio, O si ridesta; e sapiente in opre, Non in pensiero invan, siccome suole, Divien l’umana prole. Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto, Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale D’amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura Allor questo deserto: a sé la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede omai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier figura: Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier disio, Che già, rugghiando, intorno intorno oscura. Poi, quando tutto avvolge La formidabil possa, E fulmina nel cor l’invitta cura, Quante volte implorata Con desiderio intenso, Morte, sei tu dall’affannoso amante! Quante la sera, e quante, Abbandonando all’alba il corpo stanco, Sé beato chiamò s’indi giammai Non rilevasse il fianco, Né tornasse a veder l’amara luce! E spesso al suon della funebre squilla, Al canto che conduce La gente morta al sempiterno obblio, Con più sospiri ardenti Dall’imo petto invidiò colui Che tra gli spenti ad abitar sen giva. Fin la negletta plebe, L’uom della villa, ignaro D’ogni virtù che da saper deriva, Fin la donzella timidetta e schiva, Che già di morte al nome Sentì rizzar le chiome, Osa alla tomba, alle funeree bende Fermar lo sguardo di costanza pieno, Osa ferro e veleno Meditar lungamente, E nell’indotta mente La gentilezza del morir comprende. Tanto alla morte inclina D’amor la disciplina. Anco sovente, A tal venuto il gran travaglio interno Che sostener nol può forza mortale, O cede il corpo frale Ai terribili moti, e in questa forma Pel fraterno poter Morte prevale; O così sprona Amor là nel profondo, Che da se stessi il villanello ignaro, La tenera donzella Con la man violenta Pongon le membra giovanili in terra. Ride ai lor casi il mondo, A cui pace e vecchiezza il ciel consenta. Ai fervidi, ai felici, Agli animosi ingegni L’uno o l’altro di voi conceda il fato, Dolci signori, amici All’umana famiglia, Al cui poter nessun poter somiglia Nell’immenso universo, e non l’avanza, Se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni Sempre onorata invoco, Bella Morte, pietosa Tu sola al mondo dei terreni affanni, Se celebrata mai Fosti da me, s’al tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai, Non tardar più, t’inchina A disusati preghi, Chiudi alla luce omai Questi occhi tristi, o dell’età reina. Me certo troverai, qual si sia l’ora Che tu le penne al mio pregar dispieghi, Erta la fronte, armato, E renitente al fato, La man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode, Non benedir, com’usa Per antica viltà l’umana gente; Ogni vana speranza onde consola Se coi fanciulli il mondo, Ogni conforto stolto Gittar da me; null’altro in alcun tempo Sperar, se non te sola; Solo aspettar sereno Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto Nel tuo virgineo seno. XXVIII. A SE STESSO Or poserai per sempre, Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo, Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento, In noi di cari inganni, Non che la speme, il desiderio è spento. Posa per sempre. Assai Palpitasti. Non val cosa nessuna I moti tuoi, né di sospiri è degna La terra. Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. T’acqueta omai. Dispera L’ultima volta. Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Omai disprezza Te, la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E l’infinita vanità del tutto. XXIX. ASPASIA Torna dinanzi al mio pensier talora Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, Al dì sereno, alle tacenti stelle, Da soave armonia quasi ridesta, Nell’alma a sgomentarsi ancor vicina Quella superba vision risorge. Quanto adorata, o numi, e quale un giorno Mia delizia ed erinni! E mai non sento Mover profumo di fiorita piaggia, Né di fiori olezzar vie cittadine, Ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno Che ne’ vezzosi appartamenti accolta, Tutti odorati de’ novelli fiori Di primavera, del color vestita Della bruna viola, a me si offerse L’angelica tua forma, inchino il fianco Sovra nitide pelli, e circonfusa D’arcana voluttà; quando tu, dotta Allettatrice, fervidi sonanti Baci scoccavi nelle curve labbra De’ tuoi bambini, il niveo collo intanto Porgendo, e lor di tue cagioni ignari Con la man leggiadrissima stringevi Al seno ascoso e disiato. Apparve Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio Divino al pensier mio. Così nel fianco Non punto inerme a viva forza impresse Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto Ululando portai finch’a quel giorno Si fu due volte ricondotto il sole. Raggio divino al mio pensiero apparve, Donna, la tua beltà. Simile effetto Fan la bellezza e i musicali accordi, Ch’alto mistero d’ignorati Elisi Paion sovente rivelar. Vagheggia Il piagato mortal quindi la figlia Della sua mente, l’amorosa idea, Che gran parte d’Olimpo in sé racchiude, Tutta al volto ai costumi alla favella Pari alla donna che il rapito amante Vagheggiare ed amar confuso estima. Or questa egli non già, ma quella, ancora Nei corporali amplessi, inchina ed ama. Alfin l’errore e gli scambiati oggetti Conoscendo, s’adira; e spesso incolpa La donna a torto. A quella eccelsa imago Sorge di rado il femminile ingegno; E ciò che inspira ai generosi amanti La sua stessa beltà, donna non pensa, Né comprender potria. Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto. E male Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera l’uomo ingannato, e mal richiede Sensi profondi, sconosciuti, e molto Più che virili, in chi dell’uomo al tutto Da natura è minor. Che se più molli E più tenui le membra, essa la mente Men capace e men forte anco riceve. Né tu finor giammai quel che tu stessa Inspirasti alcun tempo al mio pensiero, Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai Che smisurato amor, che affanni intensi, Che indicibili moti e che deliri Movesti in me; né verrà tempo alcuno Che tu l’intenda. In simil guisa ignora Esecutor di musici concenti Quel ch’ei con mano o con la voce adopra In chi l’ascolta. Or quell’Aspasia è morta Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto Della mia vita un dì: se non se quanto, Pur come cara larva, ad ora ad ora Tornar costuma e disparir. Tu vivi, Bella non solo ancor, ma bella tanto, Al parer mio, che tutte l’altre avanzi. Pur quell’ardor che da te nacque è spento: Perch’io te non amai, ma quella Diva Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core. Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque Sua celeste beltà, ch’io, per insino Già dal principio conoscente e chiaro Dell’esser tuo, dell’arti e delle frodi, Pur ne’ tuoi contemplando i suoi begli occhi, Cupido ti seguii finch’ella visse, Ingannato non già, ma dal piacere Di quella dolce somiglianza un lungo Servaggio ed aspro a tollerar condotto. Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni L’altero capo, a cui spontaneo porsi L’indomito mio cor. Narra che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di sdegno e di rossor), me di me privo, Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir, brillare in volto Ad un segno cortese, ad ogni sguardo Mutar forma e color. Cadde l’incanto, E spezzato con esso, a terra sparso Il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni Di tedio, alfin dopo il servire e dopo Un lungo vaneggiar, contento abbraccio Senno con libertà. Che se d’affetti Orba la vita, e di gentili errori, È notte senza stelle a mezzo il verno, Già del fato mortale a me bastante E conforto e vendetta è che su l’erba Qui neghittoso immobile giacendo, Il mar la terra e il ciel miro e sorrido. XXX. SOPRA UN BASSORILIEVO ANTICO SEPOLCRALE, DOVE UNA GIOVANE MORTA È RAPPRESENTATA IN ATTO DI PARTIRE, ACCOMIATANDOSI DAI SUOI Dove vai? chi ti chiama Lunge dai cari tuoi, Bellissima donzella? Sola, peregrinando, il patrio tetto Sì per tempo abbandoni? a queste soglie Tornerai tu? farai tu lieti un giorno Questi ch’oggi ti son piangendo intorno? Asciutto il ciglio ed animosa in atto, Ma pur mesta sei tu. Grata la via O dispiacevol sia, tristo il ricetto A cui movi o giocondo, Da quel tuo grave aspetto Mal s’indovina. Ahi ahi, né già potria Fermare io stesso in me, né forse al mondo S’intese ancor, se in disfavore al cielo, Se cara esser nomata, Se misera tu debbi o fortunata. Morte ti chiama; al cominciar del giorno L’ultimo istante. Al nido onde ti parti, Non tornerai. L’aspetto De’ tuoi dolci parenti Lasci per sempre. Il loco A cui movi, è sotterra: Ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno. Forse beata sei; ma pur chi mira, Seco pensando, al tuo destin, sospira. Mai non veder la luce Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo Che reina bellezza si dispiega Nelle membra e nel volto, Ed incomincia il mondo Verso lei di lontano ad atterrarsi; In sul fiorir d’ogni speranza, e molto Prima che incontro alla festosa fronte I lùgubri suoi lampi il ver baleni; Come vapore in nuvoletta accolto Sotto forme fugaci all’orizzonte, Dileguarsi così quasi non sorta, E cangiar con gli oscuri Silenzi della tomba i dì futuri, Questo se all’intelletto Appar felice, invade D’alta pietade ai più costanti il petto. Madre temuta e pianta Dal nascer già dell’animal famiglia, Natura, illaudabil maraviglia, Che per uccider partorisci e nutri, Se danno è del mortale Immaturo perir, come il consenti In quei capi innocenti? Se ben, perché funesta, Perché sovra ogni male, A chi si parte, a chi rimane in vita, Inconsolabil fai tal dipartita? Misera ovunque miri, Misera onde si volga, ove ricorra, Questa sensibil prole! Piacqueti che delusa Fosse ancor dalla vita La speme giovanil; piena d’affanni L’onda degli anni; ai mali unico schermo La morte; e questa inevitabil segno, Questa, immutata legge Ponesti all’uman corso. Ahi perché dopo Le travagliose strade, almen la meta Non ci prescriver lieta? anzi colei Che per certo futura Portiam sempre, vivendo, innanzi all’alma, Colei che i nostri danni Ebber solo conforto, Velar di neri panni, Cinger d’ombra sì trista, E spaventoso in vista Più d’ogni flutto dimostrarci il porto? Già se sventura è questo Morir che tu destini A tutti noi che senza colpa, ignari, Né volontari al vivere abbandoni, Certo ha chi more invidiabil sorte A colui che la morte Sente de’ cari suoi. Che se nel vero, Com’io per fermo estimo, Il vivere è sventura, Grazia il morir, chi però mai potrebbe, Quel che pur si dovrebbe, Desiar de’ suoi cari il giorno estremo, Per dover egli scemo Rimaner di se stesso, Veder d’in su la soglia levar via La diletta persona Con chi passato avrà molt’anni insieme, E dire a quella addio senz’altra speme Di riscontrarla ancora Per la mondana via; Poi solitario abbandonato in terra, Guardando attorno, all’ore ai lochi usati Rimemorar la scorsa compagnia? Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre Di strappar dalle braccia All’amico l’amico, Al fratello il fratello, La prole al genitore, All’amante l’amore: e l’uno estinto, L’altro in vita serbar? Come potesti Far necessario in noi Tanto dolor, che sopravviva amando Al mortale il mortal? Ma da natura Altro negli atti suoi Che nostro male o nostro ben si cura. XXXI. SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNA SCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA Tal fosti: or qui sotterra Polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango Immobilmente collocato invano, Muto, mirando dell’etadi il volo, Sta, di memoria solo E di dolor custode, il simulacro Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo, Che tremar fe’, se, come or sembra, immoto In altrui s’affisò; quel labbro, ond’alto Par, come d’urna piena, Traboccare il piacer; quel collo, cinto Già di desio; quell’amorosa mano, Che spesso, ove fu porta, Sentì gelida far la man che strinse; E il seno, onde la gente Visibilmente di pallor si tinse, Furo alcun tempo: or fango Ed ossa sei: la vista Vituperosa e trista un sasso asconde. Così riduce il fato Qual sembianza fra noi parve più viva Immagine del ciel. Misterio eterno Dell’esser nostro. Oggi d’eccelsi, immensi Pensieri e sensi inenarrabil fonte, Beltà grandeggia, e pare, Quale splendor vibrato Da natura immortal su queste arene, Di sovrumani fati, Di fortunati regni e d’aurei mondi Segno e sicura spene Dare al mortale stato: Diman, per lieve forza, Sozzo a vedere, abominoso, abbietto Divien quel che fu dianzi Quasi angelico aspetto, E dalle menti insieme Quel che da lui moveva Ammirabil concetto, si dilegua. Desiderii infiniti E visioni altere Crea nel vago pensiere, Per natural virtù, dotto concento; Onde per mar delizioso, arcano Erra lo spirto umano, Quasi come a diporto Ardito notator per l’Oceano: Ma se un discorde accento Fere l’orecchio, in nulla Torna quel paradiso in un momento. Natura umana, or come, Se frale in tutto e vile, Se polve ed ombra sei, tant’alto senti? Se in parte anco gentile, Come i più degni tuoi moti e pensieri Son così di leggeri Da sì basse cagioni e desti e spenti? XXXII. PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI Il sempre sospirar nulla rileva. Petrarca Errai, candido Gino; assai gran tempo, E di gran lunga errai. Misera e vana Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa La stagion ch’or si volge. Intolleranda Parve, e fu, la mia lingua alla beata Prole mortal, se dir si dee mortale L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno, Dall’Eden odorato in cui soggiorna, Rise l’alta progenie, e me negletto Disse, o mal venturoso, e di piaceri O incapace o inesperto, il proprio fato Creder comune, e del mio mal consorte L’umana specie. Alfin per entro il fumo De’ sigari onorato, al romorio De’ crepitanti pasticcini, al grido Militar, di gelati e di bevande Ordinator, fra le percosse tazze E i branditi cucchiai, viva rifulse Agli occhi miei la giornaliera luce Delle gazzette. Riconobbi e vidi La pubblica letizia, e le dolcezze Del destino mortal. Vidi l’eccelso Stato e il valor delle terrene cose, E tutto fiori il corso umano, e vidi Come nulla quaggiù dispiace e dura. Né men conobbi ancor gli studi e l’opre Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto Saver del secol mio. Né vidi meno Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo, E da Boston a Goa, correr dell’alma Felicità su l’orme a gara ansando Regni, imperi e ducati; e già tenerla O per le chiome fluttuanti, o certo Per l’estremo del boa. Così vedendo, E meditando sovra i larghi fogli Profondamente, del mio grave, antico Errore, e di me stesso, ebbi vergogna. Auro secolo omai volgono, o Gino, I fusi delle Parche. Ogni giornale, Gener vario di lingue e di colonne, Da tutti i lidi lo promette al mondo Concordemente. Universale amore, Ferrate vie, moltiplici commerci, Vapor, tipi e choléra i più divisi Popoli e climi stringeranno insieme: Né maraviglia fia se pino o quercia Suderà latte e mele, o s’anco al suono D’un walser danzerà. Tanto la possa Infin qui de’ lambicchi e delle storte, E le macchine al cielo emulatrici Crebbero, e tanto cresceranno al tempo Che seguirà; poiché di meglio in meglio Senza fin vola e volerà mai sempre Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme. Ghiande non ciberà certo la terra Però, se fame non la sforza: il duro Ferro non deporrà. Ben molte volte Argento ed or disprezzerà, contenta A polizze di cambio. E già dal caro Sangue de’ suoi non asterrà la mano La generosa stirpe: anzi coverte Fien di stragi l’Europa e l’altra riva Dell’atlantico mar, fresca nutrice Di pura civiltà, sempre che spinga Contrarie in campo le fraterne schiere Di pepe o di cannella o d’altro aroma Fatal cagione, o di melate canne, O cagion qual si sia ch’ad auro torni. Valor vero e virtù, modestia e fede E di giustizia amor, sempre in qualunque Pubblico stato, alieni in tutto e lungi Da’ comuni negozi, ovvero in tutto Sfortunati saranno, afflitti e vinti; Perché diè lor natura, in ogni tempo Starsene in fondo. Ardir protervo e frode, Con mediocrità, regneran sempre, A galleggiar sortiti. Imperio e forze, Quanto più vogli o cumulate o sparse, Abuserà chiunque avralle, e sotto Qualunque nome. Questa legge in pria Scrisser natura e il fato in adamante; E co’ fulmini suoi Volta né Davy Lei non cancellerà, non Anglia tutta Con le macchine sue, né con un Gange Di politici scritti il secol novo. Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse In arme tutti congiurati i mondi Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti Il debole, cultor de’ ricchi e servo Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun reggimento, o presso o lungi Sien l’eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener nostro il proprio albergo E la face del dì non vengon meno. Queste lievi reliquie e questi segni Delle passate età, forza è che impressi Porti quella che sorge età dell’oro: Perché mille discordi e repugnanti L’umana compagnia principii e parti Ha per natura; e por quegli odii in pace Non valser gl’intelletti e le possanze Degli uomini giammai, dal dì che nacque L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque Saggio sia né possente, al secol nostro Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose Più gravi, intera, e non veduta innanzi, Fia la mortal felicità. Più molli Di giorno in giorno diverran le vesti O di lana o di seta. I rozzi panni Lasciando a prova agricoltori e fabbri, Chiuderanno in coton la scabra pelle, E di castoro copriran le schiene. Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri Certamente a veder, tappeti e coltri, Seggiole, canapè, sgabelli e mense, Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno Di lor menstrua beltà gli appartamenti; E nove forme di paiuoli, e nove Pentole ammirerà l’arsa cucina. Da Parigi a Calais, di quivi a Londra, Da Londra a Liverpool, rapido tanto Sarà, quant’altri immaginar non osa, Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie Vie del Tamigi fia dischiuso il varco, Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso Dovea, già son molt’anni. Illuminate Meglio ch’or son, benché sicure al pari, Nottetempo saran le vie men trite Delle città sovrane, e talor forse Di suddita città le vie maggiori. Tali dolcezze e sì beata sorte Alla prole vegnente il ciel destina. Fortunati color che mentre io scrivo Miagolanti in su le braccia accoglie La levatrice! a cui veder s’aspetta Quei sospirati dì, quando per lunghi Studi fia noto, e imprenderà col latte Dalla cara nutrice ogni fanciullo, Quanto peso di sal, quanto di carni, E quante moggia di farina inghiotta Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti In ciascun anno partoriti e morti Scriva il vecchio prior: quando, per opra Di possente vapore, a milioni Impresse in un secondo, il piano e il poggio, E credo anco del mar gl’immensi tratti, Come d’aeree gru stuol che repente Alle late campagne il giorno involi, Copriran le gazzette, anima e vita Dell’universo, e di savere a questa Ed alle età venture unica fonte! Quale un fanciullo, con assidua cura, Di fogliolini e di fuscelli, in forma O di tempio o di torre o di palazzo, Un edificio innalza; e come prima Fornito il mira, ad atterrarlo è volto, Perché gli stessi a lui fuscelli e fogli Per novo lavorio son di mestieri; Così natura ogni opra sua, quantunque D’alto artificio a contemplar, non prima Vede perfetta, ch’a disfarla imprende, Le parti sciolte dispensando altrove. E indarno a preservar se stesso ed altro Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa Eternamente, il mortal seme accorre Mille virtudi oprando in mille guise Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta, La natura crudel, fanciullo invitto, Il suo capriccio adempie, e senza posa Distruggendo e formando si trastulla. Indi varia, infinita una famiglia Di mali immedicabili e di pene Preme il fragil mortale, a perir fatto Irreparabilmente: indi una forza Ostil, distruggitrice, e dentro il fere E di fuor da ogni lato, assidua, intenta Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca, Essa indefatigata; insin ch’ei giace Alfin dall’empia madre oppresso e spento. Queste, o spirto gentil, miserie estreme Dello stato mortal; vecchiezza e morte, Ch’han principio d’allor che il labbro infante Preme il tenero sen che vita instilla; Emendar, mi cred’io, non può la lieta Nonadecima età più che potesse La decima o la nona, e non potranno Più di questa giammai l’età future. Però, se nominar lice talvolta Con proprio nome il ver, non altro in somma Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo, E non pur ne’ civili ordini e modi, Ma della vita in tutte l’altre parti, Per essenza insanabile, e per legge Universal, che terra e cielo abbraccia, Ogni nato sarà. Ma novo e quasi Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi Spirti del secol mio: che, non potendo Felice in terra far persona alcuna, L’uomo obbliando, a ricercar si diero Una comun felicitade; e quella Trovata agevolmente, essi di molti Tristi e miseri tutti, un popol fanno Lieto e felice: e tal portento, ancora Da pamphlets, da riviste e da gazzette Non dichiarato, il civil gregge ammira. Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume Dell’età ch’or si volge! E che sicuro Filosofar, che sapienza, o Gino, In più sublimi ancora e più riposti Subbietti insegna ai secoli futuri Il mio secolo e tuo! Con che costanza Quel che ieri schernì, prosteso adora Oggi, e domani abbatterà, per girne Raccozzando i rottami, e per riporlo Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente! Quanto estimar si dee, che fede inspira Del secol che si volge, anzi dell’anno, Il concorde sentir! con quanta cura Convienci a quel dell’anno, al qual difforme Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro Comparando, fuggir che mai d’un punto Non sien diversi! E di che tratto innanzi, Se al moderno si opponga il tempo antico, Filosofando il saper nostro è scorso! Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco Di poetar maestro, anzi di tutte Scienze ed arti e facoltadi umane, E menti che fur mai, sono e saranno, Dottore, emendator, lascia, mi disse, I propri affetti tuoi. Di lor non cura Questa virile età, volta ai severi Economici studi, e intenta il ciglio Nelle pubbliche cose. Il proprio petto Esplorar che ti val? Materia al canto Non cercar dentro te. Canta i bisogni Del secol nostro, e la matura speme. Memorande sentenze! ond’io solenni Le risa alzai quando sonava il nome Della speranza al mio profano orecchio Quasi comica voce, o come un suono Di lingua che dal latte si scompagni. Or torno addietro, ed al passato un corso Contrario imprendo, per non dubbi esempi Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi, Non contraddir, non repugnar, se lode Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente Adulando ubbidir: così per breve Ed agiato cammin vassi alle stelle. Ond’io, degli astri desioso, al canto Del secolo i bisogni omai non penso Materia far; che a quelli, ognor crescendo, Provveggono i mercati e le officine Già largamente; ma la speme io certo Dirò, la speme, onde visibil pegno Già concedon gli Dei; già, della nova Felicità principio, ostenta il labbro De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo. O salve, o segno salutare, o prima Luce della famosa età che sorge. Mira dinanzi a te come s’allegra La terra e il ciel, come sfavilla il guardo Delle donzelle, e per conviti e feste Qual de’ barbati eroi fama già vola. Cresci, cresci alla patria, o maschia certo Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli Italia crescerà, crescerà tutta Dalle foci del Tago all’Ellesponto Europa, e il mondo poserà sicuro. E tu comincia a salutar col riso Gl’ispidi genitori, o prole infante, Eletta agli aurei dì: né ti spauri L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti. Ridi, o tenera prole: a te serbato È di cotanto favellare il frutto; Veder gioia regnar, cittadi e ville, Vecchiezza e gioventù del par contente, E le barbe ondeggiar lunghe due spanne. XXXIII. IL TRAMONTO DELLA LUNA Quale in notte solinga, Sovra campagne inargentate ed acque, Là ‘ve zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti Fingon l’ombre lontane Infra l’onde tranquille E rami e siepi e collinette e ville; Giunta al confin del cielo, Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon l’ombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, E cantando, con mesta melodia, L’estremo albor della fuggente luce, Che dianzi gli fu duce, Saluta il carrettier dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età mortale La giovinezza. In fuga Van l’ombre e le sembianze Dei dilettosi inganni; e vengon meno Le lontane speranze, Ove s’appoggia la mortal natura. Abbandonata, oscura Resta la vita. In lei porgendo il guardo, Cerca il confuso viatore invano Del cammin lungo che avanzar si sente Meta o ragione; e vede Che a sé l’umana sede, Esso a lei veramente è fatto estrano. Troppo felice e lieta Nostra misera sorte Parve lassù, se il giovanile stato, Dove ogni ben di mille pene è frutto, Durasse tutto della vita il corso. Troppo mite decreto Quel che sentenzia ogni animale a morte, S’anco mezza la via Lor non si desse in pria Della terribil morte assai più dura. D’intelletti immortali Degno trovato, estremo Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni La vecchiezza, ove fosse Incolume il desio, la speme estinta, Secche le fonti del piacer, le pene Maggiori sempre, e non più dato il bene. Voi, collinette e piagge, Caduto lo splendor che all’occidente Inargentava della notte il velo, Orfane ancor gran tempo Non resterete; che dall’altra parte Tosto vedrete il cielo Imbiancar novamente, e sorger l’alba: Alla qual poscia seguitando il sole, E folgorando intorno Con sue fiamme possenti, Di lucidi torrenti Inonderà con voi gli eterei campi. Ma la vita mortal, poi che la bella Giovinezza sparì, non si colora D’altra luce giammai, né d’altra aurora. Vedova è insino al fine; ed alla notte Che l’altre etadi oscura, Segno poser gli Dei la sepoltura. XXXIV. LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. Giovanni, III, 19 Qui su l’arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null’altro allegra arbor né fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade Che cingon la cittade La qual fu donna de’ mortali un tempo, E del perduto impero Par che col grave e taciturno aspetto Faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi Lochi e dal mondo abbandonati amante, E d’afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell’impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona; Dove s’annida e si contorce al sole La serpe, e dove al noto Cavernoso covil torna il coniglio; Fur liete ville e colti, E biondeggiàr di spiche, e risonaro Di muggito d’armenti; Fur giardini e palagi, Agli ozi de’ potenti Gradito ospizio; e fur città famose Che coi torrenti suoi l’altero monte Dall’ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola. A queste piagge Venga colui che d’esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto È il gener nostro in cura All’amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell’uman seme, Cui la dura nutrice, ov’ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell’umana gente Le magnifiche sorti e progressive . Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti, Di cui lor sorte rea padre ti fece, Vanno adulando, ancora Ch’a ludibrio talora T’abbian fra sé. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra; Ma il disprezzo piuttosto che si serra Di te nel petto mio, Mostrato avrò quanto si possa aperto: Ben ch’io sappia che obblio Preme chi troppo all’età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell’aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fe’ palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. Uom di povero stato e membra inferme Che sia dell’alma generoso ed alto, Non chiama sé né stima Ricco d’or né gagliardo, E di splendida vita o di valente Persona infra la gente Non fa risibil mostra; Ma sé di forza e di tesor mendico Lascia parer senza vergogna, e noma Parlando, apertamente, e di sue cose Fa stima al vero uguale. Magnanimo animale Non credo io già, ma stolto, Quel che nato a perir, nutrito in pene, Dice, a goder son fatto, E di fetido orgoglio Empie le carte, eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, Non pur quest’orbe, promettendo in terra A popoli che un’onda Di mar commosso, un fiato D’aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì, che avanza A gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella Che a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire Fraterne, ancor più gravi D’ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l’uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de’ mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L’umana compagnia, Tutti fra sé confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Ed alle offese Dell’uomo armar la destra, e laccio porre Al vicino ed inciampo, Stolto crede così qual fora in campo Cinto d’oste contraria, in sul più vivo Incalzar degli assalti, Gl’inimici obbliando, acerbe gare Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando Infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri Quando fien, come fur, palesi al volgo, E quell’orror che primo Contra l’empia natura Strinse i mortali in social catena, Fia ricondotto in parte Da verace saper, l’onesto e il retto Conversar cittadino, E giustizia e pietade, altra radice Avranno allor che non superbe fole, Ove fondata probità del volgo Così star suole in piede Quale star può quel ch’ha in error la sede. Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch’a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L’uomo non pur, ma questo Globo ove l’uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz’alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell’uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell’universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m’assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Come d’arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz’altra forza atterra, D’un popol di formiche i dolci alberghi, Cavati in molle gleba Con gran lavoro, e l’opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l’assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo, Schiaccia, diserta e copre In un punto; così d’alto piombando, Dall’utero tonante Scagliata al ciel profondo, Di ceneri e di pomici e di sassi Notte e ruina, infusa Di bollenti ruscelli O pel montano fianco Furiosa tra l’erba Di liquefatti massi E di metalli e d’infocata arena Scendendo immensa piena, Le cittadi che il mar là su l’estremo Lido aspergea, confuse E infranse e ricoperse In pochi istanti: onde su quelle or pasce La capra, e città nove Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello Son le sepolte, e le prostrate mura L’arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme Dell’uom più stima o cura Che alla formica: e se più rara in quello Che nell’altra è la strage, Non avvien ciò d’altronde Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde. Ben mille ed ottocento Anni varcàr poi che spariro, oppressi Dall’ignea forza, i popolati seggi, E il villanello intento Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancor leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto Dell’ostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall’inesausto grembo Su l’arenoso dorso, a cui riluce Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Del domestico pozzo ode mai l’acqua Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, Desta la moglie in fretta, e via, con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontan l’usato Suo nido, e il picciol campo, Che gli fu dalla fame unico schermo, Preda al flutto rovente, Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio Dopo l’antica obblivion l’estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all’aperto; E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell’orror della secreta notte Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per vòti palagi atra s’aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l’ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Così, dell’uomo ignara e dell’etadi Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per sì lungo cammino Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: E l’uom d’eternità s’arroga il vanto. E tu, lenta ginestra, Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Anche tu presto alla crudel possanza Soccomberai del sotterraneo foco, Che ritornando al loco Già noto, stenderà l’avaro lembo Su tue molli foreste. E piegherai Sotto il fascio mortal non renitente Il tuo capo innocente: Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, Né sul deserto, dove E la sede e i natali Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell’uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali. XXXV. IMITAZIONE Lungi dal proprio ramo, Povera foglia frale, Dove vai tu? — Dal faggio Là dov’io nacqui, mi divise il vento. Esso, tornando, a volo Dal bosco alla campagna, Dalla valle mi porta alla montagna. Seco perpetuamente Vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro. Vo dove ogni altra cosa, Dove naturalmente Va la foglia di rosa, E la foglia d’alloro. XXXVI. SCHERZO Quando fanciullo io venni A pormi con le Muse in disciplina, L’una di quelle mi pigliò per mano; E poi tutto quel giorno La mi condusse intorno A veder l’officina. Mostrommi a parte a parte Gli strumenti dell’arte, E i servigi diversi A che ciascun di loro S’adopra nel lavoro Delle prose e de’ versi. Io mirava, e chiedea: Musa, la lima ov’è? Disse la Dea: La lima è consumata; or facciam senza. Ed io, ma di rifarla Non vi cal, soggiungea, quand’ella è stanca? Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca. XXXVII. FRAMMENTO Alceta Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno Di questa notte, che mi torna a mente In riveder la luna. Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato; ed era Grande quanto una secchia, e di scintille Vomitava una nebbia, che stridea Sì forte come quando un carbon vivo Nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo La luna, come ho detto, in mezzo al prato Si spegneva annerando a poco a poco, E ne fumavan l’erbe intorno intorno. Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro. Melisso E ben hai che temer, che agevol cosa Fora cader la luna in sul tuo campo. Alceta Chi sa? non veggiam noi spesso di state Cader le stelle? Melisso Egli ci ha tante stelle, Che picciol danno è cader l’una o l’altra Di loro, e mille rimaner. Ma sola Ha questa luna in ciel, che da nessuno Cader fu vista mai se non in sogno. XXXVIII. FRAMMENTO Io qui vagando al limitare intorno, Invan la pioggia invoco e la tempesta, Acciò che la ritenga al mio soggiorno. Pure il vento muggìa nella foresta, E muggìa tra le nubi il tuono errante, Pria che l’aurora in ciel fosse ridesta. O care nubi, o cielo, o terra, o piante, Parte la donna mia: pietà, se trova Pietà nel mondo un infelice amante. O turbine, or ti sveglia, or fate prova Di sommergermi, o nembi, insino a tanto Che il sole ad altre terre il dì rinnova. S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan l’erbe e le frondi, e m’abbarbaglia Le luci il crudo Sol pregne di pianto. XXXIX. FRAMMENTO Spento il diurno raggio in occidente, E queto il fumo delle ville, e queta De’ cani era la voce e della gente; Quand’ella, volta all’amorosa meta, Si ritrovò nel mezzo ad una landa Quanto foss’altra mai vezzosa e lieta. Spandeva il suo chiaror per ogni banda La sorella del sole, e fea d’argento Gli arbori ch’a quel loco eran ghirlanda. I ramoscelli ivan cantando al vento, E in un con l’usignol che sempre piagne Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento. Limpido il mar da lungi, e le campagne E le foreste, e tutte ad una ad una Le cime si scoprian delle montagne. In queta ombra giacea la valle bruna, E i collicelli intorno rivestia Del suo candor la rugiadosa luna. Sola tenea la taciturna via La donna, e il vento che gli odori spande, Molle passar sul volto si sentia. Se lieta fosse, è van che tu dimande: Piacer prendea di quella vista, e il bene Che il cor le prometteva era più grande. Come fuggiste, o belle ore serene! Dilettevol quaggiù null’altro dura, Né si ferma giammai, se non la spene. Ecco turbar la notte, e farsi oscura La sembianza del ciel, ch’era sì bella, E il piacere in colei farsi paura. Un nugol torbo, padre di procella, Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto, Che più non si scopria luna né stella. Spiegarsi ella il vedea per ogni canto, E salir su per l’aria a poco a poco, E far sovra il suo capo a quella ammanto. Veniva il poco lume ognor più fioco; E intanto al bosco si destava il vento, Al bosco là del dilettoso loco. E si fea più gagliardo ogni momento, Tal che a forza era desto e svolazzava Tra le frondi ogni augel per lo spavento. E la nube, crescendo, in giù calava Ver la marina sì, che l’un suo lembo Toccava i monti, e l’altro il mar toccava. Già tutto a cieca oscuritade in grembo, S’incominciava udir fremer la pioggia, E il suon cresceva all’appressar del nembo. Dentro le nubi in paurosa foggia Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi; E n’era il terren tristo, e l’aria roggia. Discior sentia la misera i ginocchi; E già muggiva il tuon simile al metro Di torrente che d’alto in giù trabocchi. Talvolta ella ristava, e l’aer tetro Guardava sbigottita, e poi correa, Sì che i panni e le chiome ivano addietro. E il duro vento col petto rompea, Che gocce fredde giù per l’aria nera In sul volto soffiando le spingea. E il tuon veniale incontro come fera, Rugghiando orribilmente e senza posa; E cresceva la pioggia e la bufera. E d’ogn’intorno era terribil cosa Il volar polve e frondi e rami e sassi, E il suon che immaginar l’alma non osa. Ella dal lampo affaticati e lassi Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno, Gìa pur tra il nembo accelerando i passi. Ma nella vista ancor l’era il baleno Ardendo sì, ch’alfin dallo spavento Fermò l’andare, e il cor le venne meno. E si rivolse indietro. E in quel momento Si spense il lampo, e tornò buio l’etra, Ed acchetossi il tuono, e stette il vento. Taceva il tutto; ed ella era di pietra. XL. FRAMMENTO DAL GRECO DI SIMONIDE Ogni mondano evento È di Giove in poter, di Giove, o figlio, Che giusta suo talento Ogni cosa dispone. Ma di lunga stagione Nostro cieco pensier s’affanna e cura, Benché l’umana etate, Come destina il ciel nostra ventura, Di giorno in giorno dura. La bella speme tutti ci nutrica Di sembianze beate, Onde ciascuno indarno s’affatica: Altri l’aurora amica, Altri l’etade aspetta; E nullo in terra vive Cui nell’anno avvenir facili e pii Con Pluto gli altri iddii La mente non prometta. Ecco pria che la speme in porto arrive, Qual da vecchiezza è giunto E qual da morbi al bruno Lete addutto; Questo il rigido Marte, e quello il flutto Del pelago rapisce; altri consunto Da negre cure, o tristo nodo al collo Circondando, sotterra si rifugge. Così di mille mali I miseri mortali Volgo fiero e diverso agita e strugge. Ma per sentenza mia, Uom saggio e sciolto dal comune errore, Patir non sosterria, Né porrebbe al dolore Ed al mal proprio suo cotanto amore. XLI. FRAMMENTO DELLO STESSO Umana cosa picciol tempo dura, E certissimo detto Disse il veglio di Chio, Conforme ebber natura Le foglie e l’uman seme. Ma questa voce in petto Raccolgon pochi. All’inquieta speme, Figlia di giovin core, Tutti prestiam ricetto. Mentre è vermiglio il fiore Di nostra etade acerba, L’alma vota e superba Cento dolci pensieri educa invano, Né morte aspetta né vecchiezza; e nulla Cura di morbi ha l’uom gagliardo e sano. Ma stolto è chi non vede La giovanezza come ha ratte l’ale, E siccome alla culla Poco il rogo è lontano. Tu presso a porre il piede In sul varco fatale Della plutonia sede, Ai presenti diletti La breve età commetti.