Emilio Salgari LA RIVINCITA DI YANEZ CAPITOLO I. LA COLONNA INFERNALE — Saccaroa!... Ma dove quel demonio di Sindhia ha raccolto tanti sciacalli? Sono due giorni che sbucano dalle foreste e dalle jungle per arrestarci, eppure ne abbiamo gettati a terra! Cinque elefanti, cinque mitragliatrici e cento carabine, se saranno ancora cento, poiché delle perdite ne abbiamo subite anche noi. — Vogliono impedirci di giungere a Gauhati, signor Sandokan, per non lasciarci congiungere col signor Yanez, il Maharajah bianco, il vostro fratello d’oltre oceano. — E tu credi, Kammamuri, che quei pezzenti saranno capaci di fermarci? Sai come ho chiamato la banda che io conduco in aiuto di Yanez? La colonna infernale. Oh, passerà anche attraverso a ventimila uomini! Hanno molto da imparare questi indiani dai malesi e dai dayaki. Non ne ho condotti con me che cento, ma scelti con estrema cura, cento vere tigri della Malesia, che quantunque siano in fondo maomettani, ad un mio ordine non esiterebbero a strappare la barba al gran Profeta se si presentasse dinanzi a loro. — So quanto valgono — disse Kammamuri. — Due volte sono stato nella Malesia e li ho sempre ammirati; eppure io appartengo ad una delle razze piú guerresche dell’India. — Sí, i maharatti sono sempre stati bravi soldati, ed agli inglesi hanno dato dei grossi fastidi. Lo sa la Compagnia delle Indie. — Signor Sandokan, un’altra imboscata... — Questa sarebbe la terza, ma la colonna infernale passerà ed io andrò, malgrado tutti gli ostacoli, a rivedere mio fratello bianco, la rhani e il piccolo Soarez. Bell’idea che ho avuto a portare con me delle mitragliatrici! Sgombrano rapidamente le jungle. Sei sicuro che ci assalgano ancora? — Ho udito i segnali di quei banditi, signor Sandokan. Si radunano per darci un ultimo attacco, forse. — Oh, noi passeremo. Stava per cadere il giorno. Una luce quasi sanguigna si proiettava attraverso le alte pianure del Bengala, coperte di jungle e di fitte boscaglie di fichi baniani, di mangifere e di vecchi tamarindi, i cui rami piegavansi sotto il peso della frutta. Una colonna si avanzava rapidamente, aprendosi il passo lungo il fossato sinistro della linea ferroviaria di Rangpur. Era composta di cinque magnifici elefanti coomareah, i piú forti delle due razze che esistevano nell’India, quantunque meno bassi dei merghee, muniti di robuste casse od houdah, dinanzi alle quali s’alzava, su un affusto, una mitragliatrice a venticinque canne, disposta a ventaglio. Seguivano cento cavalieri, montati su robusti cavalli di razza inglese. Strani quei cavalieri, poiché non appartenevano a nessuna razza indiana. Mentre alcuni erano bassi e piuttosto tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri e sfumature rossastre cupe, gli occhi piccoli e nerissimi; altri invece erano piuttosto alti, di colore giallastro, di forme quasi perfette, coi lineamenti bellissimi, quasi regolati, e gli occhi bene aperti, ampi ed intelligentissimi. Un uomo che avesse avuto una profonda conoscenza colla regione malese, non avrebbe esitato a classificare i primi per malesi autentici, e gli altri per dayaki bornesi, due razze che si equivalgono per ferocia, per audacia e per coraggio indomito. Cavalcavano forse un po’ male, poiché tutta quella gente doveva essere piú abituata a cavalcare i pennoni dei rapidissimi prahos malesi; pure si tenevano abbastanza bene in sella, ed i cavalli inglesi non avevano molto buon giuoco. Tutti erano formidabilmente armati di grosse carabine di mare, usate piú per la mitraglia che pei proiettili, di pistoloni a lunga canna e di certi pesanti sciaboloni le cui punte finiscono in forma di doccia, armi terribili, fabbricate con un acciaio naturale che solo si trova nelle miniere dei Monti del Cristallo del Sultanato di Varauni, e che con un colpo solo portano via una testa. Erano i famosi kampilangs dei dayaki. Sul primo elefante si trovavano due uomini ben diversi l’uno dall’altro. Noi sappiamo chi era Kammamuri, l’indemoniato maharatto, il fedelissimo servo di Tremal-Naik, il famoso cacciatore della Jungla nera. L’altro, che stava proprio seduto dietro alla mitragliatrice, pronto sempre a scatenarla, pareva invece un orientale dell’estremo oriente, a giudicarlo dalla tinta della sua pelle che aveva dei lontani riflessi olivastri, occhi nerissimi, ardenti, barba ancora nera malgrado i suoi cinquantacinque anni, e capelli lunghi e ricciuti che gli cadevano sulle spalle. Indossava una ricchissima casacca di seta verde con alamari rossi e bottoni d’oro, portava calzoni larghi d’egual colore, alti stivali di pelle gialla colla punta rialzata, come quelli degli Usbeki del Turchestan, e da una larga fascia di seta bianca gli pendeva una magnifica scimitarra la cui impugnatura, incrostata di diamanti e di rubini, doveva avere un valore grandissimo. Sul secondo si trovavano un vecchio malese dal volto rugoso e l’espressione feroce, ed un uomo sulla quarantina, di forme massicce, cogli occhi azzurri, difesi da un paio d’occhiali montati in oro, i capelli biondissimi e la carnagione quasi rosea degli uomini dei paesi nordici dell’Europa. Vestiva tutto di bianco, di flanella leggerissima, e portava in testa una specie di elmo di tela bianca, con un lungo velo azzurro che gli cadeva sulle spalle. Non aveva affatto l’aspetto d’un uomo di guerra, ma piuttosto quello di uno scienziato o d’un esploratore. Gli altri tre erano montati da malesi e dai cornac. La colonna si era cacciata in mezzo ad un largo passaggio aperto fra delle immense mangifere che si stendevano lungo alcuni stagni assai vasti, entro i quali si vedevano guizzare giganteschi coccodrilli in cerca di preda. Doveva già aver subíto delle perdite, se non di uomini almeno di cavalli, poiché parecchi animali portavano due cavalieri invece d’uno. Il primo elefante, ad un fischio del cornac, si era arrestato, arrotolando subito prudentemente la sua proboscide fra le zanne, come se avesse temuto l’assalto improvviso di qualche tigre, e si era piantato solidamente sulle grosse zampe mandando un lungo barrito. L’uomo vestito da orientale s’era tolto il largo turbante di seta bianca, su cui sfavillava un diamante d’inestimabile valore, poi si era collocato dietro alla mitragliatrice, dicendo al cornac che si era coricato tutto sul collo dell’elefante: — Tieni ferma la bestia tu. — Sí, sahib. — Avremo un altro assalto da parte di quei brutti sciacalli. È già il quarto... Quanti sono dunque? — Ve l’ho detto, signor Sandokan, — disse l’indiano che gli sedeva a fianco e che stava armando la carabina. — Molti... Ventimila, si dice. Il fiero bornese, poiché non era affatto un malese, alzò le spalle e disse: — Ma noi passeremo egualmente. — Badate che quei banditi hanno espugnata e saccheggiata Goalpara, battendo i duemila montanari di Sadhja che erano guidati dal figlio di Khampur. — Se fossero stati comandati dal padre, Goalpara apparterrebbe ancora alla rhani e quindi anche a Yanez. E poi, noi siamo le tigri di Mompracem che tante e tante volte hanno vinto gli inglesi per terra e per mare, e quegli uomini, non offenderti, Kammamuri, si battono meglio degli indiani. — Non dei maharatti, però, signor Sandokan. Abbiamo perduto, è vero, la nostra indipendenza, ma quante madri inglesi hanno pianto i loro figli caduti nella lontana India? E molti ne sono morti, in mezzo alle jungle, in mezzo alle selve, intorno alla città ed ai villaggi. — Taci, Kammamuri. Fra le folte mangifere si erano uditi degli urli acuti, urli lugubri, simili a quelli che manda il lupo quando è affamato e scorrazza le montagne. — Credi tu, che sei indiano, che questi siano urli di sciacalli? — chiese Sandokan. — No, signore, quantunque abilmente imitati — rispose Kammamuri. — Siamo lontani dalla capitale? — Solamente sei o sette miglia, ma mi stupisce grandemente una cosa. — Parla. — Che non vedo le cime né di pagode, né di moschee. Eppure l’orizzonte è ancora bene illuminato. — Che Yanez, vedendosi perduto, abbia dato fuoco a Gauhati? — Lo credo, signor Sandokan. — Ma sappiamo dove trovarlo? — Nella città sotterranea. — Sarà ben sicuro laggiú? — Poche carabine bastano a difenderne l’entrata. — Allora sono tranquillo. Ancora dei segnali? Si alzò, e volgendosi verso gli uomini che montavano gli altri quattro elefanti, gridò con voce tonante: — Pronte le mitragliatrici!... C’è un nuovo attacco. «I cavalieri si stringano presso gli animali.» In quel momento alcuni colpi di fucile rimbombarono in mezzo alle mangifere. Facevano gran fracasso e nessun danno, essendo forse le carabine maneggiate da gente piú abituata ad usare il tarwar ed il bastone anziché le armi da fuoco. — Cornac! — gridò Sandokan. — Lanciate gli elefanti! Ormai sono abituati a questa musica! I cinque giganteschi animali, scortati dai cavalieri, si misero in moto a mezza corsa, barrendo spaventosamente. Non tenevano però la proboscide alzata per paura di ricevere qualche palla. Le mitragliatrici erano pronte. Bastava solo che gli assalitori si mostrassero per scatenarle, ma gli sciacalli di Sindhia, che avevano già provato il fuoco di quei terribili ordigni di guerra, si guardavano bene dal mostrarsi. I cavalieri però, quando vedevano qualcuno attraversare i cespugli a gran corsa, o per unirsi ai compagni, o per scegliersi una migliore posizione, di quando in quando facevano tuonare le loro grosse carabine di mare cariche fino a mezza canna di piccoli chiodi di rame. Quei colpi non sempre uccidevano, ma sbarazzavano il terreno dagli assalitori, i quali non sapevano resistere ai morsi crudeli di quel nuovo genere di mitraglia, usato solamente dai pirati malesi. Per un buon chilometro i cinque elefanti procedettero sempre a mezza corsa e sbucarono finalmente nella pianura che si stendeva al sud della capitale, priva di boschi e di jungle, perché quei terreni erano stati coltivati a risaie. Kammamuri mandò un altissimo grido: — La capitale è scomparsa!... Non vedo altro che la vecchia moschea che sorge presso l’entrata della città sotterranea. — Infatti non si vedono che dei bastioni semi-sventrati — rispose Sandokan. — Dev’essere stato un bell’incendio, poiché dei templi, dei palazzi e delle case ve n’erano in gran numero in Gauhati. Che si sia arrostito, per caso, anche Yanez? Ah! Sindhia me la pagherebbe ben cara la morte del mio fratellino bianco. La sua fronte si era corrugata tempestosamente, ed i suoi occhi nerissimi avevano mandato dei baleni terribili. La Tigre della Malesia non era ancora invecchiata. — Mi hai udito, Kammamuri? — chiese dopo un breve silenzio, rotto solo dallo sbuffare degli elefanti, i quali pareva che avessero nei polmoni dei mantici giganteschi. — Se il Maharajah ha avuto il tempo di rifugiarsi nelle grandi cloache, e l’avrà certamente avuto, noi lo troveremo ancora vivo. Sandokan respirò a lungo come gli avessero tolto dal petto un masso enorme che lo comprimesse, poi riprese: — Tu credi dunque che sia salvo? — Sí, signor Sandokan. — E la rhani? Ed il piccolo Soarez che tanto desidero di vedere? — O saranno con lui, o li avrà avviati prima verso le montagne. Sapete quanto Yanez sia prudente. — Sí, molto piú di me, e se non ci fosse stato lui a frenarmi, chi sa se sarei ancora vivo. Orsú, tutto pare che vada bene. Sole quattro miglia ci separano da quella moschea, distanza che i nostri elefanti ed i nostri cavalli supereranno in un batter d’occhio. — Se ci lasceranno tranquilli, signor Sandokan. — Ci diano pure battaglia quegli sciacalli; anche se sono molti, moltissimi, noi siamo pronti ad accettarla. — Vi è però un pericolo. — E quale? — Che poi ci assedino. — Dentro la città sotterranea? — Sí, signor Sandokan. — Manca l’acqua là dentro? — Ve n’è perfino troppa. — Ed allora tutto andrà bene: cinque elefanti da mangiare e quasi cento cavalli da scuoiare. Ne avremo per resistere a lungo. — E la legna? — I miei uomini sono abituati a mangiare la carne anche cruda; e poi, se ne avremo bisogno, tenteremo delle uscite furiose e ci provvederemo. Orsú, basta, ora è il momento di riprendere un’altra conversazione. Li vedi correre e nascondersi nei fossati delle risaie? — Sí, signor Sandokan, e quei birbanti son dieci volte piú numerosi di noi, e quello che è piú grave ancora, vedo non pochi rajaputi. — Ah, quei bravi rajaputi che si vendono cosí facilmente — disse Sandokan, stringendo i denti. — Sarà su di loro che faremo tuonare le nostre mitragliatrici. Gli altri ben poco contano. Per la seconda volta si alzò gridando ai cornac: — A gran corsa!... Diritti verso quella moschea che vedete laggiú!... Cinque o seicento uomini, fra i quali si trovavano non pochi rajaputi, erano balzati sugli argini delle risaie, sparando all’impazzata. Le cinque mitragliatrici, tre volte a destra e due a sinistra subito crepitarono scagliando proiettili in tutte le direzioni. Nel medesimo tempo i cavalieri avevano aperto il fuoco colle loro grosse carabine. Quell’uragano di piombo e di rame non parve però che spaventasse troppo gli assalitori, quantunque molti cadessero ad ogni istante dentro i canali delle risaie morti o feriti. Gli sciacalli di Sindhia correvano all’assalto con un coraggio disperato, decisi, a quanto pareva, ad impedire a quella colonna, che veniva dal sud, l’entrata nella capitale distrutta o nella città sotterranea. Si scagliavano con impeto selvaggio, in grossi gruppi, correndo all’impazzata ed urlando spaventosamente. Assalivano a destra ed a sinistra procedendo animosamente e non cessando di sparare, ma quasi sempre a casaccio. La colonna infernale peraltro non si arrestava. Procedeva rapida, sempre mitragliando, mentre i cavalieri eseguivano, di quando in quando, delle cariche furiose coi pesanti kampilangs in pugno, producendo sugli sciacalli di Sindhia delle ferite spaventose e forse inguaribili. Dinanzi a quegli attacchi furibondi gli assalitori continuavano a scompigliarsi ed a fuggire attraverso alle risaie, ma non tardavano a raggrupparsi intorno ai rajaputi, i soli che osassero resistere, ed a far uso delle loro carabine. Dalla parte dei malesi, di quando in quando cadeva qualche uomo che non veniva abbandonato dai compagni sul campo di battaglia, colla speranza di poterlo ancora salvare. Ma le cinque mitragliatrici, maneggiate da uomini abili, compivano delle vere stragi, ed erano soprattutto i rajaputi che pagavano, perché Sandokan non faceva fuoco che su di loro, ben sapendo che erano le uniche truppe solide che aveva l’ex rajah. Quegli arditi mercenari dall’aspetto brigantesco, cadevano a gruppi sugli argini, dentro i canali delle risaie; eppure tentavano di raccogliere, con altissime grida, intorno a loro, i paria, i fakiri, i bramini, tutta gente non abituata certamente alla guerra. — Tengono duro, ma noi la spunteremo — disse Sandokan a Kammamuri, maneggiando la mitragliatrice. — Se non vi fossero i rajaputi, la giornata sarebbe già vinta; però Sindhia s’inganna se crede di arrestarci prima che noi giungiamo nella città sotterranea. Le scariche si succedevano alle scariche con frequenza spaventosa, ed i proiettili sibilavano dentro le risaie. I cavalieri cosí malesi come dayaki, erano tornati a stringersi intorno agli elefanti e si servivano delle loro grosse carabine, lasciando in pace i kampilangs, già arrossati di sangue. La vecchia moschea non era che a tre chilometri. Le sue cupole si disegnavano nettamente sul fondo del cielo diventato d’un azzurro cupo poiché il sole era ormai già tramontato. Erano molti, tuttavia Sandokan non disperava affatto di giungervi malgrado i continui e feroci assalti degli sciacalli di Sindhia. Aveva portato con sé molte casse di munizioni destinate soprattutto alle mitragliatrici, e non faceva economia di proiettili né faceva farne agli altri. — Giú!... Spazzatemi questa canaglia!... — gridava. — Noi che abbiamo vinti gli inglesi in dieci battaglie, dovremo cadere dinanzi a dei miserabili paria? Vedendo che gli assalitori, malgrado le terribili perdite subite, tornavano a radunarsi intorno ai pochi rajaputi sfuggiti al fuoco infernale delle mitragliatrici, si volse verso i suoi cavalieri. — Addosso coi kampilangs in pugno!... — gridò. — Sbarazzatemi la via ora che il terreno è piú propizio. Gli elefanti intanto avevano lasciate le risale e marciavano, a gran corsa, su una landa vastissima interrotta solamente da gruppi di banani e di radi cespugli. I malesi ed i dayaki attesero che le mitragliatrici avessero sgominato l’ostinato avversario, poi caricarono all’impazzata, maneggiando con mano robusta i loro pesanti sciaboloni. La colonna infernale passava attraverso i corpi degli sciacalli di Sindhia, tutto rovesciando al suo passaggio. Ormai piú nessuno poteva arrestarla. Sarebbero state necessarie tutte le forze dell’ex rajah, forze che si trovavano forse disperse intorno alla vasta città distrutta ed occupate a rimescolare le ceneri delle pagode, delle moschee, dei palazzi, dei bengalow, colla speranza di trovare dell’oro e dell’argento. Gli elefanti impressionati da tutti quegli spari e da tutte quelle grida, e resi furibondi per qualche ferita, si erano slanciati a gran corsa barrendo spaventosamente. Quei cinque giganti, montati da uomini che parevano invulnerabili, e che colle mitragliatrici seminavano dovunque la morte, facevano paura. Gli sciacalli di Sindhia, già sgominati dall’ultima carica, atterriti da tutti quegli spari che si succedevano senza tregua, e che abbattevano sempre gruppi d’uomini, non osavano piú opporre alcuna resistenza, anche perché il terreno scoperto non si prestava piú. Fuggivano da tutte le parti, piú lesti dei nilgò, gettando perfino le carabine per essere piú leggeri. Anche i pochi rajaputi, spaventati dalla carneficina compiuta dalle mitragliatrici, non resistevano piú. Fuggivano dinanzi alla colonna infernale. — Era tempo che se ne andassero — disse Sandokan, scaricando un’ultima volta la sua mitragliatrice sui fuggiaschi. — Ci prendevano per dei conigli? Alzò la voce e gridò: — Spingete, spingete, cornac!... Siamo ormai a pochi passi dall’asilo sicuro. — Lasciate ora a me la direzione degli elefanti — disse Kammamuri. — Io solo conosco il passaggio. — Potranno entrare le bestie? — chiese Sandokan. — L’arcata è cosí grande da permettere l’entrata anche ad un piccolo esercito, e poi vi sono le due banchine che sono vastissime. Cavalli ed elefanti potranno avanzarsi senza alcun pericolo di cadere nelle acque fangose del fiume nero. Ci vorrebbe peraltro qualche torcia. — Ne abbiamo una cassa piena. Sta proprio sotto i tuoi piedi. Il maharatto con due colpi del calcio della sua carabina sfondò le tavole, prese ciò che aveva chiesto e l’accese subito, gridando agli altri cornac: — Seguite sempre il mio elefante ed io rispondo di tutto. Badate che nessun animale si sbandi quando saremo entrati nella grande città sotterranea!... Presso la vecchia moschea una banda composta di paria o di fakiri, o di banditi, tentò un ultimo assalto per arrestare la colonna infernale prima che si sprofondasse sotto le tenebrose volte della grande cloaca, ma non era cosí formidabile da opporre una lunga resistenza. Le mitragliatrici tuonarono per l’ultima volta abbattendo file intere di combattenti, poi i cinque elefanti ed i cento cavalieri scomparvero sotto la gigantesca arcata, correndo su una delle due banchine. La torcia di Kammamuri serviva da faro. Ad un tratto delle voci echeggiarono fra le tenebre: — Chi va là!... Chi va là!... — Siamo le tigri di Mompracem! — gridò Sandokan con voce tonante. — Non fate fuoco!... — Era tempo che tu giungessi!... — gridò una voce. — Ah, sei tu, Yanez? — chiese Sandokan. — Sono ben lieto di essere giunto ancora in tempo per salvarti. Un gruppo d’uomini si avanzava, agitando due torce. Era preceduto da un uomo bianco, dalla lunga barba brizzolata, di forme gagliarde, vestito interamente di flanella bianca sottilissima. A fianco di quel bell’uomo si avanzava un indiano dal lineamenti fini, la pelle appena abbronzata, gli occhi nerissimi, vestito mezzo da cipai e mezzo da rajaputo. Erano Yanez, il Maharajah dell’Assam, ormai troppo noto, ed il suo fedele compagno Tremal-Naik, il famoso cacciatore della Jungla nera. Dietro venivano tredici uomini, tutti indiani e tutti armati di carabine e di tarwar, armi che non valevano molto in uno scontro contro i malesi ed i dayaki, che si servivano invece, come abbiamo già detto, di sciabole pesantissime, i formidabili kampilangs. Kammamuri aveva fatto fermare il primo elefante e gettare la scala di corda. Sandokan, il terribile pirata malese, in un lampo si era slanciato sulla banchina ed aveva aperte le braccia gridando: — Qui sul mio cuore tutti e due, miei vecchi amici!... Il Maharajah e l’indiano si erano gettati verso di lui stringendolo gagliardamente. — Ora basta — disse Sandokan. — La rhani e Soarez sono in salvo? — Sí — rispose Yanez. — Prima di distruggere la mia capitale ho mandato l’una e l’altro fra i montanari di Sadhja. — Saccaroa! ho ben veduto, giungendo qui, che non sorgevano piú né pagode, né palazzi. Dicono che io sono terribile, ma tu non sei meno di me. — Non sono forse il tuo fratello bianco? — disse Yanez ridendo. — È vero; ma me n’ero quasi scordato. Sai che sono tre lunghissimi anni che non ci vediamo? Poi volgendosi bruscamente verso Tremal-Naik, gli chiese: — E la tua Darma? E suo marito, quel bravo Sir Moreland? Sono qui? — Mai piú; navigano sempre e sono ora nell’Oceano Pacifico. — E credo che facciano bene a tenersi lontani dall’India — disse Sandokan. — I thugs non sono ancora stati tutti distrutti, e quelle canaglie sono troppo vendicative. Poi guardò l’amico bianco sorridendo. — Dunque tu non sei piú Maharajah, mio povero amico? — Adagio, Sandokan — rispose Yanez. — Ho sempre un piede nell’impero ed ho i montanari sempre fedeli. — Mentre quelle canaglie di rajaputi ti hanno tradito tutti. Me lo ha detto Kammamuri. — Non ne ho che uno solo, di mille. — Ne abbiamo gettati giú parecchi però, di quei mercenari infedeli, venendo qui, e sento per quella gente un vero odio. — Ed io non meno di te — disse Yanez. — Se non mi avessero abbandonato, Sindhia non avrebbe mai potuto riporre i piedi sulle coste assamesi. Tutta la canaglia che ha radunata sarebbe andata subito a rotoli. — E cosí hai perduto le due città piú grosse dell’impero? — E forse altre saranno cadute nelle mani di quei bricconi. Da ventisei giorni sono qui, come un prigioniero, e piú nessuna notizia mi è giunta dal di fuori. Sandokan lo guardò con stupore. — Come puoi aver resistito tanto tempo al calore infernale che regna qui dentro? Dovresti essere biscottato come un pane di sagú. — Quest’altissima temperatura si è sviluppata cinque o sei giorni fa. Prima le immense volte delle cloache pareva che non si fossero nemmeno accorte dell’incendio che avvampava sopra di loro distruggendo la mia capitale. Poi, a poco a poco sono diventate ardenti. — Non ci cadranno sulla testa? — Non credo. I mongoli erano troppo buoni costruttori. Può darsi che molte gallerie e molte rotonde siano crollate, ma noi non usciremo attraverso quelle. Sarebbe troppo pericoloso. — E l’acqua manca? Vedo qui un largo fiume puzzolente che scorre presso la banchina. Certamente io non mi disseterò con quella poltiglia. — Abbiamo trovata una piccola sorgente che ce ne fornisce in abbondanza. — E di viveri quanti ne avete? — chiese Sandokan. — Pensa, mio caro, che da quando ci siamo rifugiati qui non abbiamo fatto altro che arrostire topi poiché non avevamo avuto il tempo di portare con noi nemmeno una cassa di biscotti. — Povere bestie!... Quante ne avrete distrutte?... Delle centinaia e centinaia m’immagino. — Ma ora eravamo alle prese con la fame, poiché i rosicchianti, spaventati, ci hanno vigliaccamente abbandonato. — Non avevano poi torto — disse Sandokan, sorridendo. — A nessuno piace finire nello spiedo. In quel momento verso l’entrata della grande cloaca si udirono rimbombare sinistramente parecchi colpi d’arma da fuoco i quali si erano ripercossi lungamente attraverso alle innumerevoli gallerie, rumoreggiando. Sandokan aveva fatto un gesto di collera. — Ah!... — esclamò. — Quei banditi, o sciacalli che siano, osano assalirci anche qui? Adagio, miei cari. Avrete altre terribili lezioni!... Poi alzando la voce e volgendosi verso i suoi uomini che si tenevano ancora in sella, e che avevano accese parecchie torce, disse loro: — Togliete le mitragliatrici dalle houdah e portatele, con una scorta di cinquanta persone, verso l’uscita di questa immensa cloaca. Gli elefanti rimangano per ora qui. Potrebbero diventare, piú tardi, straordinariamente preziosi. Non fate risparmio di munizioni: ne abbiamo in abbondanza. Venticinque dayaki ed altrettanti malesi saltarono a terra affidando i cavalli ai loro compagni, si strinsero intorno agli elefanti che i cornac avevano fatti inginocchiare, tolsero le cinque terribili bocche da fuoco e si allontanarono a gran corsa, seguendo la banchina. — Sempre lesti come scimmie e mai esitanti i tuoi uomini! — disse Yanez con un sospiro. — Puoi dire i nostri uomini, poiché per lunghi anni hanno combattuto con te. Se io sono la Tigre della Malesia, tu sei sempre la Tigre bianca di Mompracem, e ti rimpiangono quei valorosi che tu hai guidato a tante vittorie sulle terre malesi. «Già, questo maledetto impero dell’Assam non ci voleva proprio e non era necessario.» — E mia moglie? — È vero, è la rhani, ed ha il diritto di conservarsi lo Stato e di contrastarlo a quel furfante di Sindhia già detronizzato. Ci sarà un gran lavoro da fare, mio caro Yanez, tuttavia io non mi spavento affatto. Mi piace combattere in India e noi, che abbiamo vinto e ucciso Suyodhana, il famoso capo dei thugs della Jungla nera, per la seconda volta sapremo mettere a posto l’ex rajah ubriacone e... Si era interrotto e si era voltato verso l’immensa entrata della grande cloaca, dove brillavano in lontananza dei punti rossastri che talvolta si oscuravano per diventare invece giallastri. Erano le torce a vento che fiammeggiavano alla foce del fiume fangoso. Si udirono alcuni colpi di fucile, poi delle scariche fitte, serrate, spaventevoli, dinanzi alle quali non potevano certamente resistere gli sciacalli di Sindhia. — Odi come cantano le mie mitragliatrici? — disse il formidabile pirata, volgendosi nuovamente verso i due suoi amici. — Senza quelle forse non sarei mai riuscito a giungere fino qui, poiché quegli sciacalli, animati dalla presenza dei rajaputi, ci hanno dato dei brillanti attacchi. È vero bensí che resistevano soltanto qualche minuto. — Armi da marina? — chiese il portoghese. — Non ho ancora avuto il tempo di osservarle. Somigliano a quelle che avevamo a bordo del Re del Mare? — Molto piú potenti — rispose Sandokan. — Le ho tolte dalla mia Perla di Labuan che ora è la nave piú rapida e meglio armata che io possegga. Oh, gli inglesi di Labuan la conoscono e sanno che è in grado di tener testa ai loro incrociatori già troppo antiquati, ed alle cannoniere olandesi. — Ah!... — fece Yanez, battendosi con una mano la fronte. — E la tua amica olandese? — È sempre la mia fedele amica — rispose il pirata di Mompracem con un leggero sorriso. — To’, io mi dimenticavo di presentarti un suo parente, un professore, che si dice goda molta fama in Europa, e che ci aiuterà validamente a distruggere le bande di Sindhia. — Qual professore? — chiese Yanez, con tono un po’ ironico, alzando la voce poiché le mitragliatrici facevano un chiasso infernale. — Ti rammenti quel Demonio della guerra che con una certa macchina elettrica poteva far esplodere, a distanza, i depositi di polvere delle navi? — Per Giove, se me lo rammento!... E sono quasi certo che se quella granata, caduta proprio nel momento in cui stava per lanciare la terribile scintilla elettrica, non avesse ucciso lui distruggendo nel medesimo istante il suo misterioso apparecchio, molte navi di Sir Moreland sarebbero saltate. — Ed allora Sir Moreland non sarebbe diventato mio genero — disse Tremal-Naik. — Se tutto saltava, doveva ben andare in aria anche lui coi suoi marinai. — Tu hai ragione — disse Sandokan. — La tua Darma non si sarebbe sposata col figlio di Suyodhana. — Ma dov’è questo professore? — chiese Yanez. — Sul secondo elefante. È probabile che si sia addormentato poiché soffre di sonno. — Ha anche lui qualche scintilla elettrica per fare esplodere le polveri? — chiese Yanez. — No, ha una cassa piena di bottiglie ben sigillate. — E crederebbe, quel pacifico professore che viene dalla brumosa Olanda, di sterminare... — Sterminare, hai detto? Pretende e si tien sicuro di distruggere tutti gli sciacalli di Sindhia con quelle misteriose bottiglie. — Che cosa contengono dunque? — Io non ho capito gran cosa, e poi non sono un europeo per sapere che cosa sono i microbi. — I microbi?... Che diavolo!... Ha la peste ed il colera rinchiusi dentro quelle bottiglie? — Che cosa vuoi che ne sappia io? — rispose Sandokan. — Io non mi intendo che di prahos, di carabine, di parangs e di kampilangs. Lui ti spiegherà meglio. Prese ad un malese una torcia, la sbatté per terra, ed essendo in quel momento cessate le scariche delle mitragliatrici e delle grosse carabine da mare, s’avvicinò al secondo elefante, il quale stava vuotando avidamente un mastello che il cacciatore di topi aveva riempito alla sorgente e gridò: — Signor Wan Horn, vi presento il Maharajah dell’Assam! CAPITOLO II. IL PARLAMENTARIO L’europeo dalla pelle rosea, i capelli biondi e gli occhi azzurri difesi da un paio di occhiali montati in oro, a quella chiamata fu pronto a svegliarsi ed a discendere dall’houdah. — Altezza, — disse levandosi l’elmo di tela bianca e facendo un profondo inchino. — Vi conosco già assai per fama, e sospiravo il momento di vedervi. — Voi siete olandese? — chiese Yanez, dopo avergli dato una stretta di mano. — Sí, Altezza. — Un professore forse? — Un medico che ha dedicato tutta la sua esistenza allo studio dei bacilli. — E perché siete venuto insieme col mio amico? — Per aiutarvi, Altezza, — rispose l’olandese con voce pacata. — Esperimenterò la potenza dei miei bacilli sui vostri avversari. — Veramente non capisco bene, signor Wan Horn. — Lo credo: non avete ancora veduto le mie bottiglie entro le quali coltivo quei microscopici animaletti cosí terribili da scatenare la peste, il colera, il tifo ed altre malattie. — Yanez — disse Sandokan interrompendo — tu credi proprio che la volta non cadrà anche se calcinata dal fuoco? — Ti ho detto che non vi è alcun pericolo. — Allora, finché voi discuterete di cose che io, uomo quasi selvaggio, non posso comprendere, vi lascio per recarmi verso la foce del fiume fangoso. Voglio vedere coi miei occhi come vanno le cose laggiú. «Pare che gli sciacalli di Sindhia si siano fitti in capo di entrare qui malgrado il fuoco delle mitragliatrici. Ah, la vedremo!...» Chiamò due malesi, prese un’altra torcia e si allontanò rapidamente seguendo la larga banchina, mentre dei colpi di fuoco continuavano a rimbombare verso l’estremità della grand’arcata. — Dunque vi dicevo — riprese l’olandese, a cui piaceva assai parlare, a quanto pareva, quantunque sia cosa piuttosto rara in un olandese — che io sono riuscito a coltivare una quantità enorme di bacilli, bastanti per distruggere anche cento milioni di persone in pochi giorni. — Possibile? Sareste voi il fratello del Demonio della guerra? — esclamò il Maharajah. — No, Altezza — rispose l’olandese, sorridendo. — Conosco già la storia di quel disgraziato inventore. E poi io non sono un inventore. Non sono che un coltivatore, ma invece di piantare fagiuoli e patate, racchiudo i bacilli piú terribili dentro delle bottiglie che invece di acqua pura contengono un brodo assai nutriente, ottenuto con siero di vitello e di fegato glicerinato. — È un po’ difficile capirvi, signor Wan Horn. Io non sono uno scienziato. — Capirete subito, Altezza. Quantunque verso il fondo della grande cloaca continuassero a rombare le grosse carabine, l’olandese si arrampicò agilmente sull’hauda, aprí una cassa, prese a casaccio qualche cosa e ridiscese con infinite precauzioni. — Che cos’è questa? — chiese a Yanez. — Una bottiglia che mi pare piena d’un liquido color dell’ambra, ma che io non vuoterei, ve lo assicuro, dottore. — No, è un vivaio. Entro questo vetro ho coltivato i bacilli della tubercolosi. — Ma io non vedo alcun insetto agitarsi dentro quel brodo! — Come sarebbe possibile? I vostri occhi non sono dei microscopi. Pensate, Altezza, che i bacilli della tubercolosi, per esempio, che hanno la forma di asticciuole rosse, sono cosí piccoli, che mille, messi l’uno dietro l’altro, raggiungono appena la lunghezza d’un millimetro. Calcolate poi che occorre un milione di quei terribili esseri per coprire solamente un millimetro quadrato. — Sicché io non posso vederli. — Nemmeno se possedeste gli occhi delle aquile. — E quanti ve ne sono rinchiusi in quel vivaio? — Tanti da poter inoculare la tisi a cento o duecentomila uomini -rispose l’olandese. — Voi mi spaventate. Se le vostre bottiglie si spezzassero? — Morremmo tutti ed in poco tempo, perché ho tre vivai di bacilli virgola del colera. — Mi stupisco come Sandokan vi abbia permesso di portare con voi degli oggetti cosí pericolosi — disse Yanez. — Una disgrazia può sempre avvenire. — Quale? — Una palla di cannone potrebbe frantumare la vostra cassa ed allora saremmo noi alle prese col tifo, colla peste, col colera ed altri malanni ancora. — Speriamo, Altezza, che la palla non giunga fino alle mie preziose bottiglie. Sarebbe per me una perdita incalcolabile. — Che avreste ben poco tempo per rimpiangere, dottore. Il colera vi prende e vi spazza via in poche ore... — Anche meno, Altezza. Ho un vivaio che contiene dei bacilli virgola che fulminano l’uomo appena attaccato. — Signor Wan Horn, rimettete a posto la vostra bottiglia. Una palla potrebbe entrare nella grande cloaca e spezzarvela fra le mani... E dite un po’ — soggiunse Yanez — come vi servireste di questi... chiamiamoli i proiettili della morte sicura? — Si va a gettare una bottiglia nel campo nemico, la si rompe, e si lascia che i microbi si sviluppino e compiano il loro dovere. — Ah, dovere lo chiamate! — Il loro compito, allora. Dopo poche ore ecco il colera dichiarato nel campo, ed ecco gli uomini cadere piú o meno fulminati. — E chi sarà l’uomo che avrà tanto coraggio da andare a spezzare il vivaio proprio in mezzo ai nemici? — Ci penso io — rispose l’olandese colla sua solita flemma. — Io sono immune completamente contro tutte le malattie che potrebbero sviluppare le mie care bestioline. — Sta bene; e vi recherete fra le truppe di Sindhia? — Sí, Altezza, con due bottiglie ben nascoste in due tasche speciali cucite dentro la mia ampia giacca. — Non vi fidate di quella gente. — Sono un europeo; e vedrete, Altezza, come io giuocherò quella gente ed il loro rajah. — Da solo? — Da solo — rispose l’olandese. — Ho avvicinato i dayaki che nelle selve del Borneo usano ancora fare raccolte di teste umane, eppure nessuno ha tagliato la mia. Le genti di Sindhia, che sono poi degli assamesi, che io sappia, non sono mai stati tagliatori di zucche umane. — Dovete aver del fegato, signor Wan Horn — disse Yanez. — Vi vedremo alla prova. — Quando vorrete, Altezza. Il calore che regna nel Borneo e nell’India si confà assai ai miei microscopici animaletti. «Se fossi rimasto in Olanda, malgrado le mie cure, sarebbero a quest’ora morti tutti. «Fa un po’ freddo nel mio paese, e molta umidità vi regna in tutto il tempo dell’anno e...» Un crepitio di mitragliatrici lo interruppe bruscamente. Si combatteva dunque verso l’ultima arcata della gigantesca cloaca? Yanez afferrò la carabina che aveva appoggiata contro la parete, e dopo d’aver fatto due o tre passi disse al dottore, che teneva sempre fra le mani la sua pericolosa bottiglia: — Vado a vedere come stanno le cose: riprenderemo piú tardi la nostra interessante conversazione. Vi consiglio, per ora, di mandare a dormire i vostri bacilli. E scappò via seguíto da Tremal-Naik e da Kammamuri che si era munito d’una torcia e la roteava continuamente onde ravvivare la fiamma. Tutti e tre, seguiti a breve distanza da una mezza dozzina di malesi i quali, udendo le fucilate non avevan piú potuto trattenersi, si erano slanciati a gran corsa lungo la riva del fiume nero. Le mitragliatrici stridevano, segno evidente che gli sciacalli di Sindhia, come li chiamava ormai Sandokan, tentavano d’introdursi nella grande cloaca in buon numero. Dopo una corsa velocissima di dieci e piú minuti, Yanez ed i suoi compagni raggiunsero la Tigre della Malesia. Le palle sibilavano in aria, scrostando ora le pareti ed ora la grande volta. Dal di fuori della cloaca della gente sparava all’impazzata, credendo di spaventare col fracasso di cinquecento o mille fucili i pirati di Mompracem. Ah, ci voleva ben altro per quei vecchi guerrieri incanutiti fra il fumo di tante battaglie terrestri e marittime!... — Dunque, un vero assalto? — chiese Yanez avvicinandosi a Sandokan, il quale scatenava una delle cinque mitragliatrici, seduto su un masso presso il quale ardeva una fiaccola. — Pare — rispose il formidabile uomo. — Ma finché questi giocattoli funzioneranno, gli sciacalli di Sindhia non metteranno piede qui dentro. Il difficile sarà poi l’uscire da questa specie di trappola. — Vi è il dottore olandese che penserà ad aprirci la via — disse Yanez un po’ ironicamente. — E tu credi?... — Chi lo sa? — Io te l’ho portato perché lui mi assicurava di poter distruggere anche tutta la popolazione dell’Assam in pochi giorni colle sue famose bottiglie piene di non so quali bestioline. Io peraltro conto piú sulle mie mitragliatrici e sulle carabine della mia gente... Oh, il fuoco è cessato, e si ode un ramsinga sonare insieme con una campana. «Guarda bene, Yanez!... Non vedi tu una grossa lampada avvicinarsi? Che Sindhia ci mandi qualche parlamentario?» — Sí — rispose il Maharajah. — È un parlamentario. Fa’ cessare il fuoco. Sandokan levò un fischietto d’oro e lanciò tre note acute. Subito le mitragliatrici e le carabine diventarono silenziose. Nella notte tenebrosa una voce echeggiò al di fuori della grande cloaca: — Porto con me la bandiera bianca!... — Chi sei? — chiese Yanez. — Un parlamentario. — Chi ti manda? — Sindhia. — Avànzati. Poi volgendosi verso Sandokan gli disse: — Io questa voce l’ho udita ancora e non molto tempo fa. Tremal-Naik, che stava osservando le mitragliatrici, disse: — Io conosco l’uomo che ha parlato. — Chi può essere? — È l’uomo che tu avevi legato al cannone sul bastione di Marundia, e che invece di farlo saltare in aria, come ne avevi il diritto, l’hai graziato. — Kiltar!... Il bramino!... — Sí, quell’uomo ti disse di chiamarsi Kiltar e di non dimenticare il suo nome. — Ecco un uomo che ci porterà delle notizie preziose — disse Yanez. — Crederai tu alle sue parole? — chiese Sandokan, sempre diffidente. — Mi deve la vita, e gli indiani sono riconoscenti. — Vedremo. Otto malesi colle carabine spianate, preceduti da un dayako che portava una torcia, erano andati incontro al parlamentario, il quale si era avanzato solo, facendo ondeggiare una bandiera bianca. Era un uomo di statura alta, magro come tutti i bramini ed i fakiri, dalla tinta piuttosto fosca ed i lineamenti energici, resi piú duri da una lunga e folta barba nera. Era tutto vestito di bianco. Solamente alle reni portava una larga fascia di seta gialla, abbastanza in cattive condizioni. I malesi lo afferrarono e lo spinsero, assai brutalmente, verso Yanez, il quale era illuminato da un’altra torcia tenuta da un dayako armato d’un kampilang luccicante. — Gran sahib, — disse — mi riconosci? Io spero che tu non avrai dimenticato il mio nome. — Tu sei Kiltar, l’uomo che io ho graziato — rispose il Maharajah. — Ti ho riconosciuto perfettamente. «È la seconda volta che ti presenti a me come parlamentario. Che cosa vuoi? È Sindhia che ti manda?» — Sí, gran sahib — rispose il bramino, fissando cogli occhi il luccicante kampilang del dayako che reggeva la torcia. — Che cosa vuole quell’uomo? — Che tu ti arrenda, gran sahib. — Ah!... — fece Yanez, prendendo a Sandokan una sigaretta. — Quell’uomo è pazzo. — Lo credo anch’io, gran sahib — rispose il bramino. — A Calcutta non lo hanno curato bene. — Spiegati meglio, Kiltar. — Ti consiglio, gran sahib, di non cedere. Dopo che tu hai ricevuto quei terribili uomini i quali hanno fatto una vera strage fra i rajaputi che un giorno erano al tuo servizio, il rajah è spaventato. — Buono a sapersi — disse Sandokan, il quale, seduto su una mitragliatrice, guardava con viva curiosità il parlamentario. — Tu mi sei debitore della vita — disse Yanez. — Te lo ricordi? — Sempre, gran sahib. Si dice che i morti stanno benissimo nel nirvana che è tanto largo da accogliere tutte le anime degli indú, ma io sono contento di non esservi andato. — Ti credo — rispose Yanez ridendo. — Almeno quando siamo vivi si può sapere quello che succede nel mondo. — Non so che cosa sia il mondo — rispose il bramino. — Io non conosco che l’India. — Insomma, che cosa vuoi? Noi non abbiamo tempo da perdere. — Potremo riprendere questo discorso domani o fra una settimana, gran sahib, se cosí ti aggrada. — Ritornerai qui? — No, io non tornerò piú, perché se portassi a Sindhia la notizia che tutti voi vi rifiutate di arrendervi, mi farebbe schiacciare la testa da uno dei suoi elefanti. — Suoi?... Miei!... — urlò Yanez. — È vero. I rajaputi te li hanno rubati tutti. — Vile gentaglia!... — esclamò Sandokan. — Risparmierò dei paria, risparmierò dei bramini, dei fakiri, ma non quei mercenari. Quanti cadranno nelle nostre mani li fucileremo, e le nostre grosse carabine di mare non sbaglieranno. — Ne ha perduti nessuno? — chiese Yanez con un impeto di rabbia. — Tre o quattro nell’assalto di Gauhati — rispose il bramino. — Quanti uomini ha? — Forse quindicimila, perché la colonna, che è corsa in tuo aiuto, ha fatto dei veri massacri con certe armi che non conoscevamo prima. Era un fuoco infernale che si succedeva senza tregua e rovesciava gli assalitori a centinaia e centinaia. — Ha paura anche Sindhia di quelle armi? — Trema quando ode quel sinistro crepitío. — Anche questo è buono a sapersi — disse Sandokan, il quale aveva accesa la sua pipa, incrostata di zaffiri orientali e col bocchino d’oro. — Quest’uomo è veramente prezioso. Yanez continuava a fumare la sua sigaretta, colla fronte aggrottata, accarezzandosi la barba. Pareva che pensasse intensamente. — Tu non vuoi ritornare? — chiese finalmente. — No, gran sahib, questa volta mi ucciderebbe. — Eppure tu dovrai rivedere Sindhia. Il bramino divenne livido ed i suoi occhi si allargarono di spavento. — Tu vuoi la mia morte, gran sahib, — disse. — È vero che mi hai donata la vita. — Tu non tornerai al campo di Sindhia solo — disse Yanez. — Ti darò un compagno e sarà un uomo bianco. — Un uomo bianco!... — esclamò il bramino. Sandokan si era alzato ed aveva vuotata la pipa. — Che cosa mediti tu, fratellino! — chiese a Yanez, il quale conservava sempre il suo sangue freddo meraviglioso. — Tu mi hai portato un uomo bianco che si propone di distruggere tutte le bande di Sindhia in pochi giorni. «Ebbene, io lo metterò alla prova.» — Chi? il signor Wan Horn? — Sí, e ci farà provare la potenza delle sue bottiglie. — E ci credi tu? — Io ho piú fiducia nella mia carabina — rispose il portoghese. — Pure a certi scienziati si deve credere. — Se lo dici tu è affare finito. E vuoi mandarlo da Sindhia? — Certamente. — Ti ha detto che voleva andarci? — Sí, con un paio di bottiglie piene di bacilli di colera. — Che cosa sono? — Sono delle piccole bestie che tu non conosci. — E se Sindhia lo fucilasse? — Un uomo bianco? Oh, non l’oserebbe di certo! — Che cosa dici, tu, bramino? — chiese Sandokan a Kiltar. — Che accompagnato da un uomo bianco tornerei nel campo di Sindhia. — Che cosa decidi allora, Yanez? — chiese la Tigre della Malesia. — Di mettere alla prova i famosi microbi del tuo amico olandese. Credi che accetterà di recarsi al campo di Sindhia come parlamentario? — È un uomo che ha del coraggio e perciò non si rifiuterà. E che cosa vuoi che vada a dire a quel rajah? — Ci penserò io ad istruirlo. A me basta che possa rompere un paio di bottiglie di bacilli del colera. Non gli domanderò altro. — Io rispondo di lui. — Allora tu rimani qui mentre io vado a trovare il dottore. Trattieni Kiltar. — Oh, non me lo lascerò scappare, — rispose Sandokan. — E guardati da qualche improvviso assalto. — Tutte le mitragliatrici e tutte le carabine sono cariche. Mi attacchino gli uomini dell’ex rajah se l’osano. Dei suoi paria e dei suoi fakiri farò una marmellata. Mentre Yanez si allontanava frettolosamente, scortato da Tremal-Naik e da sei malesi, il terribile capo dei pirati della Malesia caricò la pipa, si sedette su una mitragliatrice, e dopo aver ben guardato in viso il bramino, gli chiese: — Dunque Sindhia spera sempre di riconquistare l’Assam? — Gli fanno paura i montanari di Sadhja che già altra volta lo hanno vinto. — E noi no? — La tua colonna sí. Ha ucciso troppi uomini ed ha fatto specialmente strage di rajaputi. Metà di quegli uomini, che costituivano la sua forza, sono rimasti sul terreno. — Hanno meritata la paga dei traditori — disse Sandokan, avvolgendosi in una nube di fumo profumato. — Sí, traditori — disse il bramino. — Brava gente in guerra, salda al fuoco, ma sempre pronta a vendere il loro onore di soldati per qualche rupia di piú, signore. — Oh, li conosco! Non è la prima volta che vengo in India. — Io, gran sahib, ho udito parlare assai di te. Tu sei l’uomo che ha ucciso Suyodhana, il famoso capo dei thugs delle Sunderbunds del basso Bengala. — Si direbbe che tu mi hai veduto un’altra volta. — Sí, a Delhi, quando tu combattevi per la libertà indiana. Se la memoria non mi tradisce, io ti ho veduto sparare i cannoni sui bastioni della porta Cascemir. — Può darsi — rispose Sandokan. — Rispondevo, come potevo, ai pezzi inglesi che squarciavano, colle loro bombe, tutte le casematte. «Tu dunque c’eri quando gli inglesi presero d’assalto la città?» — Sí, gran sahib, e vidi, ben nascosto, cadere scannati tutti i miei nipoti che non potevano difendersi, e condurre via anche Mahomed Bahadur, legittimo discendente dei Gran Mongoli che i rivoluzionari avevano acclamato imperatore. — Ne so qualcosa anch’io di quelle tristi giornate che lasciarono una macchia indelebile sulle giubbe rosse degli inglesi. Non erano bianchi che montavano all’assalto: erano peggio dei pirati della peggiore specie, poiché non rispettavano nemmeno le donne e trucidavano freddamente i fanciulli... «Ma occupiamoci di Sindhia. Credi tu che gli inglesi lo abbiano aiutato a fuggire e a radunare tutti quei disperati?» — Ne sono piú che convinto, sahib, — rispose il bramino. — Il governatore del Bengala non vedeva di buon occhio il Maharajah bianco: pare che le giubbe rosse avessero avuto a dolersi di lui in altri tempi. — E molto! Ma noi all’Inghilterra abbiamo reso un servigio impagabile, poiché siamo stati noi a distruggere i thugs che popolavano le jungle delle Sunderbunds, ed il Governo del Bengala c’è stato mediocremente riconoscente. — Sono sempre gli stessi uomini, sahib. L’uomo di colore per loro è una pecora da tosare. — Oh, lo so meglio di te e... Sandokan si era alzato di scatto, vuotando con un gesto brusco il tabacco che ancora rimaneva nella pipa, ed aveva fissati gli sguardi su un grosso punto luminoso che si avanzava velocemente, seguendo la banchina. — Yanez — disse. — Vedremo che cosa avrà combinato coll’olandese. Era infatti il portoghese che tornava a gran passi accompagnato da Tremal-Naik, dal cacciatore di topi e dal biondo medico che si occupava dell’allevamento dei terribili bacilli. — Dunque? — gli chiese premurosamente Sandokan, movendogli incontro. — Il signor Wan Horn è deciso a tentare l’avventura. — È vero, amico? — chiese la Tigre al dottore. — Sí, signor mio — rispose l’olandese. — Io non ho mai avuto paura degli indiani, e poi sono un uomo bianco. — E andate come nostro parlamentario. — Sono stato istruito dal Maharajah. Basterà che mi fermi una mezz’ora nel campo di Sindhia per sprigionare i miei cari animaletti. — Che sono? — Bacilli virgola. — Ne so meno di prima. — Colera, signor Sandokan, e forse fulminante. — Voi avete molte speranze? — Sí, sono sicurissimo delle mie coltivazioni — rispose l’olandese. — Avete portato con voi qualche bottiglia? — Ne ha due in tasca — rispose Yanez. — Basteranno, dottore? — chiese Sandokan con un po’ di diffidenza. L’olandese si mise a ridere mostrando una doppia fila di denti che avrebbero fatto buona figura anche in bocca ad un lupo indiano. — In queste due bottiglie vi sono tanti microbi da uccidere mezza popolazione del Bengala. — Uhm!... Mi pare un po’ grossa. Che cosa ne dici tu, Yanez? — Da questi scienziati tutto si può aspettarci — rispose il Maharajah. — E gli hai dato tutte le istruzioni necessarie per presentarsi a Sindhia? — Fingerà di andare a trattare la nostra resa. — Ed i nostri elefanti come stanno? — Continuano a lamentarsi, quantunque i nostri uomini non cessino di innaffiarli. Fa sempre caldo assai verso l’alto corso del fiume fangoso. — Non morranno? — Io credo di no, Sandokan. — Mi rincrescerebbe di perderli perché ci sono necessari per raggiungere i montanari di Sadhja. «E poi io penso che se il tentativo di questo dottore fallisse, ci servirebbero per dare una carica sfrenata e passare attraverso le bande di Sindhia. «Sono abituati a udire rombare le mitragliatrici e non si spaventano piú. Animali d’una robustezza eccezionale e d’un valore guerresco immenso.» Additò al bramino l’olandese, dicendogli: — Ecco l’uomo che ti accompagnerà come parlamentario. — Va bene, sahib. Io sono pronto a partire. — Tu avrai un premio di mille rupie — gli disse Yanez. — Io devo a te la vita, Altezza — rispose il bramino con una certa nobiltà. — Mi hai pagato abbastanza. — No, perché io conto di rivederti e di prenderti ai nostri servigi — disse Yanez. — Tu, Altezza, farai ciò che vorrai. Ti giuro su Brahma che fino da ora sono interamente tuo, corpo ed anima. — Ti avverto che se vedrai questo sahib spezzare un paio di bottiglie farai finta di non vedere, e ti do il consiglio di scappare subito colla velocità d’un nilgò. — Io sarò cieco, Altezza. — Hai una scorta che ti aspetta fuori? — gli chiese Sandokan. — Sí, sono giunto con una ventina di rajaputi. Si sono fermati presso la moschea per ricondurmi al campo. — Signor Wan Horn, se non avete paura dei vostri microbi, potete seguire quest’uomo. Ci direte piú tardi in quali condizioni di salute si trova quel caro Sindhia. — Io non ho paura — rispose l’olandese colla sua voce sempre pacata. — Sarò un parlamentario meraviglioso. Lo sono stato ancora, per conto del mio governo, presso i dayaki laut. — E non vi hanno mangiato? — chiese Yanez ridendo. — No, perché allora ero molto magro e non potevo fornire a quei cannibali che delle bistecche assai spolpate. Tese la mano a Sandokan, a Yanez, a Tremal-Naik, si abbottonò l’ampia giacca nelle cui tasche interne nascondeva le famose bottiglie e seguí il bramino il quale si era impadronito d’una torcia. — Speriamo di rivedervi presto — gli gridò dietro il portoghese. — Nessuno oserà passarmi per le armi — rispose il dottore. E se ne andò tranquillo, mentre i pirati della Malesia, sempre sospettosi, puntavano le mitragliatrici verso la vecchia moschea. CAPITOLO III. I BACILLI DEL COLERA Un chiarore latteo cominciava a diffondersi verso oriente; il pianeta Venere, in quel cielo terso come un cristallo, splendeva superbamente. Ma tutta la campagna, che si estendeva intorno alla distrutta capitale, interrotta da folti gruppi di banani e di tamarindi che il grande calore aveva ingialliti e forse spenti per sempre, era ancora bruna poiché l’alba non si era ancora mostrata pienamente. Un grosso drappello, formato d’una ventina di rajaputi armati di fucili e di pistoloni, si avanzava attraverso la pianura preceduto da un uomo bianco e da un bramino, il quale sulla punta d’una lancia reggeva una bandiera di seta piú o meno bianca. In lontananza luccicavano dei grandi falò i quali annunciavano un accampamento imponente. Si udivano giungere grida umane e barriti d’elefanti. I due uomini che pareva guidassero il drappello erano il flemmatico olandese e Kiltar. Il primo aveva accesa una grossa pipa di porcellana, come usano tutti gli uomini del nord dell’Europa, e fumava con una flemma sorprendente; il secondo invece masticava qualche cosa, forse del betel con noce d’areka e calce viva, a giudicare dai lunghi sputi color del sangue che di quando in quando proiettava dinanzi a sé con una specie di sibilo. Il drappello, dopo d’aver fiancheggiato i bastioni della capitale, sventrati dallo scoppio delle polveriere le quali, malgrado le porte di ferro, non avevano potuto resistere all’uragano di fuoco che distruggeva ogni cosa, si cacciò su un largo sentiero aperto fra le altissime erbe chiamate kâlam. Dinanzi, le luci dell’accampamento brillavano sempre, mentre il cielo si rischiarava rapidamente. — Sarà alzato il rajah? — chiese l’olandese. — Non dorme quasi mai di notte — rispose il bramino. — Che cosa fa? — Si ubriaca, tanto per non perdere l’abitudine, insieme coi capi dell’esercito. — Capi di gran valore, è vero? — Per me sono dei grandi vuotatori di bottiglie. Di guerra devono intendersene meno dei paria. — Come credi che mi accoglierà? — Tu sei un uomo bianco, sahib, e Sindhia ha troppa paura degli uomini che non hanno la pelle abbronzata come noi. — Purché non mi faccia schiacciare la testa sotto la zampa di qualche elefante! — Non l’oserà, te lo dico io, sahib. — Allora sono tranquillo. — Tu non hai nessuna arma, sahib bianco. — Lo credi? Ho con me solamente due bottiglie. — Da offrire al rajah? — Oh, no!... Da spezzare una volta entrato nel campo, e ti posso assicurare che valgono meglio di tutti i cannoni e di tutte le carabine che possiede il principe. Il bramino scosse il capo, poi mormorò: — Ah, questi bianchi, questi bianchi!... — Voglio darti un consiglio — disse l’olandese. — Quale, sahib? — Di fuggire appena io avrò spezzate casualmente le due bottiglie. — Contengono delle materie esplodenti? — Peggio! È un mio segreto e non posso rivelartelo per ora, quantunque io abbia in te completa fiducia. — Ho detto al Maharajah che il mio corpo ed anche la mia anima, se la desidera, sono cose sue. — Infatti io l’ho udito — rispose l’olandese, rimettendosi la pipa in bocca. — Ba’, vedremo!... Oh!, saprei vendicarmi terribilmente. Erano giunti all’accampamento il quale si estendeva intorno a delle immense risaie. Gli indiani, che non usano tende, avevano innalzato una grande quantità di capannucce coperte di foglie di tara e di banani. Da tutte quelle minuscole abitazioni uscivano, a quattro a cinque per volta paria semi-nudi e assai sporchi, fakiri magri come chiodi, banditi dagli sguardi torvi che nelle fasce portavano un vero arsenale, poi dei rajaputi e molti cornac incaricati di vegliare sugli elefanti presi cosí abilmente a Yanez. Nel mezzo di tutte quelle capannucce si alzava orgogliosamente una tenda tutta rossa, la sola, in forma d’un immenso cono, sulla cui cima ondeggiava una bandiera azzurra con un leopardo dipinto a forti tinte, e che pareva fosse lí lí per spiccare lo slancio: era lo stemma dei Maharajah dell’Assam. Vedendo avanzarsi il drappello dei soldati, fecero squillare rumorosamente i gong per dare l’allarme, poi i falò furono rapidamente spenti, ed un centinaio di uomini mosse contro Kiltar, il quale faceva ondeggiare vivamente la bandiera bianca gridando: — Largo!... Largo al sahib bianco!... Le schiere che si erano subito ingrossate dietro al primo drappello, avendo riconosciuto il bramino, si erano affrettate ad aprire le loro file. Wan Horn vuotò la pipa, si pulí gli occhiali montati in oro e assicurati da una leggera catenella del medesimo metallo, poi si mise a fianco del sacerdote, guardando piuttosto insolentemente i banditi dell’ex rajah. Ormai il sole era sorto, e la vasta tenda di seta rossa si era aperta sul dinanzi. Quattro rajaputi, che avevano dei giganteschi turbanti e delle barbe nerissime che coprivano loro quasi tutto il viso, vegliavano, due per parte, appoggiati alle carabine le quali avevano i cani alzati. Il bramino fece segno all’olandese di fermarsi, poi entrò nella tenda salutato rispettosamente dalle sentinelle. Wan Horn, immaginandosi che la conferenza sarebbe stata un po’ lunga, si sedette su un grosso tronco d’albero atterrato per alimentare i fuochi notturni e ricaricò, colla sua eterna flemma, la pipa borbottando: — Mi si farà fare un po’ d’anticamera. Attorno a lui, a una certa distanza, si erano radunati parecchie centinaia di soldati che avevano piú l’aspetto di straccioni che di guerrieri, ma tutti benissimo armati di fucili, di pistole e anche di scimitarre. — Bell’esercito — borbottò l’olandese, dopo la terza aspirazione che lo avvolse in una nuvola di fumo profumato. — Dove quell’ex rajah ha raccolto questi banditi? Ve ne devono essere molti negli altri accampamenti che ho scorti presso la città distrutta. Vedremo se saranno gente cosí solida da resistere ai miei bacilli. Aveva fatto una dozzina di aspirazioni, sempre borbottando, quando vide il bramino uscire dalla tenda. — Sahib, — disse l’indiano avvicinandosi rapidamente — il rajah ti aspetta. — Di che umore è? — Stava già bevendo non so quale bottiglia di liquore giallastro. Come suo fratello, è un impenitente ubriacone che tornerà ben presto fra i pazzi. — Sa che io sono olandese? — Gliel’ho detto, e pare che si sia ricordato che in Europa esiste una nazione che si chiama Olanda, e che ha ricche colonie a Giava, a Sumatra ed al Borneo. — Meno male. Il dottore vuotò la pipa, tornò ad accomodarsi gli occhiali, e seguí il bramino entrando nella spaziosa tenda ormai piena di luce. Su un ammasso di ricchissimi tappeti e cuscini, ammucchiati abbastanza disordinatamente, stava coricato un indiano dalla pelle appena abbronzata, che poteva avere quarant’anni come sessanta. Il suo viso era consunto, la sua fronte solcata di rughe profonde, i suoi occhi nerissimi animati da uno strano lampo, quel lampo che si scorge nelle pupille dei pazzi. Non aveva né barba né baffi e nemmeno capelli. Vestiva elegantemente con una specie di lungo camice di seta bianca ricamato in oro, e stretto ai fianchi da un’alta fascia di velluto azzurro a lunghe frange d’oro, reggente una corta scimitarra coll’impugnatura d’oro scintillante di pietre preziose. In piedi aveva scarpe di cuoio rosso colla punta assai rialzata, ed anche quelle con ricami d’oro. — Altezza, — disse il bramino all’indiano, il quale pareva mezzo inebetito — ecco il parlamentario. — Ah!... — fece il rajah. Al suo fianco stava un ragazzo il quale teneva in mano una bottiglia ed un bicchiere ben capace. — Versami — gli disse. — Ho bisogno di raccogliere le idee. — O di offuscarle, Altezza? — chiese l’olandese. — Voi bevete troppo. Il viso di Sindhia prese una espressione selvaggia e fissò coi suoi occhi, quasi fosforescenti, l’olandese. — Che cosa dite voi? — chiese dopo un po’ di silenzio, facendo segno al ragazzo di porgergli subito la tazza. — Dico che voi bevete troppo. — Chi ve lo ha detto? — Tutti lo sanno, anche a Calcutta. — Ah!... Davvero? — disse il rajah con voce un po’ ironica. Afferrò il bicchiere colle mani tremanti, e lo vuotò d’un fiato. — Voi non lo crederete, signore, eppure io ora mi sento meglio e la mia memoria mi si è risvegliata d’un tratto. — Vi avverto che io sono uno dei piú famosi medici delle colonie olandesi — disse il signor Wan Horn, sedendosi su un cuscino senza attendere l’ordine del rajah. — Il bramino che funziona da mio segretario me lo ha detto. Voi siete un amico del Maharajah; non è vero? — Sí, sono un suo amico. — E anche di quell’altro che è venuto dal sud con quella tremenda colonna che i miei uomini non sono riusciti ad arrestare. Ah, che perdite ho subito io!... — Sí, sono amico anche di quello. — Chi è? — Un principe bornese che ha molte navi e migliaia e migliaia di soldati non meno valorosi di quelli che formano la colonna infernale. — Ah! ... Mi ricordo! — esclamò il rajah, stringendo le pugna. — L’ho conosciuto, ed è stato lui che ha aiutato il sahib bianco e Surama a rovesciarmi dal trono. Non credevo che avesse tanta audacia da tornar qui. — Quell’uomo, Altezza, ha sfidato cento volte gli inglesi di Labuan e li ha quasi sempre vinti, o meglio schiacciati. — Ha vinto anche il mio primo ministro, in non so quale lago del Borneo. Sí, lo so, è un terribile uomo e io desidererei vivamente di averlo nelle mie mani. — Per farne che cosa, Altezza? — chiese l’olandese con accento un po’ ironico. — Vorreste dirmelo? — Per fucilarlo insieme col Maharajah se fosse possibile. Alla piccola rhani ci penserei poi io a ridurla nell’assoluta impotenza malgrado i suoi montanari. — Andate per le spicce, voi. — Io devo riconquistare il mio trono, sahib. — Che si dice spetti, per diritto, alla rhani anziché a voi. — Chi vi ha detto questo? — urlò Sindhia con voce arrangolata. — Conosco la storia dell’Assam, e so anche che voi avete ucciso vostro fratello con un colpo di carabina mentre gettava in aria una rupia sfidandovi a forarla. — Quel miserabile, completamente ubriaco, dopo aver ucciso a colpi di fucile tutti i suoi parenti che banchettavano tranquillamente nel cortile d’onore del palazzo reale, voleva spegnere anche me, e l’ho abbattuto. «Ero nel mio diritto di difendermi. Mi prometteva di lasciarmi vivere se avessi spaccata, con una palla, una rupia lanciata in aria da lui. Non fu la moneta che cadde, fu mio fratello, il quale aveva commessa l’imprudenza di darmi fra le mani una delle sue carabine. «Che cosa avete dunque da dire voi, sahib, di questo fratricidio?» — Io mi sarei pure difeso — rispose il prudente olandese. Sindhia mandò un grido di gioia. — Ecco il primo uomo bianco che mi dà ragione — disse dimenandosi come un pazzo e porgendo al ragazzo il bicchiere perché glielo riempisse. — Voi dovete essere veramente un gran medico. — Perché? — Perché capite le cose meglio degli altri — rispose l’ex rajah. — Può darsi. — Volete bere? — No, grazie non bevo che acqua. — L’acqua non dà nessuna forza. — Eppure, come vedete, Altezza, sono grasso e rubicondo, e peso forse il doppio di voi. Sindhia scosse la testa, tese la destra tremolante verso il ragazzo che gli aveva riempito il bicchiere, bevve qualche sorso fissando sempre l’olandese, poi gli chiese a bruciapelo: — Dunque si arrendono tutti? — Chi? — domandò Wan Horn. — Il Maharajah, il principe bornese e gli uomini che l’hanno accompagnato. — Adagio, Altezza. Che io sappia non ne hanno affatto l’intenzione. — E allora perché siete venuto qui? — Per farvi una proposta. — Dite, dite pure, gran dottore — disse Sindhia, sorridendo sardonicamente. — I miei amici lasceranno la capitale a vostra disposizione... — Quale capitale? — urlò Sindhia. — Non vi è piú una capitale nell’Assam. — Non vi mancano gli uomini per ricostruirla!... — E i denari? — Si dice che voi siete immensamente ricco. — Ah!... Ah!... — Cosí si dice nel Bengala. — Benissimo. Concludete, sahib. — Sono venuto a dirvi che il Maharajah ed il suo amico sono pronti a lasciarvi padrone del terreno, purché permettiate loro di raggiungere le montagne di Sadhja. — Morte di Siva!... Hanno il coraggio di farmi una simile proposta, mentre io li tengo ormai fra le mie mani? — Ne siete ben sicuro, Altezza? — Non mi sfuggiranno, ve lo dico io, sahib gran dottore. So che tutta quella gente si è rifugiata nelle grandi cloache. — E se quella terribile colonna, che porta sugli elefanti delle armi che voi non avete mai vedute, e che fanno delle stragi orrende, si precipitasse attraverso al vostro accampamento? — La fermeremo. — Non l’avete fermata prima quando avevate tutte le probabilità di schiacciarla. L’ex rajah digrignò i denti come un vecchio sciacallo, poi disse con voce piena di amarezza: — Sí, è vero; le mie truppe non sono resistenti malgrado l’aiuto dei rajaputi. Gettò via il bicchiere che teneva ancora in mano fracassandolo contro un trofeo d’armi, poi, dopo un silenzio piuttosto lungo, riprese: — Insomma, che cosa volete? — Mi pare di avervelo detto poco fa — rispose l’olandese. — Sono venuto per ottenere da voi il permesso di lasciar andare i miei amici ed i loro combattenti. — Voi scherzate! — disse il rajah. — Vi rifiutate? — Assolutamente. — Vi ripeto di guardarvi da quegli uomini che valgono per mille e piú i quali, come vi ho detto, posseggono delle mitragliatrici. — Io sento di essere ancora il piú forte. — Che cosa farete? — Li affamerò. — Hanno cinque elefanti, ed il Maharajah, prima di ritirarsi nelle cloache e di licenziare i montanari, ha fatto accumulare immense quantità di provvigioni. — Io non ho fretta ed aspetterò che abbiano esaurito tutto. — E come farete a mantenere tutta la vostra gente ora che non vi è piú una bottega in piedi, nemmeno di panettiere? — Vivono con niente i miei uomini, mio caro sahib gran dottore. A loro bastano il riso e le frutta delle foreste. — Si indeboliranno spaventosamente, ve lo dico io, appunto perché sono un medico. — Non ve ne preoccupate — disse il rajah. L’olandese si alzò e disse: — La mia missione è finita e quindi me ne vado. — E se vi trattenessi? — L’Olanda vi farebbe pagar cara questa perfida azione, e anche l’Inghilterra non mancherebbe d’intervenire. Il rajah rifletté qualche momento, poi disse: — Siete libero: non voglio che si sparga la voce nel vicino Bengala che io tratto i parlamentari come un re barbaro. — Dunque siete ben deciso a non lasciar uscire quelle persone? — Vi ho detto di no. — Altezza, i miei saluti. Il rajah non rispose nemmeno. Il dottore uscí e trovò subito il bramino accompagnato da un’altra scorta, composta tutta di rajaputi. — Mi guidate? — gli chiese. — Sí, sahib — rispose Kiltar, mettendoglisi a fianco. — Non avete concluso nulla? — Non vuole assolutamente lasciarli andare. — Lo aveva già detto anche a me. — Verrai con noi tu, o rimarrai qui? — Vi posso essere piú utile fuori che là dentro. Che cosa rappresenterei io? Una carabina di piú, ed anche pessima, non essendo mai stato un guerriero. — Come potremo rivederti? — Sono stato nelle cloache, so che vi sono delle entrate che non tutti conoscono, e spero di ricomparire ben presto. — Guardati dal colera. — Non ho mai avuto paura di quel male che... In quel momento l’olandese incespicò e cadde lungo disteso spaccando le due bottiglie piene di bacilli. — Ah, il mio liquore! — gridò. — E non ne ho piú! Kiltar si affrettò ad alzarlo, e dalle tasche dell’olandese uscirono dei pezzi di vetro e una certa brodaccia spessa che non tramandava nessun odore d’alcool. — Ho capito — disse. I rajaputi che formavano la scorta non si erano affatto preoccupati di quella caduta, che, d’altronde, non poteva essere stata affatto pericolosa. Si stupirono peraltro un po’ quando videro l’olandese levarsi in fretta la giacca ed il panciotto e gettarli al vento. — Il sahib gran dottore ha caldo — disse loro Kiltar. — Egli possiede altre vesti. Tuttavia vi ordino di non toccar nulla, poiché quel sahib piú tardi potrebbe reclamare tutto nella sua qualità di parlamentario. I rajaputi sapendo che il bramino godeva la fiducia del rajah, si guardarono bene dal raccogliere quegli indumenti, che già non potevano avere che un meschino valore, specialmente dopo tutte quelle macchie di brodaccia giallastra che si erano rapidamente allargate sulla flanella bianca. Il dottore, da uomo previdente, prima di fare quel capitombolo aveva cacciato in una tasca dei calzoni la sua inseparabile pipa, la piccola provvista di tabacco ed una scatola di zolfanelli, sicché ricominciò subito a fumare. Il drappello attraversò il vasto accampamento, destando una certa curiosità fra gli accampati e verso le nove del mattino giunse dinanzi all’imboccatura della grande cloaca. All’allarme dato dai malesi e dai dayaki che vegliavano intorno alle mitragliatrici, i rajaputi, per paura di ricevere una scarica da quelle terribili armi che li avevano crudelmente decimati fra le jungle e le risaie, sostarono. — Sono il dottore!... — gridò l’olandese a gran voce. — Non fate fuoco. Poi volgendosi verso Kiltar, disse facendo un rapido cenno d’intelligenza: — Addio bramino. — Che il vostro dio vegli su di voi — rispose Kiltar. La scorta si allontanò subito velocemente, fermandosi solamente nei dintorni, della moschea che era stata già occupata da un grosso numero di fakiri e di paria. — Dove sono dunque il Maharajah e la Tigre della Malesia? — chiese Wan Horn, avanzandosi fra due file di guerrieri. — Vengono, signore — disse il malese rugoso che tutti chiamavano Sambigliong. Ed infatti non era trascorso ancora mezzo minuto che i due capi si presentarono, accompagnati da Tremal-Naik, da Kammamuri e dal cacciatore di topi. — Dite subito — disse Yanez all’olandese. — Siate breve. — La mia missione è pienamente riuscita, signori miei — rispose il signor Wan Horn. — Ho perduto la giacca ed il panciotto, ma ormai i microbi del colera si moltiplicano a milioni nell’accampamento dei banditi. — Avete rotte le due bottiglie? — Sí, Altezza, e senza rompermi, fortunatamente, il naso. — Avete veduto Sindhia? — Mi ha ricevuto nella sua tenda e abbastanza gentilmente. — Era ubriaco? — Doveva avere già molto bevuto. — E vi ha detto? — Che vi terrà assediati finché avrete mangiato l’ultimo pezzo di elefante. — Raccontate signor Wan Horn — disse Sandokan. — È proprio vero che ha con sé molte migliaia di combattenti? — Molte migliaia, sí. — Truppe solide? — Ah, io non lo credo. Il loro numero peraltro è tale da poter resistere a piú d’un assalto. — Dei rajaputi ve ne sono molti? — Io non ho visitati tutti i campi, ma il rajah si doleva delle terribili perdite subite da quei forti guerrieri nati per le battaglie. — Che cosa ci consigliereste di fare? — Di rimanere qui e d’impedire, a colpi di mitraglia, l’entrata a qualunque colonna d’attacco. Fra quarantotto ore tutti i campi di Sindhia saranno invasi dai bacilli del colera, ed allora vedrete che stragi. — Tanta fiducia avete nelle vostre coltivazioni? — chiese Yanez. — Vedrete fra poco gli effetti. Il bramino ci saprà dire qualche cosa. — Ah, non è tornato con voi? — No, Altezza, perché conta di esserci piú utile rimanendo fuori. — E come farà a spingersi fin qui? — Dice che conosce le cloache e molti passaggi da tutti forse ignorati. — Credi tu che vi siano veramente dei condotti che sbocchino nelle rotonde? — chiese Yanez al cacciatore di topi. — Può essere, gran sahib — rispose il baniano. — Ne ho scoperti anch’io parecchi che sboccavano nelle cantine di certi palazzi. — Ed allora — disse Sandokan — aspettiamo che questo famoso colera si diffonda e ci apra la strada, se pure non porterà via anche tutti noi. — Nella mia cassa ho dei vasi pieni di potenti disinfettanti quindi non avete nulla da temere. — La seduta è tolta. Andiamo a fare colazione con della carne di cavallo, che non sarà poi cattiva. — Anzi ottima. È quasi uguale a quella dei buoi e degli zebú — rispose l’olandese. — Ah, i miei bacilli virgola!... Altro che le palle di cannone, di mitragliatrici, di carabine e di pistole! Vedrete, vedrete!... — Non spaventate i nostri uomini col vostro colera — disse Yanez. — Sanno che cos’è quel malanno. Sandokan raccomandò al drappello delle mitragliatrici di aprire bene gli occhi, e si diresse coi suoi compagni verso un luogo della banchina dove ardeva un magro fuoco. In lontananza si udivano gli elefanti lamentarsi. Avevano fame, e gli assediati nulla avevano da dar loro, poiché tentare una uscita per spogliare delle frutta e delle gigantesche foglie quei banani che crescevano in buon numero presso la moschea, sarebbe stato come gettarsi in bocca ai lupi di Sindhia. Alcuni malesi avevano stesi, intorno al fuoco che mandava piú fumo che fiamme, dei vecchi tappeti, mentre altri stavano rigirando sugli spiedi del cacciatore di topi dei grossi pezzi di carne di cavallo. — Domani cominceremo ad abbattere un elefante — disse Sandokan, sdraiandosi presso il fuoco. — Ormai sono destinati a morire tutti di fame. — E come faremo a portare poi con noi le mitragliatrici? — chiese Yanez. — Anche i cavalli morranno se non possiamo provvederli di erbe. — Purtroppo — rispose Sandokan, corrugando la fronte. — Io non avevo pensato agli animali. «Ba’, vedremo che cosa saprà fare il colera. Noi resisteremo fino all’ultimo e nemmeno questa volta Sindhia ci avrà.» Gli arrosti, piú o meno ben cucinati, furono deposti sul coperchio di una cassa, e tutti si misero a mangiare in silenzio, assai preoccupati dell’aggravarsi della situazione. Ed intanto gli elefanti in lontananza barrivano furiosamente, ed i cavalli nitrivano domandando la colazione. Quella prima giornata d’assedio trascorse nondimeno tranquilla. Le truppe di Sindhia, quantunque si fossero mostrate in grosso numero nei dintorni della vecchia moschea, non spararono un colpo di fucile verso l’entrata della grande cloaca. Si capiva che le mitragliatrici, armi mai vedute da quei banditi, che facevano un grande fracasso e che facevano continua strage, avevano impressionato tutti. D’altronde Sandokan e Yanez avevano radunati, presso la foce del fiume fangoso, tutti i cento uomini giunti dalla lontana Malesia, ed avevano fatto condurre, non senza grande fatica da parte dei cornac, i cinque elefanti, decisi a lanciarli contro gli avversari in una corsa spaventosa. Già sapevano ormai che erano condannati al pari dei cavalli. Il cacciatore di topi, seguíto da Kammamuri, dal fedele rajaputo e da una mezza dozzina di montanari, aveva approfittato di quella calma per visitare tutte le rotonde e le gallerie superiori, sede un giorno di chi sa quante migliaia di miserabili, e tutti erano tornati carichi di legna per potere, durante la notte, accendere dei falò. — E dunque? — gli chiese Yanez, quando lo vide giungere carico come un mulo, seguíto da tutti gli altri sette. — Vi porto una buona notizia — rispose il vecchio, gettando a terra, con gran fracasso, il suo pesante fardello. — La temperatura si è rinfrescata, ed anche nelle alte gallerie ora si può vivere benissimo. «Un po’ di sudore d’altronde non fa mai male in questi paesi.» — Dunque l’incendio deve essersi spento completamente. — Sí, Altezza; ed era tempo che le case, le moschee e le pagode finissero di bruciare. «Ma vi è di piú. Ho scoperto, in certe rotonde che io da anni non visitavo, dei veri depositi di legna, e poi ho veduto i topi ritornare in gran numero.» — Abbiamo qui abbastanza carne, sicché possiamo fare a meno per ora di quei rosicchianti niente affatto piacevoli. — Non potete dire, Altezza, che bene arrostiti siano cattivi. — No, ma sono sempre topi. Hai scoperto altro? — Sí, un passaggio che mette in una vasta cantina. È ancora troppo caldo, ma fra ventiquattro ore io credo che noi tutti potremo percorrerlo. — E gli elefanti ed i cavalli? — Quel passaggio sarà la salvezza della vostra cavalleria grossa e leggera, sahib — disse il baniano. — Di notte noi usciremo e andremo a fare raccolta di foglie e di erbe. Gli uomini di Sindhia non ci inquieteranno. Sono troppo poltroni. — Tu dunque non vedi la nostra situazione disperata? — Oh no!... Con quei terribili guerrieri che ha condotto il vostro amico e con quelle armi non meno terribili, noi finiremo col lasciare l’amico Sindhia con un buon palmo di naso. — Sei ottimista. — Non sono mai stato pessimista, e non ho mai avuto da dolermene. — Gli elefanti ed i cavalli peraltro da ventiquattro ore non mangiano. — Domani mattina avranno una colazione abbondante. Il fuoco non può aver rovinato tutte le piantagioni che si estendevano intorno alla capitale. Mettete a mia disposizione venti di quei terribili uomini, ed io rispondo di tutto, Altezza. — Te ne concedo anche quaranta con un paio di mitragliatrici. — No, le mitragliatrici non passerebbero; e poi possono essere piú utili a voi che a noi. — Puoi aver ragione — rispose Yanez, il quale appariva, malgrado il suo carattere sempre vivace ed allegro, assai preoccupato. — Quando andrai ad esplorare quel passaggio? — Appena caduta la notte, signore. È necessario che si raffreddi ancora un po’. — Io ti accompagnerò con Tremal-Naik. Sandokan intanto veglierà alla foce del fiume nero. — L’impresa potrebbe essere pericolosa assai, Altezza. Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra dell’uomo che i malesi ed i dayaki chiamavano la Tigre bianca. — Ho provato ben altri pericoli a Mompracem, a Labuan, nel Borneo ed anche qui — disse. — Lo so, Altezza. Voi avete ucciso, insieme col vostro amico, il capo degli strangolatori delle Sunderbunds durante l’assalto di Delhi. Tutti sanno, anche in India, che siete degli uomini capaci di rovesciare degli imperi. — Hai finito? — Sí, Altezza. — Concludi. — Questa sera, giacché lo desiderate, andremo a cercare il cibo ai cavalli ed agli elefanti insieme con voi. — Siamo intesi. In quel momento giungeva il flemmatico olandese con un nuovo panciotto ed una nuova casacca di flanella bianca leggerissima e la grossa pipa in bocca. — Ebbene, dottore, come vanno le vostre coltivazioni? — Benissimo, signore — rispose Wan Horn. — Ho osservato poco fa le bottiglie dei bacilli del tifo, ed ho constatato che nulla hanno sofferto durante il viaggio. Si sviluppano meravigliosamente sotto questo clima. — Sicché dopo i bacilli del colera andrete a inondare il campo o i campi di Sindhia con quelli del tifo — disse Yanez sempre ironico. — Inondare? Eh, via, è un po’ troppo, Altezza — rispose l’olandese. — E poi non so se si presenterà un’altra occasione. «Il rajah non mi riceverebbe certamente due volte. Mi farebbe fucilare dai suoi ultimi rajaputi.» — Non oserei mandarvi da lui come parlamentario per la seconda volta — rispose Yanez. — Sindhia è un barbaro che non rispetta nessuna persona. — Aveva già minacciato di trattenermi. — E non sareste piú tornato vivo, ve lo assicuro. Quell’uomo è crudele come il fratello che egli stesso ha ucciso con un colpo di carabina durante un banchetto. — È un pazzo, signore. I liquori lo hanno rovinato. — Lo so che è un alcoolizzato pericoloso. Dunque voi mi dicevate che occorrono almeno quarant’otto ore prima che i bacilli si sviluppino e compiano la loro distruzione? — Forse anche meno, Altezza. — Per Giove!... Questo è un nuovo genere di guerra. — Che darà dei risultati meravigliosi — rispose freddamente l’olandese. — Altro che le vostre carabine, le vostre mitragliatrici ed i vostri kampilangs!... Vedrete, vedrete! E quel brav’uomo che si proponeva di assassinare, con le sue strane colture, se ne andò colle mani sprofondate nelle ampie tasche, fumando come una vaporiera. — A questa sera, allora — disse Yanez al cacciatore di topi. — Sí, Altezza. Conosco ormai la via e non mi smarrirò. — E potremo noi oltrepassare la linea dei bastioni senza essere veduti? — Io lo spero — rispose il baniano. — D’altronde non andremo senz’armi o muniti di semplici bastoni. Yanez stette un momento silenzioso, colla fronte aggrottata, poi si diresse verso il falò che ardeva sulla riva destra del fiume fangoso, per comunicare a Sandokan le buone nuove. CAPITOLO IV. L ‘ASSEDIO Non fu che dopo la mezzanotte che Yanez ed il cacciatore di topi, seguiti dall’erculeo rajaputo e dai dodici montanari di Sadhja, si misero in marcia per tentare di procurare degli alimenti alle povere bestie, le quali, durante la giornata, avevano barrito e nitrito senza interruzione. Si erano muniti di due torce ed erano tutti armati di carabine, di pistole e di scimitarre. Il drappello costeggiò per oltre due miglia il pigro fiume nero che frusciava invece di gorgogliare, poi entrarono in una delle tante rotonde destinate a raccogliere le acque. Il cacciatore di topi aveva già fatto un segno su una parete per non ingannarsi, quindi poteva ormai procedere tranquillo attraverso le gallerie superiori che si estendevano sopra l’immensa arcata e che si diramavano per la città. — Quanto impiegheremo a giungere in quella cantina? — chiese Yanez. — Appena una mezz’ora — rispose il baniano. — Non faremo che una semplice passeggiata, poiché le gallerie che io ho scoperte sono tutte ampie e non avremo bisogno di curvarci per passare. — Bada di non smarrirti. — Oh, no!... Nella mia testa vi è una specie di bussola che mi guida. — Si perdono anche i marinai talvolta. — Non io — rispose il cacciatore di topi con voce ferma. — Si sarà raffreddata la cantina? — Io lo spero. Quando vi sono entrato non vi era una tale temperatura da non poter resistere. — A quest’ora troveremo una temperatura meno ardente. — Anche qui non regna piú un gran caldo — disse Yanez. — Si suda un po’, questo è vero, però non dobbiamo dimenticare che siamo nel gran paese del sole. Cosí parlando avevano attraversato un ampio corridoio, cosparso di sabbia asciutta che spandeva un odore nauseabondo quantunque fosse bianchissima, ed erano giunti in un’altra rotonda, capace di contenere anche trenta persone. Doveva essere stata anche quella abitata dai piú miserabili abitanti della capitale, poiché anche là dentro si vedevano mucchi di luridi stracci che dovevano aver servito come letti, delle foglie secche e dei pezzi di legna accatastati con una certa cura. — Ancora due e poi sboccheremo nella cantina, o meglio nel sotterraneo scavato sotto qualche grande palazzo — disse il baniano. — Anche questo fogliame secco può servire pei cavalli se non per gli elefanti — disse il Maharajah, il quale tutto osservava minutamente. — L’avevo pensato anch’io, Altezza — rispose il cacciatore di topi. — Nelle altre rotonde ne hai veduto? — Sí, e anzi l’ultima è ben provvista. — Buono a sapersi. — Disgraziatamente gli animali da nutrirsi sono troppi. — Dimmi la tua idea franca e precisa. Nelle nostre condizioni che cosa faresti? — Io non mi moverei di qui finché ci sono cavalli, elefanti e topi da divorare. Sindhia finirà per stancarsi e se ne andrà. — E noi a piedi? — Non so che cosa dire, Altezza. Voi siete altri uomini, mentre io potrei rimanere assediato per anni ed anni senza morire di fame. D’altronde vi siete persuaso che i topi, bene arrostiti, non sono poi da disprezzarsi. — Oh, no, ma finirebbero per nauseare — rispose Yanez. Il baniano alzò le spalle e continuò la marcia, con maggior rapidità, sbattendo, di quando in quando, a terra la torcia che portava. Il drappello percorse altre lunghissime gallerie che né i secoli né l’umidità avevano guastate, tutte ampie e discretamente arieggiate. Regnava però un calore ancora intenso prodotto dall’enorme ammasso di carboni che aveva coperto le vie della capitale. Dopo un altro quarto d’ora sboccarono in una nuova rotonda, assai piú ampia della prima, e dopo pochi minuti in un’altra ancora perfettamente asciutta. — Siamo a poca distanza dal sotterraneo — disse il cacciatore di topi. Stava per imboccare un’altra galleria, l’ultima, quando si fermò tendendo gli orecchi. — Che cosa hai udito? — gli chiese Yanez, togliendosi dalle spalle la carabina. — Un passo d’uomo. — Tu sogni. Sarà qualche esercito di topi affamati. — No, Altezza: io ho troppo vissuto in queste cloache, e non posso ingannarmi. — Che abbiano scoperto il passaggio? — Non lo so: il fatto è che un uomo si avanza. — Io non vedo nulla. — La galleria qui descrive una gran curva, Altezza. Quell’uomo non tarderà a mostrarsi. — Andiamo innanzi o ci fermiamo? — Sarà meglio attendere, gran sahib. — Spegnete subito la torcia, allora. Fu prontamente obbedito, ed il drappello si strinse puntando le carabine, e deciso poi a gettarsi innanzi colle scimitarre. Tutti si erano messi in ascolto e non tardarono a udire un passo che l’eco della galleria trasmetteva distintamente. — Tu non ti eri ingannato — disse Yanez al cacciatore di topi. — Fortunatamente pare che non si tratti che d’un solo uomo. — Sí, d’uno solo, Altezza — rispose il baniano. — Non deve essere lontano. — Anzi, piú vicino di quello che potete immaginarvi. Ah!... Vedete? Una lampada era comparsa allo svolto della galleria, e subito l’uomo che la reggeva. Yanez ed il cacciatore di topi mandarono due grida: — Kiltar!... — Sí, sono io — rispose il bramino, avvicinandosi rapidamente. — Non credevo di trovarvi qui. — Tu sei entrato da un sotterraneo? — gli chiese Yanez. — Sí, d’un grande palazzo che un giorno era stato abitato, se non m’inganno, da uno dei vostri ministri. — Quali nuove rechi? — Gravi, Altezza — rispose Kiltar, il cui volto si era offuscato. — Sindhia lavora attivamente alla vostra perdita. — In quale modo? — Un gran numero dei suoi uomini sono stati mandati nelle jungle a far raccolta di grossi bambú. — Non saprei a che cosa gli possono servire. Forse a riedificare la capitale? Riuscirà un bel villaggio facile a bruciarsi. — Non scherzate, Maharajah. Quei bambú serviranno come conduttura d’acqua. Yanez aggrottò la fronte. — Vorrebbe tentare di annegarci? E dove prenderà l’acqua? — Io non so, ma pare che i suoi fakiri abbiano scoperta una grossa sorgente. — Ci vorrà del tempo prima che si costruiscano tante condutture. E poi non credo che queste cloache siano facili ad inondarsi, avendo per scolo il fiume nero. Sindhia ed i suoi uomini perderanno inutilmente il loro tempo. — E se riuscissero nel loro intento? — Allora, prima di lasciarci annegare come tanti topi, attaccheremo a fondo, alla disperata; perciò abbiamo bisogno assoluto di conservare i nostri elefanti e quanti piú cavalli potremo. — Ma quelle bestie non potranno mai passare per queste gallerie — disse il bramino. — Lo so, e non sarà da questa parte che noi attaccheremo. — Dove andrete allora? — In cerca di fogliame per gli elefanti che soffrono piú dei cavalli. Vi sono truppe al di là dei bastioni? — In certi luoghi sí, ma io vi farò passare attraverso le muraglie degli antichi giardini che hanno resistito al fuoco. Qualche cosa della vostra capitale è rimasto, ma ben poca cosa. — Il palazzo reale è crollato? — Distrutto completamente. Anche tutti i palazzi, le pagode, le moschee sono state sfasciate dal fuoco. — Orsú, non perdiamo tempo, gran sahib — disse il cacciatore di topi. — Dobbiamo ritornare prima dell’alba. — Hai ragione — rispose Yanez. — Riaccendete le torce. Il drappello si rimise in marcia, affrettando il passo. La galleria saliva rapidamente e conservava ancora un forte calore sebbene fossero passati tanti giorni dall’incendio. Cinque minuti dopo i sedici uomini entrarono in un vasto sotterraneo che non doveva aver mai fatto parte delle cloache. Delle pareti, calcinate dal fuoco, erano crollate, e un’apertura assai larga si era formata. — Ci siamo — disse il bramino. — Una scala e saremo all’aperto. — Non ci saranno soldati dispersi fra le rovine? — Non ho veduto che qualche affamato. — Ah! ... — Che cosa avete, Altezza? — Stanno tutti bene al campo di Sindhia? — Per ora sí. — Malgrado la rottura di quelle due bottiglie? — Sí, Altezza. Forse la malattia si svilupperà piú tardi. — Può darsi. Aspetteremo. Attraversarono il sotterraneo, giunsero ad una scala di pietra e si trovarono all’aperto fra una immensa quantità di macerie. — Povera la mia capitale!... — disse Yanez. — Eppure non potevo fare a meno di distruggerla per trattenere gli assalti di Sindhia. «Senza questo gigantesco incendio, non avrei potuto attendere l’arrivo di Sandokan.» Kiltar si era fermato dietro ad una muraglia tutta nera, e pareva che cercasse di orizzontarsi fra quel caos immenso di rovine. — Seguitemi — disse ad un tratto. — Non faremo cattivi incontri, ma è necessario che spengiate voi le torce ed io la mia lampada. Riaccenderemo piú tardi le une e l’altra se ne avremo bisogno. Ascoltò per qualche momento, poi si mise in marcia, seguendo la muraglia, la quale pareva che si stendesse in direzione dei bastioni. Un silenzio immenso regnava sulla città distrutta. Pareva che fosse diventata la città dei morti. Tuttavia, in lontananza, fra le tenebre, brillavano numerosi fuochi i quali indicavano gli accampamenti dei banditi di Sindhia. Il drappello affrettava la marcia, procedendo in fila indiana, colle carabine montate. Fra tutte quelle rovine regnava ancora un gran calore. Si sarebbe detto che in certi luoghi, anche dopo tanti giorni, il fuoco covava ancora. Ed infatti, di quando in quando, delle folate d’aria ardentissima, soffocante, si abbattevano sul drappello, arrestandolo nella sua marcia per qualche minuto ed anche piú. — Mi chiameranno il Nerone dell’India — disse Yanez. — Io però dovevo salvare la mia pelle. Finalmente i bastioni comparvero. Erano ridotti in uno stato miserando a cagione dello scoppio delle polveriere. Squarci giganteschi, ingombri in parte di rottami, si scorgevano qua e là, ed erano cosí larghi da permettere il passaggio anche di una grossa colonna d’assalto. Kiltar che pareva conoscesse la città meglio del Maharajah e perfino del rajaputo, guidò il drappello attraverso ad uno squarcio enorme, sui cui margini si stendevano delle casematte completamente sventrate, e lo condusse in aperta campagna. Da quella parte nessun fuoco brillava. Sindhia non aveva pensato a circondare completamente la città, non immaginandosi mai che dalle cloache si potesse, in qualche luogo, giungere a fior di terra. — Ah, il famoso guerriero! — esclamò Yanez con voce ironica. — E si vanta un gran capitano! Ben guidati quei poveri paria, fakiri e rajaputi! Ci vuole ben altro per fare la guerra! Attraversarono il bastione e si gettarono nella tenebrosa campagna, non rischiarata né dalla luna, né dalle stelle essendo il cielo assai coperto. Intorno alla capitale piante ed erbe ve n’erano in abbondanza, un po’ appassite per l’intenso calore, ma i banani dalle foglie gigantesche avevano resistito meravigliosamente. Una fattoria si trovava a breve distanza; era una casa piuttosto massiccia, circondata da alberi colossali. Il drappello, temendo sempre un improvviso assalto, quantunque nulla lo facesse presentire, invase l’orto della casa e si mise a sciabolare frettolosamente rami ed erbe. Già avevano completato un buon carico, capace di levare la fame, almeno per una volta, alle bestie, quando Kiltar ed il cacciatore di topi, che si erano messi in sentinella, si avvicinarono rapidamente a Yanez il quale fumava la sigaretta con la sua solita tranquillità. — Altezza, — disse il bramino — gli uomini di Sindhia ci hanno seguiti e fors’anche circondati. — Ah!... — fece semplicemente il portoghese. — Mi rincresce solamente per gli elefanti. Qui vi è una casa e abbastanza solida. Occupiamola e vediamo come sapranno comportarsi i famosi guerrieri di Sindhia. Per Giove, gli affari prendono cattiva piega! «Noi qui, Sandokan laggiú che non conosce il passaggio della galleria, elefanti e cavalli affamati!... Come finirà questa storia?» — Grande sahib — disse il cacciatore di topi. — Finché vi è tempo volete che ritorni nelle cloache ad avvertire i vostri amici della vostra pericolosa situazione? Anche se uscissero vincitori per la foce del fiume fangoso, chi li guiderebbe qui? — Tu sei un brav’uomo. Avresti tanto coraggio? — Sí, Altezza. — Va’, parti subito. Forse sei ancora in tempo. — Oh, i miei orecchi sono assai acuti e sapranno subito avvertirmi dell’avvicinarsi del nemico. Io spero di rivedervi presto. Ciò detto gettò a terra un gran fascio di foglie che si era già caricato sulle spalle, e quel diavolo d’uomo, malgrado la sua età già avanzata, in un momento scomparve fra le tenebre. — E tu, Kiltar, che cosa pensi di fare? — chiese Yanez volgendosi al bramino il quale, curvo verso terra, pareva che ascoltasse con estrema attenzione. — Rimani con noi o ritorni presso il rajah? — Io penso sempre che posso esservi piú utile rimanendo fra gli assedianti anziché rimanere con voi. «Chi vi informerebbe di ciò che succede nei campi di Sindhia? Nella mia qualità di bramino, io posso attraversare liberamente i campi.» — Pure mi avevi detto che il rajah voleva fucilarti. — Ha pensato forse che io sono un uomo troppo prezioso, ed ha abbandonata la sua idea. «Altezza, prendo il largo anch’io. I guerrieri dell’ubriacone non devono essere lontani. «Voi barricatevi in questa fattoria e tenete duro. Quanti colpi avete per carabina?» — Cento. — Vi do anche i miei. Addio, Altezza, e badate di non lasciarvi prendere perché il rajah non vi risparmierebbe. — Eh, lo so — rispose Yanez. — Va’ anche tu. Il bramino s’inchinò fino quasi a terra, poi prese a sua volta la corsa, per non farsi sorprendere cosí vicino ai nemici del suo signore. Intanto i montanari e l’erculeo rajaputo avevano occupata la fattoria, la quale era stata abbandonata dai suoi proprietari. Era una casa ad un solo piano, con quattro stanze e otto piccole finestre, che somigliavano piuttosto a feritoie. Pochi rozzi mobili si trovavano là dentro; invece in una delle tre stanze, destinata a magazzino, i montanari avevano subito scoperto molti sacchi pieni di riso, poi fagiuoli, pesce secco per preparare il carri, ed una notevole provvista di legna. — Gran sahib, — disse il rajaputo, il quale aveva per primo visitata minutamente la casa — se noi saremo economi, potremo tirare avanti una quindicina di giorni. «Certo che non dovremo levarci completamente la fame.» — E l’acqua? — Vi è un piccolo pozzo. — Io non credevo di aver tanta fortuna. Allora noi resisteremo a lungo. — Molti colpi abbiamo da sparare, e questi montanari, che sono quasi tutti cacciatori, difficilmente sbagliano il bersaglio. E poi, frugando per bene, potremo forse trovare qualche provvista di polvere. I contadini indiani ne tengono sempre. — Cercheremo piú tardi. Ora pensiamo a barricarci. Sono solide le porte? — Robustissime, con doppie traverse di legno durissimo. — Ordinariamente le fattorie hanno sempre un’apertura che mette sul tetto. — Vi è anche in questa: la scala è nella quarta stanza che serve da magazzino. — Allora andiamo a metterci in sentinella. I montanari rimarranno qui e spareranno attraverso le finestre. Un po’ tranquillizzato, si recò, insieme col rajaputo, nel magazzino portando la lampada che il bramino gli aveva lasciata, montò una scala di bambú e spinse in alto una piccola botola la quale peraltro lasciava un’apertura sufficiente al passaggio d’una persona. — Non mi ero ingannato — disse Yanez allungandosi sul tetto formato di fango ben secco misto a paglia. — Di quassú potremo vedere meglio e seguire le mosse dei banditi. Per Giove, io conto ancora di dare a quelle canaglie una terribile lezione! — Siamo in pochi ma risoluti — disse il rajaputo. Si erano alzati sulle ginocchia e si erano messi in osservazione. L’oscurità era troppo profonda per poter distinguere delle persone, anche perché vi erano intorno alla fattoria degli immensi fichi baniani, i quali proiettavano un’ombra foltissima. Invano i due uomini aguzzarono gli occhi e tesero gli orecchi: non videro nulla, né raccolsero alcun rumore sospetto. Eppure era convinto che il bramino ed il cacciatore di topi non si erano ingannati. — Che cosa dite, sahib? — chiese il rajaputo. — Io non odo altro che i grilli e non vedo che qualche rada stella scintillare fra gli strappi delle nubi. — Taci — disse Yanez, il quale ascoltava sempre. — Anch’io ho l’udito acutissimo e gli occhi buonissimi. — Vengono? — chiese il rajaputo, dopo un mezzo minuto di silenzio. — Mi pare che al di là di quei fichi baniani alcune persone si muovano. — Saranno i banditi del rajah? — Chi vuoi che siano? — Non so come ci abbiano seguiti. Avete fiducia voi in quel bramino? — Assoluta. — Io veramente ne ho poca. — Ci ha dato già due prove di esserci amico sincero. — Uhm!... Vedremo in seguito. Non vi pare, gran sahib, che gli uomini di Sindhia abbiano una grande paura a montare all’assalto? A quest’ora dovrebbero essere già qui. — Sospetteranno forse che noi possediamo una di quelle mitragliatrici che li ha crudelmente decimati nelle jungle intorno agli elefanti della Tigre della Malesia. — Gran brav’uomo quel principe bornese vostro amico. — E terribile guerriero soprattutto. Oh, ne farà un’altra delle sue! Credi tu che non venga qui a liberarci? — Avrà un bel da fare, gran sahib. — Oh, non mi preoccupo. Una volta lanciato, nessuna cosa, nessun ostacolo arresta quel prode guerriero. — Se è riuscito a passare le jungle e a raggiungerci nelle cloache, lo credo. Anche i suoi guerrieri sono uomini che non temono nessuno. La morte non ha mai fatto paura a quei bravi. In quel momento, sotto l’oscura ombra dei grandi fichi baniani, si videro brillare delle lampade che subito si spensero. — Hai veduto? — chiese Yanez. — Sí, gran sahib, — rispose il rajaputo. — Se provassimo a sparare qualche colpo? — Le munizioni sono troppo preziose, amico, e dobbiamo economizzarle fino all’arrivo di Sandokan. — Dunque voi credete che verrà? — Se il cacciatore di topi riuscirà a ritornare nelle cloache, nessuno piú tratterrà il mio amico. Aspettiamo. Vedendo che i banditi non si decidevano a farsi vivi ridiscesero nella fattoria. I montanari avevano barricate le porte ed avevano acceso il fuoco mettendo a cucinare insieme, in una gigantesca pentola, del riso, del pesce secco e delle erbe aromatiche per prepararsi il carri. Già durante la giornata non avevano ricevuto che una piccola porzione di carne di cavallo, malamente arrostita, e si sa che i montanari sono sempre disposti a divorare. — Questa brava gente non perde il suo tempo — disse Yanez, sorridendo. — L’uomo che ha mangiato combatte meglio, gran sahib, — disse il capo del piccolo drappello. — Cosí dicono infatti anche i soldati inglesi. — Gran sahib, servitevi. Vi è qui della terraglia che abbiamo prima accuratamente lavata. Anche voi, malgrado le vostre preoccupazioni, dovete avere un po’ d’appetito. — È probabile, mio bravo — rispose Yanez. — Non ho mai avuto nessuna passione per il carri, ma in mancanza di meglio farò lavorare egualmente i miei denti ed il mio stomaco. Si erano messi a mangiare, mentre due montanari erano saliti sul tetto, pronti a dare l’allarme. Nessuno li disturbò. Pareva che i banditi di Sindhia, pessimi soldati, non si decidessero a tentare un attacco. — Ma noi potremo aspettare qui anche una settimana — disse Yanez al rajaputo, che era andato ad interrogare le sentinelle. — Eh, non fidatevi, gran sahib — rispose il gigante, accettando una sigaretta datagli dal portoghese un po’ mal volentieri, poiché la provvista era diventata piuttosto esigua. — Quegli uomini non sono guerrieri, bensí sciacalli. — Lo sappiamo, e che cosa vorresti dire con ciò? — Mi aspetto qualche brutta sorpresa. — Quale? — Che ci arrostiscano vivi. — Per Giove!... — Vi sono troppe piante e troppa paglia intorno a questa casa. — Non abbiamo il pozzo? — Per Sivah, io vi ammiro!... Non ho mai veduto un uomo piú sicuro di sé come voi, gran sahib. — Non sarei stato un conquistatore — rispose Yanez sorridendo. — Io penso peraltro che tu possa avere ragione, e che qualche provvedimento sarebbe necessario. — Ordinate, gran sahib. — Lancia fuori i montanari, fa’ distruggere la paglia ed atterrare le piante che circondano la casa. — Ne avremo il tempo? — Mi metterò io in sentinella sul tetto con un paio d’uomini. Tu sai già che io non spreco una carica. — Non vorrei trovarmi sotto la vostra mira — rispose il rajaputo. — Va’, il tempo stringe. Mentre il gigante, seguíto dai montanari, apriva la porta che era stata fortemente barricata, Yanez salí sul tetto portando con sé la lampada del bramino avvolta in uno straccio. L’oscurità era sempre profonda quantunque l’alba non dovesse essere molto lontana. Grosse masse di vapori continuavano ad offuscare il cielo, spinte da un vento piuttosto forte che soffiava dal nord, dalle altissime montagne dell’Himalaya. — Nulla? — chiese Yanez ai due montanari che si erano coricati sul tetto, tenendo le carabine dinanzi a loro. — No, gran sahib — rispose uno dei due. — Tuttavia non devono essere lontani, poiché poco fa abbiamo udito l’urlo d’uno sciacallo che non era affatto naturale. Noi montanari conosciamo troppo bene quelle bestie che infestano in gran numero le nostre montagne. Quelle canaglie sono cosí audaci, almeno nei nostri villaggi, da portar via fino i ragazzi. — Cose vecchie — disse Yanez. — Potevi raccontarle a tuo nipote, se ne hai uno. — Ne ho una mezza dozzina, gran sahib. — Avrai da chiacchierare una notte intera; ma questo non è il momento. Al primo urlo dello sciacallo hanno risposto? — Subito, gran sahib. Per la terza o quarta volta l’ampia fronte del Maharajah si era offuscata. — Per Giove!... — brontolò. — La faccenda è piú seria di quello che credevo. Che cerchino proprio di arrostirci? — Gran sahib... — Taci!... Yanez si era alzato sulle ginocchia ed aveva puntata la carabina. La canna parve che seguisse per qualche istante un’ombra, poi una formidabile detonazione ruppe il silenzio della notte, subito seguita da un grido acutissimo. — Preso! — disse uno dei due montanari aguzzando gli occhi. — Lo credo — rispose il portoghese. — Un Maharajah deve tirare come un famoso guerriero. — Ecco un uomo di meno che rimane a Sindhia. — Ben poca cosa — rispose Yanez con voce un po’ amara. — Una mitragliatrice del mio amico avrebbe già spazzato tutto il terreno intorno a questa topaia. Disgraziatamente i passaggi delle cloache erano troppo stretti per far passare quelle armi formidabili. Oh, giungeranno. Io non dispero affatto. Ricaricò tranquillamente la carabina e si distese sul tetto, spingendo lo sguardo lontano. I due montanari si erano spinti fino all’orlo del tetto, colla speranza di fare anche loro qualche buon colpo che assottigliasse le schiere troppo numerose dell’ex rajah. Con grande sorpresa di tutti gli assediati non si effettuò nessun attacco da parte degli assedianti. Avevano avuto paura, o volevano aspettare la luce per meglio studiare le forze degli avversari? — Ecco una notte perduta inutilmente — disse Yanez. — Eppure avrei avuto tanto bisogno di schiacciare un sonnellino. Quando si potrà? Accese un’ altra sigaretta, lanciando ben lontano il fiammifero, perché il tetto non prendesse fuoco, e s’alzò in piedi guardando da tutte le parti. Il sole cominciava ad apparire, fugando, con rapidità fulminea, le tenebre. Già si sa che in quelle regioni non esistono si può dire, né albe né crepuscoli. — Ah, ah! — fece Yanez. — Non si era ingannato il cacciatore di topi, come non si era ingannato il bramino. Poi volgendosi verso i due montanari, disse: — Su, alzatevi e guardate anche voi. I due uomini si alzarono subito e spinsero lontano i loro sguardi acuti sulla vasta pianura indorata dal sole, che si rompeva solamente ai bastioni mezzo sventrati della capitale. A cinque o seicento metri dalla fattoria, fra le risaie, si aggiravano alcune centinaia di banditi, per la maggior parte fakiri e paria, ma non vi mancavano dei minuscoli drappelli di rajaputi. — Che cosa dite voi? — chiese Yanez ai due montanari. — Che quella gente non osa attaccarci — risposero insieme. — Che vogliano affamarci? — Sarà piú probabile, gran sahib — disse il piú vecchio dei due montanari. — Arrischiano meno. — Ma forse c’inganniamo — disse il portoghese, alzando rapidamente la carabina. — Ecco laggiú un fakiro che si avanza verso di noi, facendo sventolare un lurido straccio. Non lo lascerò certamente avvicinar troppo. Quel furfante viene a spiarci fingendosi un parlamentario. Ah, no, caro mio. Non ci s’inganna cosí. Un uomo infatti aveva attraversato la linea dei foltissimi fichi baniani, e si avanzava lentamente facendo ondeggiare il suo straccio che doveva essere un lurido dugbah. Apparteneva alla casta dei fakiri chiamati nanck-punthy, subito riconoscibili per una usanza loro particolare, la cui origine è ignota, ed è quella di portare una sola scarpa ed una sola basetta. Aveva in testa un largo turbante, molto sporco, adorno di sonagli d’argento, ed intorno al collo delle file di perle intrecciate con fili di ferro. Il vestito consisteva in un gonnellino d’un colore impossibile a definirsi ed abbastanza sbrindellato. Questi fakiri non sono prepotenti come i saniassi, che sono veri saccheggiatori i quali s’impongono a tutti e saccheggiano senza misericordia le ortaglie dei poveri coltivatori. Girano in grosse bande, battendo due bastoni l’uno contro l’altro e recitando nel medesimo tempo, con una speditezza incredibile, un pezzo di qualche vecchia leggenda indiana che cantano. Guai però se la gente non fa la carità a quei miserabili! Tutte le maledizioni che si possono immaginare piovono sul povero contadino che non ha un quarto di rupia da regalar loro. Il fakiro, attraversati i folti vegetali, si era fermato a circa centocinquanta metri dalla casa, come se fosse poco risoluto di andare avanti. Yanez fece colle mani portavoce, consegnando per un momento la sua carabina ad un montanaro, e gridò a pieni polmoni: — Che cosa vieni a fare tu qui? Il fakiro agitò disperatamente il suo bastone, poi rispose in lingua inglese abbastanza pura: — Mi manda il rajah Sindhia. — Che cosa vuole da noi? Delle palle di carabina? — La vostra resa. — E per trattare un simile affare manda da me un pezzente? Il tuo padrone vuole burlarsi di noi! Ti do subito un buon consiglio: non fare un passo innanzi perché ti fucilo!... — Sono un parlamentario, sahib. — Tu non sei altro che un bandito. Gira sulla tua unica scarpa, e va’ a dire ai tuoi compagni che siamo in cinquanta, ben provvisti di viveri e di munizioni, e che perciò non ci arrenderemo senza un terribile combattimento. — Abbiamo dei rajaputi. — Sí, quelli che erano ai miei servigi!... — urlò Yanez, perdendo la sua flemma abituale. — Ora sono del rajah, sahib. — Come!... Tu osi chiamarmi semplicemente signore e non Maharajah! E che cosa sono dunque io? — Un principe senza trono — rispose audacemente il fakiro. — Chi te lo ha detto? — Sindhia, e poi dove si trova la tua capitale, sahib? — Un pezzo nelle cloache ed un pezzo qui — rispose Yanez, il quale si tratteneva a stento. — Bella capitale!... — gridò il fakiro, con voce sardonica. — Vale meno della mia miserabile capanna. — Non so se la tua capanna sarà difesa come questa. — Forse piú ancora, perché è sempre piena di serpenti. — Bestie che non ci farebbero certamente paura. Ora penso che tu hai chiacchierato abbastanza, e ti invito per la seconda volta a girare sulla tua sola scarpa, prima che mi sfugga qualche colpo di carabina. — Un momento, gran sahib. Che cosa devo rispondere al rajah? — Che qui ci troviamo assai bene, che mangiamo, beviamo e fumiamo senza preoccupazioni. Ora, se credi, pezzente, da’ l’ordine ai rajaputi di attaccarci. — Occorrerebbe che sapessero quanti uomini avete voi. — Cinquanta, con due mitragliatrici. — Ah, le brutte bestie! — Ora vattene. È tempo!... Abbiamo parlato abbastanza. Va’, e non volgerti indietro. — Ci rivedremo piú presto di quello che credete, gran sahib -rispose il fakiro a gran voce. — Oh, vi strapperemo la corona! Yanez aveva appoggiato un dito sul grilletto della carabina, ma si arrestò dicendo: — Ba’, lo ucciderò un’altra volta, quando non agiterà piú quello straccio. Rispettiamo i parlamentari. Si sedette sul tetto guardandosi intorno. I dieci montanari che erano rimasti sotto, guidati dall’erculeo rajaputo, avevano portato via i covoni di paglia gettandoli entro una vicina risaia abbondantemente irrigata, ed avevano atterrati tutti i cespugli che si trovavano nelle vicinanze perché i nemici non potessero incendiarli. Né i rajaputi, né i paria, né i fakiri avevano osato sparare un solo colpo di fucile. Le mitragliatrici di Sandokan dovevano averli terribilmente impressionati; e per timore che se ne trovassero alcune anche nella fattoria, giudicandosi troppo deboli forse, erano rimasti assolutamente inattivi. Quella tranquillità peraltro non era fatta per assicurare completamente il portoghese. — Qui si giuoca davvero la mia corona — disse. — Se non viene Sandokan coi suoi prodi in mio aiuto, finiremo tutti malamente. Ba’, la guerra è la guerra, ed io sono cresciuto fra il rombo dei cannoni, delle spingarde e delle carabine. Vedremo!... CAPITOLO V. LA RITIRATA Il cacciatore di topi, appena lasciata la fattoria, si era slanciato a corsa furiosa, orientandosi alla meglio. Abituato a vivere fra le tenebre, non aveva bisogno di lumi per dirigersi; i suoi orecchi poi avevano una acutezza straordinaria. Quel vecchio possedeva una energia indomabile, ed aveva dei muscoli d’acciaio. Lanciato, correva come un veltro. Aveva già sentiti i nemici, meglio che uditi, perciò si studiava di evitarli. Disgraziatamente la notte era troppo oscura anche per un uomo abituato a vivere fra le tenebre delle cloache, ed andò a cadere fra le braccia di due rajaputi che si erano messi in agguato dietro la linea dei foltissimi fichi baniani. — Chi sei? — gridarono i due guerrieri, avvinghiandolo strettamente e gettandolo ruvidamente a terra. — Il padrone di quella fattoria che vedete laggiú — rispose il cacciatore di topi. — Sono venuti degli uomini, mi hanno puntate delle pistole alla gola, e poi mi hanno scaraventato fuori della porta come se fossi un sacco di stracci. — E dove fuggivi ora? — chiese il piú anziano dei due guerrieri. — Non lo so nemmeno io — rispose il baniano. — Correvo senza una meta fissa per paura che quegli uomini mi uccidessero. — Ve ne sono molti dentro quella casa? — Ne ho veduti molti, ma non saprei precisarti il numero, sahib. Ero troppo spaventato. — Non hai veduto delle armi grosse? — Dei cannoni? — No, no, degli strumenti strani che hanno delle canne disposte in forma di ventaglio, e che fanno un fuoco infernale. — Sí, infatti mi parve di aver veduto qualche cosa di simile. — Si chiamano mitragliatrici. — Non so che bestie siano. Io non sono che un povero coltivatore, ora irreparabilmente rovinato, poiché né il rajah, né il Maharajah, né la rhani mi compenseranno della perdita della mia fattoria. — Chi forse ti pagherà sarà il rajah — rispose il rajaputo. — Hai detto forse, sahib. — La guerra costa cara, ed il nostro padrone, almeno per ora, deve avere le casse vuote. — Allora non mi rimane che di cercare di raggiungere alcuni miei parenti che posseggono pure una fattoria, ed offrire loro le mie ultime forze per non morire di fame. — Si trovano molto lontani? — Una trentina di miglia per lo meno — rispose il cacciatore di topi. — Le tigri od i leopardi ti mangeranno prima di giungervi. — Cosí avrò finito di soffrire. Ormai sono vecchio, molto vecchio. — Ma correvi come un giovane sciacallo. — La paura mi aveva messo le ali ai piedi. I due rajaputi si scambiarono uno sguardo, poi quello che aveva sempre parlato, disse al compagno: — Lasciamo andare questo disgraziato che la guerra ha messo completamente in terra. — E se fosse una spia del Maharajah? — chiese il piú giovane rajaputo. — Non si servirebbe certamente di gente cosí vecchia. Ormai abbiamo saputo abbastanza e questo povero uomo non potrebbe darci maggiori informazioni. — Fa’ come vuoi. — Vecchio, sei libero e guardati dai cattivi incontri. Tu sai che nelle jungle si nascondono non poche belve feroci sempre affamate di carne umana. — Buona notte, sahib — disse il baniano, fingendosi commosso. — Voi siete buoni. Poi riprese la corsa e scomparve ben presto nelle boscaglie che si estendevano al sud della capitale e che conosceva a palmo a palmo, essendo stato anche cacciatore. Non osava dirigersi subito verso le cloache, temendo che i due rajaputi lo seguissero da lontano. Percorse un paio di miglia, quasi sempre correndo, poi si spinse attraverso le risaie e raggiunse i bastioni. Da quella parte non vi erano truppe. Forse Sindhia le aveva ammassate dinanzi alla foce del fiume nero. Scivolò fra le rovine, le quali conservavano ancora un po’ di tepore, e dopo d’aver fatto un lungo giro riuscí a guadagnare il sotterraneo. Non aveva nessuna lampada, ma già sappiamo che quello strano uomo, abituato a vivere fra le tenebre, ci vedeva quanto e forse meglio d’un gatto. Infilò la galleria che attraversava le rotonde e si rimise a correre. Quel vecchio aveva una resistenza assolutamente incredibile. Già stava per sboccare sulla banchina, quando udí delle fragorose scariche. Pareva che alla foce del fiume nero si fosse impegnata una grossa battaglia. Fra le schioppettate si udivano i formidabili barriti degli elefanti ed il nitrire dei cavalli. Il cacciatore di topi si lasciò scivolare sulla banchina, e veduto un fuoco acceso sulla riva del putrido corso d’acqua, prese subito la rincorsa, gridando: — Non sparate!... Sono il malabaro!... Intorno ad alcuni pezzi di legna si trovavano riuniti, come in consiglio, Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri ed il vecchio guerriero malese, che chiamavano Sambigliong. Vedendo giungere come una bomba, e solo, il cacciatore di topi, tutti erano balzati in piedi in preda ad una vivissima emozione. — Il Maharajah è stato preso, è vero? — gli chiese Sandokan. — Non preso, ma si trova assediato in aperta campagna, dentro una solida fattoria, dietro le cui mura i suoi compagni potranno resistere qualche giorno. — A quale distanza dai bastioni? — A due miglia. Stavamo per fare raccolta di foglie pei vostri elefanti, quando le genti di Sindhia ci sono piombati addosso, e con tale rapidità, che io solo ho avuto il tempo di fuggire per portarvi la poco allegra notizia. — Ed il bramino? — chiese Tremal-Naik. — Anche quello si è messo in salvo. Non doveva, d’altronde, affrontare alcun pericolo essendo troppo conosciuto nei campi del rajah. — Dimmi — disse Sandokan, il quale aveva riacquistato prontamente il suo straordinario sangue freddo — quanto potrebbe resistere il Maharajah? — Non saprei dirvelo, gran sahib. Tutto dipende dalla tenacia e dal coraggio degli assedianti. — Erano in molti? — Cinque o seicento, per lo meno. — Mentre i nostri non sono che tredici. Noi non abbiamo piú il tempo di attendere che i germi del colera si sviluppino, se pure si svilupperanno. Io già non ho mai avuto fiducia alcuna di quelle bottiglie. Quell’olandese avrebbe fatto meglio a prepararci delle granate a mano. Che cosa dici tu, Tremal-Naik? — Lo credo anch’io — rispose il cacciatore della Jungla nera. — Che cosa dobbiamo decidere? Noi non possiamo piú rimanere qui, anche perché gli elefanti ed i cavalli sono alle prese colla fame. Prima che si indeboliscano completamente, serviamocene. Faremo una carica furiosa con tutte le nostre bestie e correremo in aiuto di Yanez. — Sei sempre lo stesso — disse Tremal-Naik. — Tu non hai mai contato i tuoi avverarsi. — Ho sempre avuto questa bella abitudine, e non ho mai avuto da pentirmene. — E liberato Yanez dove andremo? — Ci rifugeremo fra i montanari di Sadhja. Lassú Sindhia non verrà a scovarci, te lo dico io. — Ed intanto lui s’impadronirà di tutte le migliori città dell’Assam che noi non possiamo difendere. — Ma gliele riprenderemo — rispose Sandokan. — Ormai questo famoso impero, per il quale non darei cento rupie, poiché rende piú noie che utile, è da riconquistare da cima a fondo. — Un’impresa un po’ dura. — Ma è il nostro mestiere quello di battagliare continuamente. A Mompracem, ora che gl’inglesi mi lasciano tranquillo, cominciavo ad annoiarmi mortalmente. Guardò bene in viso il cacciatore di topi, il quale non aveva mai pronunciata una parola, e gli chiese: — Tu sapresti condurci, senza farci smarrire la via, fino alla fattoria? — Rispondo pienamente, gran sahib — rispose il baniano. — Collocatemi dietro il cornac che guiderà il primo elefante, e vedrete che noi marceremo, o meglio, galopperemo diritti verso i grandi fichi baniani. Sandokan guardò l’orologio: — Sono le tre: approfittiamo dell’ora di tenebre che regnerà ancora. Farà caldo, l’impresa sarà dura, ma io non dispero affatto. Sindhia non ha che una marmaglia che cederà subito al primo attacco. — Ed i rajaputi? — chiese Kammamuri. — Ne abbiamo ammazzati tanti nelle jungle che credo ne siano rimasti ben pochi a Sindhia. — E poi una parte di quei solidi guerrieri sono impegnati intorno alla fattoria. Sandokan esaminò la carabina e le pistole, fece scorrere la scimitarra piú volte entro la guaina, poi disse con voce risoluta: — Andiamo: succederà un massacro, ma non lo possiamo evitare. Si misero tutti in marcia, senza curarsi di spegnere il fuoco, e raggiunsero il luogo dove si trovavano gli elefanti ed i cavalli. Le povere bestie, straziate dalla fame, empivano la grande cloaca di fragori formidabili. Invano i cornac, con carezze e con dolci parole, cercavano di calmare i giganteschi pachidermi, i quali erano diventati furiosi. L’olandese era nell’houdah contenente le sue famose casse piene di bottiglie micidiali, almeno cosí affermava lui. — Signor Wan Horn, — disse Sandokan — mettete a dormire le vostre bestioline e preparate le vostre armi da fuoco. — Come!... — esclamò il dottore. — Si parte senza attendere lo sviluppo dei bacilli virgola? — Non abbiamo tempo da perdere, signore — disse Sandokan un po’ ruvidamente. — Io, d’altronde, ho sempre avuto piú fiducia nelle mie mitragliatrici e nei kampilangs dei miei uomini. — Oh, le genti di Sindhia morranno ugualmente — rispose l’olandese colla sua solita flemma. Attorno agli elefanti ed ai cavalli vi erano i cornac e due dozzine di malesi. Sandokan diede alcuni ordini con voce rapida. — Vi aspettiamo — disse poi — all’uscita della grande cloaca. Badate che le mitragliatrici siano tutte cariche. È soprattutto su quelle armi che io conto. Poi, seguíto dai suoi compagni, e preceduto dal cacciatore di topi, che aveva accesa un’altra torcia, si slanciò a passi rapidi attraverso la banchina. Alla foce del fiume nero non si combatteva piú. I banditi di Sindhia, dopo aver fatto un debole tentativo per forzare l’entrata, si erano lestamente ritirati dinanzi alle grosse carabine dei malesi e dei dayaki che li mitragliavano inesorabilmente. Quando Sandokan giunse, i suoi uomini, saputo di che cosa si trattava, erano già pronti ad impegnare la lotta. Come il loro formidabile capo, quei terribili pirati dei mari della Malesia, avevano presa l’abitudine di montare all’abbordaggio, di montare all’assalto senza mai chiedersi quanta gente avessero dinanzi. Erano guerrieri che non temevano né cannoni, né baionette. A troppe vittorie li aveva condotti la Tigre della Malesia, ed erano sempre pronti a impegnare qualunque combattimento. — Con cinquantamila di questi uomini si può conquistare l’Asia intera — mormorò Tremal-Naik. Gli elefanti ed i cavalli giungevano senza far troppo fracasso, poiché i cornac ed i cavalieri facevano il possibile per mantenere ancora calme le bestie. Sandokan si era spinto verso la foce del fiume fangoso in compagnia di Tremal-Naik, di Kammamuri e del cacciatore di topi, ed interrogava ansiosamente le tenebre. Non riusciva a scorgere nulla; ma era piú che certo che dei banditi dovevano essersi ammassati in buon numero, poiché fino a pochi momenti prima avevano sparato delle fucilate dentro la grande cloaca. — Non si aspettano certo questa sorpresa — disse a Tremal-Naik. — Caricheremo a fondo e ci apriremo il passaggio senza subire troppe perdite. Noi abbiamo provate ben altre emozioni; non è vero, amico? — Specialmente a bordo del Re del Mare — rispose il famoso cacciatore. — Ed allora combattevamo contro mio genero. — E tu, cacciatore di topi, che vedi anche di notte come i gatti e gli sciacalli, vedi nulla? — chiese Sandokan al baniano. — Sí, vi sono degli uomini radunati intorno alla moschea. — Molti? — Non saprei dirvelo, gran sahib. — Montiamo: i cornac non possono piú trattenere gli elefanti. Salirono rapidamente sull’houdah del primo elefante mettendosi dietro alle mitragliatrici, e diedero un ultimo sguardo alle altre bestie, le quali sentendo il profumo delle erbe e delle piante, che il vento spingeva dentro la grande cloaca, si agitavano e s’impennavano tentando di scappare. — I dayaki a destra degli elefanti; i malesi invece a sinistra!... — gridò. — Ed ora via!... Alla battaglia!... La colonna infernale si rovesciò fuori del gigantesco sotterraneo, mandando spaventevoli gridi di guerra. Gli elefanti, uno dietro l’altro, si erano messi a correre furiosamente, barrendo. In un momento tutti quei prodi si trovarono nei pressi della moschea. — Fuoco alle mitragliatrici!... — urlò Sandokan. — Presto! ... Presto!... Centinaia e centinaia d’uomini erano usciti dalle tenebre, sparando all’impazzata contro gli elefanti, ma il fuoco delle mitragliatrici subito li arrestò. — Alla carica!... Alla carica!... — urlò Sandokan. La colonna infernale si slancia, rovescia, schiaccia, sciabola, mentre le mitragliatrici e le grosse carabine si uniscono a quel fracasso spaventevole. Gli uomini di Sindhia, sorpresi in un momento in cui stavano per coricarsi, quantunque spalleggiati da qualche drappello di rajaputi, aprono le loro file dinanzi a quella formidabile tromba che semina la morte dovunque. Non sparano piú. Manca loro il tempo, e cominciano a fuggire gettando perfino le armi da fuoco per essere piú lesti. — Su, i miei malesi!... Su, i miei invincibili dayaki!... — urla Sandokan, che continua a far tonare la mitragliatrice che ha dinanzi a sé, pur seguendo attentamente lo svolgersi della piccola battaglia. — A fondo col kampilang! I novantacinque uomini a quel comando lasciano andare le carabine che appendono all’arcione, impugnando le pesanti armi che finiscono in forma di doccia, che sono affilate quanto i rasoi, e di purissimo acciaio naturale, e si scagliano a corsa sfrenata, sciabolando furiosamente. Nessuno può fermare quegli uomini una volta lanciati: né cannoni, né carabine, né baionette. I valorosi pirati della Malesia aprono un immenso squarcio fra i banditi che ancora cercavano di radunarsi, e li inseguono senza aspettare gli elefanti. Paria, bramini, fakiri, rajaputi vanno, per la seconda volta, a gambe all’aria. I feriti urlano spaventosamente, e gli elefanti, resi furiosi da qualche ferita, rispondono non meno fragorosamente. La via è libera. La colonna infernale che i ventimila uomini di Sindhia non sono riusciti ad arrestare in mezzo alle jungle, passa a gran galoppo, calpestando morti, moribondi ed anche vivi. Le mitragliatrici intanto continuano a fischiare ed a seminare la morte. Quelle armi sono veramente superbe e valgono meglio delle spingarde, cariche come sono di mitraglia formata di chiodi di rame, che si usano sui prahos malesi. In lontananza romba sinistramente qualche colpo di cannone. Parte dal grosso accampamento di Sindhia che si trova, fortunatamente, troppo lontano, e che ha degli artiglieri che non hanno mai avuto probabilmente nessuna pratica delle grosse armi da fuoco. — Va benissimo — dice Sandokan a Tremal-Naik, il quale non cessa di scaricare la sua carabina. — Lo sapevo già che tutte queste canaglie non avrebbero potuto opporre nessuna resistenza ad una simile carica. Ad un tratto peraltro si interruppe gridando forte: — Cornac, guardatevi! I venti elefanti che Sindhia aveva carpito cosí abilmente a Yanez, si erano presentati in linea serrata per impedire ai vittoriosi il passaggio. — Ah!... — gridò Sandokan. — Sindhia ci lancia contro le sue ultime riserve!... Vedremo se sapranno resistere alle nostre mitragliatrici. Su, fuoco di bordata!... Le micidialissime armi tuonano con un accordo perfetto senza arrestarsi. È una vera pioggia di proiettili che hanno una forte penetrazione, che si rovescia su quella massiccia barriera. I poveri animali, non abituati alla guerra, privati subito dei loro cornac fulminati sui loro giganteschi colli, dinanzi a quella tromba di fuoco che li prende di fronte si arrestano, poi si rovesciano fra i fuggenti e si allontanano a gran corsa barrendo. La colonna infernale continua la sua corsa. Ormai piú nessuno può fermarla. Tutti fuggono dinanzi ad essa, mandando grida di terrore. Le famose truppe del rajah, raccolte nel basso Bengala, regione che non ha mai avuto caste guerresche, sono completamente sconfitte. — Vittoria!... — urla Sandokan, facendo giuocare sempre la mitragliatrice che gli sta dinanzi. — Yanez è salvo!... La via ormai è libera. Possiamo passare!... Elefanti e cavalli continuano la loro corsa indiavolata; si slanciano fra le risaie e piegano verso la fattoria assediata. Il cacciatore di topi che monta il primo elefante, dietro al cornac, si volge verso Sandokan, gridandogli: — Badate, gran sahib!... Avremo una seconda battaglia!... Come vi ho detto, delle truppe guardano la casa. Un sorriso feroce contrae le labbra della Tigre della Malesia, mettendo per un istante a nudo due magnifiche file di denti che non hanno mai intaccato una noce di betel, poi risponde con voce secca che sembra un colpo di pistola: — Un’altra battaglia? Ma benissimo! Noi siamo uomini da sostenerne anche dieci. E la colonna infernale continua sempre piú veloce. Tutti hanno fretta di giungere alla fattoria, poiché in lontananza hanno udito delle scariche fragorose. Le orde di Sindhia, quantunque battute, dovevano essersi prontamente riordinate per lanciarsi all’inseguimento. Era necessario far presto, per evitare il pericolo di essere presi fra due fuochi. Era già sorta l’alba quando gli elefanti, che avevano dovuto galoppare intorno alle risaie per non sprofondarvi dentro, giunsero in vista della fattoria. Anche là si combatteva. Yanez, avendo certamente compreso che Sandokan accorreva in suo aiuto, aveva disposti i suoi montanari sul tetto, e non aveva tardato ad aprire il fuoco contro le bande che si aggiravano per la campagna, tentando di stringere l’assedio. — Questa è una vera battaglia — disse Sandokan a Tremal-Naik. -Vedremo come finirà. — Hai qualche dubbio? — Oh, no! Ma delle sorprese possono avvenire e scombussolare tutto — rispose la Tigre. — Quanti uomini credi che ci siano intorno alla casa? — Cinque o seicento se i miei occhi non mi tradiscono. — Credo che tu abbia invece indovinato. Non devono essere di piú. Li prenderemo alle spalle e li getteremo a gambe levate. Poi alzando la voce gridò: — Ohé, cornac, spingete la corsa. Questo è il momento decisivo. I poveri animali, quantunque affamati, obbedivano ancora alla voce ed alle carezze dei loro conduttori. Pareva che avessero compreso che si chiedeva loro uno sforzo supremo, e non cessavano di galoppare, sempre fiancheggiati dai cavalieri. Se fossero state bestie meno intelligenti si sarebbero gettate subito verso i vegetali per calmare la fame che da quarantotto ore tenagliava le loro viscere. Intanto nella fattoria si battagliava aspramente. Le orde di Sindhia che l’assediavano, accortesi che stavano per sopraggiungere altri nemici, si erano slanciate in un disperato attacco, colla speranza di fare prigioniero il Maharajah prima che venisse soccorso. Disgraziatamente per loro avevano da fare con difensori risoluti, rotti già alla guerra. I montanari, valentissimi tiratori, sdraiati sul tetto, sparavano a cinque o sei per volta, gettando sempre a terra altrettanti avversari, i quali invece, per la maggior parte, si servivano per la prima volta delle armi da fuoco. Yanez, nascosto dietro un camino, faceva dei colpi meravigliosi. Ogni palla che usciva dalla sua carabina metteva un uomo fuori di combattimento. Non badava a consumare le munizioni poiché aveva già scorta, in lontananza, la colonna infernale che si avanzava a gran corsa, galoppando sugli argini delle risaie. — Sparate! Sparate! — gridava. — Le munizioni non ci mancheranno poi. Ed i bravi montanari, che valevano forse meglio dei rajaputi, continuavano con grande calma le loro scariche, facendo dei grandi vuoti fra le file degli assalitori già troppo malfermi in gambe e che sparavano a caso. Vedendo che gli elefanti ed i cavalieri erano giunti a meno di mille passi, Yanez fece sgombrare il tetto ed aprire le porte. Ormai piú nessuno poteva prenderlo. — Teniamo fermo cinque minuti ancora — disse ai montanari — e noi saremo al sicuro. Ah, che terremoto è quel Sandokan!... Farebbe paura anche a me!... Cinque minuti!... Erano troppi. Le bande di Sindhia, spaventate dall’avvicinarsi della colonna infernale, la quale aveva ripreso il fuoco colle mitragliatrici, cominciavano a scappare, quantunque fossero rafforzate da qualche mezza compagnia di rajaputi. Ma nemmeno Sandokan si trovava in buone condizioni, poiché era stato già inseguito da migliaia e migliaia di paria, che correvano come daini ululando ferocemente. Fortunatamente si erano messi in corsa troppo tardi, ed occorreva loro del tempo per gettarsi sulla coda della colonna infernale. Yanez coi suoi pochi valorosi, come abbiamo detto, aveva lasciata la fattoria, impegnando anche da parte sua, risolutamente, il combattimento. — Sotto!... Sotto!... — urlava. — Le invincibili tigri della Malesia sono qui!... Non abbiate piú paura!... I colpi di carabina si succedevano ai colpi, con un fragore incessante, ai quali rispondevano le mitragliatrici di Sandokan. Una nuova vittoria, almeno momentanea, si delineava nettamente dinanzi agli sguardi degli uomini venuti dai mari lontani per difendere il Maharajah il quale per tanti anni, laggiú, sulle isole, aveva combattuto al loro fianco, e lo avevano sempre adorato non meno di Sandokan. Nulla piú li tratteneva. Senza aspettare che gli elefanti sfondassero le linee nemiche a gran colpi di proboscide, caricavano all’impazzata coi terribili kampilangs in pugno, sciabolando ferocemente. — Saccaroa!... — esclamò Sandokan, guardando Tremal-Naik. — Chi avrebbe detto che un giorno io avrei avuto una cavalleria!... Guarda come carica!... I famosi lancieri del Bengala non saprebbero fare di piú! E la colonna intera, spazzato il nemico, il quale non aveva opposto che una debole resistenza, con un ultimo slancio giunse quasi addosso a Yanez ed ai suoi valorosi compagni. Due altissime grida erano rimbombate, coprendo, per un momento, il crepitío della fucileria. — Sandokan!... — Yanez!... Vivo ancora!... — Non sono forse anch’io la Tigre bianca di Mompracem? — Sali: vi è posto per te. I tuoi uomini si accomoderanno nelle altre houdah come meglio potranno. Sbrígati! Siamo inseguiti! — Non sono sordo né cieco. Si spara dietro di te e si corre a gambe levate. — Monta! I cornac avevano gettate rapidamente le scale, e tutti gli assediati in un lampo si erano issati sui larghi dorsi dei pachidermi. Yanez, insieme col gigantesco rajaputo, si era arrampicato lestamente sul primo elefante nella cui houdah si trovavano Sandokan, Tremal-Naik e Kammamuri. — Ed ora? — chiese alla Tigre della Malesia, il quale si preparava a lanciare una nuova bordata di mitraglia dietro gli ultimi fuggiaschi. — Dove andiamo? — Verso le montagne di Sadhja — rispose Sandokan. — Se avremo la via libera. — Ne dubiti? — Io credo che Sindhia sia piú furbo di quello che credi. Deve aver assottigliato il suo campo per radunare gente sulle vie della montagna. Non sarà questa una vittoria definitiva. — Comincio a sospettarlo anch’io. — Ed il colera non fa progressi? Sandokan alzò le spalle. — Il diavolo della guerra era un uomo di valore, e l’abbiamo veduto. Questo parente del mio amico credo che sia uno scienziato che valga meno dell’ultimo dottore del mondo. Non fa che delle chiacchiere e finora niente fatti. — Aspettiamo. I microbi hanno bisogno d’un certo tempo per svilupparsi. — Ah!... — fece Sandokan. — Aspettiamo e pensiamo intanto noi a difendere la nostra pelle. Gli elefanti si erano fermati un momento rimpinzandosi di foglie, imitati alla meglio dai cavalli, ma quando i loro cornac diedero nuovamente il segnale della partenza, si rimisero in marcia a piccolo trotto. A circa un miglio dalla fattoria si alzava una piccola collina dai fianchi assai boscosi, e Sandokan aveva dato ordine di condurli verso la cima, volendo prima esplorare il paese, non essendo affatto convinto che le vie che conducevano verso le montagne di Sadhja non fossero state occupate. — Lassú — disse a Yanez — non potremo resistere a lungo senza correre il rischio di morire di fame. Intanto qualcuno di noi cercherà di raggiungere la rhani ed i guerrieri di Khampur. Un uomo solo, montato su un buon cavallo, può passare quasi inosservato, ma non una colonna cosí pesante come la nostra. — E cosí dovremo subire un nuovo assedio — rispose il Maharajah. — Mio caro, le nostre bestie sono sfinite, e non potrebbero ritentare una carica in mezzo a migliaia e migliaia di nemici. Noi non dobbiamo sacrificarle poiché potranno renderci ancora degli immensi servigi. — E gli elefanti che Sindhia mi ha rubati? — Non li ho veduti — rispose Sandokan. — Ma ho udito in distanza, dietro le truppe che ci assalivano, dei barriti. Vuol dire che non li ha perduti. — Se li avessi ancora!... — Quel furfante non avrebbe nemmeno osato assalirti. Gli elefanti ed i rajaputi insieme!... E poi si diceva che era un gran pazzo!... Un gran furbo, mio caro Yanez. — Che ci darà, temo, maggiori fastidi dell’altra volta. — Oh, la vedremo! Ci sono i montanari di Sadhja, e quei bravi combatteranno come tigri. Li condurremo un’altra volta alla vittoria. — Tu dunque hai molte speranze, Sandokan? — Ma sí, amico. E poi penso che noi siamo sempre le invincibili tigri della Malesia. Hai veduto come con cento soli uomini abbiamo rovesciato le migliaia di nemici. È vero che andavamo con una furia tale, che al loro posto, mi sarei spaventato anch’io. — Tutto da rifare — disse Yanez con un sospiro. — Perfino la tua capitale — disse Sandokan quasi sorridendo. — Noi, fortunatamente, siamo ricchi come nababbi, e molta gente potremo far lavorare. Briccone di Sindhia!... Da lui non mi aspettavo un tale colpo, specialmente dopo la morte di quella canaglia di greco che funzionava da suo primo ministro. — E che lo ha istruito. — Può darsi — disse Sandokan. — Ora quell’uomo riposa in fondo alle acque del Kini Balú e non tornerà certamente a galla, dopo tre anni, per accorrere presso il suo signore. Intanto la ritirata si effettuava senza fastidi. Gli uomini di Sindhia, due volte battuti dalla colonna infernale, non avevano osato spingere l’inseguimento. In lontananza sparavano ancora, ma forse piú per eccitarsi che colla speranza che qualche palla giungesse a colpire. Gli elefanti ed i cavalli, quantunque quasi completamente esauriti, avevano attaccata valorosamente la collina, aprendo un passaggio attraverso le boscaglie. Nessuna pianta resisteva all’urto poderoso ed alle formidabili proboscidi degli elefanti, sebbene si trattasse di rovesciare dei palas, bellissimi alberi frondosi, d’un verde azzurrognolo, dal tronco assai nodoso e assai resistente perché ricchissimo di radici. Verso il mezzodí i poveri animali giungevano in cima alla collina la quale fortunatamente era quasi tutta coperta di mhowah o mahuah, gli alberi che valgono quanto i cocchi e forse di piú, producendo una quantità enorme di fiori simili a piccole frutta rotonde, con corolle giallo-pallide, la bacca carnosa ed assai nutritiva. Freschi, quei fiori, sono dolci e gradevoli quantunque tramandino un acuto odore di muschio; seccati, servono a fare una specie di farina che dà ottime focacce. Si può dire che migliaia e migliaia d’indiani si levano la fame solamente con quelle piante estremamente preziose, e che sono cosí abbondanti di fiori, da darne, ogni stagione, non meno di cento e venticinque chilogrammi l’una. Appena gli animali ebbero guadagnata la cima, Sandokan diede ordine ai cornac di togliere le houdah agli elefanti ed i bardamenti ai cavalli, perché potessero pascolare in piena libertà. Vi erano erbe in abbondanza lassú, piante grosse ed una specie di serbatoio pieno d’acqua limpida. — Questo è il paradiso delle bestie — disse Yanez a Sandokan. — Ecco un accampamento veramente meraviglioso e conquistato senza una cartuccia. Che ci sia di buon augurio? — Siamo saliti, ma non so quando e come potremo scendere, fratellino — rispose la Tigre della Malesia. — Vedi quel fiumicello che serpeggia nella pianura? — Lo vedo, come pure vedo che le sue rive sono occupate da parecchie migliaia d’uomini. — Pronti a sbarrarci le vie che conducono alle montagne — rispose Sandokan, il quale era diventato improvvisamente assai pensieroso. — Io non mi ero ingannato: sentivo il pericolo. Se noi avessimo continuata la nostra marcia nella pianura, cogli animali sfiniti dalla fame e dalle continue cariche, non so se ora saremmo qui a discorrere. — Tu sei sempre stato un uomo prodigioso. — E tu non meno di me — rispose Sandokan. — Nessun Maharajah avrebbe pensato a distruggere interamente la propria capitale per lasciare all’avversario solamente delle ceneri. — Ed ora come ce la caveremo da questo assedio? — Le truppe di Sindhia non oseranno salire fin qui. Le mitragliatrici avrebbero troppo buon giuoco, e di quelle armi, che non hanno mai conosciute, hanno una paura grandissima. — Come stiamo a munizioni? — Ne abbiamo molte casse, e credo che per un bel po’ di tempo basteranno. Ho pensato piú alle polveri ed al piombo che alle provviste da bocca. — Sempre previdente. — Noi siamo nati per la guerra. — Lo credo anch’io. Si erano arrampicati su un picco da cui potevano abbracciare cogli occhi un vasto tratto di paese. Kammamuri e Tremal-Naik li avevano seguíti. Cento metri piú sotto elefanti e cavalli divoravano, agitando le code e gli orecchi. I malesi e i dayaki, sicuri di fermarsi qualche giorno, avevano cominciato a costruire delle piccole capanne di foglie e di rami. I quattro uomini, tutti preoccupati, si erano messi a guardare in tutte le direzioni. Se vi erano migliaia d’uomini ammassati sulla riva del fiume, altrettanti si raccoglievano nella pianura, venendo dalla distrutta capitale, o meglio, dai campi di Sindhia. Sandokan fissò i suoi occhi su Kammamuri e gli disse: — Tu avevi fatto una proposta. — Sí, signor Sandokan: di correre verso le montagne ed avvertire la rhani e Khampur del grave pericolo che vi sovrasta. — Non potrai partire che a notte inoltrata e non solo. — Chiedo che mi tenga compagnia il rajaputo fedelissimo. — Accordato — rispose Yanez. — Quell’uomo vale per dieci, e sarà un amico prezioso quanto il cacciatore di topi. — Lo so, signore. — Ti senti tu capace di attraversare le linee nemiche senza farti prendere e fucilare? — chiese Sandokan. — Io ed il rajaputo passeremo — rispose Kammamuri con voce ferma. — Se mi prenderanno saprò giuocarli e giungere egualmente sulle montagne di Sadhja. — Ma dov’è il dottore? — chiese Yanez. — Da quando noi siamo saliti quassú non l’ho piú veduto. — Sarà occupato ad osservare le sue famose bottiglie — rispose Sandokan con voce ironica. — Ah, di quelle bombe ho ben poca fiducia. Valgono meno d’una buona palla da due libbre delle spingarde che armano ancora i miei vecchi prahos. Ba’, vedremo. L’accampamento era stato preparato rapidamente dai malesi, dai dayaki e dai montanari. Oltre ad aver costruite numerose capanne, quegli uomini infaticabili avevano abbattuti anche molti alberi, improvvisando qua e là delle trincee sulle quali avevano montate le mitragliatrici. Elefanti e cavalli divoravano ferocemente per rimettersi del lungo digiuno sofferto, ed il vecchio Sambigliong, sempre meticoloso e prudente, aveva lanciato una piccola colonna di esploratori attraverso la foresta, onde il nemico non si avanzasse di sorpresa. — Tutto va bene, almeno per ora — disse il formidabile pirata, guardando Yanez e Tremal-Naik. — Il nemico non oserà tentare un assalto; e poi noi gli prepareremo qualche grossa sorpresa. — Quale? — chiese il portoghese. — La cima della collina in vari luoghi è franata. Vi sono dei massi enormi che pare domandino di fare una gran corsa verso la pianura. — Ci serviranno da cannoni — disse Tremal-Naik. — Hai detto la vera parola — rispose Sandokan. — Quei massi, scagliati di quassú, impediranno alle bande di Sindhia di montare. — Se pure lo tenteranno — disse Yanez. — Vorresti dire, fratellino bianco? — Che preferiranno prenderci colla fame. — Oh, ne abbiamo qui delle vettovaglie!... Quando avremo terminati i fiori nutritivi, mangeremo cavalli ed elefanti. Avremo provviste per un mese. — Ed intanto il colera compirà la sua opera — disse una voce dietro di loro. Il dottore olandese, sempre elegante, coi suoi occhiali montati in oro e le mani sprofondate nelle ampie tasche, si era avvicinato al piccolo gruppo. — Voi avete dunque sempre una grande fiducia nelle vostre famose bottiglie? — disse Sandokan con voce un po’ acre. — Vedrete!... Cadranno come le mosche i guerrieri di Sindhia. Eh, ci vuole un po’ di tempo, per Santa Radegonda, protettrice di Rotterdam! Voi avete troppo fuoco nelle vene! — Sta bene — rispose asciuttamente la Tigre della Malesia. -Aspetteremo. — Io prevedo orribili stragi — disse il dottore. — Purché il colera non salga fin quassú — disse Yanez, che appariva non meno seccato di Sandokan di quelle fanfaronate. — Ci penserò io a cacciarlo — rispose l’olandese colla sua solita flemma. — Posseggo dei disinfettanti potenti che renderanno il nostro campo assolutamente immune. In quel momento Sambigliong comparve. — Come va, vecchio mio? — gli chiese Sandokan. — Hai scelto i due cavalli migliori? — Sí, Tigre della Malesia. Ora dormono, e quando si chiederà loro di partire voleranno piú rapidi delle frecce. La cena è pronta; è piuttosto magra, ma per ora basterà. Venite, signori. CAPITOLO VI. UN BRUTTO TIRO Effettivamente le bande di Sindhia, non piú sostenute dai rajaputi, caduti per la maggior parte nella jungla e poi dinanzi alla grande cloaca, non dovevano possedere un coraggio straordinario malgrado il loro numero. Con un rapido attacco avrebbero potuto conquistare la collina; invece erano rimaste accampate nella pianura, guardando in alto e sparando qualche colpo di fucile che andava a disperdersi fra le foreste di palas. Vi era dunque da sperare molto da parte degli assediati. Se tenevano fermo poche settimane, i montanari comandati dal vecchio Khampur, avrebbero lasciato i loro villaggi per accorrere in difesa del Maharajah, lo sposo della rhani, adorata da quei ruvidi uomini delle alte cime. Si trattava solamente di far presto, poiché gli elefanti ed i cavalli, i tigrotti della Malesia potevano correre il pericolo di morire di fame. Come abbiamo detto, le bande si erano mantenute tranquille, piú occupate a prepararsi degli accampamenti che a sorvegliare il nemico, il quale d’altronde era stato bene accerchiato. Non c’era che dire. Almeno per il momento Sindhia, il pazzo, l’ubriacone, era sempre il piú forte. A mezzanotte Kammamuri ed il rajaputo fedele, montati ognuno su un cavallo ben pasciuto e ben riposato, si accostarono alla capanna che le tigri della Malesia avevano innalzata pei loro capi con rami e foglie gigantesche. Dinanzi ardeva un gran fuoco, il quale mandava bagliori ora giallastri ed ora sanguigni. Sandokan, Yanez, Tremal-Naik ed il flemmatico olandese stavano fumando in attesa di qualche non improbabile allarme. — Signori, — disse il valoroso maharatto — noi siamo pronti a tentare la sorte. — E se ti uccidono? — disse Yanez. — Avete altra gente da mandare verso le montagne, signore. — Sí, i montanari, perché gli altri, fuorché Sambigliong, ignorano le vie e non sono conosciuti. Che cosa dice la Tigre della Malesia? — Io dico — rispose Sandokan — che prima di partire aspetterete, da parte nostra, un falso attacco per sgombrarvi il cammino verso oriente. Ho già dato ordine al miei uomini di portare le mitragliatrici in basso e di aprire un fuoco infernale. Voi approfitterete del momento per scendere la collina dalla parte opposta e fuggire verso le montagne. — I vostri ultimi ordini, signor Sandokan. — Radunare piú montanari che potrai e guidarli qui. Come vedi, è una cosa semplicissima. — Purché scendano nelle pianure assamesi. — Di questo rispondo io — disse Yanez. — Conosco troppo bene quei valorosi; e poi fra loro vi è la rhani e il mio piccolo figlio. — Allora io ed il rajaputo siamo pronti. — Aspettate un momento — disse l’olandese. — Vado a prendervi una bottiglia piena d’un fortissimo disinfettante che ammazzerà all’istante tutti i bacilli del colera. Il male può essere già scoppiato fra le truppe di Sindhia. — Lasciatela pure in pace — disse Sandokan. — Questa gente non ha paura delle vostre misteriose bestioline. — Per precauzione... — Oh, lasciate andare. L’olandese alzò le spalle, tirò una grande fumata, poi disse: — Non valeva la pena che io lasciassi la Malesia. — Ma, come vedete, signor Wan Horn, fino ad ora le vostre famose coltivazioni non hanno dato nessun risultato — disse Yanez. — Aspettate, aspettate! — Fino al giorno in cui saremo tutti morti di fame? L’olandese aspirò un’altra gran boccata di fumo dalla sua pipa di porcellana, poi rispose: — Ba’, c’è tanta carne qui da divorare. Io so che le trombe ed i piedi degli elefanti, cucinati dentro un forno scavato nella terra, sono squisitissimi. Faremo delle scorpacciate!... — E poi chi vi porterà, signor Wan Horn? — chiese Sandokan sempre ironico. — Perbacco! Le mie gambe. — Le vedremo alla prova. Uscí dalla capanna dinanzi alla quale, presso un grosso falò, attendevano sempre Kammamuri ed il rajaputo fedele, tenendo per le briglie due cavalli dal pelame nero e lucidissimo, due bellissime bestie di razza mongola, dotate d’una grande resistenza e d’una velocità fulminea. — Aspettate — disse loro. Afferrò un grosso ramo ardente, lo roteò per qualche momento onde ravvivare meglio la fiamma, poi lo scagliò in alto facendogli descrivere una lunga parabola. Pochi momenti dopo, verso la metà della collina, dal lato occidentale, si udí una mitragliatrice stridere, seguita subito da alcuni colpi di carabina. Yanez e Tremal-Naik accompagnati dal cacciatore di topi, diventato ormai indispensabile anche fuori dalle cloache, udendo quel fracasso si erano pure affrettati a uscire, portando le loro armi. — Credi che abboccheranno, Sandokan? — chiese il primo, il quale si mostrava estremamente irrequieto. — Sí, ne sono sicuro — rispose la Tigre della Malesia. — Tutte le bande di Sindhia si precipiteranno da questo lato, credendo che noi vogliamo gettarci stupidamente in bocca agli sciacalli. Ah, no!... Siamo troppo pochi per riaffrontarli. Poi avvicinandosi al cacciatore di topi, gli disse: — Tu che vedi anche di notte, scendi la collina dal lato opposto e sappimi dire se le bande del rajah lasciano i loro campi. — Sí, gran sahib — rispose il baniano. — Farò una corsa rapidissima. Potete fidarvi dei miei occhi. — Bada che i minuti sono preziosi. — Non lo dimenticherò. Prese lo slancio e scomparve nell’oscurità come se avesse fatto sempre il corridore pedestre. Che forza meravigliosa doveva possedere quel vecchio!... Intanto un vivissimo combattimento di fucileria e di mitragliatrici si era impegnato fra gli uomini di Sandokan e le bande del rajah; ma non vi era, né da una parte né dall’altra, salvo in certi momenti, un gran spreco di munizioni. — Tu speri sempre, Sandokan? — chiese Yanez alla Tigre della Malesia, che prestava attento orecchio a tutti quegli spari. — Ti ho detto che cadranno nell’agguato che io ho teso loro. — E se Kammamuri ed il rajaputo cadessero alla loro volta in qualche imboscata? — Sono uomini da cavarsela. Vedrai che tutto andrà bene. Kammamuri ed il rajaputo, assolutamente tranquilli, aspettavano sempre il segnale della partenza con un piede nella larga staffa di ferro, che ha la punta dinanzi e di dietro, perché possa servire da sprone. Già da un quarto d’ora il cacciatore di topi era partito, e sul fianco della collina si continuava a sparare, a lunghi intervalli, quando il vecchio ricomparve sempre correndo come un giovanotto. — Grandi sahibs, — disse rivolgendosi a Yanez, Sandokan e Tremal-Naik — tutte le bande che accampavano alla base della collina, dalla parte d’oriente, sono partite. Gli accampamenti sono vuoti. — Ne sei ben sicuro? — gli chiese la Tigre della Malesia. — Come vi ho detto i miei occhi vedono forse meglio di quelli dei topi, i miei vecchi compagni. — Che tu mangiavi inesorabilmente — disse Yanez. — Era la lotta per la vita, gran sahib. — Allora voi potete partire — disse Sandokan. — I cavalli sono stati scelti con cura, sono ben nutriti e riposati, e vi porteranno lontano. Solamente vi dico di guardarvi dagli agguati. — Apriremo anche noi bene gli occhi come il cacciatore di topi — rispose Kammamuri. — Partite e portate i miei saluti alla rhani ed a mio figlio — disse Yanez. — Pensate che la nostra sorte sta nelle vostre mani. — Cercheremo di non farci prendere. Stavano per partire, quando il signor Wan Horn si avvicinò loro, dicendo colla sua solita voce tranquilla: — Se potete, datemi qualche notizia sullo sviluppo del colera. A quest’ora ci devono essere non pochi morti nei campi del rajah. — Lo credete? — chiese Sandokan. — Ma certamente. Le mie bestioline hanno avuto il tempo necessario per svilupparsi. — Dei morti ve ne saranno, ma uccisi dalle mie mitragliatrici. — Eh, vedrete!... Aspettate! — Sí, la fine del mondo. L’olandese non era uomo da scombussolarsi per una frase anche assai aspra. Alzò le spalle, si accomodò gli occhiali, e sempre con la sua pipa in bocca si allontanò per fare forse una visita alle sue famose bottiglie piene di microbi micidiali, almeno cosí asseriva lui. — Orsú, partite — disse Yanez a Kammamuri ed al rajaputo, mentre la fucileria continuava a rimbombare sotto i boschi di palas. I due valorosi in un lampo furono in sella. Raccolsero le briglie, assicurarono bene i piedi dentro le larghe staffe, fecero col capo un ultimo saluto e lanciarono i due cavalli neri, i quali, dopo essersi levata la fame ed un po’ riposati, pareva non domandassero che di correre. — Apri gli occhi, rajaputo — disse il maharatto, il quale scendeva veloce la collina. — Ed anche tu, sahib — rispose il gigante. — Quattro lanterne fanno maggior luce di due. — Credi tu che noi passeremo? — Per tutte le divinità dell’India!... Passeremo a corsa sfrenata, e vedremo se quell’accozzaglia di furfanti sarà capace di arrestarci. — Sei mai stato lassú? — A Sadhja? No, quantunque abbia udito parlare assai di quelle montagne. — Ne avremo per quattro giorni almeno. — Nessuna cavalcata mi spaventa. — Allora tutto va bene — disse Kammamuri, raccogliendo strettamente le briglie del suo splendido mongolo. Dall’altra parte della collina si continuava a sparare. Le detonazioni venivano talvolta coperte da urli selvaggi, lanciati dalle bande di Sindhia, piú adatte per gridare che per maneggiare il fucile. Ma una vera battaglia non doveva essersi impegnata, non avendo gli assediati alcun vantaggio a scendere nella pianura mentre si trovavano lassú, fra le ultime rocce, come dentro ad un castello. Sandokan e Yanez erano troppo prudenti per impegnarsi a fondo coi pochi uomini che avevano. Gli assedianti, vera accozzaglia di banditi, di paria, di fakiri, di bramini, avevano lo stesso motivo, avendo ormai conosciuta l’audacia e il coraggio dei loro avversari. Certamente il rajah contava piú sulla fame che sulle armi da fuoco dei suoi uomini. Intanto Kammamuri ed il rajaputo fedele, sempre piú rassicurati, malgrado l’oscurità continuavano a scendere attraverso i vasti gruppi d’alberi i quali lasciavano qua e là degli ampi passaggi. I cavalli avevano il piede sicuro quasi quanto i muli, e non vi era nessun pericolo che facessero qualche capitombolo. Erano bravi animali abituati sia ad attraversare le jungle, sia a scalare o scendere montagne. Era trascorsa appena mezz’ora quando i due valorosi giunsero al piano. — Prima di spronare guardiamo attentamente — disse Kammamuri. — Non vedo nulla — rispose il rajaputo. — È vero che io non posseggo gli occhi del cacciatore di topi. — Saranno corsi tutti dall’altra parte temendo una discesa del Maharajah. — Lanciamo, sahib? — Lanciamo, rajaputo, e carabina davanti alla sella. I due cavalli, che si erano arrestati un momento, punzecchiati vivamente colle staffe puntute, partirono a corsa sfrenata. La notte era oscurissima poiché non vi erano né stelle, né luna; anzi vi erano in alto delle grosse masse di vapori che un vento piuttosto freddo spingeva verso ponente, scendendo dalle alte montagne di Sadhja. Ma Kammamuri sapeva, come la maggior parte degli indiani e degli zingari, dirigersi egualmente, e far di meno della piccola bussola d’oro che Yanez gli aveva regalato all’ultimo momento. Un’altra mezz’ora trascorse. Nella vasta e tenebrosa pianura, coperta ad intervalli di fittissime erbe del genere dei kâlam, ma non cosí alte, non si udiva risonare che il galoppo, sempre piú precipitoso, dei due cavalli. In lontananza, verso la collina, solamente qualche colpo di carabina od una scarica di mitraglia, rimbombavano. Pareva che assediati ed assedianti economizzassero le munizioni, troppo preziose per gli uni e per gli altri. I due cavalieri contavano di aver percorso già quattro o cinque miglia e ritenevano di trovarsi ormai fuori di pericolo, quando in mezzo al fitto buio si udí una voce rauca urlare: — Chi passa? Ferma!... Ferma!... — Non rispondere tu — disse rapidamente Kammamuri al suo gigantesco compagno, trattenendo il cavallo. Poi a sua volta gridò con voce minacciosa: — Fermi voi, cani del Maharajah! — T’inganni!... — disse l’uomo che aveva intimato il fermo. — Noi siamo guerrieri di Sindhia. — Voi mentite!... Gli uomini del rajah si trovano tutti intorno alla collina e stanno combattendo. — Lo sappiamo. Chi siete voi? — Rajaputi — rispose Kammamuri. — E dove andate? — Il Maharajah è riuscito a fuggire e gli diamo la caccia. — In quanti siete? — In venti. — Io non posso lasciarvi passare — gridò l’uomo di Sindhia. — Ho ricevuto degli ordini formali dal rajah. — Ed anche noi. Dobbiamo prendere, vivo o morto, l’uomo bianco. — Nessuno è passato di qui. — Dormivate forse? Avvertirò Sindhia, miserabili che siete! — urlò il maharatto. Poi volgendosi verso il rajaputo gli disse rapidamente: — Preparati a caricare. — Sono pronto, sahib. Dopo la carabina lavorerò colla scimitarra, e vedrai che squarcio farò fra quegli uomini. In mezzo alle erbe, diventate in quel luogo cosí alte da arrivare alle staffe dei cavalieri, si udivano delle persone chiamarsi. Non dovevano essere lontane piú di duecento metri, e forse formavano un piccolo accampamento incaricato di vegliare sulle retrovie. Il capo del posto, che per primo aveva dato l’allarme, dopo qualche minuto di conversazione coi suoi guerrieri che si tenevano sempre accuratamente nascosti fra le erbe, fece riudire la sua voce veramente stridula: — Se siete veramente dei rajaputi — gridò — tornate indietro. Il rajah ha bisogno di voi. — Niente affatto — rispose Kammamuri. — Ormai ha preso la collina d’assalto, e solo pochi dei suoi nemici sono riusciti a fuggire, e fra questi il Maharajah. Largo adunque, e non seccateci, vili paria!... — Tu gridi troppo forte. — Noi rajaputi non siamo persone da arrestarci. Senza di noi, voi non avreste mai espugnata Gauhati. — Passerete, ma prima voglio accertarmi se siete realmente quello che affermate di essere. Aspettate che accendiamo del fuoco. — Per dar fuoco ai kâlam? — Agiremo con prudenza. — Non fateci perdere troppo tempo o perderemo le tracce del Maharajah. — Non domando che un solo minuto. — E noi, sahib? — chiese il gigantesco rajaputo, che si sentiva invaso da una voglia furiosa di caricare. — E noi non saremo cosí sciocchi d’aspettare che diradino le tenebre. — Credi che siano in molti? — Forse no. Lascia andare la carabina ed impugna piuttosto la scimitarra. Poi abbiamo anche le pistole, e sono già dieci colpi di fuoco sui quali potremo contare. — Sotto? — chiese il rajaputo, che frenava a stento il cavallo. — Sí, sotto, in piena volata, sciabolando. Resta saldo in sella. — È come se fossi inchiodato. In quel momento un fuoco brillò fra le tenebre. Pareva che gli uomini di Sindhia avessero acceso qualche ramo resinoso. — Addosso!... — disse sotto voce il maharatto. I due cavalieri, che avevano tutto l’interesse di non mostrare l’esiguità delle loro forze, allentarono le briglie, impugnarono le scimitarre e si scagliarono innanzi a corpo perduto. In un lampo furono addosso ad una linea d’uomini che tenevano essi pure dei cavalli, e d’un colpo solo la sfondarono, mandando urli tremendi e sciabolando furiosamente. Passarono come saette, salutati appena da qualche colpo di pistola e di fucile, e si allontanarono, ventre a terra, tenendo sempre la direzione orientale. Ma non avevano però percorsi trecento o quattrocento metri, quando udirono dietro di loro il galoppo sfrenato di numerosi cavalli. — Ah, le canaglie!... — esclamò Kammamuri. — Erano gente montata!... — Che ci darà una caccia accanita — rispose il gigante, ringuainando la scimitarra lorda di sangue e staccando dall’arcione la carabina. — Fortunatamente fa molto oscuro, e non so se riusciranno a filare diritti dietro di noi. — Il rumore dei nostri cavalli ci tradisce. — Io vorrei sapere chi sono quei cavalieri. Rajaputi? Uhm! ne dubito assai. «Noi abbiamo un grido di guerra diverso da tutte le caste guerriere dell’Indostan, e non l’ho udito. Chi avrebbe detto che quel pazzo furioso si sarebbe procurata anche della cavalleria?» — Io credo che qui sotto ci sia lo zampino del leopardo inglese — disse Kammarnuri. — Noi, in Malesia, siamo stati troppo odiati per le nostre strepitose vittorie. Un colpo di fuoco echeggiò rompendo, per un istante, le tenebre, ma i fuggiaschi non udirono il fischio della palla. — Non rispondere — disse precipitosamente Kammamuri, vedendo che il rajaputo stava per voltarsi sulla sella. — Non segnalare, per ora, dove noi ci troviamo. Possono essere in molti, e con una scarica fortunata gettarci tutti e due colle gambe in aria. — Hai ragione, sahib, e devono essere davvero in molti, a giudicarlo dal fracasso che producono i loro cavalli. Dobbiamo accelerare? — Mancano almeno due ore allo spuntare del sole, e sarà meglio per noi prendere un maggior vantaggio — rispose il maharatto. — Ai nostri giorni le armi sono troppo perfezionate, ed una palla può essere micidiale a cinquecento ed anche piú metri. Ti sembra che resista il tuo cavallo? — Va come se avesse il fuoco nelle vene, sahib. — Ed anche il mio. Il signor Yanez ce li ha scelti con cura. — Ed allora allunghiamo — rispose il rajaputo. — Non tanto. Non sfiatiamo queste povere bestie che ci possono rendere degli immensi servigi. Allentarono un po’ le briglie e punzecchiarono un po’. I due mongoli scattarono di colpo e presero un passo velocissimo, fendendo coi robusti petti i kâlam che si stendevano come un mare di verzura. Dietro di loro galoppavano furiosamente i cavalieri di Sindhia sempre intimando il fermo, e sparando colpi di carabina che non facevano né caldo né freddo al maharatto ed al rajaputo, sapendo ormai per prova quanto quei banditi fossero dei pessimi tiratori e da fermo. A cavallo non dovevano valere assolutamente nulla. Colle armi bianche certo che le cose sarebbero andate diversamente. Già i due coraggiosi galoppavano da una buona ora, quando si presentò dinanzi a loro una piccola altura, dai fianchi larghi ed accessibilissima, non piú alta di una sessantina di metri. — Lassú — disse il maharatto. — E poi? — chiese il rajaputo. — Cercheremo di arrestare quei furfanti. Tu sei sicuro dei tuoi colpi? — Sbaglio di rado, sahib — rispose il rajaputo. — Questa corsa non può durare eternamente, e poi voglio contare i nemici che ci stanno alle calcagna. — E se ricevessero dei rinforzi? — Oh, ormai siamo troppo lontani dai campi di Sindhia. Dobbiamo aver già percorse piú di venticinque miglia. — Allora montiamo — rispose il rajaputo. — Comprendo anch’io che non dobbiamo rovinare, in una sola corsa, queste bestie che già hanno sofferto nelle cloache... Ed i grandi sahibs che cosa faranno intanto? — Non preoccuparti di loro. Te l’ho già detto che sono uomini da non farsi prendere. — E se l’assedio si prolungasse? — Non hanno gli elefanti ed i cavalli da mangiare? E poi le foreste che coprono la collina offriranno loro, per un certo tempo, altre risorse. I due cavalli montarono intanto l’altura senza rallentare lo slancio, e si arrestarono fra un gruppo di colossali tamarindi. Tutto intorno si alzavano delle erbe gigantesche fra le quali serpeggiavano confusamente, attorcigliate come rettili, delle canne d’India. Kammamuri lanciò intorno un rapido sguardo, poi disse al rajaputo: — Ecco una magnifica posizione per arrestare quei dannati. Quando ne avremo gettati a gambe levate parecchi, riprenderemo la corsa. Legarono i due cavalli, tolsero loro rapidamente i morsi perché potessero mangiare liberamente, poi, impugnate le carabine, si spinsero verso il lato occidentale dell’altura. I cavalieri di Sindhia giungevano sempre urlando e sempre sprecando inutilmente le munizioni, ma faceva ancora troppo scuro per poterli contare. Erano in molti od in pochi? Ecco quello che si chiedeva ansiosamente il maharatto. L’alba peraltro non era lontana. Verso oriente un tenuissimo velo color di rosa si avanzava, spengendo rapidamente le stelle. I due valorosi si nascosero fra gli altissimi kâlam, pronti a mitragliare gli avversari; ma i banditi, accortisi che i fuggiaschi avevano presa posizione, e non sapendo nemmeno loro con quanti uomini avrebbero avuto da fare, non avevano osato spingersi sull’altura. Anche loro aspettavano certamente lo spuntare del sole per regolarsi. Il rajaputo, ben nascosto fra le erbe, aveva intanto accesa la sua vecchia pipa e si era messo a fumare, ma con gli orecchi sempre tesi e gli occhi ben aperti; e Kammamuri, avendo trovato in fondo alla tasca una sigaretta, l’aveva imitato. Il cielo a poco a poco si rischiarava, ma meno rapidamente delle altre volte, essendovi sempre in alto grosse masse di vapori. La luce, dapprima rosea, diventava a poco a poco gialla. Ad un tratto un gran fascio di luce illuminò l’immensa pianura che si stendeva fino ai bastioni della città distrutta, ed ai due fuggiaschi apparve una colonna formata d’una trentina di cavalieri abbastanza bene montati su cavalli morelli, di belle forme, e formidabilmente armati. — Per Siva!... — esclamò Kammamuri. — Sono in buon numero. Non credevo che fossero in tanti. — Non sono rajaputi. Che cosa saranno? Paria, fakiri, bramini, thugs o peggio ancora? — Chi lo sa! Vedo che si tengono abbastanza bene in sella. — Cominciamo a fucilarli? — La tua carabina è carica a mitraglia od a palla? — A palla, sahib — rispose il rajaputo. — Va bene. Le cartucce a mitraglia le useremo piú tardi. Guarda quell’uomo che ha quel gigantesco turbante rosso, e che pare sia il comandante di quel manipolo di cavalieri. — Lo vedo. — Pròvati a fare un colpo. — Subito, sahib. Il rajaputo, tenendosi sempre semi-nascosto fra i kâlam, puntò la carabina mirando con estrema attenzione. Stava per partire il colpo quando il maharatto gli disse: — Risparmia quel colpo. Qualche altro nemico piú terribile ci assale alle spalle. — Chi? — O m’inganno, o abbiamo alle costole una bâgh. — Possibile, sahib? — chiese il rajaputo, volgendosi impetuosamente. — Sono un vecchio cacciatore di tigri e non posso ingannarmi. — Per Parvati!... Trenta uomini dinanzi a noi ed una bâgh alle calcagna! Maledette bestie!... Corrono sempre dove c’è carne umana da divorare. Che cosa facciamo, maharatto? — Prima pensiamo a sbarazzarci della bestia, la quale potrebbe piombarci addosso nel colmo del combattimento. — Impegnarci con una tigre in questo momento? — È necessario — rispose Kammamuri, con voce ferma. — D’altronde non sono cosí terribili come tu credi. Quante io ne ho uccise nella Jungla nera insieme col mio padrone! Vieni, cerca di non far rumore, e non occuparti, per il momento, dei cavalieri. Non oseranno salire, te lo assicuro. — Andiamo dunque ad uccidere prima la bâgh — rispose docilmente il rajaputo. — Se sbaglierò, ho delle buone braccia per soffocarla. — Ed i colpi d’unghia? — Da quelli mi guarderò. Kammamuri, vecchio cacciatore di tigri, che per molti anni aveva dato delle battaglie a quelle pericolosissime bestie nella Jungla nera insieme al suo padrone Tremal-Naik, non doveva essersi ingannato. E non le aveva cacciate solamente in India, bensí anche in Malesia. Come mai, sui primi albori, si aggirava sulla cima di quella collina quella formidabile predona? Si sa che tutti i carnivori quando spunta il sole si affrettano a guadagnare i loro rifugi, o meglio le loro tane, poiché non cacciano che di notte. Probabilmente quella bâgh non aveva cenato quella sera, e si ostinava, malgrado la luce, a procurarsi delle bistecche. Checché si sia detto e scritto, le tigri, quando sono alle prese con la fame, non esitano a misurarsi cogli uomini, avendo piena conoscenza del proprio slancio impetuoso, irresistibile, e della propria forza piú che straordinaria, assai superiore a quella del leone. Nell’Africa meridionale si sono veduti dei leoni saltare dentro i kral boeri o zulú, e rivarcare la cinta portando fra le possenti mascelle un vitello; in India si è veduto ben altro. Una tigre adulta non esita a portarsi via un bue od una giovenca, e con quel peso, può saltare una cinta piú o meno spinosa. Tanto il rajaputo quanto il maharatto sapevano d’aver a che fare con un avversario ben piú risoluto ed intrepido dei banditi che li assediavano, quindi si erano messi in moto con grandi precauzioni, cercando soprattutto di coprire i cavalli da un fulmineo attacco. Sempre insieme girarono intorno ai tamarindi, tenendo le carabine puntate, movendo con le canne gli altissimi kâlam. Kammamuri stette un momento in silenziosa osservazione, poi si batté colla sinistra la fronte dicendo: — Noi siamo degli stupidi. Il rajaputo lo interrogò collo sguardo, e per un momento abbassò l’arma. — Ma sí, siamo degli stupidi — ripeté il maharatto. — Giacché di qui non possiamo scoprire la bâgh, innalziamoci e cosí la scopriremo. — E dove, se siamo proprio sulla cima dell’altura? — Arrampichiamoci su un tamarindo, e di lassú facciamo fuoco con assai meno pericolo. — Io non avrei mai avuto una cosí bella idea — confessò candidamente il rajaputo. — Ma la tigre non ne approfitterà per squarciare le groppe al nostri cavalli? — Abbiamo in mano dieci colpi di fuoco. Intorno a loro, come abbiamo già detto, si alzavano alcuni superbi tamarindi, i cui rami elasticissimi si piegavano sotto il peso di enormi grappoli di frutta. Erano alti quindici ed anche venti metri, ed i loro tronchi lisci scomparivano quasi tutti sotto un’abbondante flora parassitaria. Una scalata per uomini lesti come il rajaputo ed il maharatto non doveva essere che un giuoco da fanciulli. Prima peraltro di tentare l’impresa, per paura di venire assaliti a poca altezza e strappati giú, i due coraggiosi cercarono un po’ piú lontano dei sassi, e furono abbastanza fortunati di trovare due grossi frammenti di roccia mezzo sgretolati dalle acque. Fu il rajaputo, perché assai piú robusto del maharatto, che s’incaricò di smuovere la tigre. La dannata bestia si ostinava a non lasciare il suo nascondiglio, ed al precipitare delle due grosse pietre si era accontentata di rispondere con un ha-o-hung minaccioso e nient’altro. — Che cosa fanno i cavalieri? — chiese il gigante al maharano, il quale aveva lanciato un rapido sguardo nella sottostante pianura. — Si sono accampati in attesa forse di rinforzi. — Sahib, te lo ripeto, sbrighiamo l’affare della bâgh e poi riprendiamo la corsa. — Saliamo. Ascoltarono un’ultima volta, aguzzarono gli occhi verso i kâlam che rimanevano perfettamente immobili, poi entrambi si slanciarono contro un grosso tamarindo, ed aggrappandosi alle piante rampicanti, in un momento si trovarono a quindici metri d’altezza, accomodati fra i grossi rami. — La vedi? — chiese subito Kammamuri, armando la carabina. — Sí, e si trova solamente a venti passi da noi — rispose il rajaputo. — L’idea poteva venirmi anche prima. — Lo credo anch’io. Di lassú, distesa in mezzo ai folti kâlam, avevano potuto subito scoprire la pericolosa bestia. Stavano per far fuoco, quando notarono un fatto assolutamente straordinario. La bâgh stava allungata fra quattro grossi panieri, che avevano i coperchi alzati. Kammamuri guardò il rajaputo. — Hai mai veduto nulla di simile, tu? — Mai, sahib. — Io sospetto qualche tradimento. — Intanto ammazziamo la bâgh, poi andremo a vedere che cosa contengono quei panieri. — Per Siva! la colazione della bestia! — disse Kammamuri, scoppiando in una risata. — Che sia ammaestrata? Il maharatto alzò le spalle. Si accomodò meglio che poté sul grosso ramo e guardò un’ultima volta la tigre la quale pareva che sonnecchiasse placidamente, poiché anche la sua lunga coda rimaneva affatto immobile. — Rajaputo, — disse il maharatto — che cosa dici tu? — Che sarebbe ora di far fuoco. — La tua carabina è carica a mitraglia od a palla? — A palla ed anche a mitraglia. Tu sai meglio di me che queste grosse armi possono sopportare, senza scoppiare, anche una doppia carica. — Su ciò non ho alcun timore. Lascia prima che spari io che non sbaglio mai i miei colpi. Se ammazzo la bestia, come spero, tu mitraglierai quei panieri sospetti. Mirò con grande calma e con estrema attenzione. Vedeva benissimo la bestia allungata fra le alte erbe a poco piú di venti passi, e stava già per lasciar partire il colpo, quando il rajaputo, con suo grande stupore, lo vide rialzare vivamente la carabina e lo udí mandare una sorda imprecazione. — Che cosa succede dunque, sahib? Non osi sparare? — Succede che in questo affare non ci vedo chiaro. La tigre si è appiattita come si fosse, per opera di chi sa quale miracolo, spogliata delle sue carni e delle sue ossa. — Ma se ha urlato fino a pochi minuti or sono!... — Io ho conosciuto molti indiani che sapevano imitare perfettamente l’ha-o-hung delle bâgh. — Scendiamo? — Ah, no. Prima voglio essere sicuro del fatto mio. Riprese la mira e dopo qualche secondo sparò, ma la tigre rimase perfettamente immobile. — Eppure io l’ho colpita — disse il maharatto furioso. — Io ho sparato solamente contro una pelle!... — È impossibile!... — Prova a fare un colpo anche tu. Il rajaputo a sua volta scaricò la sua grossa carabina carica a palla e a mitraglia, e anche questa volta la tigre rimase immobile. Invece i quattro panieri si agitarono furiosamente, e dalle aperture irruppero, sibilando, contorcendosi e ballando un gran numero di serpenti, i quali si dispersero subito fra i kâlam che circondavano i tamarindi. Vi erano rettili di tutte le specie: serpenti del minuto, cobra capello, serpenti guilobi dalla pelle picchiettata graziosamente d’un rossocorallo, boa verdi-azzurrognoli con anelli irregolari lunghi quattro e perfino cinque metri, e bis cobra. I due indiani avevano mandato un altissimo grido ed avevano ricaricate precipitosamente le loro armi, e questa volta a mitraglia. CAPITOLO VII. SUL MARGINE DELLA «JUNGLA» Come si capisce facilmente i due fuggiaschi erano stati terribilmente imbrogliati da quegli uomini di Sindhia che fino allora avevano tanto disprezzato. Nessuna tigre si era sognata di assalirli alle spalle. Un audace briccone, deciso a sacrificare la propria vita, aveva portato fino sull’altura una magnifica pelle insieme a quei panieri zeppi di rettili. Il furfante doveva avere approfittato del momento in cui i due indiani davano la scalata al tamarindo, per scomparire piú che in fretta in mezzo ai kâlam, e raggiungere i cavalieri che vegliavano alla base della minuscola collina. I due assediati, in preda ad una viva emozione, guardavano cogli occhi dilatati quella turba di nemici piú o meno velenosi, che continuava ad avanzarsi a balzi attraverso le alte erbe. Alcuni di quei rettili erano stati feriti dalla scarica di mitraglia del rajaputo, e si mostravano i piú furibondi. Spiccavano dei veri salti spruzzando i kâlam di sangue e sibilando orribilmente. — Ci hanno presi senza sparare un colpo di fucile — disse il guerriero barbuto — Sono stati molto piú furbi di noi. — Presi? Eh, non lo siamo ancora, quantunque riconosca che la nostra situazione è gravissima. — Mi sembra disperata, sahib. Vedrai che noi, fra poco, perderemo i nostri cavalli. — T’inganni: i rettili difficilmente se la prendono coi corridori a quattro zampe che sono ben armati di zoccoli poderosi ed anche di ferri. Non oseranno attaccarli. — E noi dovremo rimanere eternamente su questo tamarindo a divorare frutta acide che fanno allegare i denti? Tu non sei un incantatore di serpenti. — Non lo sono mai stato, e poi mi mancherebbe il flauto. Sarà in altro modo che noi dovremo sbrigarci di questi inaspettati nemici. — Mitragliandoli? — Troppo spreco di munizioni con scarsi risultati — rispose il maharatto. — Quante cartucce hai ancora? — Ho preso una doppia provvista e puoi contare almeno su cento ottanta cartucce. Questo peso non mi inquietava affatto. — Inquietava piuttosto il tuo cavallo — rispose Kammamuri, il quale non perdeva affatto il suo buon umore, malgrado la gravità della situazione. — Ora però le porto io. — Leva la mitraglia od i proiettili ad una cinquantina di cartucce e lascia cadere la polvere fra i kâlam. — Per arrostire i rettili? — È l’unica risorsa che ci rimane. — E non bruceremo anche noi? — I tamarindi non prendono fuoco, e poi questo è altissimo e potremo salire finché sarà giunto il buon momento di ridiscendere e di riprendere la cavalcata. Agisci mentre io sorveglio i cavalieri del rajah. Gli arruolati di Sindhia non avevano certamente coraggio da vendere, poiché invece di montare subito all’attacco si erano accontentati di raggrupparsi intorno a tre capannucce improvvisate per discutere chi sa quali progetti. Vedendo che i cavalieri del rajah se ne stavano sempre tranquilli, anzi che si preparavano la colazione, Kammamuri disse al rajaputo, il quale continuava a svitare proiettili per versare la polvere sui kâlarn ben secchi: — Hai finito? — Ho vuotato cinquanta cartucce. — Che cosa fanno i serpenti? — Hanno tentato di assalire i cavalli, ma quelle brave bestie li hanno ricevuti con una grandine cosí fitta di calci, da persuaderli a starsene tranquilli. — Ed ora dove si trovano? — Stesi fra le erbe, quasi sotto di noi. Sonnecchiano placidamente; io peraltro non mi riderei di quel sonno. — Lo credo anch’io. Cinquanta cartucce!... Vi è polvere sufficiente per scatenare un incendio con un colpo a mitraglia. — Ed arrostire anche noi — rispose il rajaputo, scotendo la testa — Vedremo come questa faccenda finirà. Si tolse dai fianchi la sciarpa di seta che era leggerissima, prese la scatola dei fiammiferi e la incendiò stracciandola rapidamente e disperdendo i pezzi in varie direzioni. Fra i kâlam, ormai secchi, vi era la polvere. Un getto di fumo si alzò attraversato da una fiamma vivissima che aveva il luccicore dei lampi, poi altre scattarono un po’ piú lontane facendo crepitare e contorcere le erbe. — Bene! benissimo! — esclamò il maharatto. — Vedremo ora la danza dei serpenti. — E noi proveremo le delizie dell’affumicazione — disse il rajaputo. — Saliremo piú in alto. C’è un po’ di brezza ed il fumo si disperderà facilmente. — Ma c’impedirà di vedere quello che fanno gli assedianti. — Non si muoveranno, te lo dico io. Sindhia ha troppo interesse di stringere da vicino il Maharajah ed il suo formidabile compagno. Noi non rappresentiamo due grandi personaggi per il rajah, quindi non avrà grande premura di catturarci. E poi forse a quest’ora sa che siamo solamente in due, una ben miserabile forza dinanzi a tanti banditi. «Ah, ah! Guarda che spettacolo! È la vera danza dei serpenti!» Il fuoco si propagava rapidamente sotto il gigantesco tamarindo, e le polveri s’infiammavano detonando, poiché il rajaputo aveva lasciato cadere anche parecchie cartucce cariche di mitraglia. I rettili, letteralmente arrostiti da quelle vampate, balzavano sibilando rabbiosamente, si contorcevano, poi scoppiavano come se avessero nel corpo della polvere. Altri si mordevano rabbiosamente fra di loro iniettandosi a vicenda il veleno. Era uno spettacolo che faceva fremere perfino Kammamuri, quantunque vecchio cacciatore di rettili della Jungla nera, Un odore nauseabondo di carne grassa arrostita appestava l’aria, togliendo il respiro. I due assediati, cacciati dal fumo, si erano rifugiati sui piú alti rami del tamarindo, tuttavia sentivano un calore ardente che minacciava di disseccarli. La brezza, volta a volta, spazzava via il fumo, ma non erano che pochi istanti di tregua, poiché i kâlam continuavano a bruciare sibilando e tuonando. — Sahib, — disse il rajaputo, il quale cominciava ad impressionarsi per l’estensione dell’incendio. — La pianta non prenderà fuoco, ne sono convinto anch’io, ma potranno resistere i nostri cavalli? — Quali? — chiese il Kammamuri. — Sei diventato cieco? — Che cosa vuoi dire, sahib? — Che hanno già spezzati i legami, e che sono scappati piú rapidi delle saette. — E noi come faremo a salvarci? — I cavalli mongoli dopo la fuga ricercano il padrone — rispose Kammamuri. — Non ho certamente la speranza di vederli ritornare qui finché i kâlam ardono, tuttavia sono piú che convinto che noi li ritroveremo e li riprenderemo nella pianura. — Ed intanto soffochiamo. — Sali piú in alto. — I rami dei tamarindi sono eccessivamente flessibili e si piegano sotto il peso del mio corpaccio. — Ecco che cosa vuol dire esser giganti, — disse il maharatto, il quale conservava un sangue freddo meraviglioso. — Che colpa ne ho io? — Allora salta dentro il braciere. — Con tutte le cartuccie che porto strette intorno al corpo? Salterei come una bomba. — Ed allora respira un po’ di fumo. — Ah, se potessi levarmi un po’ di costolette e diventare leggero come te, sahib! — Non ti consiglierei perché qui non vi sono né medici, né ospedali. — E gli assedianti che cosa fanno? — Fumano, masticano betel, discutono e ci guardano. — Guarda, sahib: che gli assedianti salgano per attaccarci? Che non abbiano paura del fuoco che morderà i loro piedi? — Ho veduto un uomo che saliva fra le alte erbe ancora verdi, portando con sé qualche cosa che luccicava stranamente. — Una bomba? — No, mi parve piuttosto un vaso di porcellana o di vetro. — Rubato forse al dottore bianco, quel bombone che ci aveva promesso di distruggere tutti i campi di Sindhia in meno di quarant’otto ore. — Io spero di no. — Dov’è l’uomo? Dobbiamo abbatterlo prima che giunga fino a noi? — E subito; e sai perché? — Spiegamelo, sahib, — disse il rajaputo, il quale tossiva orribilmente. — Nel Bengala, fra certe tribú di paria, si usa adoperare delle materie pestifere come mezzo di difesa ed anche di offesa. Le chiudono dentro pentole, e poi danno fuoco ad una miccia, ed è bravo chi sa resistere all’odore infernale che si sprigiona da quei recipienti. — Per la morte di Kâlí nemmeno questa volta ti sei ingannato! Una nuvolaglia grigia, impregnata di nauseabondi odori, impossibili a descriversi, si estendeva lentamente sulla cima della minuscola collina. L’uomo aveva pagato colla vita il suo audace tentativo di asfissiare gli assediati, poiché nel ritornare precipitosamente nel campo degli assedianti, essendosi per un istante scoperto, era caduto sotto i colpi dell’infallibile carabina di Kammamuri. — Giú! giú! Salta! — urlò costui, fra due colpi di tosse. — L’aria diventa avvelenata! — E non ci arrostiremo le gambe? — Non so che cosa farci. Se hai paura rimani qui e lasciati morire coi polmoni pieni d’aria avvelenata. — Ah, no, sahib! — urlò il fedele guerriero. — Non voglio né morire né lasciarti solo contro tanti nemici... «L’uomo che portava la pentola l’hai ucciso?» — A quest’ora sarà dinanzi a Siva, a Brahma od a Visnú, — rispose Kammamuri. Un’ondata di fumo fetente si avanzava verso il tamarindo, sospinta da una leggera brezza di ponente. Era un fumo assai grigiastro che, di quando in quando, si accendeva verso i margini, sprigionando dei bagliori strani. I due indiani scesero rapidamente fino ai rami piú bassi, poi saltarono a terra sollevando una nuvola enorme di cenere mista a scintille. Per un momento credettero di morire asfissiati, poiché l’incendio non era totalmente spento e covava sotto le ceneri, ma appena poterono rimettersi un po’, scapparono a gambe levate, sollevando dietro di loro qualche getto di scintille. Avevano già percorsi tre o quattrocento metri, quando dinanzi ad un gruppo di banani, ormai appassiti, udirono una seconda detonazione. — Ah, canaglie! — urlò Kammamuri. — Hanno proprio deciso di avvelenarci in altro modo giacché i serpenti hanno fatto cattiva prova. — Tu, sahib, hai ucciso l’uomo che ha fatto scoppiare quella pentola!... — urlò il rajaputo. — Io spero di mandarne anch’io qualcuno davanti alle tre divinità indiane!... Sono troppo feroci!... Non meritano nessuna pietà!... Cosí dicendo si slanciò, e poiché aveva gli stivali di cuoio assai alti e di cuoio molto spesso, poteva correre quasi impunemente fra le ceneri ancora non raffreddate. Quel gigante barbuto, che coi soli pugni avrebbe potuto ammazzare piú persone, faceva davvero paura. Correva come un pazzo, sollevando dietro di sé nuvole e nuvole di cenere miste a scintille, tenendo la pesante carabina impugnata per la canna, come se volesse servirsene d’una clava. Era un gigante che si scagliava, un gigante dotato d’una forza erculea, capace di atterrare qualunque ostacolo e di affrontare qualunque pericolo. Kammamuri lo seguiva saltellando, gridandogli dietro: — Aspettami! aspettami! Ma che!... Il rajaputo pareva che fosse diventato sordo. Attraversò in un lampo la cima dell’altura, tutta invasa di un fumo fetente, asfissiante, e avendo veduto un uomo, paria o fakiro che fosse, che cercava di fuggire a tutte gambe, un urlo di belva gli irruppe dal petto: — Ah, sciacallo!... Sei preso! Poi un colpo di fuoco rimbombò secco. — Contro chi hai sparato, amico? — chiese Kammamuri, il quale era riuscito finalmente a raggiungerlo. — Ho ammazzato un portatore di quelle pentole fetenti — rispose il rajaputo. — Il suo carcame sta rotolando giú per l’altura... Ed ora? — Si scappa!... Andiamo a cercare i nostri cavalli. — Se li troveremo!... — Ti dico che i cavalli mongoli non si allontanano troppo dai loro padroni. Noi li troveremo laggiú, nella pianura. Scendevano la collinetta a gran salti per sottrarsi rapidamente a quei fumi puzzolenti che potevano contenere anche delle sostanze tossiche. Fortunatamente il rajaputo aveva accoppato a tempo il secondo portatore di pentole, e prima ancora che avesse potuto incendiare l’infernale miscela, sicché il versante orientale dell’altura era assolutamente sgombro, anche perché il fuoco non si era spinto oltre la cima. Sempre balzando come capre del Tibet, i due fuggiaschi riuscirono finalmente, dopo una corsa furibonda, a raggiungere la pianura. Un grido di gioia sfuggí ad entrambi. I due cavalli mongoli stavano pascolando tranquillamente sotto un fico baniano. — Te l’avevo detto io che non sarebbero fuggiti, — disse Kammamuri dopo un lungo respiro. — Hai ragione, sahib, — rispose il rajaputo. — Si lasceranno poi prendere? — Non temere che riprendano la corsa. Qui non vi sono piú serpenti che li minaccino e non vi è una scintilla. La pianura è umida e noi trotteremo al sicuro. — E che cosa fanno gli uomini del rajah? Ci crederanno di già asfissiati ed aspetteranno che l’aria si purifichi per spingersi sull’altura. «Per Siva! non hanno polmoni differenti dai nostri.» Si accostarono cautamente ai due cavalli i quali non cessavano di pascolare, li afferrarono solidamente per le narici mettendo loro i morsi di sottile acciaio, poi balzarono lestamente in arcione. — Sempre verso oriente, — disse Kammamuri. — Sta’ in guardia contro le sorprese. — Due buoni occhi li ho anch’io, sahib — rispose il rajaputo, I cavalli, docilissimi, appena sentita la pressione delle larghe staffe, si rimisero in corsa nitrendo allegramente. Avevano percorsi appena cinquecento passi e stavano seguendo il margine di una jungla che pareva avesse delle dimensioni straordinarie, quando un urlío furioso scoppiò dietro di loro seguíto da un galoppo sfrenato. — Sono sulla nostra pista! — gridò il maharatto, allentando tutte le briglie. — Via! via! Rajaputo! Gettiamoci nella jungla. I fuggiaschi, che a poco a poco, pur trattenendo gli animali, avevano guadagnato ancora un paio di centinaia di metri, portando la distanza a settecento, si trovarono improvvisamente di fronte ad una vasta apertura. Dei grossi animali dovevano aver squarciata la jungla aprendo una specie di sentiero. — Questo fa per noi — disse Kammamuri. — Passeremo attraverso a questo mare di bambú ma non prima di aver data una dura lezione ai paria di Sindhia. Dobbiamo scavalcarne alcuni per far loro comprendere quanto sia pericoloso l’inseguimento. Non siamo che in due e cercheremo di combattere come dieci. Arrestò violentemente il mongolo proprio sull’orlo dello squarcio che era ingombro di enormi bambú ammonticchiati alla rinfusa e balzò a terra. — Lega le bestie — disse al rajaputo. — Subito, sahib. Io ho piú fiducia della tua carabina che della mia. — Vedremo — rispose semplicemente Kammamuri. Si era inginocchiato dietro ad una catasta di enormi bambú tulda, spiando i cavalieri di Sindhia che si avanzavano faticosamente fra le altissime erbe. — Cavalli di poca resistenza — disse. — Li faremo correre finché, ad uno ad uno, cadranno. Fino sulle montagne di Sadhja non ci seguiranno, ne sono sicuro. Maledetti sciacalli!... Potessi smontarvi tutti!... I banditi giungevano strepitando e sparando sempre. Alla loro testa stava un uomo tutto vestito di seta bianca, di forme erculee, un bramino forse. Kammamuri lo mirò attentamente, cambiando parecchie volte posizione, poi la grossa carabina di mare rintronò dentro la jungla facendo tacere d’un colpo solo tutti i volatili che vi si erano rifugiati. Il cavaliere vestito di bianco si chinò sul collo della sua cavalcatura, poi vuotò l’arcione senza mandare un grido. I suoi compagni, spaventati, si erano arrestati. — A te ora, rajaputo, — disse il bravo maharatto. — Metti l’alzo a settecento metri e sarai sicuro del tuo colpo. — Mi proverò, sahib. Non sono mai stato un cattivo tiratore. — Spara. Bisogna spaventarli. Il gigante, il quale aveva legati i due mongoli, si nascose dietro l’enorme barricata di bambú, e fece il suo colpo. Tutti i rajaputi sono buoni fucilieri. Abituati a combattere ai confini dell’India sanno subito misurare la distanza e difficilmente falliscono il colpo. Come abbiamo già detto sono i soli indú che disputano il valore ai maharatti e non sempre con svantaggio. Il gigante, mentre Kammamuri si affrettava a ricaricare la carabina alzò l’arma e puntò sul gruppo che si avanzava. — Sono in molti — disse. — Qualcuno cadrà. Un altro cavaliere vestito di bianco aveva preso il comando del drappello, e con altissime grida incitava i banditi a spingersi rapidamente innanzi. Probabilmente si trattava di un altro bramino, poiché né paria, né fakiri indossano tali vesti. Appena appena portano un paio di calzoncini rattoppati od un gonnellino quasi sempre pieno di pidocchi. Il rajaputo appoggiò la canna della carabina su un grosso bambú che era stato divelto e che lo proteggeva dalle scariche avversarie, e dopo d’aver mirato a lungo, premette il grilletto. Non fu il cavaliere che cadde, bensí il cavallo. La povera bestia, dopo essersi violentemente inalberata, era stramazzata fra le erbe, scaraventando l’uomo che portava in sella a parecchi metri di distanza. Un grido di rabbia sfuggí dalle labbra del gigante. — Non irritarti, amico, — disse Kammamuri. — Anche i cavalli contano, e tu hai fatto un magnifico tiro. — Ma l’uomo è ancora vivo e vedo che sta rialzandosi. — T’inganni. — Non sono cieco. Kammamuri aveva fatto rapidamente fuoco sul cavaliere e lo aveva fatto ricadere per non rialzarsi certamente mai piú. — Vedi che è ancora a terra? — disse Kammamuri sorridendo. — Perché tu l’hai fulminato, sahib. Ah, questi maharatti ci sono superiori, devo confessarlo. I banditi di Sindhia, spaventati da quei tre colpi di fuoco giunti tutti a destinazione, e ad una cosí notevole distanza, si erano slanciati a terra nascondendosi dietro ai loro cavalli. Quantunque ormai sapessero di non aver da fare che con due soli avversari, non si sentivano l’animo di riprendere la carica. — Li aspetteremo? — chiese il rajaputo, ricaricando l’arma. — Ah no!... — rispose Kammamuri. — Mentre loro avanzano al passo, noi spariremo dentro la jungla. Questo grande squarcio in qualche luogo ci condurrà. — Montiamo in sella? — E subito, amico!... Avanti, e che tutte le divinità dell’India ci proteggano poiché noi ne abbiamo bisogno. — Mi fido piú della mia carabina — borbottò il rajaputo. — Brahma, Siva e Visnú sono tutti diventati sordi e non ascoltano piú le preghiere dei loro adoratori. «Aveva ragione un missionario bianco, venuto dall’Europa, di chiamarli falsi dei.» Allargò un momento le gambe ed il mongolo, sempre pieno di fuoco, si slanciò attraverso il grande sentiero, seguíto subito da quello di Kammamuri. CAPITOLO VIII. LA POSTA INDIANA Dei grossi animali, dotati d’una forza colossale, elefanti o rinoceronti, assaliti da cacciatori o presi da improvviso furore, avevano squarciata la jungla, aprendo un passaggio tale da permettere la corsa anche a cinque cavalieri di fronte. Bambú enormi, tulda specialmente, che sono i giganti della specie e che raggiungono l’altezza di quindici metri, giacevano al suolo colle radici in aria, incrociati in tutti i sensi. — Avremo un bel da fare ad evitare tutti questi ostacoli, — disse il maharatto al gigante. — Bada che il tuo cavallo non si rompa le gambe. — Lo tengo bene stretto — rispose il rajaputo. — Faremo dei grandi salti. — Che non riusciranno forse tutti bene. — Non sono saltatori dunque i mongoli di buon sangue? — Sono piú trottatori dotati di una grande, anzi di una incredibile resistenza. Tuttavia noi passeremo egualmente se terremo strette le briglie e larghe le gambe. To’! chi è passato di qui? Solamente degli elefanti selvatici, in preda ad un pazzo terrore, possono avere sfondata la jungla in questo modo. — Dovevano essere in molti — disse il rajaputo, il quale faceva fare al suo cavallo dei salti indiavolati. — Forse qualche centinaio. Io ho trovato qui, e piú volte, dei branchi immensi di quei giganteschi pachidermi. «Ve ne sono ancora molti nell’Assam.» — Purché non ci piombino addosso in mezzo alla jungla!... — Chi sa dove saranno a quest’ora gli animali che hanno prodotta una simile devastazione. Hanno il passo lento, e quando sono inseguiti filano come vaporiere. — Ed i banditi di Sindhia? — Che ne so io? Ci seguiranno forse a grande distanza. — Che non sia scoppiato nemmeno il colera fra loro? Quel famoso medico bianco pareva sicuro del fatto suo. — Ba’ — fece Kammamuri, alzando le spalle. — Il colera scoppierà quando i molanghi delle Sunderbunds, spinti dalla miseria, verranno a coltivare le risaie assamesi. Ma non giungeranno prima di due o tre mesi, ed allora il colera non sarà piú necessario, io spero. — Speri, sahib? — chiese il rajaputo facendo fare al suo cavallo un altro magnifico salto sopra il tronco d’un tara. — Che cosa vuoi dire? — Che fra un paio di mesi o sarà Sindhia che regnerà sull’Assam od il gran sahib bianco. La guerra è appena cominciata e ci sarà del lavoro durissimo d’ambe le parti. «Vengano i montanari, e la rhani per la seconda volta avrà la sua corona.» Era già trascorsa piú di un’ora e non si udiva in mezzo alla gigantesca jungla nessun rumore, quando il cavallo di Kammamuri, che veniva dietro a quello del rajaputo, fece un violento scarto mandando un acuto nitrito. Il gigante aveva trattenuto subito il suo corsiero staccando dall’arcione la carabina. — Che cosa c’è dunque, sahib? — chiese, preparandosi a far fuoco. — Noi dobbiamo essere inseguiti — rispose il maharatto. — Dai banditi di Sindhia? — Non penso piú a loro. Devono essere ben lontani. — E da chi dunque? — Trattieni un momento il tuo cavallo — rispose Kammamuri. — È già fermo. — Tendi gli orecchi ora. Non odi nulla? Ascolta bene. — Sí, un rombo lontano — rispose il rajaputo. — Si direbbe che un’altra banda di elefanti selvaggi si precipita sulla jungla. — No, elefanti — rispose Kammamuri. — Sono bestie piú maligne che non hanno paura dell’uomo. — Delle tigri forse? — No, no, sono dei rinoceronti. — Che corrono sulle nostre tracce? — chiese il gigante, facendo un gesto di spavento. — Questo non te lo saprei dire. — E come fai a distinguere se si tratta di elefanti o di rinoceronti? — I rinoceronti hanno il galoppo piú pesante e piú irregolare. — Che seguano lo squarcio? — È ancora troppo presto per potertelo dire. — E se... — Taci!... Un grido strano lacerò l’aria, un grido stridente: niff!.... — Mi ero ingannato io? — chiese Kammamuri, il quale non sapendo da quale parte potevano irrompere quei terribili animali, ben piú pericolosi degli elefanti e delle tigri, aveva arrestato il cavallo. — No, sahib. Questo niff l’ho udito anch’io diverse volte, poiché nei nostri paesi si usa assai cacciare i rinoceronti colla lancia. — Sarà uno solo o saranno in molti? — si chiese con ansietà il maharatto mentre tendeva gli orecchi. Attraverso alla jungla si udiva un galoppo pesante, irregolare, che si avvicinava con estrema rapidità. — Mi pare che sia uno solo — disse — e tuttavia le nostre carabine avranno un bel da fare per gettarlo a terra. «Quei bestioni sono corazzati e ricevono le palle senza inquietarsi troppo.» — Andiamo, sahib? — chiese il rajaputo, il quale pareva in preda ad una vivissima inquietudine. Il maharatto stava per rispondere quando il grido stridente echeggiò improvvisamente a poca distanza. Quasi subito un bestione enorme, lungo non meno di quattro metri, e alto piú d’uno e mezzo, tutto coperto di fango, ed il naso armato d’un corno di avorio, lungo piú di ottanta centimetri, si precipitò con furia infernale addosso ai due cavalieri. — Via! via! — urlò Kammamuri. Non vi era bisogno di quel comando. I due mongoli, spaventati, si erano dati ad una corsa pazza attraverso lo squarcio, saltando meravigliosamente tutti gli ostacoli. Il rinoceronte, scoperti i cavalieri, si era arrestato come se fosse sorpreso d’un incontro simile, ma dopo un istante di esitazione riprese la corsa. Tutto cadeva dinanzi a quel bruto dotato di una forza quasi eguale a quella degli elefanti. Teneva la testa quasi rasente al suolo, e col formidabile corno fracassava i bambú giganteschi come se fossero semplici pagliuzze. Le tigri ed i leopardi sono pericolosi e danno molto da pensare anche ai piú famosi cacciatori; ma il rinoceronte è il peggiore di tutti gli animali che infestano le foreste e le jungle dell’Indostan. Sembra che sia sempre in preda ad una pazzia furiosa. Va, viene, si slancia, battaglia colle piante atterrandole, si getta perfino dietro agli sciacalli ed ai nilgò che non possono certamente tentare di assalirlo. Perfino i carnivori evitano quel bruto dal cervello malato, e scappano dinanzi alle sue cariche furiose, ben sapendo di non aver nulla da guadagnare impegnando una lotta. Vive quasi sempre solo, unendosi ben di rado alle femmine che tosto abbandona, quantunque non siano migliori di lui, anzi!... Quando vi è un piccolo da difendere la rinocerontessa non esiterebbe a scagliarsi anche contro un reggimento di cavalleggeri. Kammamuri che sapeva con quale nemico aveva da fare e assai meglio del rajaputo, cercava con una fuga disperata di sottrarsi all’attacco. — Tieni strette le briglie!... — gridava al compagno che gli galoppava un po’ innanzi. — Non dimenticare che chi cade deve fare la conoscenza col corno del signor niff! — Lo so — rispose il rajaputo, il quale non cessava di aizzare il proprio corsiero. — Lo so, sahib, e mi guarderò bene dal cadere. Guadagna su di noi? — È appena a venti metri. — Se provassimo a sparare? — Coi salti disordinati dei cavalli? Chi potrebbe mettere una palla al posto? — Che non perda mai le forze quel dannato bestione? — Sono resistenti come gli elefanti. — E durerà molto questa caccia? — Va’ a domandarlo al signor niff, se ti basta il coraggio. — Ah no!... Preferisco scappare. I due mongoli, in preda ad un pazzo terrore, divoravano lo spazio cacciandosi sempre piú dentro l’enorme squarcio. Facevano sforzi disperati per conservare la distanza, e si guardavano dal cadere sapendo che non sarebbero sfuggiti alla rabbia del bruto. Quella corsa furibonda durava già da una buona mezz’ora, quando Kammamuri udí il rajaputo gettare un grido terribile e poi lo vide subito scomparire come se la terra si fosse aperta sotto le zampe del cavallo. Quantunque incalzato da vicino dal bestione, tentò di arrestare il mongolo, il quale si era trovato improvvisamente dinanzi ad un enorme ammasso di bambú atterrati. Era troppo tardi per trattenerlo. Il povero animale, spaventato, saltò e scomparve a sua volta insieme al cavaliere dentro una buca profonda e assai larga e lunga, rompendosi le gambe. Kammamuri per contraccolpo era stato scaraventato innanzi ed era andato a finire fra le braccia erculee del rajaputo. Un momento dopo rovinava nella buca anche il rinoceronte, mandando un urlo spaventoso. Per un vero miracolo non era andato a cadere sui due fuggiaschi e sui due cavalli. Anzi, gli era toccato di peggio: si era infilzato su uno di quei pali aguzzi e durissimi che gli indiani collocano in fondo alle fosse da caccia, le quali talvolta sono cosí vaste da poter contenere anche una decina di elefanti. Il bruto, mezzo fracassato per la caduta, e ferito orribilmente dal palo che lo aveva subito trattenuto, impedendogli di fare qualsiasi mossa, aveva spalancata la bocca mostrando i denti massicci e mandando fuori un altro urlo piú orribile del primo. Ormai era immobilizzato e non poteva piú nuocere. La sua agonia cominciava e doveva essere ben lunga, quantunque nella caduta si fosse non solo fracassato il muso ma anche il terribile corno. Kammamuri ed il rajaputo, salvati miracolosamente, si erano prontamente rimessi in piedi colle carabine in mano. I due cavalli erano perduti. Se avevano salvato i loro cavalieri si erano quasi fracassati, e si agitavano pazzamente in fondo alla gigantesca trappola mandando dei dolorosi nitriti e sferrando calci in tutte le direzioni. — Come siamo ancora vivi noi? — chiese il rajaputo, girando intorno due occhi dilatati dallo spavento. — Lo sai tu, sahib? — Io so che senza di te mi sarei spezzata la testa contro le pareti della fossa. Io ti devo la vita. — No, sahib, ti ho preso a volo e nient’altro. — In buon punto però. — Non dico di no. Mi sono trovato, fortunatamente, sul tuo capitombolo, e le mie braccia t’hanno arrestato. Come vedi, una cosa naturalissima, semplicissima sahib. — Non saprei che cosa dire — rispose il maharatto, il quale aveva riacquistato prontamente il suo sangue freddo. — Il tuo cavallo è perduto? — Fra un paio d’ore sarà morto. — Il mio pure. — E quel bestione? — Oh, quantunque impalato, durerà molto. Non occuparti di lui d’altronde: è come un grosso bastimento ancorato. — Mancherebbe ora che ci piovessero addosso i banditi di Sindhia. — Uhm! Chi sa dove saranno ora. — E noi come ce la caveremo? — Rispondi prima ad una mia domanda. Come non ti sei spezzato il cranio? — Quando ho veduto il cavallo precipitare ho aperto le gambe per non trovarmi coi piedi imprigionati nelle staffe, ed ho fatto non so se due o tre salti nel vuoto. È Siva che mi ha salvato, o Brahma o Visnú? Io non lo so. Ma so che sono ancora vivo e pronto a ricominciare la lotta, poiché le mie costole hanno resistito meravigliosamente, e cosí pure le gambe e le braccia. «Ci deve essere un po’ d’acciaio dentro le mie ossa.» — Lo credo, amico. Aspettami. — Dove vai, sahib? — Vado a vedere se ci sarà possibile di uscire da questa trappola. — E quel bestione? — Lascialo urlare. Già non guarirà piú mai; nessun medico oserebbe levargli quel pezzo di palo che lo ha sventrato. — E se lo spezzasse e si gettasse improvvisamente su di te? — Questo pericolo non esiste. D’altronde abbiamo ancora le nostre carabine e le nostre pistole senza contare le scimitarre. Come vedi, malgrado il gran salto che avrebbe dovuto esserci fatale, siamo ancora formidabilmente armati. Vediamo un po’ se si può uscire. Senza curarsi degli urli spaventosi del bestione, si era avanzato verso il centro dello scavo. Si trattava di una vera trappola pei grossi animali, vastissima, con tre pali conficcati fortemente nel terreno e che i cavalli, pure ammazzandosi, avevano miracolosamente evitati. Quelle fosse che i cacciatori indiani scavano in mezzo alle jungle, hanno la bocca piuttosto stretta ed il fondo invece immenso, e le pareti sono tagliate in modo da non permettere a nessuna bestia di risalire a cagione dell’estrema pendenza delle pareti che formano con la base degli angoli acuti. Li coprono di bambú, cospargendovi sopra delle zolle di terra, in modo da nascondere l’agguato, poi i cacciatori vanno a fare le loro visite e quasi sempre trovano selvaggina piccola e grossa che traggono con solidi lacci. — Questa fossa è peggiore di una prigione — disse il maharatto. — Chi sarebbe capace di arrampicarsi fino alla bocca? Che Sindhia abbia tutte le fortune? Eccoci a piedi ed in cattiva compagnia. Povero signor Yanez, come potremo ora condurre a termine la nostra missione? Io ne dubito assai. Guardò il rinoceronte il quale non cessava di urlare spaventosamente, facendo trabalzare i poveri cavalli, pazzi ormai di terrore e già agonizzanti. Il mostruoso animale era orribile a vedersi. Scuoteva furiosamente la sua testaccia quasi triangolare, vomitando sangue, e sotto il suo ventre, dove il palo l’aveva infilzato, altro sangue inzuppava il suolo misto a brandelli di budella. Quantunque dovesse soffrire atrocemente ad ogni mossa, preso da una vera follia, tentava di liberarsi dell’ostacolo che lo tratteneva, allargando sempre piú la ferita. Il rajaputo aveva raggiunto il maharatto il quale aveva armata la carabina. — Bisogna ammazzarlo, — gli disse — Se i banditi di Sindhia hanno seguíto il sentiero potrebbero spingersi fino a questa fossa per vedere che cosa succede. — Lo pensavo anch’io in questo momento — rispose Kammamuri. — Temo bensí che la carabina attiri quelle canaglie meglio che gli urli di questo bruto. — Le pistole non fanno tanto fracasso, sahib. Sparagli in un occhio. — È quello che farò... I cavalli sono morti? — Fra dieci minuti se ne andranno anche loro. Sono troppo fracassati per poter sopravvivere. — Ecco una grave perdita. — Che nessuno poteva prevedere — rispose il rajaputo. — Lo so. Il maharatto si tolse dalla cintura una lunga pistola a due canne, di forte calibro, si avvicinò al bestione il quale continuava a fare degli sforzi prodigiosi per liberarsi dal palo, e sparò un colpo, a bruciapelo, nell’occhio sinistro. Seguí una seconda detonazione e l’animale, dopo aver mandato un ultimo e piú spaventoso urlo, si abbatté piegando sotto il ventre squarciato le larghe e robuste zampe. Aveva preso due palle nel cervello, il solo punto vulnerabile. — Lo hai fulminato, sahib, — disse il rajaputo. — Io credo che non sia ancora proprio morto — rispose Kammamuri. — Conosco queste canaglie. Pare che abbiano dieci cuori e dieci cervelli. Infatti proprio in quel momento il rinoceronte spalancò due o tre volte la bocca vomitando dell’altro sangue, poi sbadigliò facendo crocchiare le robuste mascelle. Era l’ultimo sforzo. Si raggrinzò quasi tutto su se stesso mandando un debole lamento, poi scosse le orecchie, distese le zampe che aveva raccolte sotto il ventre, e con un secondo sbadiglio ed un nuovo getto di sangue spirò. — Queste bestie fanno veramente paura — disse il rajaputo. — Le tigri valgono meno — rispose Kammamuri. Guardò in alto, verso l’uscita della fossa. La luce cominciava a mancare: il sole tramontava rapidamente, e le tenebre stavano per piombare. I due valorosi si guardarono a lungo, interrogandosi cogli occhi. — Non so che cosa dire — disse il maharatto, il quale appariva scoraggiato. — Che non si possa proprio lasciare questa tomba? — chiese il rajaputo. — Non vedi come le pareti sono state tagliate. Una scalata è impossibile. — E se ci aprissimo una galleria? — Ci penseremo. Anche i cavalli sono morti; non è vero? — Non li vedo piú muoversi. — Chi sa!... Tu sei forte come quattro uomini; ma per ora non faremo nulla. Aspetteremo l’alba. — Dentro questa buca piena di sangue? — Chiama in tuo aiuto due dozzine di cani volanti e fatti condurre sopra — rispose Kammamuri. — Non posso averli sotto mano, sahib. — Hai la tua pipa? — Sí, ed un po’ di tabacco ancora; ma lo stomaco è vuoto. — Domani cucinerai una zampa del rinoceronte e ti leverai la fame per ventiquattro ore. — Domani!... — brontolò il rajaputo. — Ci sono dodici ore. — Cerca se nelle fonde dei nostri cavalli vi è ancora qualche cosa da porre sotto i denti. — Sí; dei miserabili banani che non basteranno al mio corpaccio. — Stringi la fascia, cosí diventerà piú stretto. — Ci vuole ben altro per me, sahib. — Ci sono due cavalli ed un rinoceronte. La carne non manca, anzi ne abbiamo troppa. Mangia fin che vuoi. — Cruda? — Vorresti che ti fabbricassi uno spiedo od una graticola e che ti accendessi anche il fuoco? Non vedi che qui vi sono solamente poche canne che darebbero piú fumo che fuoco? — Allora non mi rimane che stringere la fascia — disse il rajaputo con voce malinconica. — Rifiuteresti la carne cruda? Un bel pezzo di coscia di uno o dell’altro dei nostri cavalli potrebbe servirti. — Senza sale e senza pimento? — Ohé, signor Ercole, diventate un po’ difficile! Qui non siamo alla capitale. Il silenzio non era rotto che dagli urli degli sciacalli attirati a diecine dall’odore della carne del rinoceronte e dei cavalli, dalla quale si ripromettevano un’abbondante cena, quando ad un tratto il gigante si spinse verso il centro della fossa e si mise in ascolto. Poco dopo un grido gli fuggiva: — I campanelli!... — Che campanelli? — chiese Kammamuri, il quale si era affrettato a raggiungerlo. — Non odi, sahib? Ascolta bene. — Sí, un lontano tintinnío che pare si avvicini con rapidità diabolica. — È la posta indiana che passa. — Attraverso a questa jungla? — I banditi del rajah avranno costretto il conduttore della valigia postale a prendere un’altra via. — Se passasse vicino alla fossa! — E vi cadesse dentro!... — Spareremo un colpo di pistola. — Odi, sahib? — Sí, la posta vola. Ha tre cavalli ed il carrozzino pesa appena quanto te, Non so però come faremo a trovarvi posto. — In qualche modo ci accomoderemo. Vi sono due sedili, uno dinanzi per il postino ed uno di dietro. — Che non può servire che ad una sola persona. — Io monterò uno dei cavalli. — Sarà meglio. — Taci. Il tintinnío dei campanelli si avvicinava sempre e con rapidità fulminea. La posta indiana va a rotta di collo, ad un galoppo indiavolato, attraverso a jungle e montagne cambiando gli animali nei bengalow che sono incaricati di tenerne sempre un certo numero. La corriera postale doveva essersi cacciata attraverso l’immenso strappo aperto dagli elefanti o dai rinoceronti, e correva diritto verso la trappola che il conduttore, causa l’oscurità, non avrebbe potuto evitare. Gli sciacalli, spaventati dalle sonagliere erano fuggiti tutti urlando lugubremente. Come si sa, quella specie di lupi, se anche sono in buon numero, salvo qualche rara eccezione, non osano mai attaccare l’uomo. Fuggono anche dinanzi a tutti i carnivori non essendo dotati di soverchio coraggio. Hanno molto delle jene africane, fracassone, terribili in apparenza, e poi in realtà vigliacche al punto da fuggire dinanzi ad un ragazzo armato d’un semplice bastone. Kammamuri aguzzava sempre gli orecchi tenendo in pugno una delle sue pistole a due colpi, pronto ad arrestare il corriere, con un colpo di fuoco improvviso, prima che precipitasse, insieme co’ suoi tre cavalli, nella immensa fossa. I campanelli echeggiavano sempre piú vicini fragorosamente. La corriera volava; e volava verso l’abisso. — Sahib, — disse il rajaputo. — È il momento di sparare. — Aspetta. Il vecchio cacciatore ascoltava sempre con estrema attenzione. Passò un altro mezzo minuto che al rajaputo parve lungo come una mezz’ora, poi il maharatto alzò la pistola e lasciò partire i due colpi gridando subito, con voce tonante: — Ferma! ferma! La terra è spaccata! Ferma postino! I campanelli sonarono ancora per qualche istante furiosamente, poi tacquero quasi bruscamente. Una voce umana si udí al di fuori della fossa squillare altissima: — Chi è che ha fatto fuoco? — Amici della posta indiana — rispose Kammamuri. — Stacca il fanale e guarda dove stavi per piombare insieme alla vettura. — Vi avverto che sono armato. — Noi non siamo dei banditi della jungla. Ti dico che ti abbiamo salvata la vita. — Ora lo vedremo. I campanelli dei tre cavalli squillarono ancora un momento misti a nitriti poderosi, poi un getto di luce si proiettò dentro la trappola. Il corriere mandò un urlo di spavento. — Grazie — disse poi. — Voi mi avete salvato ed insieme con me avete pure salvati i tre corridori, che cosa posso fare per voi? — Trarci di qui — rispose Kammamuri. — Avrai delle funi. — Sí, ma vorrei prima sapere chi voi siete ed in quanti siete. — Siamo solamente due. Io sono l’aiutante di campo del Maharajah dell’Assam, ed il mio compagno è un rajaputo buono come un fanciullo quantunque possegga una forza gigantesca. — E come vi trovate lí dentro? — Siamo precipitati insieme coi nostri cavalli mentre cercavamo di sfuggire i banditi del rajah ed un rinoceronte che ci ha seguiti nel capitombolo e che si è impalato. — I banditi del rajah — disse il corriere, il quale continuava a proiettare dentro la fossa i raggi del suo fanale — hanno cercato di darmi la caccia e di arrestarmi. — Erano a cavallo; non è vero? Dovevano essere venti o venticinque. Fors’anche meno poiché ne abbiamo smontati parecchi. — Aspettatemi. — Bada che i cavalli non avanzino. — Sono già legati — rispose il corriere. La sua assenza fu brevissima. Una solida corda cadde ben presto dentro la trappola. Il maharatto, i cui occhi si erano ormai abituati all’oscurità, la prese a volo e si mise ad arrampicarsi, non dimenticando di portare con sé le sue armi e la gualdrappa del cavallo. Di solito la posta indiana si serve di giovanotti, scelti con grande cura, che arma d’una frusta dal manico corto e la correggia lunghissima e di due buone pistole. Il conduttore della corriera postale che stava per precipitare nell’abisso era invece un soldato seikko, già sulla quarantina, di forme robustissime, con una lunga barba nera arruffata e due occhi scintillanti come carbonchi. — Ti ringrazio, sahib, — disse, dopo aver diretti i raggi della lanterna su Kammamuri, — di avermi salvata la vita. Se sparavi un momento dopo io mi ammazzavo. Dov’è il tuo compagno? — Eccolo: come vedi è un rajaputo. — Che deve lottare con vantaggio contro gli orsi delle nostre montagne! — disse il corriere, dopo averlo squadrato dalla punta dei piedi al turbante. — Potrai caricarci tutti e due? — chiese Kammamuri. — Io monterò il cavallo di mezzo e voi occuperete i sedili. — Ma dove andavi? — Il corriere non può tradire i suoi segreti. Ero incaricato di andare molto lontano, al di là della frontiera orientale dell’Assam. — Nell’Arracam od in Birmania? — Non posso dire nulla. Sarà meglio riprendere subito la corsa, poiché gli uomini che l’ex rajah ha assoldati devono essere tutti sulle mie tracce. — Siamo ormai in tre ed abbiamo delle grosse carabine — disse Kammamuri. — Li abbiamo già arrestati un paio di volte. Mise il fanale a posto ed indicò ai due salvati i due sedili, uno collocato dinanzi e l’altro dietro al leggero sí, ma robustissimo carrozzino. Stava per montare il cavallo di mezzo, il quale continuava a scuotere le sonagliere come se fosse impaziente di riprendere la corsa insieme ai suoi due compagni di volata, quando il corriere si volse nuovamente verso Kammamuri chiedendogli: — Sahib, conosci questa jungla tu? — Io non l’ho mai percorsa — rispose il maharatto. — Ho cacciato parecchie volte i grossi bufali insieme al Maharajah tenendomi sempre lungo i margini di questa immensa macchia. — Tu dunque non sai se sulla nostra corsa troveremo altre trappole. Non si sfugge due volte alla morte. — Come ti ho detto io non ho mai attraversato questa jungla. — E questo squarcio gigantesco che ha servito cosí bene a sfuggire l’attacco dei partigiani dell’ex rajah, chi lo ha fatto? — Degli elefanti probabilmente spaventati da qualche banda di cacciatori o da altra causa a me ignota. — Riguadagnare la via carrozzabile che conduce a Daboka non mi conviene. Verremmo presto presi ed io ho ricevuto l’ordine di non farmi catturare. — Credo anch’io che non sia il caso, almeno per ora, di tornare verso il settentrione — rispose Kammamuri. — Anche a noi preme assai di non cadere nelle mani dei cavalieri che hanno tentato di darti la caccia. Vuoi sapere altro? — Per il momento, no. Partiamo. — Vuoi un buon consiglio prima di lanciare i cavalli? — Parla pure, sahib. — Sbarazza le bestie delle sonagliere le quali potrebbero tradirci. Noi non abbiamo bisogno di fracasso, anzi di passare inosservati e nel massimo silenzio. — Hai ragione, sahib. Il corriere si tolse dalla fascia un coltello affilatissimo, un po’ ricurvo, che sembrava un mezzo tarwar, e fece cadere al suolo tutti i campanelli. — Ora possiamo ripartire e che Buddha ci guardi dalle trappole. Si slanciò sul cavallo di mezzo, impugnò la frusta dal manico corto e la correggia invece lunghissima, e mandò un fischio stridente poco dissimile da quello che usano i cornac per far muovere gli elefanti. I tre veloci corsieri s’impennarono un momento, nitrendo e sbuffando, poi si slanciarono a corsa sfrenata entro l’enorme squarcio, costeggiando la trappola. Un gran silenzio regnava sulla jungla. Pareva che tutti gli sciacalli che prima avevano tanto urlato, disperando ormai di dare l’assaggio ai due mongoli ed al rinoceronte, si fossero molto allontanati. La notte poi era splendida, chiara, una vera notte indiana. Mancava completamente la luna, ma quali sprazzi di luce mandavano le stelle vaganti nel cielo!... Pareva che palpitassero lanciando lampi color degli smeraldi, dei topazi e dei lampi di materie in fusione. Avrebbero potuto spegnere il fanale, ma il corriere non l’osava, sapendo che tutti gli animali temono la luce, specialmente se comparisce improvvisamente. — Sahib, — disse il rajaputo, il quale si teneva bene stretto al sedile poiché la vettura faceva degli scossoni orribili — dove andremo a finire noi? La domanda era stata diretta a Kammamuri il quale, come si sa, occupava il sedile collocato dinanzi. — Che cosa vuoi che ne sappia io, amico? — rispose il maharatto. — So che fuggiamo, e per noi è molto utile frapporre un grande spazio fra le nostre persone ed i banditi di Sindhia. — E questo corriere? — Porterà qualche messaggio importante a qualche comandante inglese della frontiera birmana od arracanese. — Spero che non lo seguiremo fino laggiú. — Non ne ho nessun desiderio. E poi vi sono qui tre cavalli, e due possono servire a noi. Per la corriera può bastarne uno. — Conti, sahib?... Kammamuri stava per rispondere quando i tre corridori s’impennarono violentemente cadendo poi uno addosso all’altro e rovesciando il carrozzino. Nel medesimo istante fra le cupe profondità della jungla si udí risonare il ben noto ha-o-hung delle tigri. CAPITOLO IX. LA NOTTE NELLA «JUNGLA» Il rajaputo e Kammamuri, prima che la vettura si rovesciasse, erano saltati lestamente a terra, mentre il corriere veniva gettato a dieci passi di distanza, in mezzo, per sua fortuna, ad un enorme cumulo di foglie secche. I cavalli, imbarazzati fra i tiranti, non si erano piú mossi. Nitrivano bensí disperatamente come per chiedere aiuto agli uomini contro la formidabile fiera che si era annunciata, forse ancora digiuna, fors’anche non sola. — Sahib, — disse il corriere, il quale aveva raggiunto prontamente i cavalli tentando di calmarli — voi siete meglio armati di me: aiutatemi a levarmi d’impiccio. — Noi siamo pronti — rispose Kammamuri, il quale aveva già armata la carabina, inginocchiandosi dietro al carrozzino. — Non siamo uomini da aver paura d’una od anche piú tigri. — Devo far alzare i cavalli? — Finché la bestia o le bestie non si presentano te lo proibisco. Hanno le gambe rotte? — No: sarebbero pronti a ripartire sahib. Se tu lo volessi li rimetto in piedi e torno a lanciarli. — Tu non conosci le bâghs. — So che sono cattive ed audacissime. Non è la prima volta che mi assalgono anche su grandi strade fiancheggiate da boschi o da jungle. — Sei un uomo fortunato, perché vedo che non ti manca nemmeno un braccio. — Ho perduto un orecchio, sahib, e porto sul mio petto le tracce di tre unghiate. — Speriamo questa volta di salvare l’altro tuo orecchio — rispose Kammamuri. — Quelle bestie avranno da fare i conti non già colle tue pistole bensí colle nostre carabine. È vero rajaputo? — E quando sparano difficilmente falliscono — disse il gigante. — Una tigre, dopo tutto, non è un rinoceronte inferocito e spinto a corsa sfrenata. Quei bestioni fanno molta paura. — Aspettiamo adunque? chiese il conduttore della posta. — Non c’è altro da fare, se vuoi salvare i tuoi cavalli — rispose il maharatto. Si alzò, staccò il fanale il quale splendeva magnificamente, avendo una grossa lente di quarzo, e disse al rajaputo: — Alza la vettura. — Insieme con un cavallo? — No, no, lascia tranquille le bestie, almeno per ora. Le stanghe si sono spezzate? — No, sahib. — Allora alza. Il gigante che, come si sa, era dotato d’una forza piú che straordinaria, rimise il carrozzino sulle sue due ruote. — Tu sei un uomo prodigioso — disse Kammamuri, deponendo il grosso fanale sul primo sedile. — Ora ci divertiremo un po’. Peccato che non vi siano con noi il Maharajah, il mio padrone e la Tigre della Malesia. Che terzetto formidabile!... — Va’ a chiamarli, sahib, se ne hai tempo — disse il rajaputo. — Come vedi, qui ci sono tre cavalli e di razza. — Per farmi prendere dai banditi di Sindhia? Oh, che pessimo consiglio mi dài. — Credo anch’io che non sia affatto buono — rispose il gigante. — Signora bâgh, siamo pronti a farvi un’accoglienza degna dei vostri denti e delle vostre unghie. — Non scherzare, — disse in quel momento il corriere, il quale si era pure rifugiato dietro al carrozzino, tenendo in pugno le sue lunghissime pistole. — Io ho già veduto la tigre spiccare un gran salto e scomparire in mezzo ai bambú. — A quale distanza? — chiese Kammamuri. — A non piú di cinquanta passi. — Che occhi hai tu?... Possono competere con quelli del cacciatore di topi delle cloache di Gauhati. — Chi è quell’uomo? — Te lo dirò un’altra volta. Ora dobbiamo occuparci della bâgh, che affermi di aver veduto. Apri gli orecchi allora ed ascolta! La tigre aveva lanciato nuovamente il suo lugubre urlo di guerra, facendo rintronare la jungla. Pareva che fosse sola, ma Kammamuri non si fidava affatto. Sapeva benissimo che i maschi sono sempre accompagnati dalla femmina, la quale lotta con un coraggio disperato, specialmente se conduce con sé dei tigrotti. — Nemmeno questa notte dormiremo — disse il rajaputo. — Se non hai paura di farti strappare la testa od una gamba, avvolgiti nella gualdrappa del tuo mongolo e lasciami la tua carabina. — Oh, mai sahib! Tu giuochi la tua vita e giocherò anch’io la mia. — Mi aspettavo questa risposta, mio valoroso. — Apriamo allora gli occhi. — Bisognerebbe coprire il fanale — disse il corriere. — Scorgendo tanta luce le bâghs non oseranno gettarsi contro di noi. — È presto fatto — disse il rajaputo prendendo la coperta del suo mongolo. — Le stelle questa sera sono grosse come ben poche volte le ho vedute. «Si direbbe che stanno per cadere sulla jungla.» — Bada che non ti cada addosso qualche stella gialla e nera armata di denti e di artigli, — disse Kammamuri. Sulla gigantesca macchia si era alzato un forte venticello notturno, il quale faceva frusciare le altissime cime dei bambú, rivestite di lunghissime foglie. Quel sussurrío non era da nessuno desiderato, poiché bastava a coprire l’avanzata agile della bâgh. Se in alto l’aria era un po’ fresca, sotto i giganteschi vegetali passavano invece di quando in quando dei soffi caldissimi impregnati di odori piú che cattivi. Erano ondate di miasmi che si rovesciavano sulla bassa jungla, prodotti dalla corruzione delle piante ed anche dei numerosi carcami non completamente spolpati dagli sciacalli e dal leopardi. Le tigri, piú signore, soddisfatta la fame, abbandonano la preda e non la toccano piú. Quelle bestie malvagie vogliono sempre carne palpitante e sangue caldo, sicché molte carogne rimangono disseminate qua e là a corrompere l’aria. I tre uomini, inginocchiati dietro la vettura postale, aspettavano sempre animosamente il mangiatore d’uomini coll’intenzione di mandarlo pieno di piombo in qualche paradiso o in qualche inferno. Due urli echeggiarono in quel momento nella jungla. — Sono in due — disse il rajaputo. — Che ci attacchino da due parti? — È probabile — rispose Kammamuri, il quale già s’inquietava assai. — Scopri il fanale. Almeno vedremo da quale parte giungeranno. Se si fosse trattato d’una sola bestia, avremmo potuto sparare anche senza questo getto di luce, ma due!... Corriere, sono tranquilli i cavalli? — Faccio una fatica enorme, sahib, per impedire loro di rialzarsi. — Fuggirebbero a corsa sfrenata senza di noi. — Lo so, sahib, ed è per questo che non li abbandono un solo istante. Mi duole che non posso esservi di nessun aiuto. — Lascia fare a noi — disse Kammamuri. — Come ti ho detto, non siamo alle nostre prime cacce. — Si vede dalla vostra tranquillità — rispose il corriere, il quale aveva posato le due lunghe pistole presso al cavallo di mezzo per aiutare i suoi salvatori. — Ehi, rajaputo, niente ancora? — chiese il maharatto. — No, sahib — rispose il gigante. — Si direbbe che ormai le bâghs hanno cenato e non hanno piú bisogno delle nostre costolette. — Uhm! Aspetta un po’, e vedrai, amico. Sono furbe, ed agiscono con estrema prudenza. — Taci, sahib. — Un fruscío dinanzi a noi; è vero? — Ed un soffio d’aria impregnata d’un certo odor di selvatico — rispose il rajaputo — Tu pensa a quella che si avanza diritta verso di te; io m’incarico dell’altra. Il momento era terribile. Le due bâghs dovevano trovarsi a breve distanza, poiché le loro esalazioni di selvatico si facevano sentire, portate dalla brezza notturna, che di quando in quando cambiava direzione. Kammamuri ed il rajaputo spalancavano gli occhi, mentre il corriere faceva sforzi sovrumani per trattenere i cavalli, i quali erano assaliti da intensi tremiti. Le povere bestie sentivano le implacabili nemiche, e cominciavano ad essere invase da un pazzo terrore. Ad un tratto il rajaputo ricoprí il fanale, s’inginocchiò, alzò la carabina, poi fece fuoco in direzione di due punti luminosi che vedeva dinanzi a sé. Un’ombra passò sopra la carrozza postale e cadde tre metri dinanzi al maharatto. L’occasione era favorevole. Il vecchio cacciatore della Jungla nera lasciò cadere la carabina, impugnò una delle sue pistole a due colpi e scoprí il fanale. Una tigre gigantesca si era rizzata dinanzi a lui, urlando spaventosamente, ma era subito ricaduta come se avesse qualche zampa fracassata. Kammamuri non esitò un istante a sparare, vedendo distintamente la belva entro il cerchio di luce proiettato dal fanale. — Atterrata? — chiese il rajaputo, che accorreva in aiuto del cacciatore. — Sí — rispose semplicemente Kammamuri. — È caduta. — Morta? — Pare. — Non ti fidare, sahib: sparale un colpo di carabina. — Sarebbe forse una carica sprecata. — Da’ retta a me, sahib. Il maharatto, un po’ impressionato per quella insistenza, aveva raccolto la sua grossa arma e stava per puntarla, quando la bestia gigantesca, che egli credeva di aver uccisa, si gettò con un gran balzo addosso ai cavalli, addentò il corriere per la nuca e lo portò via colla stessa facilità come se si fosse trattato d’un fanciullo, scomparendo subito nella jungla. Non vi era nulla di straordinario in quel fatto. Le tigri, al pari dei giaguari americani, possono resistere a parecchie palle; e con la loro forza straordinaria riescono, anche ferite, a saltare stecconate alte due o piú metri, portandosi in bocca un vitello del peso di cento cinquanta chilogrammi, se non piú. Kammamuri mandò un grido fortissimo: — Rajaputo, tieni fermi i cavalli; se fuggono, noi siamo perduti. — E quel disgraziato? — chiese il gigante, mentre si slanciava verso i tre corsieri, che stavano già per alzarsi, e li abbatteva nuovamente con pugni formidabili — Hai paura a rimanere qui senza il fanale? — No, quantunque debba pensare ai cavalli ed alla seconda bâgh che nessuno sa da qual parte ci piomberà addosso. — Taglia le cinghie alla vettura e lega solidamente le gambe ai trottatori. Cosí sarai piú libero di difenderti. — E poi li ritroveremo sventrati. — Per Siva, che cosa fare? — si chiese Kammamuri, cacciandosi le mani sotto il turbante. — Lasceremo noi divorare quell’uomo mentre abbiamo delle armi? — A quest’ora sarà morto — rispose il rajaputo. — Un colpo di dente di quelle bestiacce, e la colonna vertebrale viene spezzata come se fosse una festuca. — Eppure io devo tentare di trovarlo o di vendicarlo. — Non osare tanto, sahib! Pensa che le tigri sono due. — Sarebbe una vigliaccheria. Un vecchio cacciatore non può rimanere inattivo dinanzi ad un tal fatto... Hai legato le zampe ai cavalli? — Sí, ho finito. — Allora aspettami. Proprio in quel momento, sotto gli altissimi bambú, si udí una voce umana gridare due volte: — Aiuto! L’uomo che aveva lanciato quell’appello disperato non doveva essere lontano piú di un centinaio di metri. Kammamuri prese il fanale, armò la carabina già da lui caricata a grossa mitraglia, che certe volte riesce di miglior effetto d’una sola palla, e si slanciò attraverso la tenebrosa macchia, risoluto a ritrovare, vivo o morto, il disgraziato corriere. Fece velocemente una cinquantina di passi, poi si arrestò in mezzo a due grossi bambú e si mise in ascolto. Gli parve di udire delle foglie secche scrosciare un po’ piú innanzi a lui e poi un sordo mugolio. — La bâgh che ha portato via il corriere mi è vicina — disse fra sé il coraggioso maharatto. Alzò il fanale e si mise a gridare a pieni polmoni: — Vengo in tuo aiuto! Se puoi, tieni saldo, conduttore della posta! Un grido rispose subito: — Sono... ferito... la bâgh... la bâgh. In quella voce vi era uno spavento orribile. Non pareva nemmeno piú una voce umana; era una specie di ululato. Disprezzando ogni pericolo, cogli occhi in guardia e gli orecchi tesi, il maharatto si avanzava entro una specie di solco che pareva fosse stato appena aperto. Da una parte e dall’altra si alzavano sempre i bambú, collegati di quando in quando da quella specie di piante che in commercio vengono chiamate canne d’India, le quali hanno talvolta una larghezza di oltre trecento metri. Aveva percorsi altri quaranta o cinquanta passi, quando si vide comparire improvvisamente dinanzi, entro il raggio luminoso proiettato dal fanale, una tigre. Era quella che aveva portato via il corriere o la sua compagna? Kammamuri non se lo chiese due volte. La belva, abbagliata dalla luce, si era bruscamente fermata, brontolando sordamente. Era il buon momento per far fuoco e quasi a brucia pelo. La grossa carabina rimbombò come una spingarda sotto i folti vegetali rumoreggiando stranamente, e quasi nello stesso tempo si udí un urlo terribile. La bâgh era stata mitragliata, a soli cinque metri di distanza, in pieno muso. — Ah, ci sei, amica! — disse Kammamuri, impugnando una pistola. — Devo averti accecata completamente, e devo averti strappato il naso. Si avanzò con precauzione, spingendo sempre avanti il fanale, e poco dopo vide distesa e senza vita la belva che aveva colpita. — L’ho sempre detto io che le nostre grosse carabine malesi sono le meglio adatte per le grosse cacce! — mormorò Kammamuri. Proiettò la luce sulla bâgh e vide subito che non si era ingannato. Le grosse pallottole avevano strappato occhi, naso e labbra prima di conficcarsi nel cervello. La testa era irriconoscibile, e perdeva sangue da dieci o quindici ferite. — Ora che ho sbrigata la via, pensiamo al corriere — disse Kammamuri. — Io ho fatto tutto ciò che era umanamente possibile, e se non lo troverò vivo non sarà colpa mia. Ben pochi cacciatori avrebbero osato fare altrettanto. Diede un nuovo sguardo alla tigre, la quale non si agitava piú, e si avanzò nuovamente proiettando dinanzi a sé la luce del fanale e gridando: — Conduttore! Vedi questa luce che si avanza? -. Nessuno rispose. Kammamuri sentí bagnarsi la fronte d’un sudore freddo, ed affrettò il passo, gridando ancora: — Ehi, corriere, sei vivo o morto? Se sei solamente ferito, rispondi perché io possa sapere dove dirigermi. Anche questa volta silenzio assoluto. Il vento notturno era cessato, e le alte cime dei bambú non frusciavano piú. Il maharatto, terribilmente impressionato, stava per chiedersi se non sarebbe stato piú prudente tornare verso la vettura postale quando urtò contro qualche cosa andando a gambe levate. Quantunque non piú giovane, era sempre agile come una pantera, sicché in un momento fu di nuovo in piedi, col fanale ancora acceso ed intatto. Un grido d’orrore gli sfuggí. Aveva urtato contro il cadavere del corriere, il quale era quasi sepolto sotto un ammasso di foglie secche. — Morto! — esclamò. — Ah, disgraziato! Si curvò su quel misero corpo e lo scoprí, mandando qua e là le foglie. — Il rajaputo aveva ragione — mormorò rabbrividendo. — Sono giunto troppo tardi! La tigre aveva fatto scempio del povero conduttore della corriera postale. Mezza faccia era stata strappata, un braccio mozzato, ed il petto, squarciato da uno spaventoso colpo d’unghia, mostrava i visceri. Non vi era nulla da fare. Non rimaneva che fuggire in fretta per accorrere in aiuto del rajaputo, il quale forse era ancora spiato dalla seconda tigre. Kammamuri lasciò ricadere il cadavere, lo ricoprí di foglie, riprese il fanale e si mise in corsa. Quell’uomo, che tante belve aveva abbattute, insieme con Tremal-Naik, nelle Sunderbunds del Gange, cominciava a sentirsi invadere da un terrore invincibile. E correva, correva come un pazzo, tenendo la pistola puntata, poiché non aveva piú pensato a ricaricare la carabina. E non aveva torto di perdere la sua audacia ed il suo sangue freddo, dopo aver dato cosí grande prova di coraggio. Non è solamente colle tigri che si ha da fare nelle umide e tenebrose jungle. Ben altri animali, non meno pericolosi, possono apparire da un momento all’altro dinanzi all’uomo che osa attraversarle, e straziarlo a colpi d’unghie, o fulminarlo con un veleno potente, o stritolarlo. L’Indostan è la regione dove le belve sono in maggior numero che in qualunque altro paese del mondo. Le stragi che compiono le tigri, i leopardi, ed i serpenti soprattutto, sono incredibili. Neppure le grandi battute degli ufficiali inglesi, i quali possono disporre di elefanti ammaestrati, di bande di cani e di schiere di cipai a cavallo, non hanno mai diminuito il numero delle belve feroci, cosí avide della carne umana. Kammamuri, che conosceva tutti i pericoli della maledetta jungla, aveva ben ragione dunque di essere inquieto, anzi spaventato. Oltre a temere della seconda tigre poteva accadergli di mettere i piedi su qualche cobra o su qualche pitone, e cader morto prima di aver riveduto il fedele rajaputo. Fortunatamente aveva sempre il fanale e tutte le bestie, come si sa, temono la luce, specialmente se viene proiettata direttamente su di loro. Dopo avere percorso piú di duecento metri, s’accorse, con suo grande spavento, di aver preso un altro sentiero che forse non lo avrebbe condotto alla vettura postale. — Ho perduto la via! — esclamò, fermandosi di colpo. — Durerà questo fanale tanto da permettermi di raggiungere il rajaputo? Quale pazzia ho commesso ad andare in cerca del corriere! E fossi almeno riuscito a salvarlo! Aveva ripreso il suo sangue freddo. Il suo cuore e le sue tempie, non battevano piú come prima quando pareva volessero spezzarsi. Ben altre terribili avventure aveva affrontate nella Jungla nera abitata, oltre che dalle belve, dagli strangolatori di Rajmangol. Scosse la lampada ed un sospiro di soddisfazione gli uscí dalle labbra. Era ancora quasi piena, quantunque da due ore bruciasse. Forse il corriere l’aveva riempita prima di giungere nei pressi della trappola. — E quel povero rajaputo che cosa penserà di me non vedendomi ritornare? Se fosse fuggito sul carrozzino? No, è impossibile; quell’uomo è troppo fedele e non ha paura. Sono certo di ritrovarlo presso i cavalli. Illuminò tutt’intorno il terreno per vedere se vi erano dei rettili, depose il fanale, si appoggiò ad un bambú, e sua prima precauzione fu di ricaricare la carabina a mitraglia. Già, nelle pistole non aveva molta fiducia, quantunque quelle indiane siano armi buonissime, di una portata abbastanza lunga e di sufficiente penetrazione. — Orsú, andiamo in cerca del rajaputo — disse. — In due ci difenderemo meglio; e poi noi dobbiamo riprendere al piú presto il nostro viaggio, se vogliamo salvare il signor Yanez, il mio padrone ed il signor Sandokan. Resisteranno ancora? Io lo spero perché hanno cavalli, elefanti e mitragliatrici. Si guardò ancora intorno, poi rassicurato un po’ dal silenzio che regnava nella jungla, si mise in moto cercando di orientarsi. Ma non era cosa facile fra tutti quei vegetali, che sorgevano ad ogni passo sempre piú alti, sempre piú fitti e avvinghiati da piante parassite. Kammamuri stava per oltrepassare una specie di cortina vegetale formata da spessi calamus, quando udí dietro di sé un fruscío. — Un altro seccatore! — mormorò. — Vediamo se si tratta di un seccatore o di una seccatrice. Ad ogni modo ha da fare i conti colla mia carabina, questo importuno, sia maschio o sia femmina. Stette fermo un minuto, ascoltando sempre, e gli parve udire un grugnito. Kammamuri depose la lanterna al piede di un grosso albero di tamarindo e stette in ascolto. Un’ombra nera si disegnò nel cerchio di luce proiettato dalla lanterna. — To’, chi si vede! Ti conosco bene io, e conosco pure le tue brutte abitudini — mormorò il maharatto, mettendosi al riparo dietro il tronco del tamarindo. Era un animale strano che nulla aveva che fare colle tigri e coi leopardi: un animale dal corpo tozzo e corto, le zampe basse, il muso assai sporgente e terminante in una specie di triangolo. Il suo corpo era coperto da un folto pelame quasi lucido. L’orso si era alzato sulle zampe deretane e si precipitava innanzi furiosamente urlando e dimenando le zampe anteriori, pronto ad affondare le sue robuste unghie nella carne del disgraziato. Si sa già che il prode maharatto possedeva il sangue freddo di Yanez, perciò non perdette affatto la testa. La Tigre della Malesia si sarebbe lanciata all’attacco anche armata di un semplice coltello, e fors’anche Tremal-Naik. Prese la mira e sparò a tre soli passi di distanza. L’orso ricadde sulle sue quattro zampe mandando un urlo feroce, poi si slanciò di gran corsa attraverso la jungla con una rapidità sorprendente. Pareva che un uragano lo spingesse. In un momento, prima ancora che il maharatto avesse avuto il tempo di mettere mano alle pistole o alla scimitarra, fu fuori di vista. Si era ricacciato nella jungla portandosi probabilmente in corpo la palla di carabina. — Corri pure — disse Kammamuri — ma non andrai molto lontano. Ti ho tirato a bruciapelo, e nel momento in cui sparavo le mie mani non tremavano. Io non ho il sangue ardente del signor Sandokan. Si permise il lusso di riposarsi cinque minuti, niente affatto spaventato dagli urli dei coccodrilli nuotanti fra le fangose acque della jungla inondata, ricaricò l’arma e si rimise in cammino, deciso a raggiungere il rajaputo prima che le sue forze messe cosí a dura prova, lo tradissero. Camminava come l’ebreo errante, o, meglio, come un ebbro, colle pupille dilatate e il cuore palpitante. Si sentiva ormai completamente sperduto e non sapeva piú da qual parte dirigersi. Luccicavano bensí nel cielo le stelle, ma sotto gli alti bambú regnava sempre un’oscurità paurosa. Kammamuri rifece il sentiero che aveva percorso, e giunse ben presto presso la macchia degli alberi del ferro che gli aveva servito di rifugio. Ad un tratto un grido di lieta sorpresa gli sfuggí dalle labbra. Egli aveva inciampato nel corpo dell’orso. — Morto! — disse Kammamuri, respirando a lungo. — Mi rincresce; ma la mia pelle credo valga ancora qualche cosa. Un gurú mi ha predetto che camperò quanto un coccodrillo. Ma io non lo so quanto vivono quelle bestiacce. Estrasse la scimitarra, un’arma affilatissima e pesante, si accostò alla bestia, e con pochi colpi gli staccò una zampa deretana. — Ci servirà domani — mormorò. — Abbandonare tutto agli sciacalli, che non hanno fatto nulla per guadagnarsi la cena, non va. Tolgo loro almeno uno dei migliori bocconi. Il rajaputo, se sarà ancora vivo, non si mostrerà scontento di questo regalo. Si legò lo zampone dietro le spalle con una solida funicella, e riprese l’interminabile marcia, cercando di giungere al grande strappo della jungla, il solo che avrebbe potuto guidarlo alla corriera postale. Kammamuri tentò un’ultima volta di orientarsi, e dopo aver percorsi appena cinquecento metri, si trovò improvvisamente dinanzi al grande strappo. — Sono salvo! — esclamò. Levò la pistola e sparò due colpi, con un po’ d’intervallo fra l’uno e l’altro, per richiamare l’attenzione del rajaputo, non credendo ancora che fosse morto o fuggito, e si mise in ascolto. Pochi secondi dopo echeggiavano altre due pistolettate, sparate forse alla distanza di cinquecento metri. — Ah, il brav’uomo! — gridò Kammamuri. — È l’unico rajaputo veramente fedele. E con uno sforzo supremo si slanciò a corsa disperata, gridando a pieni polmoni: — Tieni fermo! Vengo! In quel momento il fanale si spense, ma, come abbiamo detto, la notte era abbastanza chiara, e la via ormai cosí ben delineata che era difficile smarrirsi un’altra volta. Correva da un mezzo minuto quando udí le sonagliere dei cavalli tintinnare. Il rajaputo segnava con quelle il posto ove si trovava senza sprecare altre munizioni, diventate troppo preziose, specialmente in quei momenti. Colle mani fece portavoce, e gridò forte: — Sei tu, rajaputo? — Sí — rispose quasi subito una voce assai vicina. — Vivo ancora? — Credo di sí, perché rispondo. — Ti porto la cena. — Ed io, sahib, preparerò un bel fuoco. — I cavalli sono fuggiti? — Ah, no! Non fuggirebbe nemmeno un orso sotto le mie mani — rispose il rajaputo, alzando la sua poderosa voce baritonale. — Eccomi! — Ti aspetto, sahib. Kammamuri, quantunque si sentisse completamente sfiatato, si dette un ultimo slancio e andò a cadere addosso ai tre cavalli della vettura postale, le cui zampe non erano state ancora liberate dalle cinghie. Il rajaputo, il quale aveva già acceso un bel fuoco, corse verso di lui, lo sollevò fra le robuste braccia e lo coricò sui due cuscini della leggera vettura. — Sahib, — disse — tu sei sfinito. — Lo credo — rispose Kammamuri. — Cammino da cinque o sei ore senza un istante di riposo. Dimmi: l’hai uccisa la seconda tigre? — Non ancora; gira e rigira intorno alla vettura. — Io ho ammazzato la prima. — E qualche altra bestia ancora, mi pare — disse il rajaputo. — Hai un bello zampone d’orso appeso dietro le spalle. — Guadagnato duramente! — esclamò il maharatto. — Ah, che notte terribile! — Perché sei stato assente tante ore? — Mi ero sperduto nella jungla e non sapevo piú trovare la via del ritorno. Lasciami riposare cinque minuti, ed intanto infilza nella bacchetta di acciaio della tua carabina lo zampone d’orso. Sono quarantott’ore che noi non mangiamo. — Il mio ventricolo è perfettamente vuoto, sahib. Domanda imperiosamente qualche cosa per riempirsi. — E tu prepara l’arrosto. — E la seconda tigre, sentendo il profumo d’un cosí bel pezzo di carne, non tornerà piú ferocemente all’assalto? — Io non sono ancora morto, e la mia carabina è scarica. Se la bestia ritorna, tirami le gambe. — Sí, sahib, tu hai un gran bisogno di riposarti. Lascia fare a me. Io non soffro per il sonno; d’altronde, io sono sempre stato a sedere mentre tu camminavi. Vieni qui, còricati e fidati di me. Non chiuderò gli occhi finché la bestiaccia farà udire il suo orribile ha-o-hung. Ma tu hai ancora il fanale!... C’è una bottiglia d’olio per riempirlo: l’ho trovata nel cassetto. Che cosa vuoi di piú? Dormi finché l’arrosto si cucina. Il maharatto, completamente esaurito dalla fame, dalla stanchezza ed anche dalle emozioni, si lasciò cadere sui due cuscini della carrozza. Intanto il bravo rajaputo, non meno affamato, colla bacchetta d’acciaio del fucile e due rami forcuti aveva cominciato ad arrostire il magnifico zampone d’orso, pesante non meno di quaranta chilogrammi e ben grasso. Aveva raccolta molta legna secca, vecchi bambú ormai morti, e continuava ad alimentare il fuoco. Gli sprazzi di luce, ora infocati ed ora giallastri, si proiettavano sulla jungla, e gli sciacalli, attirati in buon numero dal profumo dell’arrosto, urlavano rabbiosamente. Il rajaputo, ormai rassicurato per la presenza del maharatto, che come cacciatore valeva dieci uomini, continuava a girare lo schidione lanciando di quando in quando degli sguardi sospettosi verso il margine della gigantesca macchia, temendo sempre di veder improvvisamente scintillare gli occhi fosforescenti della seconda bâgh, la quale non doveva essersi certamente allontanata. Piú che altro osservava i cavalli per vedere se davano segno d’inquietudine. I tre corridori, sdraiati accosti l’uno all’altro colle zampe sempre ben legate, stavano tranquilli, quantunque gli urli degli sciacalli risonassero piú acuti che mai, lacerando gli orecchi meglio conformati. Era buon segno. Se la bâgh si fosse trovata vicina, non avrebbero mancato di segnalarla con dei sonori nitriti. Kammamuri dormí tranquillo un paio d’ore, poi fu svegliato dalla voce sonora del rajaputo. — Sahib, la cena è pronta. — Cena o colazione? — chiese Kammamuri dopo un paio di sbadigli. — L’alba non è ancora sorta, e credo che dovrà passare qualche ora prima che il sole si decida a lasciare il suo letto. — E la tigre? — Non ne ho avuto piú nessuna nuova — rispose il rajaputo — ma sono piú che mai convinto che si aggiri silenziosamente attorno al nostro piccolo accampamento in attesa del momento buono per lanciarsi all’attacco. Sai come fanno quelle bestiacce che hanno l’anima della sanguinaria dea Kalí. — Raddoppieremo la vigilanza — rispose Kammamuri. — Si potrebbe allontanarla lanciando attraverso la jungla uno dei nostri cavalli. Ormai, essendo morto il corriere, a noi bastano due. — Volevo farti anch’io questa proposta, sahib — rispose il rajaputo. — Sarebbe l’unico mezzo per sbarazzarci di quel pericoloso vicino. — Prima ceniamo, poi vedremo se converrà sacrificare uno di questi bravi corridori. — Vorresti raggiungere le montagne con la vettura postale? — Non lo spero, ma un cavallo di ricambio sta sempre bene. — Sicché lasceremo qui la posta? — È necessario. — Ed i banditi di Sindhia, si siano allontanati o veglino ancora sui margini della jungla? — Lo sapremo piú tardi. Kammamuri aprí il cassetto della leggera vettura e vi trovò dentro una ventina di biscotti, quattro bottiglie di birra ed una buona provvista di tabacco. Vi era inoltre una fiasca di latta che conteneva dell’olio per il fanale. — Siamo ricchi! — esclamò. — Se la signora tigre non verrà a disturbarci, noi faremo una splendida cena. Scommetterei che vi prenderebbero parte volentieri anche il Maharajah, il mio padrone ed il signor Sandokan. — Forse a quest’ora stanno divorando la proboscide o il piede di qualche elefante, due bocconi riservati ai rajah. — La carne certo non manca nemmeno a loro — rispose Kammamuri. — Anzi ne hanno in abbondanza. Si guardò intorno, ed avendo scorto alla luce del falò un giovane banano, andò a staccarne una foglia lunga un paio di metri e larga piú di mezzo, la quale poteva benissimo servire da piatto. Prima di mettersi a mangiare il rajaputo tagliò le pastoie a uno dei cavalli, dopo di avergli messo al collo una sonagliera. Il cavallo balzò in piedi, aspirò fragorosamente l’aria e poi partí, ventre a terra, facendo tintinnare in modo indemoniato la sonagliera. Dopo pochi istanti era scomparso. — Ora possiamo cenare tranquilli — disse il rajaputo. — La bâgh almeno per il momento non penserà a noi. — E se t’ingannassi? — disse Kammamuri. — Sai bene che i mangiatori d’uomini preferiscono le bistecche umane a quelle dei cervi, che sono piú tenere e piú succulente. — Speriamo che quella bestia maledetta non lo sappia ancora. Orsú, sahib, l’arrosto si raffredda. I due valorosi si sedettero intorno al falò, il quale fiammeggiava rapidamente crepitando e lanciando in aria nembi di scintille, e tagliarono il superbo zampone cucinato a puntino. In lontananza si udiva sempre echeggiare la sonagliera del corridore. Ora pareva che si avvicinasse, ora che si allontanasse. La lotta fra il nobile animale e la belva feroce doveva essere ormai stata impegnata, ed era una lotta a base di fughe e di ritorni improvvisi che dovevano stancare a poco a poco i due avversari. Se il primo avesse trovato dei nuovi squarci fra la jungla, avrebbe avuto molte probabilità di sfuggire a tutti gli attacchi, poiché la bâgh, malgrado la sua forte muscolatura ed il suo slancio impetuoso, non resiste affatto alla velocità. È un animale che ha sempre preferito gli agguati e le sorprese improvvise agli inseguimenti. Kammamuri ed il rajaputo, piú che certi di non venire per il momento disturbati, avevano dato un assalto formidabile all’arrosto, innaffiandolo colle bottiglie di birra trovate nel cassetto della vettura postale ed accompagnandolo con degli eccellenti biscotti. Tenevano bensí sulle ginocchia le carabine perché non erano perfettamente tranquilli. La bâgh poteva tentare qualche improvviso ritorno, anche se il corridore continuava a galoppare, facendo echeggiare sempre la sonagliera. — Credo di averne abbastanza — disse il rajaputo che aveva mangiato per due. — D’altronde ero in arretrato di tre pasti. — Ti senti in forze? — chiese Kammamuri, accendendo la pipa. — Ora sí, sahib. — Se noi approfittassimo per fuggire della caccia che dà la bâgh al corridore? — Era infatti quello che pensavo anch’io. E credi convenga scappare sulla corriera? — Per ora sí — rispose Kammamuri. — Il carrozzino è leggero e andremo come il vento. — E torneremo sulla gran via che conduce alle montagne, o tenteremo la traversata della jungla? — Non troveremo passaggi sufficienti. Ritorneremo attraverso il grande strappo. — E se gli uomini del rajah ci attendessero allo sbocco? — Daremo battaglia — rispose Kammamuri alzando le spalle. — Quanti colpi hai tu ancora? — Sono ben fornito. — Allora sbrighiamoci. Attraverso la tenebrosa jungla si udiva sempre la sonagliera del corridore, ora battere rapida ed ora lentamente. Il povero animale, non avendo trovato dei passaggi, volteggiava furiosamente, e pareva che tentasse di avvicinarsi al falò per mettersi sotto la protezione degli uomini. — Non aspettiamo il suo ritorno — disse Kammamuri. — Ormai quella bestia è perduta, e presto o tardi cadrà sotto i denti di qualche grosso carnivoro. Avvolsero lo zampone nella foglia di banano, lo misero nel cassetto della vettura insieme con due bottiglie di birra ed una dozzina di biscotti, poi tagliarono le cinghie che stringevano le zampe ai due cavalli. — Attento! — gridò Kammamuri. — Bada che non scappino. — Tengo le bestie per le narici, e tu sai se io sono forte. — Tieni fermo un momento solo. Prese il fanale, lo riempí rapidamente di olio e lo accese. — Se sarà necessario lo spegneremo piú tardi — borbottò. Lo mise a posto, salí a cassetta raccogliendo le briglie, strinse la frusta, e gridò al rajaputo: — Su, monta dietro di me. Il cavallo di mezzo ed il secondo corridore di volata cominciarono subito a impennarsi e parevano impazienti di riprendere lo slancio e filare fino all’esaurimento completo delle loro forze. In quel momento si udí squillare vicinissima la sonagliera dell’animale che era stato posto in libertà per offrire alla ingorda bâgh una cena. Si era accorto che la carrozza stava per ripartire, ed accorreva, quantunque ormai esausto, a compiere il suo dovere. — Dobbiamo aspettarlo? — chiese il rajaputo. — Ormai quel povero corridore non vale piú nulla. Dopo avere percorse due o tre miglia cadrebbe per non piú rialzarsi. Rincresce anche a me abbandonarlo e non potere... Si interruppe bruscamente, facendo schioccare la frusta, mentre il rajaputo armava la carabina. Un sonoro nitrito era echeggiato sul margine della jungla, seguíto dal ben noto urlo della bâgh sanguinaria. La sonagliera tintinnò per qualche istante, poi i campanelli diventarono ad un tratto muti. Il povero corsiero, dopo aver tentato venti fughe, aveva finito col cadere sotto gli artigli della belva che l’aspettava al varco, imboscata fra i bambú. — Via! — gridò il rajaputo, sparando a casaccio un colpo a mitraglia. — Via, sahib! Il maharatto frustò vigorosamente mandando il grido dei corrieri. I due cavalli, che avevano avuto già quattro o cinque ore di riposo, partirono ventre a terra, ricacciandosi nel grande squarcio. — Sahib — gridò il rajaputo — ricordati della fossa dei rinoceronti. La troveremo sul nostro cammino. — Lo so — rispose il maharatto, frustando sempre. Il leggero legnetto dalle altissime ruote correva come se fosse trasportato da un uragano. Ma trabalzava orribilmente nel varcare gli ostacoli che incontrava. Pareva che da un momento all’altro dovesse andare tutto a pezzi. Percorso qualche miglio, Kammamuri fermò i cavalli. Ormai non vi era piú pericolo che la tigre li assalisse. Era rimasta troppo indietro, e poi in quel momento doveva essere troppo occupata a divorarsi il cavallo. — Mancherà molto a giungere alla trappola dei rinoceronti? — chiese il rajaputo, il quale aveva paura d’un altro capitombolo, che non sarebbe certo riuscito cosí fortunato come il primo. — Non credo — rispose Kammamuri, il quale teneva bene strette le briglie. — Non dobbiamo essere lontani, poiché i cavalli hanno filato come uno steamer lanciato a tutto vapore. — Sii prudente. — Mi ci vorrebbero gli occhi del cacciatore di topi. Disgraziatamente io non li posseggo. — Sai che nel fondo della fossa ci sono dei pali aguzzi? — Lo so purtroppo, e... In quel momento i due cavalli s’inalberarono violentemente, poi cominciarono a dare indietro minacciando di rovesciare il carrozzino. Il rajaputo saltò subito a terra e si slanciò avanti col fanale. — Sahib — disse — siamo vivi per miracolo. La fossa non si trova che a pochi metri da noi. — Prendi i cavalli per le briglie e giriamo prudentemente intorno all’apertura. Uno scarto, e noi piomberemmo sulle carcasse dei nostri mongoli e del rinoceronte. — Terrò bene stretti i morsi. — Vi è posto per passare? — Sí; non vi è molto spazio, ma è sufficiente. Frusta questi maledetti sciacalli che tentano di mordermi le gambe. Intorno alla trappola galoppavano rabbiosamente lupi e sciacalli, attirati dall’odore delle carogne che si corrompevano rapidamente, e non sapevano come fare per addentarle. Alcuni, piú ingordi, erano già precipitati nella trappola o mugolavano disperatamente senza pensare a satollarsi delle carni dei due cavalli e del rinoceronte. Erano destinati a morire di fame fra tanta abbondanza! — Ingombrano il passo? — chiese Kammamuri al rajaputo. — Cominciano a stringersi addosso a noi, sahib, ed i cavalli sono un po’ spaventati. Faccio una fatica enorme a trattenerli. — Farò fumare la pelle di quelle bestiacce — disse Kammamuri, balzando a terra armato della lunga frusta. I mangiatori di carogne sembravano in vena quella notte di tener testa anche agli uomini, e si spingevano minacciosamente innanzi, urlando spaventosamente. Kammamuri, che sapeva bene quanto fossero poco pericolosi, anche se raccolti in gran numero, si era spinto dinanzi ai cavalli e frustava senza misericordia. La lunghissima correggia faceva prodigi. Strappava peli e pezzi di pelle insieme, grondanti sangue. Il rajaputo intanto teneva ben fermi i cavalli per il morso, e li guidava presso l’orlo della fossa. Vi era spazio sufficiente per la leggera vettura del corriere, quantunque il passaggio fosse ingombro di bambú abbattuti dalla furiosa carica degli elefanti o dei rinoceronti. Le ruote trabalzavano scricchiolando, come se tutti i raggi da un momento all’altro dovessero spezzarsi. Gli sciacalli finalmente retrocessero dietro la grandine di frustate scagliate dal maharatto sempre piú terribili, ed il carrozzino poté passare e giungere all’imboccatura del grande squarcio. — Sali finché li trattengo colle briglie — disse Kammamuri, montando a cassetta. — Sí, sahib — rispose il rajaputo, lasciando i morsi. — Vedi nulla dinanzi a noi? — Nemmeno io ho gli occhi del cacciatore di topi. — Sali, sali, e bada al fanale. Il gigante fece di corsa il giro della carrozza, ed a sua volta salí a cassetta. In quel momento parve al maharatto di scorgere una grande ombra sul lato opposto della fossa. — Morte di Siva! — gridò. — Che sia un rinoceronte? Eviteremo il suo attacco, o faremo un altro brutto salto dentro la trappola. — Ma che rinoceronte! — esclamò il rajaputo. — È il cavallo di volata che ci segue ancora. — Senza campanelli? — La bâgh durante la lotta può averglieli strappati. — Uhm! In questo momento non vorrei essere al posto di quel disgraziato. La vettura postale si era rimessa in corsa e filava e filava, sempre trabalzando orribilmente. Perfino il fanale in certi momenti pareva che dovesse spegnersi per via delle scosse. La grande breccia fu percorsa in pochi minuti, e i due fuggiaschi si trovarono improvvisamente nella vasta pianura battuta dai banditi di Sindhia. — Alto! — gridò il rajaputo. Il maharatto aveva già con una violenta strappata arrestati i cavalli e spento subito il fanale. CAPITOLO X. IL «GURÚ» — E i cavalli come vanno? — chiese Kammamuri. — Sono sfiniti — rispose il rajaputo — e non so se dureranno ancora una mezz’ora. I loro polmoni soffiano come mantici, ed i loro fianchi pulsano febbrilmente. Non ne possono piú. Io credo che con queste bestie non giungeremo mai sugli altipiani di Sadhja. — Non hai fatto una bella scoperta — rispose Kammamuri. — Per salire lassú, ci vorrebbe un buon elefante. — Dove trovarlo? — Ve ne sono molti di selvaggi nelle foreste di questo vasto impero. Va’ a prenderne uno, educalo in modo che ti obbedisca subito... — Per perdere qualche mese, sahib? — Anche tre, mio caro — rispose il maharatto. — Sicché saremo costretti a tirare innanzi con queste povere bestie che sono ormai bolse. Non so che cosa dire. Tutte le divinità dell’India proteggono quel furfante di Sindhia... Ah, là! — Che cosa c’è? — Una piccola pagoda. — Una pagoda in questi luoghi? — L’ho veduta, e basta. — Sarà abitata? — Andremo a vedere. Mi pare d’aver veduto un piccolo getto di luce riflettersi forse su un vetro. — E ci fermeremo? — Non vedi che i cavalli non si tengono piú in piedi? Ancora un po’ che corrano, e noi li vedremo morire. — Fa’ come vuoi, sahib, — rispose il rajaputo sempre remissivo. Sul margine della jungla era comparso improvvisamente un edificio altissimo, a piú piani, di forma rettangolare. Non poteva essere che un tempio, poiché nessun villaggio poteva trovarsi in quel luogo. Incontrare delle pagode anche in mezzo alle folte jungle è una cosa abbastanza comune in India. Se non sono pagode, sono moschee, le quali per altro si trovano piú numerose verso occidente, nei dintorni di Benares la santa. Kammamuri rallentò la corsa e si diresse verso la pagoda, a una finestra della quale, al secondo piano, brillava un lume. I poveri animali si avanzarono a piccolo trotto, soffiando e nitrendo lamentosamente, poi tutti e due caddero, quasi nello stesso tempo, spezzando le stanghe della vettura. — Morti? — chiese il rajaputo, saltando lestamente a terra. — Non potranno ormai che servire da cena agli sciacalli — rispose il maharatto con voce alterata. — È finita. Siamo senza bestie. — Hanno resistito abbastanza. — Potevano resistere un po’ di piú! Accendi il fanale, e andiamo a chiedere ospitalità ai sacerdoti di questa pagoda. — Io trovo che tutto va di male in peggio. Il Maharajah poteva rimanere nelle cloache. I banditi di Sindhia non avrebbero mai osato di andarlo a scovare. — E che cosa davi tu intanto da mangiare agli elefanti ed ai cavalli. Il tuo immenso turbante che non è nemmeno composto di paglia? — Io sono sempre una bestia piú grossa d’un rinoceronte, sahib — rispose il rajaputo, il quale aveva acceso il fanale. Presero i pochi biscotti che ancora rimanevano, due bottiglie di birra, le ultime, presero le carabine, e dopo essersi ben accertati che i cavalli non davano piú segno di vita, salirono la gradinata della pagoda, assai ampia e decorata da certi leoni di pietra, che parevano piuttosto animali immaginari, e si arrestarono dinanzi ad una enorme porta di bronzo tutta scolpita. Kammamuri avendo veduto un pesante martello pure di bronzo, lo alzò e lo lasciò ricadere con tutta forza producendo un rumore assordante. — Tu sfondi le porte — disse il rajaputo sorridendo. — È troppo solida questa per cedere — rispose il maharatto. — Guarda se il lume è scomparso. — È disceso al piano terreno. Brilla attraverso i vetri mezzo infranti. Chi sarà l’abitatore di questa pagoda, un bandito od un sacerdote? — Se anche fosse un bandito non ci farebbe paura — rispose Kammamuri un po’ esasperato. Tornò a picchiare rabbiosamente, facendo rintronare il tempio, ed armò la carabina. Una voce chioccia, quasi fessa, chiese poco dopo di dietro la pesante porta di bronzo: — Chi siete? — Dei viaggiatori smarriti che domandano ospitalità — rispose Kammamuri. — I nostri cavalli sono morti e non sappiamo dove rifugiarci. — Tutti i templi dedicati a Siva sono sempre aperti ai disgraziati. Ditemi solo se non siete dei paria. — No; apparteniamo alle alte caste guerriere, e siamo seguaci di Siva, il buon dio che mise pace fra Brahma e Visnú salvando il mondo. — Comprendo che tu sei un uomo istruito. Aspetta un momento. La porta è pesante, ed io son molto vecchio e quasi senza piú forze. — Chiacchierone! — brontolò il rajaputo. — Ci fa perdere del tempo inutilmente. Si udirono dei grossi chiavistelli scorrere con uno stridío acuto, poi finalmente la porta si aprí con precauzione, ed un filo di luce si proiettò al di fuori, ma senza vincere quella che mandava la lanterna della vettura postale, che Kammamuri aveva accesa. — Avanti! — disse la voce fessa. I due fuggiaschi spinsero la pesantissima porta con tutte le loro forze e si trovarono dinanzi ad un vecchio di statura altissima, secco come il manico d’una scopa, col viso quasi incartapecorito, ma sul quale spiccavano due occhietti brillantissimi. Indossava un lungo dugbah di cotonina piú o meno gialla; aveva in capo un piccolo turbante, e la sua fronte era tutta coperta di cenere con tre stelle che spiccavano in azzurro nel mezzo. — Un gurú! — esclamò Kammamuri. — Avanti — disse il vecchio. — Non avete nulla da temere. Non ho armi. I due fuggiaschi entrarono e si trovarono in una immensa sala quasi spoglia, ma sulle cui pareti si scorgevano degli strani geroglifici, che ricordavano qualche versetto dei giangunias grossolanamente dipinti. Solamente all’estremità troneggiava una statua piuttosto informe, con due teste e quattro braccia, e che voleva forse rappresentare Siva. I gurú sono dei sacerdoti abbastanza strani. Come i bramini si astengono da ogni specie di carne e da tutto quanto ebbe un principio di vita animale, le uova comprese. Invece di bruciare i morti, come i sacerdoti di Brahma e di Visnú, li seppelliscono; ma essi non credono nella metempsicosi. Alcuni vivono ritirati in piccole pagode, per lo piú vecchie e cadenti. Gli altri invece preferiscono la vita randagia, e se ne vanno attraverso le campagne ed i villaggi mendicando, non sempre veduti volentieri, poiché la prima cosa che fanno è quella di cacciare di casa il padrone ed i figli maschi per fare compagnia alle mogli ed alle figlie. Ma nessuno oserebbe respingerli, poiché sarebbe un peccato imperdonabile. Non si tratta di una bazzecola! Si tratta di andare diritti all’inferno e restare immersi nell’olio bollente, pieno di serpenti velenosi i quali non restano mai cotti, e come questo avvenga bisognerebbe domandarlo a quei bravi sacerdoti. Si tratta insomma di una pena che non garba a nessun indiano, il quale preferisce venir bruciato tranquillamente sopra una grossa catasta di legna bene innaffiata di materie resinose liquide. — Siete voi gli uomini che ho veduto poco fa correre attraverso la pianura su un carrozzino tirato da due focosi cavalli? — Sí, gurú — rispose Kammamuri dopo aver fatto un profondo inchino. — Le bestie sono morte dopo una lunghissima e sfrenata corsa. — Vi erano delle persone che vi davano la caccia o delle tigri? — Alcuni furfanti da due giorni ci stanno alle calcagna per ammazzarci. — Chi sono quegli uomini? — Dei banditi assoldati da Sindhia. — Il rajah pazzo! — gridò il gurú, mentre i suoi occhi s’illuminavano d’una luce sinistra. — È tornato qui quel nefasto principe? — Ha conquistato ormai già mezzo Assam; la capitale non esiste piú, perché è stata bruciata. — E perché quei banditi volevano uccidervi? — Perché siamo corrieri del Maharajah e della rhani, incaricati di una difficilissima missione. Il gurú si passò una mano sulla fronte come se cercasse di rievocare dei lontani ricordi, poi disse con voce stridula, che risuonò stranamente nel tempio assai sonoro: — Sindhia! Ah, non ho mai dimenticato quell’uomo, che per divertirsi mi fece frustare come un cane. Quel pazzo valeva suo fratello... Siete soli? — Soli. — Sono molti gli uomini che vi inseguono? — Una ventina almeno, se non di piú. La fronte del gurú si aggrottò. — Troppi! — disse poi. — Io non so maneggiare nessuna arma, quindi non potrei aiutarvi a respingere il nemico, e poi io sono un sacerdote e non un guerriero. — Credete che possano entrare qui non ostante la grossa porta di bronzo? — chiese Kammamuri. — Le finestre sono facili a scalarsi, e le inferriate non resisterebbero all’urto d’una piccola trave. — Non vi sono dei sotterranei qui? — Sí; dove riposano, forse da migliaia e migliaia d’anni, dei famosi guerrieri. Vi sono piú di cinquanta tombe. Kammamuri guardò il rajaputo, il quale era rimasto sempre silenzioso e perfettamente tranquillo. — Avresti paura tu di andare a riposarti per questa giornata sopra le ossa di qualche famoso guerriero? — Io non ho mai avuto paura dei morti — rispose il gigante, facendo udire per la prima volta al gurú la sua poderosa voce. — Ma perché mi fai questa domanda, sahib? — Perché se i banditi giungono, noi andiamo a nasconderci dentro due tombe. — Non sarà un alloggio allegro. — Allora rimani tu solo a respingere tutti i banditi di Sindhia che forse fra poche ore saranno qui. I bisonti impediranno loro per il momento di avanzarsi, ma è certo che finiranno col passare. — Perché ti chiama sahib? — chiese il gurú a Kammamuri, osservandolo attentamente. — Perché sono un principe maharatto — rispose il vecchio cacciatore. — Grandi guerrieri quei maharatti! E perché ti trovi qui? — Mi ero arruolato sotto le bandiere del Maharajah. — Avete fame? — Per ora no. Abbiamo piuttosto bisogno di dormire un paio d’ore, se i banditi di Sindhia ci lasceranno tranquilli. Andiamo intanto a visitare il sotterraneo e le tombe. Il gurú si curvò in avanti tendendo gli orecchi, poi disse: — Sono gli sciacalli che divorano i vostri cavalli. Siva poteva ben mandar loro una qualche terribile maledizione. Gli uomini che vi danno la caccia devono essere ancora molto lontani. Venite. Alzò il lumicino, mentre Kammamuri faceva sfolgorare il fanale della vettura postale, e dopo d’aver attraversata tutta la pagoda, si fermò dinanzi ad una porticina, pure di bronzo, che si aprí sotto lo scatto d’una molla. Apparvero subito dei gradini coperti di muffe umide, che potevano nascondere anche qualche rettile, e poi i tre uomini si trovarono in un sotterraneo abbastanza vasto, occupato tutto da una cinquantina di sarcofaghi di pietra che dovevano essere ben pesanti, e che dovevano racchiudere le spoglie d’illustri personaggi. — Ecco qui dei posti sicuri se volete nascondervi e se non avete paura delle ossa umane ormai già polverizzate. — I morti non ci hanno mai fatto paura, gurú, — disse Kammamuri. — Possiamo contare sulla tua devozione? — Mi farò fare a pezzi prima di denunciarvi — rispose il sacerdote, facendo scintillare i suoi occhietti neri. — Quel cane di Sindhia non vi avrà tanto facilmente. Conservo ancora sul mio corpo le tracce della sua brutalità. Kammamuri spense il fanale poiché da una inferriata, aperta quasi a fior di terra, cominciava ad entrare la luce mattutina, poi volgendosi verso il rajaputo, gli disse: — Tu che sei forte piú di un orso, prova a smuovere una di quelle pietre. Non hai paura dei morti tu? — Ah no, sahib, — rispose il gigante. — E dovremo proprio nasconderci lí dentro? — Se vuoi salvare la pelle!... Pensa che fra qualche ora i banditi di Sindhia saranno qui. — Ed il carrozzino che abbiamo lasciato fuori? Pei cavalli non mi preoccupo: ormai gli sciacalli li avranno spolpati. — Vorresti forse tornar fuori? — Lasciate fare a me, sahib — disse il gurú. — Spezzerò la mia lampada e lo brucerò. — Le nostre tracce le troveranno egualmente. — Io nulla ho udito, e nulla veduto. Ad un gurú si può credere. Non perdete tempo, sahib. Gli uomini di Sindhia possono giungere da un momento all’altro. È vero che ci vorrà del tempo per scassinare la pesante porta di bronzo. — Seppelliamoci vicini — disse Kammamuri al gigante. — Cosí potremo aiutarci meglio. — Sí, sahib, — rispose il docile rajaputo. — Lascia fare a me. Si avvicinò ad un sarcofago molto grosso, che aveva molti emblemi intorno, afferrò la pesante pietra che lo copriva, e colla sua forza prodigiosa la fece scorrere quel tanto che bastava al passaggio di un uomo. Il gurú, che teneva ancora la sua lampada, e Kammamuri guardarono dentro la tomba di pietra. Non vi erano che poche ossa, un teschio umano e due tarwar assai arrugginiti. — Quel muso veramente non è bello, e non farà piacere ad averlo vicino — disse il maharatto scherzando. — Io te lo leverò, sahib, e lo getterò nell’ossario della pagoda. — Tu sei un brav’uomo. — E tu avrai la forza di chiudere il sepolcreto del mio compagno? Pesano enormemente questi coperchi di pietra. — Mi proverò. — Non vi preoccupate — disse il rajaputo. — Colle mani e coi piedi mi chiuderò da me. Non ti cacci dentro, sahib? Mi pare di udire delle voci lontane. — Sono pronto — rispose Kammamuri. — Fa’ in modo che vi penetri un po’ d’aria. — Allora sbrighiamoci — disse il gurú. — Non vorrei perdervi. Prese il teschio e le ossa, e per il momento le depose in un canto, poi si diresse verso la tomba scelta dal maharatto, seguíto dall’erculeo rajaputo. — Peccato non poter fumare! — disse Kammamuri. — L’odore ci tradirebbe. Scese nell’avello e vi si coricò tutto lungo, mettendosi le armi a fianco e posando la testa sulla casacca a doppio. — Chiudi pure, rajaputo — disse. — Siamo vicini e potremo egualmente chiacchierare e aiutarci a vicenda. — Lascia fare a me, sahib — rispose il gigante. La pietra fu subito collocata a posto, poi fu scoperchiata la seconda tomba, la quale si trovava ad un solo metro di distanza da quella del maharatto. Come la prima non conteneva che delle ossa ormai ridotte in polvere, ed invece del tarwar, due vecchie pistole a pietra, che dovevano datare da qualche secolo. Il rajaputo che aveva mossa la pietra lanciò dentro la tomba uno sguardo quasi sdegnoso, poi vi discese lestamente, e distesosi rimise a posto il coperchio servendosi delle mani e dei piedi. — Puoi andare, gurú, — disse. — Io sto benissimo qui. Cerca di mandare i cavalieri di Sindhia il piú lontano che sarà possibile. — Non entreranno facilmente — rispose il sacerdote. — Sono un gurú, e questa è un’antica pagoda assai venerata. — Che cosa importa a quelle canaglie? Non hanno paura nemmeno della dea Kalí. — Se avrai fame, chiamami. — Ho con me una bottiglia di birra e dei biscotti e mi basteranno per ora — rispose il sepolto vivo. — Va’ a terminare le tue faccende e lasciami dormire qualche ora se è possibile. — Io lo spero. I cavalieri non sono ancora giunti sotto la pagoda. Se verranno non mancherò di avvertirti. Addio, sahib; riposa tranquillo. Il gurú raccolse le ossa e le fece sparire attraverso una botola; poi risalí la scala borbottando. — Sahib! — disse quasi subito il rajaputo. — Mi odi? — Perfettamente bene — rispose Kammamuri. — Queste pietre sono molto sonore. — Dormi? — Sto per chiudere gli occhi. — E non pensi ai banditi che forse sono vicini? — Non ci penso affatto. Avranno molto da fare a scovarci. Chi si potrebbe immaginare che noi siamo qui? E poi, vi è il gurú. — Che sia un uomo leale? — Lo credo — rispose Kammamuri. — È un nemico di Sindhia, col quale ha da accomodare qualche vecchio conto. Ti assicuro che ci proteggerà a tutta oltranza. — Vuoi che dormiamo, sahib? — Ne avrei veramente bisogno. Il giaciglio peraltro è terribilmente duro. — Hai le tue armi? — Sí. — Allora possiamo chiudere gli occhi e riposarci un momento. Saremo piú freschi e piú lesti, se vi sarà bisogno di... Kammamuri ascoltò invano il seguito della frase. Il suo compagno già si era addormentato e russava. — Cerchiamo d’imitarlo — disse voltandosi sull’altro fianco. — Di un po’ di riposo ne ho assolutamente bisogno. E si allungò fra le poche ceneri rimaste nella tomba, mettendosi subito anche lui a sonare il contrabbasso. Il gurú, vecchio e dormiglione, non tardò a imitarli. CAPITOLO XI. IN TRAPPOLA Quanto dormirono? Non lo seppero mai dire. Alcuni spari, diretti verso la galleria che conduceva al sepolcreto, erano improvvisamente echeggiati. Kammamuri fu il primo a balzar fuori, e subito venne imitato dal rajaputo. Dinanzi alla porticina sgangherata, illuminati da parecchie torce, stavano in gruppo i cavalieri di Sindhia colle armi puntate. Non erano cresciuti di numero, tuttavia erano ancora troppi per impegnare con loro un disperato combattimento. — Orsú, siamo presi! — disse Kammamuri senza troppo inquietarsi. — Ciò presto o tardi doveva avvenire. Il comandante del drappello scese i gradini, tenendo nelle mani un paio di pistole, e gridò: — Ormai vi abbiamo raggiunti e non ci sfuggirete piú. — Non ci hai ancora nelle tue mani, brutta scimmia! — rispose Kammamuri. — Anche noi siamo armati. — Siamo in venti. — E noi due soli; ma siamo tali uomini da dare dei fastidi anche a cento. Che cosa vuole Sindhia da noi? — Io non lo so — rispose il comandante. — Legarci a quattro cannoni e lanciarci in aria a brandelli? — Io non sono il padrone. Io ho ricevuto solamente l’incarico di condurvi da lui anche morti. — Come corri! — Finiamola! — gridò il comandante. — O vi arrendete o ordino il fuoco. — Un po’ di pazienza, signor mio! Non siamo delle lepri, per Buddha! Io voglio farti una proposta. — Di’ su, spicciati. — Di recarti da Sindhia e chiedergli quali sono le sue intenzioni a nostro riguardo. — I nostri cavalli sono sfiniti e non potrebbero reggere. Il rajah è piú lontano di quanto tu credi. — Che cosa fare? — si chiese Kammamuri. — Tentare la lotta? Impossibile! Vi sono dall’altra parte troppe armi da fuoco e saremmo messi subito fuori di combattimento. Si volse verso il compagno e disse: — Amico, noi siamo presi. Io non posso assumere la responsabilità d’un combattimento. Arrendiamoci. Il rajaputo mandò un vero ruggito. — Accoppiamoli tutti! — gridò. La voce del comandante del drappello lo interruppe subito: — Guardati! Non commettere una pazzia. — Posa la tua carabina, mio povero rajaputo, — disse il maharatto. — Che sia proprio finita per noi? — Per ora sí. — Anche senza carabina ne accopperò molti a pugni, quando si presenterà l’occasione. — Avete deciso? — gridò il comandante impazientito. — Sí, la resa — rispose Kammamuri. — Era tempo. Ci avete fatto correre molto, e siamo tutti sfiniti. — E noi non meno di voialtri — rispose Kammamuri. Mandò un lungo sospiro e depose a terra tutte le sue armi. Il compagno lo imitò. Il comandante del drappello, che impugnava sempre i suoi pistoloni, discese la scaletta seguíto da tutti i suoi uomini, e s’avvicinò ai prigionieri. — In alto le mani! — gridò. — Noi non siamo traditori — rispose il maharatto. — Puoi avvicinarti senza temere alcuna sorpresa. Ci condurrai via subito? — È impossibile. I cavalli hanno bisogno di riposo. — Fuori splende il sole? — No, le stelle. — Che dormita! — mormorò il vecchio cacciatore della Jungla nera. — I nostri corpi, d’altronde, ne avevano ben diritto. I venti o ventidue banditi si erano avanzati nel sepolcreto con le armi sempre puntate. Non avevano l’aspetto veramente guerresco. Vi erano piú paria fra di loro che uomini atti alle armi. Erano tutti sparuti, e a mala pena si reggevano in piedi. Se le avevano passate dure i fuggiaschi, nemmen loro, durante quella caccia accanita, avevano potuto nutrirsi e riposarsi. — Prendete pure le armi — disse Kammamuri al comandante. — Vi ripeto: in alto le mani! — Eccole! — risposero i prigionieri. — Ora vi lascerete legare poiché noi non partiremo prima di domani. — Fa’ come vuoi — disse Kammamuri. — Non stringete troppo le corde, altrimenti vi saltiamo alla gola come tante tigri. — Va bene — rispose il capo, sorridendo un po’ ironicamente. Con un segno fece accorrere i suoi uomini, i quali si erano già forniti di funicelle tolte alle loro cavalcature. In un momento i prigionieri furono legati per bene, ma non troppo strettamente. Poi furono presi e gettati tutti insieme dentro una tomba assai vasta, che doveva aver ricevuto le spoglie di cinque o sei guerrieri per lo meno. — Tu vuoi soffocarci! — gridò il maharatto esasperato. — Vi state tutti benissimo lí dentro — rispose il capo. — Potrete riprendere tranquillamente il vostro sonno. — E rimetti al posto anche la pietra? — No, perché voglio sorvegliarvi io stesso fino al momento della partenza. — Allora buona notte anche a voi. — Oh, ci riposeremo di certo. Ne abbiamo bisogno. Delle torce erano state piantate qua e là, e intorno all’avello si erano radunati sei banditi, scelti fra i piú robusti ed i meglio armati. Gli altri si erano sdraiati sulle gualdrappe dei cavalli e avevano cominciato subito a russare. — Sahib, — disse il rajaputo che si trovava accanto a Kammamuri — ci lasceremo portar via cosí, legati come bestie feroci? Io non so rassegnarmi. — Ormai non vi è piú nulla da fare, mio povero amico, — rispose il maharatto. — Andiamo a vedere che cosa vuole quel furfante di Sindhia. — Vorrà la nostra pelle, sahib. — Non l’ha ancora presa. E poi vi è il Maharajah colle tigri della Malesia che lo tengono a bada. — Credi che il principe ed i suoi compagni resistano ancora? — Il principe bianco, o meglio, il signor Yanez? Io sono piú che certo che non si sono ancora arresi quei valorosi. Hanno le mitragliatrici collocate sulla cima d’una collina, e quelle armi, ben maneggiate, in un paio d’ore gettano a terra una colonna ed anche due. — Ma volevo dirti, sahib, che io posseggo tanta forza, da rompere i miei legami ed anche i tuoi. — Siamo troppo sorvegliati. Potresti prenderti qualche colpo di pistola senza nessun avviso. Non vedi come quelle canaglie ci spiano? Il rajaputo alzò la testa e vide i sei banditi scelti per il quarto di guardia, tutti ritti intorno all’avello. Come si reggevano ancora in piedi dopo tante fatiche? È proprio vero che gli indostani posseggono una resistenza superiore perfino alle razze mongole. — Hai veduto? — chiese Kammamuri. — Sí, sahib; niente da fare — rispose il gigante agitandosi tutto. — Allora conserva la tua forza straordinaria per piú tardi. — Che il gurú non conosca nessun’altra molla segreta? — Gliel’ho chiesto poco fa e mi ha risposto che altre molle vi saranno, ma che lui è troppo vecchio per ricordarsi dove si trovano. — Allora non ci rimane che rassegnarci ad andare a trovare i grandi guerrieri del Nirvana. — Non siamo ancora morti. — Su chi conti, sahib? — Io non dispero mai. Su nessuno e su tutti. Lasciamoci pure prendere, giacché per il momento siamo senz’armi. — Vuoi che salti fuori e che accoppi quelle canaglie a pugni? — Se sei legato al pari di me... — Non importa: in un momento posso rompere queste funi. — Ti ho detto che ci spiano. — Questo è il male — disse il gigante con un lungo sospiro. — Allora non commettere sciocchezze! — disse il maharatto. — Già io avevo previsto da tempo che i banditi di Sindhia avrebbero finito col prenderci. — Me lo dici molto tranquillamente, sahib. — Non è il momento di urlare. — Dunque niente da fare? — chiese l’ostinato rajaputo. — Per ora niente da fare. Puoi riprendere il sonno interrotto. Il gigante, scoraggiato, si allungò a fianco del giovane cercatore di piste, il quale russava già. Come si trovasse lí anche lui, non lo abbiamo detto sopra per non ripetere una storia troppo simile a quella raccontata. Il lettore se ne sarà accorto da sé e non si meraviglierà se troverà qui Timul e gli altri, compreso lo strano sacerdote. Kammamuri non tardò ad imitarlo, stendendosi presso il gurú, il quale pure dormiva tranquillamente, malgrado la presenza dei banditi di Sindhia. — Mi odi? — gli chiese urtandolo vigorosamente. — Sí, sahib, — rispose lo strano sacerdote. — Non vi è alcun mezzo per fuggire? Pensa che Sindhia farà la pelle a noi tutti. — Ti ho già detto poco fa che possono esservi qui altre molle ed altri passaggi segreti, ma che io non mi ricordo piú nulla. Sono vecchio — rispose il gurú. — Anch’io non sono piú giovane, eppure se avessi ancora le armi, mi sentirei in grado di dare battaglia a questi banditi. Disgraziatamente è troppo tardi, e non abbiamo che le nostre braccia e per di piú ben legate. — Io sono rassegnato al mio destino! — rispose filosoficamente il gurú. — Si prendano pure la mia pelle. Varrà ben poco, sahib, e faranno un cattivo acquisto: è tutta cicatrici perché sono stato prima un guerriero. — Basterà per fare un tamburo. — Poco me ne importa. Ormai la lotta è impossibile e rinuncio alla vita senza rammarico. — E se potessimo sbarazzarci di quei furfanti? — In qual modo ora che siamo cosí immobilizzati? — Anche questo è vero. Forse io ho avuto troppa fretta a consegnare le armi, ma era necessario per non farci fucilare tutti. — I rimpianti ormai sono inutili, sahib — disse il gurú. — Cosí ha voluto Siva. Cerca di riposarti, giacché non vi è nulla da tentare. Siamo come dei sepolti vivi. Guarda: hanno rimesso a posto anche la pietra dell’avello. — Me ne sono accorto. — Sahib, — disse il rajaputo, il quale cercava invano di addormentarsi — vuoi che spezzi i miei legami e che con due calci poderosi mandi in aria il coperchio? — Tu non devi far nulla per ora, ti ho detto — disse Kammamuri. — Che cosa faremmo poi se non abbiamo nemmeno un miserabile tarwar? — Ed i miei pugni? — Basta un colpo di carabina per metterti subito fuori di combattimento, sebbene tu abbia il torace d’un orso. — Sahib, ti obbedisco — rispose il rajaputo. — Ho capito anch’io che ormai una lotta sarebbe assolutamente inutile. Tuttavia io cercherò di spezzare le mie corde. — Non farti scorgere. — Fa abbastanza oscuro dentro questa sepoltura. Lavorerò con estrema prudenza, senza far rumore. Se poi vorrai, scioglierò anche te. — Ne riparleremo piú tardi — disse il maharatto, il quale aveva veduto comparire novamente gli uomini di guardia del comandante del drappello. — Lavora con prudenza per non farci uccidere tutti prima del tempo. — Non farò nessun rumore. Le mie dita sono robuste quanto le tenaglie. Spezzano tutto. — Fa’ come vuoi, povero amico; ma ti ripeto che questa volta finiremo fra le unghie di Sindhia. — Ed è per questo, sahib, che cerco di avere almeno le braccia libere. Un giorno sulla montagna con un pugno solo ammazzai un orso che mi aveva assalito sulla discesa del... — Mi racconterai il resto domani — lo interruppe il maharatto. — Lasciami riposare. Questo non è il luogo per raccontare delle avventure. Il rajaputo si allungò vicino ad un compagno e si mise bravamente all’opera. Voleva essere libero prima che lo portassero via di lí. Stirava le membra senza badare al dolore, poi lavorava di denti, sfilacciando rapidamente le funicelle. Se era robusto come un orso, aveva anche dei denti poco dissimili a quelli di quei plantigradi. Kammamuri, completamente immobilizzato, si lasciò cadere a fianco del gurú in attesa di qualche scarica di pistola o di carabina, poiché i banditi non avevano rallentata la sorveglianza. Il sacerdote russava tranquillamente, ed anche Timul dormiva della grossa senza pensare al pericolo. — Queste non sono le tigri della Malesia — disse il vecchio cacciatore della Jungla nera. Il gigante intanto riprese il suo durissimo lavoro, cercando di non far rumore. Aveva finalmente capito che poteva prendersi di sorpresa qualche colpo d’arma da fuoco ed agiva con estrema prudenza. Era appena trascorsa una mezz’ora, quando Kammamuri lo udí mormorare: — Finalmente sono libero, e non mi hanno ancora ucciso. — Ebbene, che cosa farai ora, mio povero amico? Tu conti troppo sulla tua forza — disse il maharatto. — Preferisco essere libero piuttosto che legato. Almeno avrò la possibilità di spaccare qualche testa. — Ti consiglio di rimanere per ora tranquillo. Potresti fare ammazzare anche noi. — Sono una bestia. Io non ho pensato che siamo tutti senz’armi e che voi siete tutti legati. — Come, non ti sei accorto che il comandante del drappello ci spia? Guardalo: forse si è già accorto che tu ti sei sciolto. Il bandito che aveva surrogato quello ucciso da Kammamuri stava curvo sull’avello e guardava i prigionieri con occhi irati. — Che cosa fate dunque? — chiese con voce minacciosa. — Volete che vi uccida prima che giunga il rajah? — Sindhia si degna di venirci a fare una visita? — disse il maharatto con voce ironica. — L’ho mandato a chiamare. — Eppure tu dicevi che tutti i tuoi cavalli erano diventati bolsi. — Ne ho trovato uno in ottimo stato. — Durante il viaggio non lo mangeranno le tigri? — Il cavaliere è coraggioso e saprà difendersi. Fra cinque o sei ore il rajah sarà qui. — Potevi condurci nel suo accampamento. — Laggiú infierisce il colera, e non ho alcun desiderio di prendermi quel malanno che di rado perdona. — Ne sei ben sicuro? — Muoiono in buon numero nel campo del rajah. Ieri incontrai un informatore che veniva dalla capitale e mi raccontò tutto. — Giacché sei cosí gentile, si potrebbe sapere che cosa fa il tuo padrone? — Questo non lo posso dire. — Allora ci farai portare qualche cosa da mettere sotto i denti. — Soffriamo la fame anche noi — rispose il bandito. — Non abbiamo nulla da offrirvi. Stringetevi il ventre. Finché il rajah non giungerà, non vi darò nemmeno un sorso d’acqua. Poi rivolgendosi al rajaputo, che si era messo in ginocchio e pareva pronto a scattare, gli disse: — Ora ti lascerai rilegare. Me ne sono accorto che hai spezzate le tue funi. — Una volta sí, due no! — rispose il gigante con voce di tuono. — Ed allora ti uccido! — rispose il bandito, puntandogli contro le pistole. Il rajaputo con uno scatto fulmineo balzò fuori dell’avello e si gettò sul miserabile mandando dei veri ruggiti. Lo afferrò pei polsi in modo da spezzarglieli, e si impadroní delle due armi da fuoco, prima che i colpi partissero. — Ah, cane! — urlò il comandante del drappello, che stava per svenire sotto la formidabile stretta. — All’armi! I sei uomini di guardia, quantunque mezzo addormentati, accorsero in suo soccorso. Ma dinanzi al gigante, che impugnava una pistola per ogni mano, arretrarono, quantunque fossero armati fino ai denti. — Largo! — tonò il gigante — o vi uccido tutti! Il comandante del drappello si era intanto rialzato, spasimando per le strette poderose sofferte. Guardò il rajaputo, che pareva impazzito, e gli disse: — Rendimi le pistole, o ti faccio subito fucilare. — I tuoi uomini non li temo — rispose il gigante. Aveva preso le pistole per le canne e stava per servirsene come martelli. Nelle mani di quel formidabile uomo, adoperate anche in quel modo, diventavano armi terribili. La resistenza, come già Kammamuri aveva previsto, era inutile. Tutti gli altri banditi, attratti dalle grida di allarme, accorrevano urlando colle carabine puntate. — Che cosa vuoi fare ora? — chiese il capo del drappello. — Vedi bene che sei preso e non puoi sostenere la lotta. Lo so che sei forte, ma anche gli elefanti, che sono piú forti di te, si uccidono. — Ebbene, fammi uccidere! — disse il rajaputo impugnando le pistole. — A questo penserà il rajah. — Quando verrà? — Forse piú presto di quello che credi. — Puoi intanto anticipare le sue stupide vendette. — Ah, no, signor mio! Io non sono che un povero comandante di un drappello di cavalieri, ed ho ricevuto degli ordini ai quali devo assolutamente obbedire, se non voglio che il mio corpo finisca calpestato dall’elefante carnefice del rajah. Tengo un po’ anch’io alla vita, quantunque sia un uomo di guerra ed abbia ormai veduta la morte vicina a me centinaia e centinaia di volte. — Allora affrontami. Hai degli uomini pronti ad aiutarti. Il gigante aveva in quel momento un aspetto cosí terribile, che il capo del drappello credette opportuno rinunciare alla lotta. Già i suoi cavalieri erano scappati, come se temessero di veder crollare le vòlte del sepolcreto. — A me, poltroni! — urlò con voce tonante. Gli risposero delle risate. I suoi superbi cavalieri erano già fuggiti nell’interno della pagoda. Non volevano assolutamente provare le furie di quel gigante, che pareva piú una belva che un essere umano. — Sotto! — gridò il comandante, vedendo apparire un giovane graduato. — Non meritavi i galloni tu, ma te li farò strappare dal rajah. — Preferisco la morte ad una tale onta. — Aiutami. — Scappano tutti! — Siete dei vili! — No, capo: aspetta che prendiamo fiato. — Quest’uomo cerca di andarsene. — Non andrà lontano. Il rajaputo, ritto presso l’avello entro cui si trovavano i suoi compagni ammassati gli uni sopra gli altri, faceva veramente paura. Aveva perfino gli occhi iniettati di sangue come una bestia. — Su, avanti! avanti! — urlava. — Vi voglio uccidere tutti! Sette od otto banditi intanto erano tornati nel sepolcreto, e decisi a finirla, avevano puntate risolutamente le carabine. Già stavano per far fuoco, quando al di fuori si udirono squillare delle trombe. — Il rajah! il rajah! — gridarono tutti alzando le armi. Il rajaputo stette un momento in forse, poi stringendo sempre le due pistole si sedette sull’avello bestemmiando. La voce di Kammamuri si fece udire: — Che cosa vuoi tentare, pazzo? La lotta è impossibile. — Forse hai ragione, sahib, ma non lascio le mie armi. — Il meglio che puoi fare è di arrenderti. — No! — rispose il testardo. Aveva innanzi a sé dieci banditi, i quali lo avevano preso nuovamente di mira; ma l’ercole non si sgomentò affatto. — Voglio vedere prima la faccia del rajah — disse. — Ad arrendersi c’è sempre tempo. In quel momento il capo del drappello ricomparve accompagnato da altri cavalieri i quali scortavano il rajah. Erano vestiti quasi come i cipai del Bengala, e facevano una discreta figura. Le loro fasce poi erano piene di pistoloni e di corte scimitarre. — Giú le armi! — tonò una voce. Era Sindhia, l’ex rajah, il quale era improvvisamente comparso fra i suoi guerrieri. — Ho faticato abbastanza per guadagnarmi queste due pistole — disse il rajaputo. — Chi sei tu, che, solo, osi rifiutarti? — Un uomo che saprà vendere molto cara la propria pelle — rispose il gigante. — Abbassa quelle pistole! Io sono il rajah. — Ti conosco, Altezza. Non è la prima volta che ti vedo. — Se entro tre battute di mano non disarmi, comando il fuoco. — Ma arrenditi, testardo! — gridò Kammamuri, che si trovava stretto fra i suoi compagni di sventura e per di piú ancora legato. — Te lo comando! — Lo vuoi proprio, sahib? — Sí, lo voglio. Il rajaputo alzò le pistole in alto, e prima che il rajah battesse le mani le scaricò. CAPITOLO XII. LE FURIE DEL «RAJAH» L’eco delle detonazioni era appena cessato, quando Sindhia, scortato da una quarantina d’uomini benissimo armati e che portavano delle torce, osò avanzarsi nel sepolcreto. L’ubriacone indossava una specie di mantello di seta verde con vistosi alamari e grossi bottoni d’oro. Calzava scarpe rosse a punta rialzata, ed aveva la testa coperta da un gigantesco turbante, adorno di tre piume monumentali cosparse di brillantini. Il suo viso pareva incartapecorito e piú oscuro che mai. Solamente i suoi occhi, sempre nerissimi, scintillavano come quelli di un cobra capello. Mosse risolutamente verso il gigante, il quale aveva ormai gettate le armi scariche e che pareva lo sfidasse colle possenti braccia incrociate, e dopo averlo attentamente guardato, gli disse con una vera ammirazione: — Se io avessi avuto cinquecento uomini forti e coraggiosi come te, l’Assam già da tempo sarebbe mio. Tu sei un vero guerriero che non ha paura delle carabine. — No, Altezza — rispose il rajaputo con voce rauca. — Tu mi piaci. Vuoi arruolarli sotto le mie bandiere? — Io ho giurato fedeltà alla rhani e al Maharajah. Il viso scimmiesco dell’ubriacone si contrasse tutto, mentre un lampo terribile gli accendeva gli occhi. — Il Maharajah! la rhani! — esclamò ridendo sgangheratamente. — Ma dove sono quei signori? Nell’Assam ora comando io solo. — Non credo — rispose il rajaputo, fissandolo intrepidamente. — Se sono tutti morti! ... — Forse per te, Altezza, ma non per me. Io so che il Maharajah si difende sempre insieme con le tigri della Malesia e che la rhani sta benissimo sulle montagne natie. — Si è rifugiata fra i montanari di Sadhja; è vero? — Credo — rispose il rajaputo. — Tu devi saperlo. — Quando il Maharajah la fece partire, io non ero piú presso di lui, quindi io non so precisamente ove si trovi. — Me lo dirai, e mi dirai qualche altra cosa ancora. Il mio rivale dove ha nascosti i suoi tesori? — Io non sono mai stato il suo tesoriere, Altezza. È inutile domandarlo a me, che sono sempre stato un uomo di guerra. — Ci sarà qualche altro che mi risponderà meglio — disse il rajah. — Chi? — domandò il rajaputo. — Qui ci deve essere il famoso maharatto, quello che inspirava il Maharajah. Saprà molte cose lui. — Lui? T’inganni, Altezza! Anche quello è sempre stato un uomo di guerra. — Lo vedremo — rispose Sindhia con un sorriso feroce. Si volse verso il capo del drappello e gli chiese: — Dove sono? — Tutti dentro quella sepoltura. — Hai fatto benissimo. Il rajah trasse dalla sua altissima fascia di seta, che gli stringeva il vestito, un fischietto d’oro e mandò un sibilo stridente. Quasi subito un uomo, che doveva essere un fakiro piuttosto che un paria, entrò nel sepolcreto portando appese ad un lungo bastone due grosse ceste di vimini. — Quanti serpenti hai? — gli chiese il rajah alzandosi bruscamente. — Una trentina, signore. — Tutti velenosi? — Vi sono cobra capello, serpenti del minuto, ed anche dei bis cobra. — Ne abbiamo abbastanza — rispose il rajah. — Vedrai che faremo uscire subito da quella tomba i prigionieri senza consumare una carica di polvere. — E morranno tutti! — disse il rajaputo fremendo. — Dei prigionieri non so che cosa farne — disse il rajah. — Sono troppo imbarazzanti. — Ma qualche volta possono diventare preziosi. — Lo so. Ma io ho troppa fretta di riconquistare il mio regno, e sono deciso di andare subito a fondo. — Vorresti dire, Altezza? — Distruggere subito tutti gli amici del mio rivale. In quanti siete, prima di tutti? — In quattro, ma tutti feroci come le tigri che hanno assaggiata la carne umana. Domandalo al comandante del tuo primo drappello di cavalleria. — Oh, sí! Terribili, gran signore! — rispose il comandante. — Non vorrei affrontarli un’altra volta. — Ba’, voi non avete sangue nelle vene! — disse il rajah. — Io vi pago come principi e voi evitate i combattimenti. Bei soldati che ho arruolati io! Alzò le spalle, abbassò il monumentale turbante nascondendosi quasi tutto il viso, poi rivolgendosi al rajaputo, gli disse: — Fa’ uscire i tuoi compagni da quella tomba. — Sono tutti legati. — Li metteremo in libertà. Hanno armi? — Nessuna — rispose il capo dei cavalleggeri. — Nemmeno un miserabile coltello. — Sono curioso di vedere quel famoso uomo che chiamano il maharatto. Vedrai che quello la saprà piú lunga di te. — Potresti ingannarti, Altezza — rispose il rajaputo, il quale faceva sforzi enormi per mantenersi relativamente tranquillo. — Ne saprà meno di me. — Ma io lo voglio vedere. Fallo uscire, o faccio gettare dentro la tomba una cinquantina di serpenti e tutti velenosi. — Vostra Altezza mi vedrà senza ricorrere alla violenza! — gridò in quel momento Kammamuri. — Fatemi sciogliere dalle corde e comparirò dinanzi a voi. — Ed armi ne hai? — chiese il rajah. — Nessuna. — Desidero molto vederti. Tu sei un uomo famoso nella storia dei thugs e anche dell’India. — Vedrai un uomo che vale molto meno del rajaputo. — Non importa: voglio vederti. Sono un principe, non già un tuo servo. — Hai un coraggioso che mi liberi dalle funi? — Ne ho cento. — Basto io! — disse il gigante. — Lasciate fare a me, Altezza. Tutto andrà bene senza sprecare polvere e veleni di serpenti. Saltò agilmente nell’avello armato d’un corto tarwar datogli dal capo dei cavalleggeri, e tagliò rapidamente le funicelle che tenevano avvinto Kammamuri. Il maharatto appena si sentí libero scattò come se avesse avuto cento molle sotto i piedi. Con un gran salto si slanciò nel sepolcreto e comparve dinanzi al rajah, dicendo con voce un po’ ironica: — Eccomi, Altezza. Che cosa vuoi da me? Sindhia lo guardò attentamente, poi disse: — Ecco un altro bell’uomo che ha compiuto già mille e mille prodigi. Fosti tu, è vero, che uccidesti il capo dei thugs durante la rivolta di Delhi? — No, Altezza, — rispose Kammamuri. — Fu la Tigre della Malesia insieme col principe bianco che si chiama Yanez. — Yanez? Chiamano con questo nome l’attuale Maharajah. — È il suo. — Vorrei sapere prima di tutto da dove vengono quei terribili uomini, poiché, devo confessarlo, essi sono quasi invincibili. — Vengono dalla Malesia, Altezza. Ma tu lo sapevi già, perché Teotokris, il greco, te l’aveva detto. — E perché sono venuti qui? — Se non avessero incontrato Surama, sarebbero rimasti laggiú a combattere, ora cogl’inglesi, ora coi guerrieri del Sultano di Varauni. — Surama! — esclamò il rajah con voce rauca. — È stata la mia sventura; ma la rhani questa volta non mi scapperà; la prenderò insieme col Maharajah e la famosa Tigre della Malesia. Un sorriso d’incredulità spuntò sulle labbra del maharatto. — Sterminerò tutti! — riprese a dire il pazzo, mettendosi a passeggiare furiosamente per il sepolcreto. — È ora di finirla. Quanti uomini hanno? — Lo ignoro, Altezza. Da qualche settimana non mi trovo piú presso di loro, quindi nulla posso sapere. — Eppure sei giunto cogli elefanti tu! — Non lo nego; ma ho abbandonato subito il Maharajah ed i suoi amici, perché dovevo recarmi verso le montagne di Sadhja. — A vigilare la rhani? — Può darsi — rispose tranquillamente Kammamuri. Il rajah stava per riaprire la bocca quando fece un salto indietro. Uno dei cavalleggeri che aveva condotto dal suo campo, era stramazzato pesantemente al suolo, a pochi passi dinanzi a lui. Tutti erano rimasti immobili o avevano fatto un passo indietro manifestando un vivo terrore; ma quasi subito due o tre coraggiosi si precipitarono sul cavalleggero, che non dava ormai piú segno di vita, e lo portarono via correndo. — Pare che si goda poca salute nel tuo campo! — disse il maharatto. — Quel disgraziato è morto di colera fulminante. — Come lo sai tu? Sei un medico forse? — No, Altezza, ma m’intendo di colera, avendo soggiornato a lungo fra i molanghi delle Sunderbunds del Gange. — Sapresti guarire tu quella terribile malattia che decima rapidamente le mie truppe? Io ti darei una fortuna — disse il rajah. — A che cosa mi servirebbe ormai? I miei giorni, lo so bene, sono contati, e forse è già preparato il pezzo d’artiglieria che deve scaraventare in aria il mio misero corpo. — Forse t’inganni — disse il principe. — Io non ho l’abitudine di uccidere dei valorosi, che potrebbero servire alla mia causa. — Vorresti dire, Altezza? — Che se anche non sei un medico, ti arruolo insieme coi tuoi compagni. — Io ho giurato fedeltà al Maharajah. — Fra pochi giorni il mio rivale sarà catturato o morto. — Chi sa! — Credi che sia molto forte? — Piú di quello che credi, Altezza. — Eppure, non deve avere che un pugno d’uomini con sé. — Ma quegli uomini si chiamano le tigri della Malesia. — So quanto valgono quei selvaggi della lontana isola — rispose il rajah, facendo un gesto di rabbia. — Non è la prima volta che li provo. Senza di loro, il principe bianco non mi avrebbe preso il trono. Girò tre o quattro volte su se stesso come un pazzo, poi si piantò dinanzi al maharatto e gli disse: — Io non ho tempo da perdere: o con me, o contro di me. — Un guerriero non può mancare alla sua parola, Altezza — rispose Kammamuri con fierezza. — Ah, mi dimenticavo una cosa che mi preme assai. Dove ha nascoste le sue ricchezze il Maharajah. — Lo ignoro anch’io. — Ah, nessuno vuol parlare! — urlò il principe, schizzando fiamme dagli occhi. — Lo vedremo. — Comanda ai tuoi uomini, Altezza, che ci fucilino tutti qui dentro. La cassa è pronta a raccogliere le nostre spoglie — disse Kammamuri. — Sarebbe una morte troppo dolce — gridò sogghignando il principe crudele. — Fa’ vuotare i panieri che sono pieni di serpenti. — Non farò nemmeno questo. Io voglio sapere assolutamente dove il Maharajah ha nascoste le sue ricchezze. Mi occorrono per condurre a termine la guerra; e le casse dei miei ministri sono vuote. — È una ostinazione inutile — rispose il maharatto. — Quando la capitale bruciava, nessuno di noi si trovava presso il principe bianco. — L’hai incendiata tu, canaglia? — No; sono stati i soldati del principe bianco. — Aveva ancora tanti uomini? — Io non li ho contati, Altezza. — Tu non vuoi sbottonarti. — Non posso dire quello che non so. — Tu mi giuochi, brigante!... Su anche gli altri! Il capo dei cavalleggeri insieme con alcuni soldati discese nell’avello e tagliò le corde ai due ultimi prigionieri. — Chi è quell’uomo? — chiese Sindhia, fissando i suoi occhi sul gurú. — Il guardiano del tempio — rispose il capo dei cavalleggeri. — Ed è ancora vivo? — Non volevo prendermi delle maledizioni, Altezza. È un peccato troppo grosso spegnere la vita di un gurú. — Delle maledizioni io me ne rido! — disse il crudele principe. — Non ho mai avuto paura nemmeno di quelle dei bramini, che sono anche piú terribili. — Vuoi che lo faccia fucilare, Altezza? — Corri troppo tu, mio caro. C’è sempre tempo a morire. — Che cosa devo fare allora? Io aspetto i tuoi ordini. Sindhia si era messo nuovamente a passeggiare, facendo gesti di minaccia e gridando: — Io finirò con l’aver ragione di questi quattro miserabili. — Altezza! — gridò Kammamuri fremente. — Non sono un paria a cui si può dare del miserabile. — Eh, sappiamo che sei un maharatto — rispose Sindhia, digrignando i denti. — L’hai finita? — Io sí. Il rajah si era fermato dinanzi a Kammamuri, e dopo averlo fissato intensamente co’ suoi occhietti sempre scintillanti, disse: — Vuoi salvare la tua vita e quella dei tuoi compagni? — Che cosa devo fare? — Condurmi là dove il principe bianco ha nascosto i suoi tesori. Le casse dei miei ministri sono vuote, e questa campagna minaccia di diventare assai costosa. — Ti ripeto che io non so assolutamente nulla. Io non ero il confidente del Maharajah né della rhani; e la notte che la capitale prese fuoco, io ero ormai lontano. — Per qualche missione di premura? — chiese Sindhia colla sua solita voce ironica. — Un maharatto non tradisce i segreti del suo signore. — M’hai annoiato abbastanza! — Mi rincresce, Altezza. — Tu ti burli di me! — Niente affatto. — Quale morte preferisci? — Quella dei guerrieri. — La fucilazione? — Ti sarei riconoscente, Altezza. — No, no: tu non hai ancora confessato dove si trovano i tesori. — T’ho detto che non lo so — urlò il maharatto. — Perché farmi ripetere sempre la medesima cosa? Sindhia si avvicinò ai suoi cavalieri, e si mise a parlare animatamente a mezza voce. Pochi momenti dopo, dieci uomini si avvicinavano ai prigionieri e li legavano di nuovo. Nemmeno il rajaputo oppose alcuna resistenza. — Conducili via, e gettali vivi in mezzo alla jungla, perché servano di pasto alle tigri e ai leopardi. Io ne ho abbastanza di questi uomini! — disse il rajah al capo dei cavalleggeri. — Ho ben altro da fare io. Mi preme di riconquistare il mio regno. Sbrigati. Hai capito? Fra poche ore non resterà di loro che poche ossa spolpate. — Dovremo fare la guardia? — E perché? Lasciali soli a districarsela con le belve. — Con nessuna arma per difendersi? — Diventi pazzo? Anzi li legherai per bene al tronco di qualche tamarindo o di qualche mangifera, augurerai loro la buona notte, e tornerai subito. — Purché le belve non divorino anche me, Altezza! — Prenditi venti uomini. — Obbedisco, Altezza — rispose il capo. — Con venti uomini faccio fuggire anche le tigri. — Vattene! Mi hai annoiato abbastanza. Ma dov’è il bramino? — Kiltar? — Sí; dev’esser giunto. — E sono ai tuoi ordini, Altezza — rispose una voce sonora, che veniva dalla parte della pagoda. Kammamuri aveva avuto un sussulto, ed il suo cuore si era subito aperto ad una speranza non lontana. Quel bramino, che forse non era veramente un sacerdote, era stato salvato da Yanez, quando già lo avevano legato dinanzi alla bocca di un cannone e il carnefice aveva accesa la miccia. Dei preziosi servigi egli aveva resi ai compagni del principe bianco, quando si trovavano nelle cloache della capitale. Era un uomo di alta statura, magro come tutti gli indiani, che indossava un mantellone di seta gialla piú o meno scolorito. — Quali nuove rechi dai miei accampamenti? — gli chiese Sindhia, muovendogli rapidamente incontro. — Cattive, signore! — rispose il bramino. — Il colera infuria, ed i tuoi medici non sanno come fare ad arrestarlo. — Farai appiccare mezza dozzina di quei furfanti che ho pagati a peso d’oro inutilmente. Non sanno dunque nemmeno che cos’è il colera? — Forse non hanno i rimedi per combatterlo, signore. — E il principe bianco? — È sempre sulla collina e resiste ferocemente. Non sarà possibile cacciarlo di lassú colle forze che abbiamo. — Tutte le divinità dell’India mi hanno dunque maledetto? — gridò Sindhia. — È troppo! Io mi vendicherò distruggendo tutte le pagode e tutte le moschee! — Cattiva politica — disse il bramino. — Non sta a te a giudicare. — Tu sei infatti il padrone, e noi ti dobbiamo obbedienza assoluta. — È cosí che voglio! Intanto il capo dei cavalleggeri si era fatto innanzi, seguíto da una decina d’uomini armati fino ai denti. — Altezza, — disse — aspettiamo i tuoi ordini. — Porta via i prigionieri prima che li faccia fucilare. — Forse sarebbe meglio — disse il capo. — Tu sei un asino! Non occuparti dei miei affari. — Quando quegli uomini saranno stati divorati dalle belve non potrai piú giovarti di loro, Altezza. Il rajah alzò le spalle. — Ci vuole una terribile lezione — disse poi. — Qui si cerca di giocarmi e da troppo lungo tempo. Via, via quelle canaglie! Il bramino fece un ultimo tentativo per salvare i disgraziati prigionieri. — Altezza, — disse — sono uomini troppo preziosi. Lascia che vivano. — No! — gridò il rajah. — Sotto la mia bandiera non voglio arruolata gente di quella fatta. — Tu sei il padrone — disse il bramino, il quale tremava dinanzi al pazzo principe, sapendo bene che egli non scherzava. — Guida allora il capo nella jungla, e di queste canaglie non se ne parli piú. — Ci penso io, Altezza, — disse il cavalleggero. — Conosco già i dintorni. — Vattene! Ho sonno, fame e soprattutto molta sete. Kiltar, mi hai portato un po’ del mio liquore favorito? — Sí, Altezza — rispose il bramino. — Ora lasciatemi tranquillo. Ho da pensare agli affari dello Stato. Il capo dei cavalleggeri aveva già circondato coi suoi dieci uomini i quattro prigionieri, i quali, come abbiamo detto, erano stati nuovamente legati. — Andiamo a trovare i mangiatori d’uomini — disse. — Spero per altro di ritornare e tutto intero. Vi è ancora il ponte volante gettato attraverso il fiume. In un momento saremo sul posto. — Vattene, noioso! — urlò Sindhia. — Ho sonno e fame. Il capo diventò pallidissimo e disse ai suoi uomini: — Il rajah ha parlato! Obbedite, se vi preme la vita. Venti banditi circondarono i quattro prigionieri, e cominciarono a spingerli brutalmente verso il passaggio segreto che metteva sul ponte volante gettato attraverso il fiume limaccioso. Il capo dei cavalleggieri li guidava, e Kiltar, il bramino, li seguiva cercando di non farsi scorgere dal rajah. Ma il principe oramai non si occupava piú di nessuno. Aveva fatto stendere parecchie coperte da cavalli su una tomba e vi si era subitamente addormentato, dopo aver tracannato una fiala piena di whisky, il suo liquore favorito. Il drappello attraversò prima il passaggio segreto, poi il ponte, e si trovò subito sui margini della jungla. — Dove legarli? — chiese il capo al bramino, il quale non aveva cessato di seguirli. — Ci sono degli alberi qui — rispose Kiltar. — Io non sono il rajah. — Farò da me. Il rajaputo, il maharatto, il cercatore di piste ed il gurú furono trascinati verso un tara di dimensioni gigantesche, il cui tronco nemmeno cinquanta uomini in catena avrebbero potuto abbracciarlo. — Qui — disse il capo dei cavalleggeri. — Il posto è magnifico. Le tigri ed i leopardi vi accorreranno in buon numero. Di questi uomini domani noi non troveremo nemmeno le ossa. — Ti farà piacere! — disse il bramino con voce un po’ acre. — Io obbedisco agli ordini del mio signore, e basta. — Allora sbrígati. I banditi sollevarono quasi di peso i quattro prigionieri e li legarono solidamente intorno all’enorme albero, a poca distanza l’uno dall’altro. — Canaglie! — urlò Kammamuri. — Potevate farci fucilare! — Il rajah non l’ha voluto — rispose il capo. — Io lo devo obbedire per salvare la mia testa. — Siete dei briganti! — urlò il rajaputo, il quale si dibatteva disperatamente. — No; siamo guerrieri del principe dell’Assam — rispose il capo. I prigionieri dopo un momento furono lasciati soli, mentre la luna sorgeva, ed in lontananza gli sciacalli urlavano disperatamente. — Ecco la nostra fine! — disse Kammamuri. — Il rajah poteva inventare un altro genere di supplizio e... S’interruppe d’un tratto. Il bramino era improvvisamente comparso fra i folti vegetali, armato d’un corto tarwar. — Vengo a pagare il mio debito di riconoscenza che ho verso il vostro signore — disse. — Non ho mai dimenticato che gli devo la vita. — Kiltar! — esclamò Kammamuri — dacci delle armi. — Non ho che tre pistole che metto a vostra disposizione, — rispose il bramino. — Il rajah è troppo crudele. Con pochi colpi di tarwar tagliò tutti i legami dei quattro prigionieri, mise al piede dell’enorme tara le tre armi da fuoco, e fuggí rapidamente come se avesse una tigre alle spalle. — Siamo salvi! — esclamò il gurú. — Perché abbiamo alcune pistole? — chiese Kammamuri un po’ ironicamente. — Pròvati ad attaccare con quelle armi le regine delle jungle. — Aspetta un po’, sahib — rispose il gurú. Girò intorno all’enorme tronco, e finalmente si fermò dinanzi a qualche cosa che brillava ai raggi della luna. — Abbiamo avuto una fortuna straordinaria — disse. — Perché? — chiese Kammamuri. — Perché quest’albero è stato scavato, ed io ho trovata la molla che ci farà aprire la porta. — Credo che non sia questo il momento di scherzare. — Ti dico che le tigri non ci mangeranno. Dentro questa pianta colossale mi sono rifugiato parecchie volte anch’io per fuggire bestie e banditi. — Chiacchiera meno e agisci di piú — gli disse il maharatto. — È fatto — rispose il gurú. — Seguitemi, giacché la luna splende. I prigionieri s’impadronirono innanzi tutto delle pistole, sebbene fossero di ben poco valore contro le tigri, ma che tuttavia potevano essere utili in qualche difficile momento, e seguirono il gurú. — Che cosa c’è dunque? — gli chiese Kammamuri, vedendolo fermarsi. — Guarda, sahib, — rispose il guardiano della pagoda. — Se il capo lo avesse saputo, non ci avrebbe portati qui. — Vedo un buco — disse Kammamuri. — Abbastanza largo per lasciar passare anche il rajaputo. Qui vi è una porta e vi è pure una molla che per puro caso ho scoperta. Dentro questa enorme pianta nessuno ci può prendere. — Tu sei un brav’uomo ed anche molto fortunato. Eppure non ti ricordavi dei segreti della pagoda. — Erano troppi, sahib — rispose il gurú. Si erano tutti radunati dinanzi all’apertura. Un pezzo di corteccia, alto qualche metro, pendeva verso il suolo, mostrando la molla misteriosa. — Non vi saranno dei serpenti lí dentro? — chiese Kammamuri. — Io non ce ne ho mai trovati. — Chi ha scavato questa pianta? — Che ne so io? Sono molto vecchio, e tutto ora non posso ricordare — rispose il gurú. — Forse gli stessi costruttori della pagoda. — Può darsi. Ma avrete ben altre sorprese. — Che cosa vuoi dire? — Che in fondo a questa pianta esiste un passaggio scavato sotto la jungla. — E mette? — Assai lontano. Se la memoria non m’inganna, noi sboccheremo presso la grande via che conduce alle montagne. — Sei diventato pazzo? — No, sahib. Una volta cinquanta banditi e forse piú, si presentarono alla pagoda per svaligiarla, colla speranza che nel sepolcreto vi fossero nascosti dei tesori, ed io ed un mio compagno ci rifugiammo qui e ci rimanemmo parecchi giorni. — Ci vorrebbe un po’ di luce — disse il rajaputo, il quale, se non aveva paura degli uomini, si sentiva gelare tutto dinanzi ad un cobra o ad un pitone. — Della luce? — disse in quel momento Timul. — Ho nelle mie tasche una corda incatramata che brucerà come una torcia. — Ma hai l’occorrente per accenderla? — chiese Kammamuri, il quale avrebbe preferito il grosso fanale di marina. — Sí, sahib, — rispose il giovane cercatore di piste. — Accendi. Dopo qualche istante una viva fiamma brillava dinanzi all’apertura. La corda incatramata era abbastanza grossa, e ardeva meravigliosamente. — Come l’hai tu? — chiese Kammamuri al giovane. — Me ne servivo per cercare le piste di notte. — Quanto durerà? — Ben poco, sahib. — Entriamo dunque dentro quest’albero meraviglioso. Gurú, bada alla molla. — So farla scattare anche per di dentro — rispose il guardiano della pagoda. — Tu diventi un uomo assai prezioso; è vero, rajaputo? — Pare — rispose asciuttamente il gigante. I quattro uomini, armati delle pistole del bramino, si cacciarono destramente dentro l’apertura, la quale era tanto vasta da permettere il passaggio anche ad un uomo piú grosso del rajaputo. Il gurú non aveva mentito. Tutto l’interno del gigantesco albero era stato, chi sa in quali tempi, pazientemente vuotato, e si vedevano anche dei gradini. — Chiudi la fortezza — disse il maharatto al sacerdote. La porta, formata d’un enorme pezzo di corteccia, si risollevò e tornò al suo posto. — Come vedi, sahib, la molla agisce benissimo anche dall’interno. — E se poi non agisse piú? — Ti ho detto che vi è un passaggio. — Ecco l’India misteriosa! — disse Kammamuri con un sorriso alquanto amaro. CAPITOLO XIII. FRA LE ACQUE E LE TENEBRE Dei pazienti e abilissimi operai avevano scavato l’interno dell’enorme pianta la quale, se non per altezza, poteva per grossezza rivaleggiare colle oregonie della California, che sono le piante piú colossali del mondo finora conosciute. Lo scavo era stato eseguito in modo da non danneggiare il tara, ossia senza intaccare la corteccia esterna. Due gradinate mettevano in una vasta rotonda che altre volte doveva essere stata abitata, poiché vi erano sparsi al suolo vecchi tappeti ormai fracidi e covoni di paglia, anche quella marcita. — Come vedi, sahib, — disse il gurú a Kammamuri — nemmeno questa volta mi sono ingannato. — Ma chi ha scavata questa pianta? — chiese il rajaputo. — T’ho detto che non lo so — rispose il sacerdote. — Tu non sai mai nulla — disse il maharatto un po’ irritato. Il gurú alzò le spalle e scese le due scalette toccando il fondo della rotonda. Timul continuava a far luce colla sua fune incatramata, la quale disgraziatamente si consumava con una rapidità veramente spaventosa. Il gurú fece subito il giro di quella specie di caverna legnosa, cercando qua e là, poi un grido gli sfuggí. — Piú nulla! — esclamò, facendo un gesto di disperazione. — Vi doveva essere un’altra molla che apriva una seconda porta e non l’ho trovata. — Forse l’avevi sognato — disse Kammamuri. — No, vi era; lo ricordo bene. — E chi vuoi che l’abbia levata o guastata? — Io non ho abitato sempre l’interno di questo albero — rispose il gurú. — Forse degli sconosciuti sono entrati per il passaggio sotterraneo scavato sotto la jungla e tutto hanno distrutto. — Cercherai meglio piú tardi. — Sahib, — disse Timul — avremo luce solamente per altri dieci o quindici minuti. — Non hai altre corde? — Nessuna, sahib. — Allora approfittiamo subito di questo breve tempo per cercare il passaggio. — È inutile, sahib, — disse il gurú — tutto è stato distrutto. — Sicché rimarremo prigionieri qui? — chiese Kammamuri. — Vi è la porta da cui siamo entrati, e usciremo da quella parte quando saremo ben sicuri che nessun pericolo ci minaccia. Vedrai che i cavalieri del rajah torneranno qui per accertarsi se le tigri ci hanno divorati. — Non ne dubito. Ma non verranno questa notte. Hanno troppa paura delle jungle... Hai trovato? — Nulla, nulla! — rispose il gurú con voce quasi piangente. — Vi saranno dei viveri qui? — Mai piú! Mangiai qui dentro tre o quattro anni fa e non avevo portato con me che alcuni banani ed un po’ di riso. — È una condizione quasi disperata — disse Kammamuri. — La rivincita del signor Yanez sarà ben dura. Si direbbe che tutto congiura contro di noi! E pensare che di noi egli ha tanto bisogno! Che cosa dici tu, rajaputo? — Restiamo qui per ora. Non ci scoveranno tanto facilmente i banditi di Sindhia, se torneranno. Vorrei solamente sapere dal gurú se vi è qualche finestra. — Mi pare — rispose il sacerdote. — Io mi ricordo che di giorno la luce entrava. — Da finestre o da fessure? — Ecco quello che non posso dire — rispose il sacerdote. — La mia memoria mi tradisce sempre. — Lo sappiamo già — disse Kammamuri. — Tu sei sempre cosí. — Sono vecchio, sahib. — Sahib, — disse il rajaputo — io vorrei proporti un gran bel colpo di testa. — Butta fuori, mio valoroso. — Approfittare della notte per andare a sorprendere i cavalieri del rajah e prendere loro le bestie. — In quattro soli con tre sole armi da fuoco? — Tu sai che le pistole che si fabbricano in India sono sempre state apprezzate anche dagli inglesi. — Non dico il contrario. Ma siamo pochi, mio caro. — Ed io che volevo proporti, sahib, di andare a rapire il rajah... — Per che cosa farne dopo? Sarebbe un fastidio di piú. Giacché vi è ancora un po’ di luce, spieghiamo questi vecchi tappeti ed aspettiamo che il sole risorga. Allora decideremo. — Sarà meglio — disse il gurú. I tre uomini stavano per prepararsi un giaciglio piú o meno passabile, quando da una parte della rotonda si udirono improvvisamente dei rumori sospetti. — Puzzo di selvatico. Brutto segno, sahib! — esclamò il cercatore di piste. — Tu sei un uomo veramente meraviglioso, Timul — disse il maharatto. — Possiedi anche un naso straordinario. Prepariamoci a ricevere i signori che desiderano farci una visita punto desiderata. Timul aveva appena pronunciato quelle parole, che un largo pezzo di parete si rovesciò dentro l’enorme tara. Pareva che una porta fosse stata sfondata, forse quella che doveva mettere al passaggio segreto. Subito dopo i quattro uomini udirono dei sordi brontolii, poi agli ultimi sprazzi di luce della corda incatramata, videro una testa enorme traforata da due occhi fosforescenti. — Leopardo? — si chiese Kammamuri, puntando risolutamente la pistola regalatagli da Kiltar. — Una tigre no di certo. Anche le bestie si sono alleate per far guerra a noi. Intanto l’animale, che con un’ultima spinta aveva sfondata la parete, cercava di farsi avanti mostrando una bocca formidabilmente armata di denti acutissimi. — Attenti al leopardo! — gridò Kammamuri. — Non lasciatelo avanzare. Intanto il rajaputo si era precipitato verso l’apertura, e impugnata la pistola per la canna, urlava: — Risparmiate le cariche! Una belva era già entrata, e si preparava forse ad assalire quegli uomini, quando fu invece assalita dal rajaputo. Si udirono alcuni colpi sordi, come di tremende martellate, poi un urlo lunghissimo acutissimo. — Muori! — gridava il gigante. — Credo che tu ne abbia abbastanza ormai e senza avermi fatto consumare un granello di polvere. — Luce, Timul! — gridò Kammamuri. — La corda sta per finire. — Corri qui subito. Il giovane si slanciò avanti agitando la sua povera fiaccola. Presso l’apertura giaceva un magnifico leopardo ridotto in uno stato spaventevole. Aveva il cranio sfondato, il naso fracassato, gli occhi pesti e non piú visibili. — Che colpi, rajaputo! — disse il maharatto. — Tu saresti capace di uccidere anche un bufalo selvaggio. — È morta la bestia? — chiese tranquillamente il gigante. — Non si muove piú. — Ha avuto il fatto suo. — E tu nessuna ferita? — No, sahib, nessuna. Mi sono tenuto lontano dalle unghie. In quel momento la fiaccola di Timul si spense del tutto, ed un’oscurità densissima invase la caverna legnosa. — Bell’occasione per i leopardi se ve ne sono ancora! — disse Kammamuri. — Tornerò a martellare — disse il rajaputo. — Un colpo che vada a posto, e la bestia sarà fuori di combattimento. — Tuttavia non fidiamoci, amico — disse Kammamuri. — Anzi, apriremo per bene gli occhi e gli orecchi. Ah, se ci fosse ancora un po’ di luce!... I leopardi avranno la pazienza di aspettare l’alba per darci addosso? Timul, hai piú nulla da bruciare? Il cercatore di piste frugò e rifrugò le sue numerose tasche finché mandò un grido di trionfo. — Ecco un’altra corda incatramata — disse — che io non ricordavo piú di avere indosso. Avremo un’ora di luce. — Accendi subito — disse Kammamuri — e vediamo come stanno le cose. Le belve ci minacciano qui dentro, i banditi del rajah possono giungere da un momento all’altro, scoprire la molla e venire a prenderci qui caldi caldi. Il cercatore di piste, tutto lieto di aver trovato quella seconda funicella, si affrettò ad accenderla. Un altro vivissimo sprazzo di luce si diffuse dentro la caverna legnosa, diradando d’un tratto le fitte tenebre. — Vediamo un po’ — disse Kammamuri. — Ecco il passaggio, ed ecco qui il leopardo tutto sanguinante, che non dà ormai piú segno di vita. Si avvicinò all’apertura e vide un enorme pezzo di parete caduta al suolo. — Quelle bestie devono aver lavorato molto bene di denti — disse. — Ma già si sa che le loro mascelle sono armate quasi al pari di quelle delle tigri. Guardò la bestia, che occupava col suo corpo parte del passaggio, rialzò, aiutato dal rajaputo e da Timul, la parete sfondata, e tappò coi vecchi tappeti quanto rimaneva di vuoto. — State zitti un momento — disse poi. Si era gettato al suolo e si era messo in ascolto. Una forte corrente d’aria continuava a passare attraverso le fessure, rumoreggiando stranamente dentro la caverna legnosa. — Si direbbe che qualche torrente serpeggia attraverso questo misterioso condotto — mormorò. Si volse verso il gurú, il quale si era seduto tranquillamente su un covone di paglia marcita e che pareva sonnecchiasse, e gli domandò: — Da questa parte tu uscisti? — Sí, sahib. — Trovasti dell’acqua? — Allora no. — Eppure vi è un torrente che rumoreggia. — Io non so nulla. — Potevo fare a meno d’interrogarti. È sempre la solita risposta. Tu non sai mai nulla, gurú. Lo sappiamo che sei vecchio. Il rajaputo si era avvicinato al maharatto, il quale ascoltava sempre con estrema intensità, e gli chiese: — Si può andare? — Dove? — Fuori. Io ne ho abbastanza di questa specie di prigione, e vorrei essere già ben lontano. — E se la luce venisse novamente a mancare? Sarà meglio che aspettiamo l’alba. Il gurú ha affermato che allora anche qui ci vedeva senza bisogno di fanali o di torce. — Credi a quell’uomo che ignora sempre tutto? — brontolò Kammamuri, stringendo i denti. Stava per coricarsi presso l’apertura, temendo sempre che qualche altro leopardo tentasse di irrompere nell’interno del gigantesco tara, quando Timul gridò: — Spengo! spengo! — Che cosa? — chiese il maharatto. — La corda incatramata. — Perché? — Sento venire dei cavalli• I miei orecchi non possono ingannarsi. — Che i banditi di Sindhia ritornino per vedere se noi siamo stati divorati? — È probabile, sahib. — Allora piú nessuna luce. Questo colosso potrebbe avere delle fessure. Il giovane cercatore di piste spense rapidamente la corda mettendovi sopra un piede, poi quando le tenebre ripiombarono dentro il rifugio, tutti si misero in ascolto, in preda ad una vivissima ansietà. — Odi, sahib? — chiese Timul dopo qualche istante. — Sí, il galoppo di parecchi cavalli che si avvicinano — rispose Kammamuri. — Ed anche delle grida. — Sí, anche delle grida. Sono i banditi del rajah che vengono a fare una visita ai nostri corpi colla speranza di trovarli bene spolpati. — Che ci prendano questa volta, sahib? — Non siamo ancora nelle loro mani — rispose il maharatto. — Sindhia avrebbe potuto ammazzarci dentro il sepolcreto senza far correre tanto i suoi cavalieri. Avevano tutti accostato un orecchio al suolo, e udivano distintamente il rumore prodotto da molti cavalli lanciati a corsa sfrenata. — Sí, vengono — disse Kammamuri. — Ma non li aspettiamo qui, giacché abbiamo ancora un pezzo di corda incatramata. — Vorreste fuggire, sahib, per il condotto segreto? — chiese il gurú. — Vorrei tentarlo. — E se vi sono delle acque? — Le attraverseremo. — Un bagno non farà male — disse il giovane cercatore di piste. — E poi siamo tutti buoni nuotatori; anche tu, gurú, non è vero? — Nuoto come un indiano che fino dai primi anni ha sfidato le correnti sacre di non so quanti fiumi. Il fragore dei cavalli era bruscamente cessato al piede del gigantesco vegetale. Kammamuri ed il rajaputo si alzarono silenziosamente, piano piano si accostarono alla porta aperta dalla molla e si misero in ascolto. La voce del capo dei banditi echeggiava alta al di fuori. — Dove sono andati quei cani? — urlava. — Eppure li abbiamo ben legati a questa pianta! — Le tigri li avranno portati via — rispose un altro cavalleggero. — Ma non si vedono delle ossa qui, né brandelli di stoffa. — Quelle bestie li avranno portati via, dentro le loro tane. — Io vorrei peraltro essere sicuro, prima di tornare nella pagoda — rispose il comandante. — Il rajah sarebbe capace di farci tagliare la testa a tutti prima del sorgere dell’aurora. — Venga qui lui a cercare le ossa dei fuggiaschi. — Ora sta cenando, e si è fatto preparare un lettuccio con dei tappeti che abbiamo trovati nelle gallerie della pagoda. Non si disturberà per cosí poco. — Allora possiamo ritornare. — Sí, se t’incarichi tu di avvertirlo che dei prigionieri non abbiamo trovato nessuna traccia. — Non voglio sfidare la sua collera. Io ne ho abbastanza di questa notte. Il rajah finirà col farci morire di fatica e di fame. Renda la corona al Maharajah ed alla rhani, e ci lasci un po’ tranquilli. Già, tanto la partita è perduta: il colera distrugge senza rimedio un gran numero di uomini; poi ci sono quei demoni scatenati venuti dai lontani paesi con armi cosí micidiali che decimano le colonne in un batter d’occhio. — E tu vorresti andartene? — Ho fame e sonno anch’io, capo — rispose il cavalleggero che fino allora aveva parlato. — Io invece non ancora. — Vuoi cacciarti nella jungla ed aprire il ventre delle tigri per vedere se i fuggiaschi sono stati trangugiati? — Non sarò cosí stupido! — rispose il capo. — C’è troppa oscurità, e noi non abbiamo un fanale. Successe un breve silenzio, poi i cavalli, che dovevano essere parecchi, tornarono a scalpitare ed a nitrire. Il rajaputo si era accostato a tentoni al maharatto, il quale ascoltava sempre. — Se ne vanno? — gli chiese. — Non ancora — rispose Kammamuri. — Parlano sempre dinanzi alla pianta? Che cosa aspettano? Noi forse che saltiamo fuori colle pistole? — Noi non commetteremo una cosí grossa sciocchezza! Ci conviene rimaner qui ed aspettare. — Che entrino e ci uccidano tutti? — Se avessero scoperta la porta, sarebbero già qui. Pare invece che non sappiano quale decisione prendere. — Ascolta bene! — disse il gigante che si era appoggiato contro la porta, la quale già tentennava. — Parlano di dare fuoco all’albero e di cremarci. — Ma noi non ci lasceremo certamente arrostire — rispose Kammamuri. — Queste piante sono molto ricche di resina, e bruciano come torce a vento. Il capo ed i suoi uomini avevano ripresa la conversazione. — Io ho udito raccontare di grosse piante scavate — diceva il primo. — Chi sa che gli uomini che cerchiamo non siano lí dentro invece che nelle budella delle tigri? — Ho questo dubbio anch’io — rispondeva un’altra voce. — Anche tu, Kimal? — Sí, capo — rispose l’individuo che doveva portare quel nome. — La scomparsa di quegli uomini è troppo misteriosa. — Li avevamo legati ben bene, e da sé soli non potevano liberarsi dai lacci. — Che qualcuno li abbia aiutati? — Quel bramino veramente mi è persona sospetta... — È il segretario del rajah. — Che cosa importa? Dei traditori se ne trovano dappertutto. Prova a picchiare col calcio della carabina contro il tronco di questo enorme albero. Un gran colpo risonò seguito da parecchie grida di trionfo. — Ah! — esclamò il capo colla sua voce tagliente. — Ha risonato come una botte vuota. Andate a fare raccolta di legna e tentiamo di mandare in fiamme questo tara gigante. Kammamuri, a cui non era sfuggita una parola, trovandosi proprio dietro il pezzo di corteccia che la molla aveva fatto sollevare, si alzò rapidamente. — Stanno per arrostirci — disse al rajaputo che lo seguiva come un’ombra. — Ho udito anch’io, sahib — rispose il gigante. — Che cosa decidi? — Di fuggire e senza ritardo. — Per quel passaggio, che ha servito al leopardo per giungere fino a noi? — Non abbiamo altra ritirata. — Ma tu hai detto che hai udito delle acque scrosciare. — È vero — rispose il maharatto. — Che ci sia qualche fiume sotterraneo? — Se c’è, non ci farà paura. Meglio l’acqua che il fuoco. Fuori i banditi continuavano a picchiare coi calci delle carabine contro la pianta, per accertarsi meglio se era vuota. Disgraziatamente il suono sempre eguale, rivelava la cavità del tronco. — È tempo di filare — disse Kammamuri al rajaputo. — Finiranno col trovare anche la porta e sfondarla. — Se non preferiranno cucinarci — rispose il gigante. — Ragione di piú per sgombrare subito. Quest’asilo è ormai diventato troppo pericoloso. Retrocessero verso la rotonda, cercando di non fare il minimo rumore, e urtarono contro Timul ed il gurú i quali, assai inquieti, stavano per muoversi. — Dunque? — chiese il sacerdote. — Siamo presi! — rispose Kammamuri. — Siamo stati scoperti, bisogna fuggire e presto, poiché quelle canaglie minacciano di bruciare il tara. Chi resisterebbe qui dentro? — Nessuno — disse Timul. — Quanto può durare ancora la tua corda? — Ben poco, sahib: ne abbiamo già consumata assai. — Accendi, e vediamo dove va a finire quel passaggio. — Non scorgeranno la luce dal di fuori? — La porta non è stata ancora aperta. — Vi possono essere delle fessure. — Già, sono convinti che noi siamo qui. Gurú, lascia da parte la tua eterna vecchiaia, e guidaci. — Io farò quello che potrò, sahib — rispose il sacerdote. La corda fu accesa ed i quattro uomini si slanciarono là dove si trovava ancora il cadavere del leopardo. Lo rimossero e si cacciarono nel passaggio rombante d’acque scorrenti. Timul agitava la sua meschina torcia per far lume ai compagni. Si era messo alla testa, comprendendo che il gurú a nulla avrebbe servito, né come guida, perché non si ricordava mai di nulla, né come un uomo pronto ad aiutare, perché era troppo vecchio. — Presto! Presto! — diceva Kammamuri, il quale conservava sempre un sangue freddo ed una calma ammirabili. — Mi pare già di sentire puzzo di fumo. — Anche a me — disse il rajaputo, sostenendo il povero sacerdote, il quale pareva fosse completamente esaurito. Alla base del gigantesco vegetale si apriva nella massa legnosa una specie di budello, sufficiente al passaggio di una persona. — Chi l’avrà aperta questa via? — si chiese Kammamuri. — Certamente gli stessi uomini che hanno scavata la rotonda. Già tu, gurú, non saprai nulla. — Io allora ero nella pagoda di Tsama, che è molto lontana di qui — rispose il sacerdote colla sua voce sempre monotona e misurata. — Ti pare di sentire odore di fumo? — Qualche cosa deve bruciare non lontano da noi. — Almeno il naso lo hai ancora buono! — disse il maharatto ironicamente. Tutti si erano spinti innanzi, temendo che da un momento all’altro il tara si trasformasse in una fiaccola spaventosa. Un acre odore di fumo un po’ resinoso continuava a diffondersi, provocando fra i fuggiaschi dei violentissimi colpi di tosse. Le radici dell’enorme vegetale erano finite, sicché la marcia era diventata rapidissima. Il fondo di quel fiume sotterraneo d’altronde non aveva che una lieve pendenza ed era costituito da tutti i detriti della vicina jungla. Trascorsero cinque minuti angosciosi, poi la corda di Timul si spense bruscamente. — È finita — disse il povero giovane. — Addio luce! — La nostra situazione veramente è poco allegra — disse il maharatto — ma non siamo ancora morti. Ah, se avessimo potuto portare con noi la grossa lanterna di marina!... Anche quella ci hanno presa quei dannati banditi! — Tenete alte le pistole — disse in quel momento il rajaputo. — L’acqua tende ad aumentare. — Ancora? — chiese Kammamuri. — Sí, sahib. — Com’è il fondo? — Sempre buono, quantunque assai limaccioso: Si erano presi per mano, perché il deviare di qualcuno, fra quella profonda oscurità, sarebbe stata una vera sentenza di morte. L’acqua intanto aumentava sempre. Già giungeva fin quasi al petto dei fuggiaschi, ed era un’acqua freddissima che dava dei brividi. Sempre tenendosi per mano, continuarono la terribile marcia fra le tenebre, e dopo un certo tempo si udí Timul, che stava in testa al piccolo drappello, esclamare: — Vedo un’apertura. — Dinanzi a noi? — chiese Kammamuri. — Sí, sahib, e molto ampia. — Le acque si precipitano verso quella? — Non mi pare; anzi il fondo si alza rapidamente. Io sono immerso solamente fino alle ginocchia, mentre poco fa correvo il pericolo di annegare. — Hai bagnata la pistola? — No: mi è troppo cara. Ci sarà preziosa nella jungla. — Ma tu credi che noi sboccheremo in mezzo al regno delle tigri? — Io so che possiamo uscire, e posso dirti che non si sente piú odore di fumo. Dobbiamo essere già ben lontani dal piede del tara. — Che qualche divinità ci abbia protetti? — Lo credo — rispose il gurú che si tenera stretto fortemente al rajaputo temendo di rimanere indietro. — Alto! — comandò in quel momento Timul. — La terribile prova è finita. Anche questa volta la dea della morte non ci ha voluti! CAPITOLO XIV. IL CAVALLO DEL BANDITO I quattro fuggiaschi si erano trovati improvvisamente dinanzi ad un’arcata, la quale forse doveva segnare la fine di quel corso d’acqua misterioso e del grande condotto. Attraverso all’immenso squarcio si vedevano scintillare le stelle ed un lembo di cielo che pareva rosseggiasse. — L’alba? — chiese il rajaputo, prendendo fra le braccia il gurú, il quale non si reggeva piú in piedi. — No, — rispose Kammamuri. — Quella non è tinta di aurora. — Come spieghi questo mistero, sahib? — In un modo semplicissimo. Il tara brucia e proietta le sue vampate verso il cielo. — Allora siamo fuggiti a tempo. — Cosí pare, e credo che tu non avrai da lagnarti. — Veramente no, poiché mi credevo proprio perduto. — Sale il fondo? — Sí, sahib — disse Timul che era sempre dinanzi a tutti. — E l’acqua è scomparsa? — Non ve n’è quasi piú. — Un ultimo sforzo, miei poveri amici, poi in qualche luogo, sia pure nel regno delle tigri, noi ci riposeremo. Ormai io non temo piú i banditi di Sindhia. Si spinsero innanzi e passarono sotto l’arcata, la quale appariva in piú luoghi diroccata. Il cielo, che rosseggiava sempre, permetteva di vedere abbastanza bene. Pareva che una piccola aurora boreale si fosse stesa sulla jungla, fenomeno affatto sconosciuto dagli indiani. Timul con uno sforzo supremo raggiunse una enorme macchia di tamarindi, la quale cresceva a poche decine di metri dall’arcata, e vi si cacciò dentro, lasciandosi cadere al suolo completamente estenuato. I morsi delle sanguisughe lo facevano orribilmente soffrire, e da quelle minuscole ferite il sangue scorreva. Kammamuri e gli altri lo avevano subito raggiunto. In lontananza una fiaccola gigantesca ardeva, lanciando in aria colonne di fumo rossastro e nembi di scintille, che il vento trasportava attraverso la jungla, col pericolo di provocare altri incendi. Era l’enorme tara che se ne andava, a pezzo a pezzo, lasciando cadere intorno a sé una vera pioggia di fuoco. — Da quale pericolo siamo scampati! — esclamò il maharatto, il quale succhiava avidamente un frutto di tamarindo ben maturo che aveva raccolto. — Un’ora di ritardo, ed i banditi ci arrostivano. — E dove siamo adesso? — chiese il rajaputo. — Come ben vedi, dinanzi a noi si stende la jungla. — Brutto posto per cercare un rifugio, sahib! Specialmente quando non si hanno armi grosse. — Anche tu cominci a diventare noioso come il gurú. — Fra me ed il sacerdote passa molta differenza. Sono l’orso delle montagne io, son capace di affrontare una tigre anche senza armi e di spezzarle le costole. — È un po’ troppo! — disse Timul. — Il leopardo è caduto cosí! — rispose il gigante. Kammamuri intanto aveva fatto il giro della macchia dei tamarindi, entro la quale si udivano urlare furiosamente alcuni sciacalli in cerca di un po’ di cena. — Sahib, — disse il rajaputo — ci accamperemo qui fino all’alba? — Non saprei trovare altro luogo migliore piú vicino — rispose il maharatto. — E se i banditi di Sindhia giungessero? — Ormai ci credono morti, e si riposeranno anche loro. — Avessimo la loro cena!... — Contentati di queste frutta acide assai rinfrescanti. Timul, sapresti guidarci ancora alla pagoda? — Perché sono un cercatore di piste? — rispose il giovane. — Mi sarebbe però necessaria una corda, e non ne ho piú. E poi, perché tornare laggiú verso il pericolo, invece di approfittare del momento per fuggire e raggiungere la grande via che conduce alle montagne? — E con quali cavalli percorreremo il lunghissimo tratto? — Vorreste sorprendere i banditi? Pessimo affare: è meglio lasciarli a scaldarsi intorno al tara. — È già caduto! — gridò il rajaputo, il quale non si era coricato un istante. Infatti verso ponente non si vedevano piú alzarsi né fiamme, né scintille. Il colosso divorato dal fuoco aveva ceduto dopo una vita di secoli. — Sahib, — chiese il rajaputo — che cosa decidi? Di rimanere qui? — Sí, almeno fino all’alba — rispose Kammamuri. — Siamo troppo sfiniti per riprendere la marcia. — È vero — confermò il gurú. — Se ci lasceranno riposare tranquilli... — disse Timul. — Le vostre pistole sono asciutte? — chiese il maharatto un po’ trepidante. — La mia sí — rispose il rajaputo. — Mi premeva troppo di conservarla. Son certo che sparerà subito i suoi due colpi. — E tu, Timul? — Anche la mia — rispose il giovane. — Il colpo non mancherà nemmeno a me. Era inutile domandarlo al gurú, poiché non aveva avuta alcuna arma da fuoco. — Abbiamo sei palle da lanciare — proseguí Kammamuri. — Sono poche, ma possono essere di molto aiuto in qualche momento difficile. Non finirò di lodare mai quel bravo bramino che è sempre rimasto amico del Maharajah anche dopo il ritorno di Sindhia. A lui dobbiamo la nostra vita e queste armi. — Senza quell’uomo, il rajah ci avrebbe fatti subito scorticare prima di uscire dal sepolcreto — disse il rajaputo. Si erano tutti coricati fra le foglie secche e ben soffici, ed aprivano gli occhi piú che potevano per sorprendere qualche nuovo nemico, niente affatto desiderato in quel momento. Si udiva intorno alla macchia come una specie di galoppo leggero, il quale non cessava di avvicinarsi. — Per la morte di Kalí! — disse il maharatto. — So di che cosa si tratta. Niente elefanti, niente bufali e niente rinoceronti. Farebbero molto piú fracasso. — Eppure, qualcuno continua a girare e rigirare intorno alla macchia — disse il rajaputo. — È un cavallo montato certamente da qualche bandito di Sindhia. — Lo hai veduto, sahib? — Il leggero galoppo lo tradisce — rispose Kammamuri. — Ah, se potessimo almeno impadronirci di quell’animale! — Siamo in quattro, sahib, — disse Timul. — Per ora contentiamoci di uno. Ne approfitterà il gurú, che non può piú tenersi in piedi. Noi siamo forti camminatori, e le montagne di Sindhia le raggiungeremo anche con le nostre gambe... Chi arresta quella bestia? — Io, sahib, — disse il rajaputo. — Getterò a terra cavallo e cavaliere. — Non fare fuoco: accorrerebbero altri banditi. — Per il cavaliere mi servirò solamente del calcio della pistola. Tu sai che io picchio sodo. — Anche troppo, amico. — Lascia fare a me, sahib: fra cinque o dieci minuti noi avremo quel cavallo nelle nostre mani, se si tratta veramente di un trottatore. — Ti dico che non si tratta di una bestia selvaggia. — Sí, è un cavaliere — disse Timul, il quale si era spinto fuori dalla macchia. — Cerca le nostre tracce. — Ci penso io subito! — disse il rajaputo, alzandosi di scatto. — Vuoi che ti aiuti? — chiese Timul. — Tu sei troppo debole per arrestare un cavallo in corsa. Non sei meno sfinito del gurú, dopo il salasso delle sanguisughe. — Questo è vero. — Allora rimani qui tranquillo presso il sahib. Basto io per sbrigare questa faccenda. Sahib, parto. — Ti raccomando di non far uso della pistola — gli disse Kammamuri. — Niente spari per ora. — Come ti ho detto, non adopererò che il calcio dell’arma e contro il cavaliere, non già contro il cavallo che io voglio condurre qui vivo. — Se mai, noi siamo pronti ad accorrere in tuo aiuto. — Io spero di non aver bisogno di nessuno. Ascoltò un momento, poi si slanciò rapidamente fuori dalla macchia, gettandosi subito in mezzo a dei cespugli di mindi, i quali potevano nasconderlo interamente. — Che uomo! — esclamò Kammamuri. — Se il signor Yanez ne avesse avuti duecento come lui, chi sa dove sarebbe a quest’ora Sindhia! Si era messo in ginocchio, impugnando per precauzione la pistola, e stava attento alla ricomparsa del cavaliere. Anche Timul si era alzato, mentre il povero sacerdote giaceva fra le foglie come una massa quasi inerte. — Odi? — chiese il maharatto al cercatore di piste dopo alcuni minuti di attesa. — Sí — rispose il giovane. — Il cavallo ritorna e per la terza volta. L’uomo che lo monta cerca le nostre tracce. — Sarà solo? — Non ho veduto altre ombre. — Ora vediamo che cosa saprà fare quel diavolo di rajaputo. Sono certo che manterrà la sua promessa. Si erano spinti verso il margine della macchia rimanendo nascosti sotto gigantesche foglie di banani, lunghe dieci ed anche dodici metri. Di là scorsero subito il gigante, il quale pareva non cercasse affatto di nascondersi. Si era gettato sulla via che doveva percorrere il cavallo, balzando come un orso in furore. Ora si abbassava fino a terra, ora scattava, piantandosi sulle gambe muscolose, e tendendo le possenti braccia. — Son sicuro che quell’uomo arresterà il cavallo in piena corsa! — disse Timul al maharatto. — Non ne dubito, amico. È forte come un piccolo elefante. Intanto il galoppo si avvicinava sempre, ma senza produrre troppo rumore. Il cavaliere doveva avere le sue buone ragioni per prendere delle precauzioni. Ad un tratto da un macchione sbucò un bellissimo cavallo tutto bianco, il quale andava alla carica. Il rajaputo si era slanciato ben deciso a impadronirsi della cavalcatura e non già del cavaliere, che sarebbe stato piú d’imbarazzo che d’utilità. Essendo la notte tornata abbastanza chiara, aveva veduto distintamente il corridore, e prese le sue misure per atterrarlo senza rompergli le gambe o spezzargli le costole. Comparve improvvisamente dinanzi al cespuglio che lo aveva nascosto e gridò al cavaliere: — Ferma o sparo! — Chi sei tu? — Te lo dirò quando ti avrò scavalcato — rispose il rajaputo. — Qualcuno di quei cani che il Maharajah... Non poté finire la frase. Il gigante aveva afferrato risolutamente il cavallo e lo stringeva forte alle narici, resistendo vigorosamente all’urto. Doveva essere molto forte quell’uomo, piú forte di un orso delle montagne indiane! Il trottatore mandò un sordo nitrito, poi cadde di quarto, sbalzando di sella il suo guidatore. — A me! — gridò allora il rajaputo. Intanto Kammamuri e Timul si precipitavano fuori dalla macchia, impugnando le pistole e gridando: — Siamo qui. In un baleno giunsero addosso al cavallo e subito lo immobilizzarono. Il cavaliere non aveva mandato nemmeno un grido. Aveva battuto forte il capo e pareva morto. — Tu sei un brav’uomo! — disse Kammamuri al rajaputo. — Non ti credevo cosí forte. — Grazie, sahib. — Sei stato ferito? — Niente affatto. Ho rovesciato l’animale prima che mi passasse addosso, e, come vedi, l’ho abbattuto. Il cavaliere, un bandito di Sindhia certamente, giaceva cinque metri piú là, colle braccia spalancate. Non parlava piú e non aveva piú la forza di rialzarsi. — È un uomo morto — disse il rajaputo. — Meglio cosí. Noi non abbiamo bisogno di prigionieri. Timul intanto aveva rialzato il cavallo coll’aiuto del maharatto. La povera bestia scalpitava e tentava di fuggire, ma non poteva ormai fare un passo, poiché anche il rajaputo era accorso. — Buona presa! — disse Kammamuri. — Due fonde, ben fornite di viveri probabilmente, ed una carabina. Valeva la pena di tentare il colpo. — Che sia proprio morto il bandito? — chiese il giovane cercatore di piste. — Non occuparti di lui — rispose il rajaputo. — Deve essersi spaccato il cranio contro il suolo o contro qualche tronco. Se fosse ancora vivo, urlerebbe come una bestia feroce. — Torniamo alla macchia — disse Kammamuri, il quale aveva già tolto al povero bandito un tarwar di dentro un’alta fascia di tela grigia. — Forse non era solo, e mentre noi stiamo qui, gli altri ci spiano. — Io non odo nessun galoppo di cavalli ora — disse Timul, soddisfatto. Il rajaputo afferrò la bestia per le briglie, col suo pugno di ferro, e quantunque non cessasse d’impennarsi, la trasse verso la macchia, diventata ormai il loro rifugio. Prima di giungervi ascoltarono parecchie volte, temendo sempre che nuovi cavalieri giungessero; poi rassicurati dal gran silenzio che regnava nella jungla, interrotto solo da qualche urlo di sciacallo, si cacciarono rapidamente sotto gli alberi, dove il gurú li aspettava piú morto che vivo. — Vuota la fonda — disse il maharatto al rajaputo. — Deve essere ben fornita. — Poca cosa, sahib, — rispose il gigante. — Una bottiglia di birra, che sarà cosí acida da non potersi bere, cinque gallette, delle palle e della polvere per la carabina. Il rajah non spende troppo a mantenere i suoi uomini. — L’arma grossa ci era necessaria — disse Kammamuri. — Le pistole saranno armi buonissime, ma contro le tigri ed altri grossi animali non hanno mai avuto fortuna. Dammi il fucile. — Bada che è carico, sahib, — disse il rajaputo, il quale intanto aveva rapidamente legato il cavallo sempre ricalcitrante. Non si trattava veramente di una di quelle grosse carabine che usavano le tigri della Malesia, tuttavia doveva avere una buona portata. Kammamuri, tutto contento di quel regalo inaspettato, diede ordine di dispensare quelle poche gallette e di sturare anche la bottiglia. — Non moriremo d’indigestione — disse il rajaputo. — Fra cinque minuti avremo piú fame di prima. — Prenditi anche la mia — disse Kammamuri. — Io posso farne a meno per ora. Non sono grosso e robusto come te. — Oh, no, sahib! — rispose il rajaputo. — Ognuno si prenda la sua parte e se la mangi. Alla birra potete rinunciare, poiché è assolutamente imbevibile. Ha preso troppo sole. I quattro uomini, un po’ scoraggiati per la meschinità della preda, si misero a sedere ai piedi d’un grosso albero con le spalle appoggiate al tronco e cominciarono a sgretolare lentamente le durissime gallette. Il rajaputo, che le aveva conquistate, ne ebbe una di piú. — Ed ora, sahib? — chiese Timul al maharatto, il quale continuava ad osservare la carabina. — Rimarremo qui in attesa di altri cavalieri? Io ho il presentimento ben poco allegro di vederci circondari dentro la jungla. Il bandito, che il rajaputo ha scavalcato, non doveva essere solo. — Non lo credo nemmeno io, amico. Era un esploratore mandato innanzi per spiarci — rispose Kammamuri. — Sindhia mette un’ostinazione veramente feroce nel darmi la caccia. — Eppure, noi non siamo che dei poveri uomini in continua fuga. Non siamo ministri del Maharajah. — Quella canaglia voleva che io lo conducessi là dove il signor Yanez ha sepolti i tesori suoi e quelli della rhani. Deve essere molto corto a denari. — Tu, sahib, lo sai dove quelle ricchezze si trovano? — Lo sa anche il rajaputo — disse Kammamuri. — Ma Sindhia non metterà la mano su quel tesoro che deve essere ingentissimo. Si tratta di milioni di rupie fra monete d’oro e gioielli. — Sí, lo so anch’io — disse il gigante, mentre rosicchiava lentamente la sua seconda galletta. — Il Maharajah non aveva segreti pei suoi fidi. Il rajah potrà tagliarmi in venti pezzi o legarmi alla bocca d’un cannone, ma da me non saprà nulla; forse... Timul lo interruppe, tendendo l’orecchio. — Questo non è l’urlo d’uno sciacallo! — disse il giovane cercatore di piste. — Ma è molto bene imitato. — Qualche segnale? — chiese Kammamuri balzando in piedi. — Certo, sahib. Tu conosci gli urli di quelle bestie meglio di me: ascolta un momento. Tutti erano rimasti silenziosi; solamente il cavallo continuava a scalpitare furiosamente ed a nitrire. — Sahib, — disse ad un tratto il giovane cercatore di piste — noi abbiamo fatto male a non finire con una pistolettata il bandito che cercava di spiarci. — Ma col gran salto che ha fatto — disse il rajaputo — dev’essersi spaccata la testa. — Ci dovevamo assicurare — disse Timul — se era realmente morto. Ecco ancora l’urlo, o meglio, il segnale. Si erano alzati tutti tendendo gli orecchi, quando un urlo ruppe il silenzio, un urlo stridulo che doveva uscire dalla gola d’uno sciacallo. Il cavallo, udendo quel richiamo, si era impennato, e tentava di rompere le briglie. — Hai notato, sahib? — chiese il giovane cercatore di piste. — Sí — rispose Kammamuri, diventato improvvisamente pensieroso. — Questa bestia ode il segnale del suo padrone e cerca di fuggire per raggiungerlo. — Ci siamo noi bensí — disse il rajaputo. — Ci è troppo preziosa e non la lasceremo scappare. Non so come se la caverà il gurú quando lo avremo messo in sella. — Un giorno sono stato anch’io un cavaliere — disse il sacerdote. — Ho fatto molte campagne prima di seppellirmi in una pagoda ad attendere la morte. — Ti getterà subito a terra — disse Timul. — Non vedi come s’impenna? — Saprò domarlo. Per la terza volta l’urlo dello sciacallo echeggiò altissimo nella notte e piú stridulo di prima. Il cavallo, udendo quel nuovo segnale, s’inalberò di nuovo tentando di rompere le briglie. Ma il rajaputo, che lo sorvegliava attentamente, in un momento gli fu addosso, lo prese strettamente per le narici e tornò a farlo cadere, badando che non si rompesse le gambe o le costole. — Di questo cavallo noi non faremo niente, se prima non avremo la certezza che il suo padrone è morto — disse. — Non so chi mi trattenga dal prenderlo a pugni. — Lo rovineresti — disse Kammamuri. — Metti le mani in tasca e lascialo riposare. — Allora dammi la carabina, sahib, e lasciami partire. — La notte è ancora oscura. — Saprò dirigermi egualmente — rispose il gigante, afferrando vivamente il grosso fucile. — Tu sei pazzo! — disse Kammamuri. — No, sahib; lasciami andare — disse il rajaputo con ostinazione. — Con quest’arma mi sento assolutamente sicuro. — E dove vuoi andare? — A vedere se il cavaliere è ancora vivo. — O non si è spaccata la testa? — Io l’ho veduto fare un gran salto dentro il cespuglio che mi proteggeva, ma non posso dire proprio che sia morto. Te lo ripeto: noi abbiamo avuto il torto di non finirlo con una pistolettata. — Credi dunque che sia lui che chiama il cavallo? — Sí, sahib. — E lo credo anch’io — disse Timul. — Si vede bene che il cavallo sente la chiamata del padrone. — E alla prima occasione ci scapperà. — Allora andiamo a finire il suo padrone, se vive ancora — disse il rajaputo con un sorriso feroce. — To’, ecco di nuovo quel maledetto urlo dello sciacallo. L’odi tu, sahib? — Sí! E senti come il cavallo risponde con lunghi nitriti — disse il maharatto. — Segno evidente che il bandito è tutt’altro che morto! — Che i cavalieri di Sindhia siano già giunti e che cerchino di accerchiarci? Sarebbe meglio sgombrare di qui senza aspettare l’alba. — Sono del tuo parere, sahib, — disse Timul. — Non ci sarà facile attraversare la jungla; tuttavia è sempre meglio aver da fare con qualche altra bâgh, piuttosto che coi cavalieri del rajah, che saranno certamente armati di carabine. — Tentiamo la sorte! — disse il maharatto. — La grande via che conduce alle montagne è molto lontana, gurú? — Non mi ricordo — rispose il sacerdote, facendo girare le dita con aria distratta. — Fuori della pagoda sei un uomo morto. — Quella era la mia casa. — Ci torneresti volentieri? — Sí, sahib. — E se fossero giunti i banditi del rajah? — Non oseranno attaccare un tempio. — Lo hanno già assalito, e per poco non ci hanno presi dentro il sepolcreto. — Intanto siamo ancora liberi — disse il gurú colla sua solita voce tranquilla e sfiatata. — Sahib, — disse il rajaputo — andiamo via di qui e senza troppo ritardare. Ora sono io che te lo dico. Kammamuri si avvicinò al cavallo, il quale non cessava di sbuffare e di mordere il morso, tentando sempre di fuggire, e dopo averlo un po’ accarezzato gli montò sulla groppa che non aveva piú sella, perduta forse durante la sua corsa furiosa attraverso la jungla, e strinse con mani di ferro le briglie. — Vediamo un po’ se i maharatti sanno ancora domare i cavalli! — esclamò. — Non hai né sella, né staffe — disse il rajaputo. — Non importa. — E dove vuoi andare, sahib? — Lascerò che il cavallo galoppi in cerca del suo padrone. Voi rimanete qui, e non movetevi finché non torno. — Sahib, il cavallo è robusto e può benissimo portare due persone. Lascia che monti anch’io dietro di te. — Sei troppo pesante. Preferisco Timul, anche perché è un cercatore di piste. — Gli darò il mio tarwar. — No, conservalo. Ho la carabina io e parecchie palle da sparare. Tu puoi averne bisogno durante la nostra assenza. — Sta’ in guardia, sahib: non fidarti di quella bestia stregata. — Avrà da fare colle mie ginocchia. Sali, Timul. Il giovane cercatore di piste con un balzo fu dietro al maharatto. Il cavallo fece uno scarto terribile e tentò di slanciarsi a corsa vertiginosa, ma fu subito trattenuto. Il rajaputo era subito accorso e l’aveva preso per le narici stringendogliele fortemente. — Lascia andare ora — disse Kammamuri raccogliendo le briglie. — Vediamo se saprà portarci dal suo padrone. Il trottatore fece un secondo scarto tentando di sbarazzarsi dei due uomini, poi partí come una saetta. Saltava tronchi d’albero, passava in piena volata attraverso ai cespugli, mandando dei sonori nitriti. — Questa bestia ha l’argento vivo addosso — disse Timul, il quale si teneva bene stretto al maharatto. — Ci porterà molto lontani in pochi minuti. — Odi? — Sí, ancora il richiamo. — Questa volta troveremo quel bandito e lo finiremo. Il cavallo galoppava sempre piú furiosamente, colle nari aperte, la bocca piena di schiuma sanguigna, mandando di quando in quando dei nitriti soffocati. Kammamuri lo lasciava correre, ma non gli allentava le briglie. Le sue ginocchia poi stringevano fortemente comprimendo i fianchi dell’indiavolato trottatore. — Questa bestia finirà per accopparci — disse Timul. — No: si sente troppo bene guidata e comincia già a cedere. Infatti il trottatore non s’impennava piú, né tentava di fare dei bruschi scarti o qualche pericoloso salto di montone. Per dieci o quindici minuti i due uomini galopparono attraverso la jungla che era sempre tenebrosa, poi il cavallo si arrestò di colpo presso un gruppo di foltissimi bambú e cominciò a nitrire. — Il bandito non dev’essere lontano — disse Kammamuri. — Si è bene imboscato. Mi stupisco che la tigre, la quale è passata di qui, lo abbia risparmiato. — Quella bâgh voleva assaggiare le nostre carni, sahib, — disse Timul. — Devo scendere? — Non ancora: vediamo che cosa fa questa bestia ora che pare vicina al suo padrone. Il cavallo non si muoveva. Mandava dei deboli nitriti, quasi dolci, e volgeva gli orecchi per raccogliere i piú lievi rumori, ma la jungla era tornata silenziosa. Solamente in alto squillavano i grossi pipistrelli chiamati anche volpi volanti. — Sahib, — disse il giovane cercatore di piste — vuoi darmi la tua carabina? — Tu vorresti andare in cerca del bandito, ma bada: io sospetto che abbia qualche arma da fuoco. Non hai udito due colpi di pistola? — Non mi sono sfuggiti, sahib. Puoi trattenere il cavallo per qualche po’? — Il morso è d’acciaio e le briglie sono fortissime — rispose Kammamuri. — Non mi scapperà di certo. — Non ti domando che cinque minuti. — E se il bandito non fosse solo? Qualche altro cavaliere del rajah può averlo raggiunto. — Non mi lascerò sorprendere — rispose il coraggioso giovane, prendendo la carabina che Kammamuri gli porgeva. — Fa’ presto. Temo sempre qualche nuova comparsa dei cavalieri del rajah. Possono avere anche loro qualche abile cercatore di piste. — Tieni ben fermo il cavallo, sahib; io non faccio che una corsa. Saltò a terra, armò la carabina, ascoltò un momento, poi disparve entro i bambú giganti, sotto i quali doveva essersi rifugiato il bandito, che già due volte la morte aveva risparmiato. Kammamuri teneva con forte mano le redini e stringeva le ginocchia piú che poteva contro i fianchi sempre pulsanti del trottatore. Passarono piú di cinque minuti, poi sotto i bambú si udirono rimbombare due colpi di pistola. — Che abbiano ucciso quel bravo ragazzo? — si chiese con angoscia il vecchio cacciatore della Jungla nera. Trascorso un altro minuto, fu la carabina che fece udire la sua voce ben piú poderosa di quella delle pistole. Il cavallo aveva tentato di fuggire verso la macchia, ma dovette novamente arrendersi. L’aveva da fare con un cavaliere esperto come tutti i maharatti, che forniscono ai rajah la migliore cavalleria. Con uno strappo violento lo fece retrocedere, poi con una possente stretta delle ginocchia lo costrinse quasi ad inginocchiarsi. In quel momento Timul comparve agitando la carabina ancora fumante. In un baleno raggiunse Kammamuri e gli disse: — Sahib, fuggiamo! — Hai scovato il bandito? — Sí, e spero di averlo ferito. — Dovevi ucciderlo. — Non potevo ben distinguerlo. Io ho fatto ciò che ho potuto. — Quella canaglia ha sparato contro di te? — Sí, due colpi di pistola senza prendermi, almeno credo. — È scappato poi quel briccone? — È sparito in mezzo ai bambú. Bada, sahib, ti avverto che ho udito il galoppo di numerosi cavalli avvicinarsi rapidamente. — I banditi di Sindhia vogliono prenderci prima che noi raggiungiamo le montagne di Sadhja. Ah, la vedremo!... Monta subito e carica la carabina. A te le munizioni. — Noi non ci lasceremo prendere da quei miserabili banditi. — Dobbiamo e vogliamo vivere per il Maharajah e per la rhani. In cammino! CAPITOLO XV. L’ASSALTO DEI COCCODRILLI Non albeggiava ancora, ma l’oscurità non era piú cosí densa come prima sulla grande jungla. Strisce di fuoco, che annunciavano l’imminente comparsa del grande astro, s’irradiavano per il cielo in varie direzioni allungandosi sempre piú rapidamente. Gli uccelli cominciavano a svegliarsi. Calavano a stormi presso la piccola radura o pigolando o cantando sonoramente. Erano per lo piú dei brutti marabú neri, degli aiutanti, dei pavoni scintillanti di colori e di sprazzi d’oro con gigantesche code. Calavano anche stormi di grossi pappagalli, i quali appena toccato il suolo si mettevano a ciangottare rumorosamente. Gli sciacalli invece tacevano. Fuggivano dinanzi a quell’onda di luce che stava per piombare sulla terra e si rifugiavano frettolosamente nei loro covi. Il minuscolo drappello si era messo in marcia animosamente. Lo precedeva il giovane cercatore di piste, poi veniva il rajaputo, che conduceva il cavallo montato dal sacerdote, e ultimo Kammamuri. Era questi l’unico uomo che potesse ancora sparare un colpo di fuoco. Come si sa, il bramino aveva regalate le pistole, ma si era dimenticate le munizioni adatte a quelle armi. — Ora ci affidiamo a te, gurú, — disse Kammamuri, dopo aver attraversata la macchia. — Ci hai detto che tu conoscevi questi luoghi. — Ci venni una volta infatti col mio compagno — rispose il sacerdote. In quell’istante lo stallone fece un balzo terribile che per poco non gettò a terra il gurú, e tentò di fuggire dalle mani d’acciaio del gigante. Kammamuri aveva puntata risolutamente la carabina mormorando: — O uomo o belva, qualcuno cadrà. Sento una voglia furiosa di sparare. — Sahib, — disse il giovane cercatore di piste abbassandogli la canna — pensa che vi sono dei banditi che ci cercano, e che udendo la detonazione, non tarderebbero a giungere. — Timul ha ragione — disse il rajaputo trattenendo a stento lo stallone, il quale faceva sforzi disperati per liberarsi e fuggire. — La detonazione li guiderebbe. — Lo so anch’io — disse Kammamuri stringendo i denti per l’ira. — Gurú! — Che cosa vuoi, sahib? — chiese il sacerdote, il quale ad ogni momento correva il pericolo di venire scavalcato. — È lontana quella torre? — Non credo. — Sai davvero guidarci? — Lo spero. — O ci condurrai invece in mezzo a qualche jungla popolata di tigri? — È piú probabile — disse il rajaputo con accento ironico. — Di quest’uomo non c’è da fidarsi. Il gurú chiuse e socchiuse parecchie volte gli occhi, poi disse sempre con voce monotona: — Io vedo già la torre. — In cielo? — chiese Kammamuri. — Aspetta un momento che mi orizzonti. Ah!... Ci sono! — Finalmente! — esclamarono il maharatto, il rajaputo ed il giovane cercatore di piste. — Sí, mi sento di condurvi a quel rifugio — disse il gurú. — Ti è tornata la memoria? — chiese Kammamuri sempre ironico. — Pare di sí. Io ho dormito, e per me il sonno è tutto. — Ma quanti anni hai? — Non lo so. — Giovane non sei piú di certo. — Pare anche a me — rispose il sacerdote. — Mi stanco facilmente e sento un desiderio immenso di dormire. — È il sonno che preannunzia la morte — disse Kammamuri spietatamente. Il gurú alzò le spalle, socchiuse ancora gli occhi, poi rispose: — La morte a noi sacerdoti non fa paura, poiché siamo certi di andare a godere le letizie del nirvana. — Speriamo di andarci anche noi in quel luogo delizioso, dove si raccolgono anche le anime dei guerrieri oltre quelle dei sacerdoti — disse Kammamuri. — Dio sa quanti peccati avete commesso! — Molti; ma tu che sei un uomo di religione, che rappresenti in terra la divinità, ci assolverai di tutti, spero. — Vedremo — rispose il gurú asciuttamente. In quel momento il cavallo fece uno scatto violentissimo, e per poco non sfuggí alle robuste mani del rajaputo. Il povero gurú, sbalzato di colpo, era andato a cadere nelle braccia di Timul, che si aspettava quella caduta, ed era stato lesto a rimetterlo in piedi. — Niente di rotto, gurú? — chiese il giovane. — Nemmeno una costola? — Siva protegge i suoi sacerdoti. — Meno male! — disse Kammamuri accorso in aiuto del rajaputo, il quale lottava fieramente contro il terribile stallone che non cessava d’inalberarsi e di sparare calci. — Come stai ora, gurú? — chiese il giovane cercatore di piste con una voce un po’ beffarda. — Benissimo: mi pare di essere caduto, non sulla terra, ma sul tappeto celeste di qualche divinità. — Fortunato mortale! A me ciò non succederà mai. Mi spaccherò la testa o mi romperò qualche costola. Lo stallone continuava a lottare contro il rajaputo ed il maharatto tentando perfino di morderli. — Ah, pessima bestia! — urlò il gigante furibondo. — Si domano le tigri e anche gli elefanti, e tu che non hai che le zampe per difenderti, vorresti rivoltarti a me? Aveva alzato il formidabile pugno, e stava per lasciarlo cadere con tutta la forza, risoluto a sbarazzarsi di quel pessimo cavallo, ma Kammamuri fu pronto ad intervenire gridando: — No, amico! È ancora troppo prezioso per quanto sia caparbio. Ci farà sempre comodo. — Io l’avrei ucciso — disse il gigante, dando allo stallone una furiosa strappata, che gli fece sanguinare la bocca. — Noi non ne ricaveremo nessun vantaggio finché il suo padrone non sarà morto; e finora le prove che sia partito per l’altro mondo non le abbiamo. — Chi sa che qualche bestia non lo abbia divorato. Timul assicura di averlo ferito. — Sí, sahib — disse il giovane cercatore di piste. — Dopo che gli ho sparato addosso la carabina, il bandito è scappato, ma mi è parso che zoppicasse. Anzi, urlava forte, il malandrino! — Lo finirò io! — disse il rajaputo stringendo i denti. — Quell’uomo è condannato. — Va’ dunque a cercarlo — disse Kammamuri. — Non so chi mi tenga... — Io! Io che comando come se fossi il Maharajah. — Obbedisco, sahib, — rispose il gigante — ma io non sarò tranquillo, finché saranno vivi questo cavallo ed il suo padrone. Il gurú che si era rimesso in arcione, aiutato da Timul, disse in quel momento: — Odor di selvatico! E dinanzi a noi! — Noi siamo qui pronti a difenderti e a difenderci — disse il maharatto. — Anch’io ho fiutato un odore a me ben noto. È il profumo di una bestia che è avida della carne umana. Vi è insomma un altro mangiatore di uomini. Si mostri, e cadrà come l’altro. — Si può andare? — chiese il rajaputo. — Vorrei trovarmi dentro la famosa torre, dove il sacerdote ha promesso di condurci. — Tieni sempre forte il cavallo — disse Kammamuri. — Non lasciarlo fuggire, ché raggiungerebbe i banditi di Sindhia. — Credi che ci diano sempre la caccia quei paria? — Sí, amico. Vogliono prenderci vivi. — Ah, la vedremo! — disse il gigante con rabbia. — Li accopperò tutti a pugni. — Bada che hanno delle armi da fuoco. — Huf! Delle semplici pistole forse. — Che qualche volta ammazzano anche un gigante. Lascia quindi in pace i banditi di Sindhia per ora. Piú tardi alla mia carabina faremo fare dei miracoli, se si presenterà l’occasione. Su, andiamo. Il rajaputo e Kammamuri afferrarono per le briglie lo stallone intrattabile e lo costrinsero ad andare avanti. S’impennava di quando in quando la bestia selvaggia, ma un pugno del gigante lo calmava subito. Il gurú sorrideva stupidamente e si lasciava condurre, quantunque corresse sempre il pericolo di rompersi il nodo del collo. Cominciava a fare assai caldo. Una vera pioggia di fuoco cadeva già sulla jungla, sollevando nuvolette di nebbia, che il vento via via disperdeva. Cantavano le gigantesche cicale mandando fischi acutissimi. Meravigliose farfalle, colle ali azzurre o giallastre, scintillanti, calavano dall’alto, succhiavano un fiore e poi fuggivano dentro le nuvolette di nebbia. Di quando in quando in qualche stagno si udiva rombare il nitrito antipatico del coccodrillo delle jungle, bestia terribile, che può con un colpo delle sue gigantesche mascelle, armate di denti acutissimi di forma triangolare come quelli dei pesci-cani, tagliare una gamba ad un uomo. Kammamuri era passato all’avanguardia, essendo il solo uomo che potesse arrestare od atterrare una belva, ma Timul si era affrettato a raggiungerlo. Il rajaputo intanto badava al cavallo, il quale di quando in quando, piú ostinato che mai, tentava di ribellarsi, con grande disagio e spavento del povero gurú. Per un paio d’ore il minuscolo drappello si avanzò fra bambú immensi e bassure umide e fangose, che avevano un brutto colore verdastro, poi Kammamuri disse: — Vi è molta acqua qui. Dove siamo, gurú? — Nella jungla — rispose il sacerdote. — Hai veduto degli stagni da queste parti? — Sí, sahib, ed assai pericolosi, perché hanno il fondo traditore. Un giorno salvai il mio compagno per vero miracolo. Kammamuri si era fermato. Aveva attraversato un enorme gruppo di canne, intrecciate con calamus ed altre piante parassite, ed era giunto dinanzi ad una lingua di terra piuttosto boscosa, la quale si stendeva fra delle acque morte. Si volse verso il gurú, e gli domandò: — Potremo noi raggiungere la tua famosa torre, o, per lo meno, la gran via della montagna? — Sí, sahib. — Ed i coccodrilli non ci daranno addosso? — Non sono poi tanto cattivi — rispose il sacerdote. — Io ho attraversato col mio compagno diverse volte queste paludi e, come vedi, non mi manca nemmeno un dito. — E dove andremo a finire noi? — So dove ci troviamo, sahib, — disse il gurú, il quale stava abbastanza bene sui larghi fianchi dello stallone che il rajaputo teneva sempre bene stretto. — Possiamo inoltrarci su questa lingua di terra? — chiese Kammamuri. — Sí, sahib. — La memoria non ti tradirà? — No; io traversai col mio compagno, molti anni fa, queste paludi. — Molti anni fa? Allora siamo sicuri di andare diritti a quella famosa torre che io intanto non vedo spuntare da nessuna parte. E tu, rajaputo, la scorgi? — Io non vedo altro che dei bambú giganti — rispose l’uomo forte. — Proviamo, sahib: è meglio che fuggiamo attraverso queste paludi. I banditi di Sindhia, se è vero che ci danno ancora la caccia, avranno cattivo giuoco con noi. I loro cavalli non serviranno a nulla, se ci vorranno assalire. Era mezzo giorno. Una pioggia di fuoco cadeva su quei bacini fangosi, sprigionando miasmi pestiferi. La nebbia, apportatrice di febbre e forse anche di colera, si alzava a ondate, attraversata da immense file di uccelli acquatici dalle ali gigantesche. Kammamuri prese subito il suo partito. — Per una volta possiamo fidarci del gurú — disse. — Quella torre ora io non la vedo, ma speriamo che presto comparisca sull’orizzonte. Il minuscolo drappello lasciò la macchia e dopo avere attraversato dei brutti e puzzolenti pantani, raggiunse la lingua di terra. Era una penisola abbastanza lunga, coperta di bambú e di piante acquatiche, piuttosto elevata sulle acque morte di quei putridi stagni. Tagliava un vastissimo bacino, pieno di acque plumbee dai riflessi azzurrastri e di brutto aspetto. Bestiacce nerastre di quando in quando montavano a galla, si scaldavano un po’ al sole, poi filavano verso l’argine. Ingigantivano a vista d’occhio, e mostravano code mostruose e mascelle terribilmente armate. Kammamuri si era fermato aggrottando la fronte. — Come andremo a finire con quei mostri che giungono a dozzine e dozzine, pronti a gettarsi su di noi? Ehi, rajaputo, tieni ben fermo il cavallo. — Non mi sfuggirà, sahib, — rispose il gigante. — Credi che potremo passare? — Domandalo al gurú. — Io ed il mio compagno attraversammo molte volte questa laguna senza perdere le gambe — disse il sacerdote. — Questione di fortuna! — osservò il maharatto. — E poi voi eravate ben protetti da Visnú e da altri dèi ancora. — Certamente. — Invoca anche su di noi la loro protezione. — Non mancherò di farlo sahib. I quattro uomini continuarono ad avanzarsi sempre in mezzo a terreni umidi e dopo un paio d’ore giungevano sulle rive d’un canale, largo una decina di metri, nel cui fondo fangoso si dibattevano parecchie dozzine di coccodrilli, dal corpo gigantesco e dai musi quasi quadrati e formidabilmente armati di denti. — Ehi, gurú, — disse Kammamuri — avete attraversato anche questo canale senza perdere le gambe? — Abbiamo raggiunto felicemente l’altra riva — rispose il sacerdote — e senza sparare un colpo di carabina. — Appartenevano forse quei rettili ad un’altra razza meno feroce? — Ah, io non lo so, sahib. — Solita risposta — disse Timul. — Tentiamo il passaggio, rajaputo? Il fondo non sembra pessimo, ma misura prima l’altezza dell’acqua un po’ piú avanti di noi. — Subito, sahib, — rispose il gigante, abbattendo con pochi colpi di tarwar un altissimo bambú. Si avanzò nell’acqua scandagliando, niente spaventato dalla presenza dei coccodrilli, i quali in quel momento non minacciavano nessun attacco, quantunque non cessassero di mostrare i loro lunghi denti giallastri e di agitare le code, e si avanzò nel canale una mezza dozzina di metri, immergendo la lunghissima pertica. — Fondo buono anche per il cavallo — disse. — L’acqua ci giungerà ai fianchi, almeno fin là dove ho scandagliato io. Kammamuri era diventato assai preoccupato e guardava verso i terreni inondati, sui quali si erano radunati altri rettili, pronti a tagliare la ritirata ai fuggiaschi. — Siamo ormai costretti ad andare avanti — disse al rajaputo, che lo interrogava con lo sguardo. — Se torniamo indietro, dovremo subire chi sa quale spaventoso assalto. Abbiamo piú coccodrilli dietro di noi che dinanzi. — E poi, sahib, non dimenticare che i banditi del rajah ci danno la caccia, e che forse hanno scoperte le nostre tracce. Cerchiamo quella torre che il gurú afferma non trovarsi lontana. Il maharatto scosse la testa e disse: — Se la memoria non l’ha ingannato. Tuttavia andiamo avanti a qualunque costo, per raggiungere la gran via delle montagne. Fece salire sullo stallone il gurú, armò la carabina ed entrò nell’acqua prima di tutti guardandosi bene d’intorno. Non aveva percorsi dieci passi, quando i sauriani, che fino allora, come abbiamo detto, si erano mantenuti tranquilli, si misero a nuotare velocemente muggendo come tori. — Presto! presto! correte! — gridò. — Le nostre gambe sono in pericolo. I suoi tre compagni si precipitarono nel canale, avendo ben compreso che un ritardo di qualche minuto sarebbe forse stato fatale. Il rajaputo teneva fortemente lo stallone, il quale, udendo i muggiti dei rettili, tentava di fuggire e di sbarazzarsi del sacerdote. Continuava ad inalberarsi, sferrava calci formidabili, minacciando di accoppare Timul che veniva ultimo. I terribili sauriani per alcuni minuti si contentarono di guardare i quattro uomini ed il cavallo, battendo sempre le mascelle con gran fragore, poi si lanciarono all’attacco. Erano venti o venticinque, tutti di gran mole e bene corazzati di grosse piastre ossee, quasi impenetrabili alle palle delle migliori carabine. Fortunatamente avevano tardato un po’ a muoversi, perciò i fuggiaschi avevano avuto il tempo di attraversare il canale e di salire frettolosamente l’argine opposto che era ingombro di bambú e di piante acquatiche. Lo stallone con un gran salto portò il sacerdote in salvo, tentando bensí subito di fuggire, ma il rajaputo non aveva lasciate le briglie e dava dei furiosi strappi alla bestia caparbia facendole sanguinare la bocca. Kammamuri si era collocato sull’orlo dell’argine e teneva la carabina puntata verso i sauriani, i quali non cessavano di avanzare, agitando furiosamente le loro possenti code e sollevando enormi spruzzi d’acqua fangosa. — Sahib, — disse il rajaputo — tenta di spaventarli con un colpo di carabina. Vedi che stanno per raggiungerci. — La mia carabina sarà impotente ad abbattere quei bestioni! -rispose Kammamuri. — Tuttavia brucerò una carica. Mirò un vecchio coccodrillo, dalle mascelle ormai cadenti, e gli piantò in piena gola una palla. Il sauriano rimase come sorpreso e si arrestò di colpo mandando un muggito formidabile, poi con un colpo di coda si spinse innanzi salendo audacemente l’argine. I suoi compagni lo seguivano, pronti ad aiutarlo nella lotta e muggendo anche loro. Il rajaputo affidò il cavallo a Timul, snudò il tarwar, e con pazza temerità si precipitò addosso all’assalitore menando colpi formidabili a destra ed a manca. — Guardati! — gli gridò Kammamuri. — Lascia fare a me, sahib, — rispose il gigante. — Tu intanto ricarica la carabina, perché stanno per giungere anche gli altri. Aveva attaccato furiosamente, quasi a corpo perduto, fidando nella bontà dell’acciaio delle mezze scimitarre indiane. Il mostro, che si era ormai issato, con un ultimo colpo di coda, sull’argine riceveva colpi spaventevoli fra le mascelle, già gorgoglianti di sangue per la ferita prodotta dal proiettile. Tentava di spingersi innanzi e gettarsi a sua volta, e non meno risolutamente, contro l’assalitore, il quale in un baleno lo aveva persino privato degli occhi. Stava per piombare addosso al rajaputo, quando intervenne il maharatto, il quale aveva ricaricata precipitosamente la carabina. — Lasciami il posto! — gridò il vecchio cacciatore della Jungla nera. Cacciò la canna dell’arma fra le mascelle sanguinanti del sauriano e sparò, facendo subito un salto indietro. — Io credo che questa canaglia ne abbia abbastanza ora! — disse il rajaputo. — Ha inghiottito fumo, fuoco e piombo, e per ben due volte. — Ma ci sono gli altri che stanno per circondarci! — gridò Timul, il quale faceva degli sfoghi disperati per trattenere l’indemoniato stallone. Kammamuri gettò intorno un rapido sguardo, e mandò un grido di gioia. Dietro la prima linea di bambú aveva scorto dei grossi gruppi di palmizi tara. — Salviamoci su quelle piante! — gridò. — Via, via! E tu, Timul, metti a terra il gurú e lascia andare quel dannato cavallo. Il vecchio sauriano spirava sul margine della proda, ma i suoi compagni accorrevano per vendicarlo, ed avevano già preso terra cacciandosi violentemente dentro le folte piante. Lo stallone, sentendosi libero, spiccò un gran salto, nitrí fragorosamente, poi partí come una saetta scomparendo subito. — Che la dea Kalí e Parvati se lo portino via! — gridò Kammamuri. — Ne avevo abbastanza di quella bestiaccia! Attraversarono a gran salti le prime linee dei bambú, raggiunsero un palmizio tara, e vi si arrampicarono lestamente, aiutandosi gli uni con gli altri. Era tempo. Un momento dopo quindici rettili si arrestavano al piede della pianta, e sfogavano il loro malumore con gran colpi di coda e con muggiti sempre piú acuti. — Venite a prenderci ora — disse Kammamuri, il quale si era accomodato su un robusto ramo insieme col rajaputo. — Non siete leopardi per arrampicarvi. — E non sono nemmeno elefanti, sahib, — disse Timul — che possano abbattere l’albero. — Tuttavia la nostra situazione è tutt’altro che brillante — disse il rajaputo. — Quando questi ingordi bestioni si decideranno a levare l’assedio? Non abbiamo viveri e nemmeno una goccia d’acqua. Il Maharajah ci crederà già sulle montagne, mentre abbiamo ancora molto da camminare. — Tre o quattro giorni per lo meno — disse il maharatto. — Che resistano sempre quei terribili uomini? — Tu non conosci le tigri della Malesia. In cento... Si interruppe bruscamente alzando la testa e tendendo gli orecchi. Un sonoro nitrito era echeggiato a non molta distanza, e subito i coccodrilli si erano messi in agitazione aprendosi faticosamente il passo fra tutti quei vegetali. — Lo stallone che torna! — esclamò Kammamuri. — Che si sia già affezionato a noi? — Ne dubito — rispose il rajaputo. — Va in cerca del suo padrone. — Non sarà qui che lo troverà. — Lo credo bene. Lo vedi, sahib? — Alzati un po’ ed aggrappati al ramo superiore che è occupato da Timul e dal gurú. Ah, che strano cavallo! — Eccolo! eccolo! — gridò in quel momento il giovane cercatore di piste. — Ha nel corpo ventiquattro kateri. L’indemoniato stallone tornava verso il tara al piccolo galoppo. Doveva essere sfinito dopo quelle due corse furiose. Seguiva la riva sinistra del canale; che era stata sgombrata dai coccodrilli, i quali avevano preferito la caccia agli uomini. Kammamuri aspettò che giungesse fino a duecento cinquanta o trecento passi e sparò, mirandolo alla testa. Il cavallo si arrestò un momento come se avesse scorto dinanzi a sé qualche grave pericolo, poi rovinò a terra stendendo le zampe deretane nelle acque del canale. Sussultò tre o quattro volte, mandò un nitrito disperato, tentò di rialzarsi per riprendere la fuga, ma le forze lo tradirono, e ricadde agitando disperatamente la bella testa che doveva essere stata attraversata dalla palla della carabina. — Ecco una buona cena pei coccodrilli — disse il rajaputo. — Fra un quarto d’ora saranno tutti intorno allo stallone per divorarselo e noi potremo scendere. — Taci — disse il maharatto — e ascolta. — Odo di nuovo il segnale del bandito. Allora quel furfante si trova vicino a noi piú di quello che credevamo — disse il rajaputo. — Ma dove si nasconde? — Scoprirlo non sarà facile, amico, — rispose il maharatto. — Vi sono troppe piante lungo le rive del canale; ma per me è certo che il bandito ci ha quasi raggiunti. — Come hai ammazzato il cavallo, ammazza anche il padrone. È lui che guida i cavalieri del rajah. — È troppo furbo per lasciarsi cogliere. Sono giorni e giorni che ci segue e senza mai essersi fatto vedere, né di giorno, né di notte. — Sí; dev’essere un gran furbo — rispose il rajaputo, e tosto aggiunse: — Ah, ah! Ecco i coccodrilli che si muovono. Si sono finalmente accorti che abbiamo procurata loro una cena abbondante. Infatti i sauriani dopo essersi radunati ed aver tenuto nel loro linguaggio di muggiti una specie di consiglio, dopo aver dato ai quattro uomini, che si trovavano sempre bene al sicuro, un ultimo sguardo, cominciarono a dirigersi verso il luogo ove lo stallone era caduto. — Ecco la libertà pagata una sola palla! — disse Kammamuri. — Non aspetteremo certo il loro ritorno. — Avranno da fare un pezzo per divorare lo stallone — disse il rajaputo. — È vero che hanno mascelle da far paura e che sono sempre affamati, ma... Un sibilo acuto gli troncò la parola. — Un proiettile! — esclamò gettandosi lungo disteso sul grosso ramo. In quel momento si udí la detonazione dell’arma da fuoco. — Un colpo di carabina; è vero, sahib? — chiese il gigante. — Sí — rispose Kammamuri. — Allora chi ha sparato non può essere il padrone dello stallone. — E perché? — Non aveva che delle pistole quel bandito. — Può essere stato raggiunto dai cavalieri del rajah e da loro nuovamente armato. — Ragione di piú per prendere subito il largo, sahib. — Scappiamo, giacché i signori coccodrilli sono occupati a cenare — disse Timul, il quale essendo piú in alto dominava le due rive del canale. — Si dirigono verso il cavallo. — A terra! — gridò Kammamuri. — Se non approfittiamo di questo momento, non ci salveremo piú. Timul, aiuta il gurú. Il rajaputo fu il primo ad abbandonare il tara. Impugnava il tarwar, e pareva furibondo. Un coccodrillo si era nascosto in mezzo ai bambú, rinunciando alla cena cavallina per quella umana. Il gigante senza aspettare il maharatto gli piombò addosso, e si dette a sciabolarlo furiosamente fra le mascelle. Muggiva il rettile e vibrava terribili colpi di coda in tutte le direzioni, colla speranza di abbattere l’avversario. Di quando in quando spiccava dei veri salti, ma Kammamuri era già a terra. — Lascia fare a me ora, rajaputo! — gridò il vecchio cacciatore della Jungla nera. Aveva ricaricata precipitosamente la carabina e si avanzava intrepidamente contro il mostro che vomitava sangue dalle mandibole sgangherate dai terribili colpi di tarwar. A soli cinque passi di distanza ne prese di mira un occhio, e sparò. Il sauriano parve dapprima non accorgersi di avere ricevuta una palla nel cervello, e continuò a dibattersi furiosamente, tentando di spingersi addosso al rajaputo. Ma tutto ad un tratto soffiò dalle nari del sangue spumeggiante, e quasi subito si allungò, scosso da tremiti fortissimi. — Anche questo è andato! — disse Kammamuri. — Gli ho piantato una palla, quasi a bruciapelo, dentro il cervellaccio. Ed ora corriamo. — Sí, sahib, fuggiamo subito — disse Timul, che era stato l’ultimo a lasciare il tara. — Io ho veduto dei cavalieri che cercavano di guadare un largo stagno. — Banditi del rajah? — Si, sahib: ci hanno raggiunti un’altra volta. — Fortunatamente queste paludi sono coperte d’una folta vegetazione, ed i cavalli non potranno passare cosí facilmente — disse Kammamuri. Ricaricò la carabina poi partí a passo di corsa cercando di orientarsi. Voleva raggiungere a qualunque costo la gran via che guidava alle montagne di Sadhja. Tutti gli altri gli si erano slanciati dietro, aprendosi impetuosamente il passo fra quel caos di piante che s’intrecciavano con dei calamus immensi, lunghi anche cento e piú metri. Il rajaputo non tardò a passare in testa al drappello. Il suo tarwar era necessario per aprirsi un passaggio, e si mise subito a sciabolare le piante con vigore indemoniato, facendo cadere perfino dei bambú grossissimi che impedivano il passo. La jungla succedeva subito alla palude, la terribile jungla popolata di serpenti mostruosi che stritolano un uomo in meno d’un minuto, di cobra capello, di tigri, di rinoceronti, di leopardi. — Potremo noi dirigerci? — chiese il rajaputo asciugandosi col dorso della mano il sudore che gli grondava dalla fronte e spaccando rabbiosamente un altro bambú. — Non abbiamo Timul forse? — rispose il maharatto. — Non mi ricordo mai di lui. — Perché io chiacchiero poco — disse il giovane cercatore di piste sorridendo. — E tu, gurú, sapresti condurci? — chiese il gigante al sacerdote. — Non so... vedremo... Attraversai questa jungla moltissimi anni fa. — Non contiamo su quell’uomo — disse Kammamuri. — Cercheremo di fare da noi. — Io vorrei sapere se quella famosa torre lancia ancora la sua cima verso il cielo — disse il gigante. — Le tigri non l’avranno mangiata — rispose il gurú colla sua solita calma. — Non vogliono che carne, e possibilmente carne umana. — Lo sappiamo meglio di te. Si erano fermati mettendosi in ascolto. In lontananza si udivano i muggiti dei coccodrilli, i quali già si erano radunati intorno allo stallone per farne una buona scorpacciata. Ma ad un tratto fra quei muggiti risonò altissimo l’urlo dello sciacallo, quel grido che mandava il cavaliere per richiamare la sua impareggiabile cavalcatura. Kammamuri fece un gesto d’ira, ed esclamò: — Ah, è troppo! Quell’uomo cerca la morte, e l’avrà! CAPITOLO XVI. IL PADRONE DELLO STALLONE Il bandito doveva aver seguito ostinatamente i fuggiaschi, strisciando come un serpente attraverso gl’immensi vegetali della grande palude, e forse ora cercava di riavere il suo stallone, ormai mezzo divorato dagli ingordi coccodrilli. Come mai quell’uomo non era morto, dopo il gran salto che aveva fatto e il colpo di carabina di Timul? — Egli crede che il suo cavallo sia ancor vivo — disse il rajaputo. — Dobbiamo aspettarlo? — Io temo che non sia solo — rispose Kammamuri. — Fuggiamo, fuggiamo, o il Maharajah e la rhani perderanno per sempre il trono. — Ma potremo andare molto lontano, sahib? — disse il giovane cercatore di piste. — Perché? — Sono due giorni che non mangiamo, e le forze non tarderanno a mancarci. — Ci rifaremo piú tardi, quando il pericolo sarà cessato — rispose il maharatto. — I grossi volatili non mancano qui, e ne troveremo ben altri avanzando verso il nord. — Si va? — chiese il rajaputo mettendosi dinanzi al drappello. — Ed a tutto vapore, amico. Aprici la via finché avremo trovata la torre e la grande strada che conduce alle montagne di Sadhja. — Ci sarà da lavorare assai, ma il tarwar è buonissimo; ha una tempra straordinaria, e spacca e taglia subito. — Allora andiamo: io veglio su voi tutti colla carabina. Raccolsero tutte le loro forze e tornarono a slanciarsi attraverso la jungla umida. I vegetali si succedevano ai vegetali, sempre piú fitti, sempre piú giganteschi. Tara, latania, pipal e nim lanciavano in alto le loro cime frondose, superando l’altezza dei bambú, collegati tutti fra di loro da ammassi di piante parassite. Di quando in quando un gigantesco tamarindo si mescolava a quella esuberante vegetazione, torreggiando maestosamente. Dei volatili fuggivano dinanzi ai quattro uomini, alzandosi pesantemente, non trovando lo spazio sufficiente per prendere lo slancio. Erano vere nuvole di cicogne e di grossi corvi, che salivano verso il cielo, fuggendo l’aria pestifera della jungla. Oltre i volatili fuggivano anche dei serpenti che il rajaputo teneva ben d’occhio, e che era pronto a decapitare prima che mordessero. Abbondavano soprattutto i gulabi, chiamati anche serpenti delle rose perché hanno la pelle tutta picchiettata d’un vivissimo colore corallino. Non mancavano nemmeno i veri boa indiani, che si trovano in gran numero nelle jungle, splendidi per le loro tinte verdi, azzurrastre e giallastre. Questo serpente, chiamato il pitone tigrato, supera quasi sempre i quattro metri, e possiede tanta forza da soffocare fra le sue spire un uomo. Il rajaputo peraltro non era uomo da impressionarsi, e continuava a marciare e ad abbattere vegetali, per far posto ai suoi compagni. Quella corsa attraverso alla jungla durò un paio d’ore, poi il gigante disse: — Sono sfinito, sahib: è troppo tempo che non mangio. Facciamo una sosta. — E intanto il bandito ci raggiungerà, e forse non solo — rispose Kammamuri. — Le frutta non mancheranno. — Mi ci vuole della carne, sahib. — Va’ a tagliarti un pezzo dello stallone, cuocilo e divoratelo. — Ah, no, sahib! Non ho nessun desiderio di rivedere i coccodrilli. — E allora non lamentarti. — Io penso, sahib, un po’ anche allo stomaco. Da quando abbiamo lasciate le grandi cloache, non abbiamo messo insieme che della gran fame. — Ma sulle montagne di Sadhja noi troveremo migliaia e migliaia di montoni, ed allora ci prenderemo una strepitosa rivincita. — Il male è, sahib, che le montagne che nutriscono quei montoni non si scorgono ancora. Quando potremo giungere lassú? — Non saprei dirtelo. Mi trovo smarrito, e finché non avremo raggiunta la grande via che conduce verso oriente, mi sarà impossibile raccapezzarmi. — E nemmeno sappiamo dove quella veramente si trova. — Risalendo sempre verso il settentrione in qualche punto dobbiamo tagliarla. — Forse presso la famosa torre — disse Timul con voce ironica. — Il gurú ci guiderà senza smarrirsi. — Ah, per mio conto non ho molta fiducia nel sacerdote — disse Kammamuri. — Puoi ingannarti, sahib, — disse in quel momento il vecchio guardiano della pagoda. — Io comincio a riconoscere questi luoghi. — Oh, finalmente! — esclamarono ad una voce Timul, Kammamuri ed il rajaputo. — Guardate qui — disse il gurú, il quale da qualche tempo osservava il terreno. — Io insieme col mio compagno attraversai questa jungla, che ha la terra nera, mentre le altre hanno tinte d’altro colore. — Credi dunque di essere sulla buona direzione? — chiese il rajaputo. — Lo spero. — E tu sei certo di condurci a quella torre? — Ne sono certo. È alta sessanta metri e si vede da molto lontano. — E se fosse crollata? Il gurú alzò le spalle. Pur chiacchierando, non rallentavano il passo, per paura di vedersi giungere alle spalle, da un momento all’altro, i banditi del rajah guidati dal padrone dello stallone morto. La jungla era sempre foltissima, ma qualche grosso animale, probabilmente un rinoceronte, in certi luoghi l’aveva sfondata, permettendo cosí ai fuggiaschi di marciare talvolta con maggiore rapidità. Avevano già guadagnate altre due miglia, quasi senza rivedere il sole, tanto erano affogati dalle piante, quando giunsero improvvisamente sulle rive d’un canale dalle acque giallastre e piuttosto tranquille. Sulle sue rive bande di marabú e di aiutanti si spennacchiavano facendo un fracasso infernale. — Va verso il nord questo corso d’acqua — disse Kammamuri. — Taglierà dunque la grande via. — Sahib, — disse il rajaputo — voglio farti una proposta. — Quale? — Di costruire una piccola zattera e attraversare con essa questa immensa jungla. — Lo pensavo anch’io. Purché i banditi del rajah non ci giungano addosso prima di aver costruito il galleggiante... — Padrone, — disse Timul — dammi la tua carabina: voglio fare una corsa. Se vi sarà pericolo, manderò anch’io l’urlo dello sciacallo ripetuto tre volte. — Sei un bravo ragazzo! — disse il maharatto porgendogli l’arma. Intanto il rajaputo si era messo al lavoro aiutato dal gurú. Tagliava bambú e liane per poter legare i tronchi e costruire la zattera. Quantunque fosse affamato, quel diavolo d’uomo conservava sempre il suo vigore eccezionale. Il maharatto non tardò a raggiungerlo, ed una zattera lunga una decina di metri e larga quattro fu varata prima che il sole scomparisse. Era appena scesa fra quelle acque limacciose, che esalavano dei miasmi pericolosi, quando Timul comparve sulla riva, e spiccato un gran salto, cadde sul galleggiante. — Sahib, — disse — fuggiamo subito. — Ancora quei dannati banditi? — chiese Kammamuri stringendo i denti. — Strisciano attraverso la jungla senza far rumore, ma io li ho veduti. — Quanti sono? — Ne ho contati dieci. — E gli altri erano in venti ed anche piú. — Saranno andati ad ingrassare i coccodrilli — disse il rajaputo, tagliando il calamo che serviva da gomena. — Tanto meglio per noi se sono cosí diminuiti. — Sono lontani, Timul? — chiese il maharatto riprendendogli la carabina. — Forse un cinquecento passi. — Seguono il canale? — Sí, sahib. — Ed i cavalli dove li hanno lasciati? Che siano morti tutti? È impossibile! — Io non ho veduto nessun destriero. Tutti quegli uomini erano soli e filavano lentamente ma tenacemente attraverso la jungla per sorprenderci, tenendosi ad una certa distanza l’uno dall’altro. Hanno scoperta la nostra pista, sahib. — Vedremo se sapranno ritrovarla sull’acqua — disse Kammamuri. In quel momento il sole scomparve e le tenebre piombarono rapidissime, perché non vi sono crepuscoli nell’India. Sparito il grande astro, subito si diffondono ed avvolgono ogni cosa. — Via! — disse Kammamuri. — Siamo già in viaggio — rispose il rajaputo, il quale guidava il galleggiante con una lunghissima pertica. — Questa zattera farà molta strada e non... — Tutti giú! — disse Timul interrompendolo. — Sdraiatevi tutti. — Vengono? — Sí, sahib, sono ormai a poca distanza. — Coccodrilli non ve ne sono, almeno qui; è vero, rajaputo? — No, sahib: non ho veduto che delle bewak, quelle bruttissime brontolone d’acqua che fanno schifo, e che pure sono cosí buone a mangiarsi. — Allora caliamoci in acqua e guidiamo la zattera colle nostre gambe — disse il maharatto. — Quelle canaglie del rajah hanno carabine e pistole, e colle armi da fuoco è meglio non venire a contatto. Su, due a destra e due a sinistra! Tenetevi ben fermi all’orlo del galleggiante, e se scorgete qualche coccodrillo rimontate subito. — Con questa oscurità noi non potremo veder niente — brontolò il rajaputo. Il brav’uomo aveva ragione. Una densa nebbia carica di miasmi ondeggiava sopra le alte cime dei tara, dei pipal e delle mangifere, sbattute dalla brezza notturna che aveva cominciato a soffiare con molta violenza. I quattro fuggiaschi si erano appena immersi, quando udirono una voce gridare: — Eccoli! Fucilateli come sciacalli! Mi hanno ucciso lo stallone! — Non tutti! — gridò subito un’altra voce. — Il rajah ha bisogno di uno di quegli uomini, e ce lo pagherà a peso d’argento. — Il rajah è lontano e non si occupa piú di noi — riprese il primo. — Su, fate fuoco! Kammamuri ed i suoi amici si erano immersi completamente per rendersi invisibili ed evitare una grandine di proiettili. Se non che la zattera, che aveva percorso un duecento metri, spiccava troppo bene sulle acque giallastre del fiume per non essere scorta. Passarono alcuni secondi, poi tre colpi di carabina ruppero il silenzio della notte. Non tiravano male quei banditi! Le tre palle si erano conficcate fra i bambú del galleggiante con dei sinistri crepitii e ne avevano attraversati piú d’uno. — Che siano morti? — chiese una voce rauca. — Io non vedo nessun uomo su quel galleggiante. Noi siamo stati magnificamente burlati, e mentre inseguiamo quell’ammasso di canne, gli uomini fuggono ancora. — Saltiamo in acqua e cerchiamo di raggiungerla — disse il padrone dello stallone. — E i coccodrilli? — Non si trovano sempre sotto le gambe. — E poi ormai la zattera fila e fila, e non potremo piú raggiungerla. Quelle canaglie ci sono nuovamente scappate. Era vero. Il fiume, dopo aver descritta una lunga curva, scorreva con una certa rapidità, frangendo e rifrangendo le sue acque melmose contro i margini delle due jungle. La zattera fuggiva inseguita accanitamente dai banditi del rajah, i quali forse dubitavano che i quattro fuggiaschi avessero ripreso terra per ricacciarsi nelle jungle. Correvano come nilgò, seguendo la riva sinistra e sparando di quando in quando un colpo di carabina, ma senza nessun risultato. — La corrente accenna ad aumentare ancora — disse Kammamuri sorgendo accanto al rajaputo. — Se non hanno qui i cavalli, non ci prendono piú. — E poi le bestie a quattro gambe si troverebbero imbarazzate fra questi giganteschi vegetali — rispose il gigante. Altri due colpi di arma da fuoco rimbombarono alla distanza di appena trecento passi, e per poco il maharatto non fu colpito da una palla di rimbalzo che gli passò sotto il braccio destro senza toccarlo. — Spara anche tu, sahib, — disse il rajaputo. — Ci scoprirebbero allora e ci metterebbero subito fuori di combattimento. Pensa che loro sono undici, bene armati, e noi abbiamo una carabina in tutti. — Che ci prendano? — Io non lo credo. Corrono, ma anche la corrente corre e ci porta rapidamente verso il settentrione, verso la grande via che conduce alle montagne di Sadhja. Lascia che sparino. Non riusciranno a spezzare le legature dei calamus e tanto meno i bambú. — Sahib, — disse in quel momento il giovane cercatore di piste, il quale si era incaricato di aiutare il gurú — io credo che vi siano dei coccodrilli. — Io non ho udito nessun muggito — rispose Kammamuri. — Tu sai che brontolano sempre. — Eppure un corpo grosso mi ha urtato! Era montato da un marabú. — E sotto il marabú si trovava qualche indú disgraziato che non aveva potuto procurarsi i mezzi per pagare un bramino od un gurú. Oh, ne incontreremo degli altri! Sai bene che quando non possono farsi benedire, si fanno gettare nei fiumi, convinti che tutti sbocchino nel Gange, il quale sarebbe incaricato di condurre i poveri diavoli nel kailasson. — Ecco un altro morto — disse Timul — se non è un coccodrillo od una bewak. — Lascialo correre. Non ti mangerà le gambe. Vedi bene che si è alzato or ora, proprio dinanzi alla zattera, un arghilak, il quale doveva aver cacciati i suoi artigli nel morto. — Vi sono infatti molti cadaveri qui — disse il rajaputo ricomparendo. — Ecco cinque o sei teste umane che sballonzolano come zucche e che non avranno piú nemmeno un brandello di materia cerebrale. — Tu non hai paura? — No, sahib, — rispose il gigante. — Ho attraversato molte jungle tagliate da fiumi pieni di cadaveri. — Badate! — disse il gurú. — I banditi ci seguono sempre. — La zattera ormai vola, e rimarranno indietro, arrestati fra le piante che non potranno forse attraversare — disse Kammamuri. Il fiume descriveva un’altra curva, e lí la corrente era anche piú rapida. I quattro uomini, tenendosi quasi interamente sommersi, continuavano a guidare il galleggiante, spingendolo verso la riva opposta. Ormai non avevano piú paura dei banditi, rimasti ben lontani sul margine della jungla. Tuttavia per cinque o dieci minuti ancora le carabine tuonarono facendo un gran fracasso, poi il fuoco cessò. — Siamo fuori di tiro — disse Kammamuri, issandosi rapidamente sulla zattera. — Potete salire tutti ormai. — Ed è tempo, sahib, — disse il rajaputo, il quale lo aveva subito imitato. — Non ci sono solamente dei morti e delle bewak che discendono il fiume; vi sono anche dei coccodrilli, e per poco non ho lasciata una delle mie gambe in bocca a quei ripugnanti bestioni. Anche il giovane cercatore di piste ed il gurú si erano allungati sulla zattera, essendosi anch’essi accorti della presenza dei terribili rettili. Kammamuri si era alzato e guardava verso la riva percorsa poco prima dai banditi, temendo una qualche sorpresa. L’oscurità non era diventata tanto densa, da non poter distinguere un uomo a cinquanta passi. Osservò a lungo, ascoltò, poi trasalí. — Maledetto quel bandito! Ci perseguita col suo urlo di sciacallo stonato. — Ancora il padrone dello stallone; è vero, sahib? — disse il gigante. — Sí e non deve trovarsi a molta distanza da noi. Se potessi scorgerlo, gli farei fare la fine del suo cavallo. — È troppo prudente. Ci ha sempre seguiti a distanza per non cadere in qualche imboscata. — Forse lo ritroveremo un giorno. — Io spero di no, sahib: la zattera fila come se avesse un paio di vele. Fra un quarto d’ora noi saremo ben lontani. Gurú, sai dove sbocca questo fiume? — Fra le jungle del settentrione — rispose il sacerdote. — Ecco una risposta che potevo dare anch’io senza aver mai attraversati questi territori. — Sono vecchio. — Lo sappiamo già da molto tempo — disse Kammamuri, scoppiando in una risata. — Tu diventi vecchio troppo spesso. Ma se i banditi di Sindhia ti dessero la caccia, sono convinto che scapperesti come un ascis, dimenticando tutti i tuoi acciacchi. — Io non so — rispose il sacerdote che sembrava mezzo istupidito. — Contiamo solamente sulle nostre forze — disse Kammamuri. — Quando saremo sboccati nelle grandi pianure del settentrione, speriamo di scoprire la famosa torre. Noi abbiamo estremo bisogno di riposo... — E di viveri, sahib, — disse il rajaputo. — Vuoi la mia carabina? Guarda quanti arghilak e quanti marabú passeggiano sulle due rive. — Oh, mai, sahib! Quei volatili mangiano solamente i cadaveri e puzzano spaventosamente. — Allora prenditi un coccodrillo. — Aspetteremo l’alba. Intanto mi stringerò la fascia. È la terza volta che cerco, in tal modo, di calmare la fame che mi divora. — Si direbbe che sei una tigre nera. — Sahib, sono alto e grosso. — Hai ragione, poveretto! La colazione domani non ci mancherà. Le rive del fiume devono essere frequentate dai corvi. Abbi pazienza fino allo spuntare del sole. — Mi rassegno — rispose il povero gigante con un lungo sospiro, mentre si stringeva rabbiosamente l’alta fascia di seta rossa. La zattera intanto continuava a correre, ma aveva delle soste improvvise. La corrente di quando in quando pareva che perdesse la sua energia, come se trovasse sotto di sé dei grossi ostacoli, o fosse troppo ingombra di sabbie, di avanzi di cadaveri umani, di coccodrilli e di residui di piante che marcivano sulle rive, e che infiniti torrentelli trascinavano fino a lei. L’odore pestilenziale che si alzava da quelle acque apportatrici di veleni e di colera, prendeva alla gola i poveri fuggiaschi, e minacciava di asfissiarli. Guai se, costretti dalla sete, avessero osato mandare giú un sorso. Tutti i fiumi che attraversano le jungle sono infetti, a cagione dell’enorme quantità di cadaveri che vengono abbandonati alle loro correnti, poiché solamente i ricchi si prendono il lusso di farsi cremare con gran pompa, mentre i miserabili vengono gettati in acqua, talvolta ancora agonizzanti. Ma ricchi e poveri sono sicuri di andarsene nel kailasson, appena che le loro ceneri o i loro cadaveri abbiano raggiunto il sacro Gange, il fiume purificatore d’ogni peccato, secondo la religione indiana. Quel corso d’acqua, che la zattera attraversava, era pieno di cadaveri putrefatti che salivano dal fondo, per offrirsi, orrido pasto, ai becchi giganteschi degli arghilak e dei marabú. Molte teste ballonzolavano, cozzandosi le une contro le altre, con dei rumori che facevano rabbrividire. Forse al nord dell’Assam qualche grave epidemia era scoppiata, e centinaia e centinaia di cadaveri erano stati abbandonati alle acque perché li portassero verso il fiume sacro. Una nebbia densa volteggiava su quelle acque corrotte, alzandosi per ricadere subito, come se qualche cosa di pesante le attirasse verso il fiume. Grossi goccioloni cadevano di quando in quando sulla zattera inzuppando i fuggiaschi, i quali avrebbero fatto volentieri a meno di quella pioggia che conteneva i germi di febbri e di mortali malattie. — Mi pare di essere sul Magal — disse Kammamuri, il quale si era allungato accanto al rajaputo. — Anche quel fiume era pieno di cadaveri e di marabú, ma le rive erano abitate dai thugs di Suyodhana, ben piú terribili dei banditi del rajah. — E non hanno mai voluto strangolarti, sahib? — chiese il gigante. — Tante volte mi hanno gettato ora il laccio ed ora il fazzoletto di seta nera, ma, come vedi, sono ancora vivo, e non vecchio quanto il gurú. — Tu sei un giovane guerriero che non ha paura di dieci banditi. — Una volta sí, ma ora tutti siamo invecchiati: il Maharajah, la Tigre della Malesia, Tremal-Naik il mio padrone. Tuttavia se siamo insieme, siamo ancora capaci di conquistare dei regni e degli imperi. — Non ne dubito: vi ho veduti alla prova. Siete gente che non teme la morte. — Taci! — Che cosa c’è ancora? — Lo crederesti? Io ho udito un’altra volta l’urlo dello sciacallo. — Io non ho udito nulla, sahib. Che quel cane di bandito voglia proprio farci la pelle? — Eppure sono certo di non essermi ingannato. — Che sia l’anima dello stallone? Il maharatto alzò le spalle. — Quando una bestia cade, va ad ingrassare la jungla, e tutto finisce lí. — E tu hai udito, Timul? — Sí, anch’io ho udito — disse il giovane cercatore di piste alzandosi. — Era l’urlo dello sciacallo falso che noi già conosciamo. Il rajaputo strinse i pugni. — Che non si possa ammazzare quel cane rognoso? Ci stringe troppo da vicino. — E sarà solo? — chiese Timul. — Chi lo sa? Io però non credo che tutti i banditi possano averlo seguito. Un uomo può scivolare attraverso la folta jungla: dieci no, poiché non tarderebbero a smarrirsi fra i grandi vegetali. — Io conosco questi luoghi — disse in quel momento il gurú. — Si è risvegliata la tua memoria? — chiese Kammamuri. — Io ho percorso questo fiume. — Su che cosa? — In una gonga. — In un albero scavato; è vero? — Sí, sahib. — Allora andremo a finire in qualche luogo. Speriamo che la tua memoria si risvegli ancora. — Questo fiume va a rompersi contro la torre mongola. — Ne sei sicuro? — Ora sí, sahib. — Ci credi tu, rajaputo? — Uhm! — fece il gigante. In quell’istante la zattera subí una scossa violentissima, che mandò a gambe levate i quattro fuggiaschi. — Abbiamo naufragato? — chiese il maharatto balzando rapidamente in piedi e precipitandosi verso il lungo remo che funzionava da timone. — No, sahib, — disse Timul. — Abbiamo solamente urtato contro una catasta di scheletri umani; ma la zattera gira e passerà. — Sulla riva vi è un’ombra che corre come un cervo — disse il rajaputo, afferrando la carabina del maharatto. — Deve essere il bandito che montava il cavallo pazzo. Ora cercherò io di mandarlo all’altro mondo. Aveva puntata rapidamente l’arma, mentre la zattera, presa da un violentissimo gorgo, si era messa a girare su se stessa come una trottola. — Spara dunque! — gridò Kammamuri vedendo che il gigante pareva esitare. — Non posso prender la mira un solo momento, sahib, — rispose il gigante. — Questa zattera salta come una capra del Tibet. — Lo vedi? — So dove si è nascosto. Si è cacciato sotto quella macchia di mangifere che si spinge fino al fiume. Aspetta un momento, sahib: non sono un cattivo tiratore, come sai. Ad un tratto, mentre la zattera uscita dal gorgo riprendeva la corsa, due lampi balenarono sulla riva opposta seguiti da due detonazioni. — Pistole — disse Kammamuri, senza prendersi la briga di gettarsi sul fianco della zattera. — Non arrivano quelle palle. — Ma giungerà quella della tua carabina, sahib. Fece fuoco in direzione della macchia di mangifere, e un grido straziante lacerò il silenzio che regnava in quel momento sul fiume: era il grido d’un uomo che ha avuto il fatto suo. — Preso! — urlò il rajaputo, con voce trionfante. — Era tempo che se ne andasse anche lui. Andrà a tenere compagnia allo stallone. — Adagio, amico, — disse Kammamuri. — Puoi averlo solamente ferito. — E allora qualche tigre o qualche coccodrillo lo divorerà. — Se i suoi compagni non giungeranno in tempo a raccoglierlo e salvarlo. — Vuoi, sahib, che spingiamo la zattera verso la riva? Mi preme sapere se quel bandito è proprio morto. Il maharatto stava per rispondere, quando la zattera, che da alcuni minuti procedeva rapidissima, si mise a rollare spaventosamente. — Ehi, Timul! — gridò il rajaputo. Fu il gurú che rispose: — La cateratta! — E non ci hai avvertiti prima, sacerdote? — gridò Kammamuri stringendo i pugni. — Annegheremo tutti! — No, sahib, poiché anche la gonga vi passò senza sfasciarsi, — rispose il gurú. — Né io, né il mio compagno andammo ad ingrassare i coccodrilli. — Potremo dunque scenderla? — Piú facilmente di quanto credi. È una cascata a scaglioni, con larghe aperture che permetteranno alla zattera di continuare la sua corsa senza fracassarsi. Badate solamente alla direzione. Ci sono delle rocce. Poi, dopo un breve istante di silenzio soggiunse: — La torre fra poco sarà in vista. — Ai remi, ai remi! — gridò Kammamuri. — Briganti! — gridò una voce che partiva dal gruppo di mangifere. — Il rajah mi vendicherà! — Sei stato ferito? Possiamo mandarti qualche medico? — urlò il rajaputo, il quale aveva ricaricata la carabina. — Non hai che da mostrarti. — Che Siva vi maledica, cani rabbiosi! Mi avete ucciso il cavallo del gran Mogol ed ora avete ferito anche me! Il rajah vi leverà la pelle! — Sindhia è lontano! — gridò Kammamuri. — Non lo temiamo piú. Fra qualche ora saremo al sicuro. — Che la cateratta vi spezzi la zattera e vi getti in bocca ai coccodrilli! ... — Grazie: ci guarderemo da quei ghiottoni. Padrone del cavallo, buona notte, e guardati dalle tigri che sono piú pericolose dei rettili d’acqua. — Ah, sei tu l’uomo che si chiama Kammamuri e che il rajah pagherebbe a peso d’oro! — Come lo sai? — chiese il maharatto. — Vi ho seguiti sempre ed ho udito i vostri discorsi. — Ed ora non udrai piú nulla — urlò il rajaputo. Aveva puntata novamente la carabina ed aveva fatto fuoco dentro la macchia di mangifere. Nessun grido seguí la detonazione. Il padrone dello stallone era stato fulminato, o aveva creduto opportuno di fingersi morto? Intanto la zattera accelerava la corsa. Il fiume, che poche ore prima aveva delle frequenti soste, scorreva impetuosamente, come non avesse piú né sabbie, né carcasse umane, né detriti vegetali. Delle vere ondate si formavano e rumoreggiavano sinistramente intorno al galleggiante sopravanzandolo di quando in quando. Kammamuri ed i suoi compagni avevano impugnati i lunghi bambú e puntavano forte nel fondo del corso d’acqua. Un fracasso infernale saliva dal settentrione. Era la cateratta che muggiva e che si precipitava attraverso le rocce con grande impeto, lanciando in alto degli spruzzi di spuma fosforescente. — Gurú, — disse Kammamuri — non andremo tutti a fondo? — No, sahib, noi passeremo. — E poi scopriremo la torre? — Sí, sí, la torre mongola. — Allora tentiamo la sorte. Le rive sono troppo boscose, e poi non sarebbe prudente sbarcare sui margini della jungla, che possono essere frequentati dai mangiatori d’uomini. Una vera pioggia cadeva sulla zattera. La cateratta spruzzava altissima con dei rombi impressionanti, polverizzando l’acqua fetente del fiume coleroso. — Tenete fermo! — gridò Kammamuri. — Non abbandonate le pertiche. Se naufragheremo, ci serviranno ancora. — Pare che ci sia un gran salto d’acqua — disse il rajaputo, il quale per conto suo avrebbe preferito trovarsi in mezzo alla jungla, fosse pure popolata di belve feroci. In quel momento la zattera s’inalberò, oscillò spaventosamente, poi precipitò attraverso ad una serie di rapide, sulle quali l’acqua si frangeva furiosamente. I quattro indiani si erano raccolti nel centro per non farsi portar via dai cavalloni che si succedevano senza posa, colle creste irte di spuma fosforescente. Si tenevano aggrappati per poter meglio resistere. Il rajaputo solo maneggiava a poppa la lunga pertica che funzionava da timone. Quella corsa rapidissima durò un quarto d’ora, poi la zattera, sfuggita miracolosamente ai frangenti, scese in un ampio bacino, una specie di laghetto alimentato dalle acque puzzolenti del fiume. — Siamo salvi! — gridò il gurú. — La torre si alza sulla riva sinistra, in mezzo alla boscaglia. Ora mi ricordo tutto! — Finalmente! — esclamò Kammamuri. — La tua memoria non si è completamente fossilizzata. — Io vedo... — disse in quel momento il rajaputo. — Che cosa? — Dei coccodrilli che sembrano impazienti di montare all’abbordaggio, e poi la famosa torre. — L’hai veduta? — Sí, sahib. — Allora spingiamo la zattera verso la riva e scappiamo prima che i rettili ci portino via le gambe. Tutti avevano preso le lunghe pertiche e puntavano, tagliando diagonalmente la corrente. Ma di quando in quando erano costretti a picchiare a destra ed a sinistra, poiché quel laghetto era pieno di coccodrilli. Con un ultimo sforzo cacciarono la prora della zattera entro le piante acquatiche che coprivano la riva, e fuggirono. Fuggirono a tempo. I coccodrilli erano montati all’assalto e spadroneggiavano sul galleggiante muggendo rabbiosamente. — Via di corsa! — gridò Kammamuri. — Lasciamoli padroni della zattera. Vedremo che cosa sapranno fare quelle bestie stupide. Tutti e quattro si slanciarono nella jungla immensa, correndo all’impazzata, impazienti di giungere alla torre mongola. CAPITOLO XVII. L’ASSALTO ALLA TORRE Come abbiamo detto, il rajaputo aveva scorta la torre, ma si trovava nell’impossibilità di guidare i compagni a cagione dell’oscurità e soprattutto degli ostacoli che si presentavano ad ogni istante, costringendoli a deviare. Bambú enormi crescevano fitti fitti, alti dieci e perfino dodici metri, tutti avvolti dai calamus, che non cedevano sotto nessuna spinta, e che il povero gigante era costretto a recidere per far largo ai compagni, avendo lui solo il tarwar. Vi erano anche dei tamarindi che crescevano insieme coi palas, alberi giganteschi che nell’Assam coprono grandi tratti di paese, piante splendide, dal tronco nodoso, coronato in alto da un fitto padiglione di foglie vellutate d’un verde azzurrognolo, i quali reggono a fatica degli immensi grappoli fiammanti, che vengono poi seccati e serbati per le grandi feste. Per venti minuti il rajaputo battagliò rabbiosamente contro le piante parassite che strisciavano quasi a terra, poi mandò un grido di gioia: — La torre!... — Ed i coccodrilli alle spalle, se non m’inganno — disse Timul. — Hanno seguita la nostra pista e cercano di raggiungerci. — Sono troppo pigri — disse Kammamuri. — Fuori dall’acqua non valgono piú nulla. — Non dire cosí, sahib: hai veduto come ci hanno attaccati anche sulla terra! — Là il terreno si prestava, ma qui non si presta affatto per quei furfanti. Non potrebbero andare molto lontani. Il rajaputo intanto aveva sventrato a gran colpi di tarwar una vera muraglia vegetale e aperto un passaggio. Dietro a quegli alberi aveva scorta la torre e si affannava per giungervi. Il pover’uomo non ne poteva piú, anche perché affamato. Squarciando sempre, andò finalmente a cacciarsi in mezzo ad un bosco di mhowah, gli alberi che danno prodotti preziosi quanto le noci di cocco. Sono piante bellissime, col tronco diritto e di circonferenza ragguardevole, e portano rami disposti regolarmente e rialzati a mo’ di candelabri. Crescono senza alcuna coltura, e s’incontrano tanto nelle jungle umide quanto in quelle secche, ed è una vera fortuna per chi li scopre. Non danno veramente delle frutta, bensí delle immense quantità di fiori disposti a gruppi fittissimi, di forma rotonda, colla corolla giallopallida, fiori grassi, che gli indiani chiamano la manna delle jungle, e che sono assai zuccherini e perciò assai nutrienti. Mangiati freschi, hanno un sapore gradevolissimo, ma sprigionano un odor di muschio che a tutti non piace. Gl’indiani fanno grandi raccolte di quei fiori; li seccano su graticci di vimini in modo che perdano l’odore di caimano, poi li macinano e fanno dei pani, i quali sono assai migliori di quelli che si ricavano dai sagú delle regioni malesi. Si fanno anche fermentare, ed allora regalano al povero paria, oltre il pane, un’acquavite eccellente, che può gareggiare coi migliori whisky che l’Inghilterra importa. — Avremo da mangiare! — urlò il rajaputo. — Ah, i fiori profumati e carnosi! Queste piante sono cariche, e ci manterranno per delle settimane. — Via dentro la torre! — ordinò in quel momento Kammamuri. — Non vedi che siamo giunti dinanzi alla famosa costruzione promessa dal gurú? Il rajaputo alzò gli occhi e vide una specie di campanile, sormontato da una grande cupola di metallo dorato. — Siva ci guida — disse. — È vero, gurú? — Certamente — rispose il sacerdote, il quale raccoglieva fiori a due mani e se li cacciava in bocca, poco badando al gusto un po’ acre del muschio. — Sarà aperta la porta? — Io non la chiusi. — Adagio, amici, — disse Kammamuri. — Le tigri ed i leopardi, se trovano un rifugio in muratura, vi si cacciano dentro e vi piantano famiglia. — È vero — disse Timul. — Raccogliete dei fiori, mentre io ed il rajaputo andiamo a vedere se si potrà finalmente riposare. Attraversarono la macchia e giunsero sotto la torre, la quale sembrava piú che altro un minareto. Forse un tempo in quei dintorni alcuni mongoli avevano costruiti dei villaggi, ma poi il colera li aveva sterminati o messi in fuga. — La torre è salda — disse Kammamuri. — Anche se i banditi verranno ad attaccarci, potremo resistere a lungo. I mongoli costruivano assai meglio di noi indiani. Ah!... Vedo la porta! — È aperta? — chiese il rajaputo impugnando il tarwar. — Nessuno si è occupato di chiuderla, e chi sa da quanti anni. — Che vi siano delle bestie feroci al piano terreno? — Non mi stupirei. — E non aver neppure un pezzo di candela! — Ne faremo a meno. Il maharatto imbracciò la carabina, salí i tre gradini un poco rovinati dal tempo e si spinse risolutamente innanzi gridando per tre volte: — Chi va là! Quattro o cinque lupi indiani, che sonnecchiavano tranquillamente al primo piano della torre, svegliati di soprassalto, si slanciarono fuori mugolando e ringhiando. Non essendo affatto pericolosi, quando si trovano in pochi, il maharatto risparmiò la carica. — Ora possiamo salire — disse. — Gurú! Il sacerdote che si avanzava con Timul, entrambi carichi di fiori commestibili, fu pronto a rispondere: — Eccomi, sahib. — La scala sarà in buono stato? — Vent’anni fa lo era. — Per Siva! Temo che ci rovini sotto i piedi. — No, sahib! i mongoli costruiscono solidamente. Vi è qui una grossa porta di bronzo con tre spranghe di ferro. Barrichiamoci, prima che giungano i banditi del rajah. — Te ne occuperai tu, giacché hai altre volte aperta e chiusa questa porta. Su, rajaputo, e bada dove poni i piedi. Qualche gradino potrebbe mancarti sotto. — Sono troppo pesante, sahib, per tentare l’esperimento — rispose il gigante. — Avessimo almeno una lampada!... — Hai ragione: passerà in prima linea Timul, che è il piú magro di tutti. — Lascia fare a me, sahib, — disse il gurú. — Questa scala me la ricordo, ed io anche di notte ci vedo. — Saresti un lontano parente del cacciatore di topi delle cloache della capitale? Anche quello non aveva bisogno di lampade. Il gurú brontolò qualche cosa, attraversò il piano terreno della torre, che puzzava orribilmente per le ossa ivi lasciate dai lupi, ed infilò la scala la quale saliva a chiocciola. Venti o trenta enormi pipistrelli lo investirono schiamazzando, e scomparirono attraverso la porta che Timul stava per chiudere aiutato dal rajaputo. — I gradini sono ancora in ottimo stato — disse il gurú. — Giungeremo felicemente sulla cupola. — Di lassú domineremo un gran tratto di paese? — Tutta la jungla. Se vi saranno dei banditi noi li scopriremo subito. Aveva ripreso a salire lentamente, tastando via via i gradini colle mani per sentire se si movevano. Un’umidità intensa regnava dentro la torre e si udiva l’acqua scorrere e mormorare lungo le pareti. Una nebbia pestifera entrava attraverso strette ma numerose feritoie. Dopo un quarto d’ora il gurú e Kammamuri giunsero felicemente sotto la cupola, la quale formava una comoda stanzuccia. Anche lassú odore di muffa ed umidità. Il maharatto si affacciò alla balaustrata di ferro, che girava intorno alla cupola, ma non poté distinguer nulla. Una nebbia pestilenziale ondeggiava sulle jungle, spingendosi assai in alto e sciogliendosi a poco a poco in pioggia. — Non vedo nulla — disse. — Odo solamente il rumoreggiare delle rapide. In quel momento la porta di bronzo fu chiusa con gran fracasso, e poco dopo anche Timul ed il rajaputo, carichi di mhowah, giunsero sotto la cupola. — Ah, sahib, — disse il gigante — io mi sento morire. Sono troppo grosso ed ho, per mia disgrazia, budella troppo larghe da riempire. — Mangia: questi fiori sono buoni. — Avrei preferito, sahib, una dozzina di costolette di nilgò. — Le mangeremo piú tardi. Per ora contentati di questi. Tutti si erano gettati su quei fiori preziosi, e li divorarono ingordamente. Erano quasi tre giorni che i disgraziati non avevano fatto altro che correre di jungla in jungla e senza toccar cibo. Il gigante ruminava come un toro, facendo sparire ben presto quei deliziosi fiori entro il suo ampio corpaccio. — Sahib, — disse finalmente a Kammamuri — credo di essere ora bene imbottito. Dormirò ventiquattro ore filate. — E non pensi ai banditi di Sindhia? Credi tu che ci abbiano abbandonati? Mai piú. Vogliono sapere dove il Maharajah ha nascosto i suoi tesori, e faranno di tutto per prenderci. — La torre è salda. — Ma non abbiamo che una sola carabina. — Tu, sahib, sei un famoso tiratore, e ne getterai a terra un bel numero. E la via che conduce alle montagne è lontana? Rispondi tu, gurú, che hai visitato altre volte queste jungle. — Domani, quando il sole spunterà, noi la vedremo — rispose il sacerdote. — Dalla cupola si può scorgere. — E quanti giorni dovremo impiegare per giungere lassú sulle montagne di Sadhja? — chiese il rajaputo. — Tre o quattro giorni — rispose Kammamuri. — Mi stupisco peraltro che i montanari non siano discesi colla rhani. — Che resista il Maharajah? — Io lo spero — rispose il maharano. — Quando incontreremo i montanari, i quali già devono essere scesi al piano, noi ci lanceremo attraverso gli accampamenti di Sindhia, e lo rimanderemo a Calcutta, in una casa di salute, con un lauto stipendio. — Allora possiamo dormire — disse il rajaputo. — Il sole non spunterà prima di sei o sette ore, e con questa nebbia i banditi non oseranno avvicinarsi alla torre. Si sdraiarono a terra e non tardarono a russare. Il rajaputo faceva un tale baccano, da far quasi tremare le pareti della torre. Pareva che avesse in corpo venti trottole roteanti furiosamente. La notte trascorse tranquilla, senza alcun allarme. Kammamuri, sempre mattiniero, fu il primo a svegliarsi e ad affacciarsi alla balaustrata della cupola. Il sole lottava penosamente contro le nebbie grasse che coprivano le jungle, e che un vento piuttosto freddo, che doveva scendere dalle montagne di Sadhja, continuava ad addensare specialmente al di sopra dei canali. Una umidità immensa regnava su tutta la regione. — Ci vorrà un po’ di tempo prima che il sole sciolga queste nebbie pestifere — disse Kammamuri. — Basta: intanto siamo al sicuro. Le feritoie sono cosí strette, che un uomo non puo passarvi per quanto sia magro, e la porta di bronzo è solida. — Solidissima! — disse una voce dietro di lui. Il rajaputo si era svegliato, e lo aveva raggiunto sulla veranda, succhiando avidamente dei fiori commestibili. — Vi sono delle sbarre? — Sí, tre, sahib, e tutte grossissime. I banditi non riusciranno ad entrare, se non avranno delle bombe, ciò che è impossibile. — Ci assedieranno. — Può darsi! e però sarà bene andare a far raccolta di mhowah per non soffrire un’altra volta la fame. Chiamò il gurú ed il giovane cercatore di piste, e tutt’e tre scesero in fretta, temendo di giungere troppo tardi alle piante preziose, poiché erano piú che mai convinti che i banditi del rajah non avessero rinunziato a inseguirli. Kammamuri intanto dall’alto esplorava i dintorni della torre, tutti coperti di grosse piante ed anche di bambú tulda, i piú grossi della specie. Il sole cominciava ad aprirsi la via, lanciando attraverso le nebbie miriadi di raggi roventi, bucandole ora da una parte e ora dall’altra. Finalmente un colpo di vento piú forte portò via quell’ammasso di vapori pestilenziali cacciandoli verso il ponente, e le jungle comparvero illuminate dall’astro diurno. — Ah, ah! — borbottò il maharatto. — Quanta ostinazione! Al rajah premono le ricchezze del signor Yanez e della rhani, ma dubito assai che possa trovare il luogo ove sono state sepolte. È bensí vero che quelle canaglie potrebbero sottoporci a qualche spaventevole tortura per farci confessare; ma non siamo ancora nelle loro mani. Aveva fissati gli sguardi sulle rapide ed aveva scorto subito una ventina di cavalieri. Durante la notte dovevano aver attraversato il fiume ed ora si avanzavano lentamente sulla riva sinistra, in direzione della torre. Erano lordi di fango, sparuti, stracciati, e molta fame dovevano aver sofferto anche loro durante quella lunga corsa attraverso deserte regioni, popolate solamente di belve feroci. — Devono essere sfiniti — disse Kammamuri il quale continuava a seguirli cogli occhi. — Non sono piú i guerrieri che ci davano la caccia quattro o cinque giorni fa. La porta di bronzo in quel momento per la seconda volta si chiuse con gran frastuono, ed il rajaputo ed i suoi due compagni comparvero carichi di mazzi ricchi di fiori. — Amici, — disse Kammamuri — devo darvi una brutta notizia. I banditi hanno scoperto il nostro rifugio e vengono qui. — Ah, gli sciacalli dannati! — esclamò il rajaputo. — E non aver che una sola carabina!... Che riescano a prenderci, sahib? — Sono in venti loro mentre noi siamo in quattro e con una sola bocca da fuoco — rispose Kammamuri scuotendo il capo. — Io non so come finirà questa avventura che dura già da troppi giorni. — Credi proprio che ci abbiano scoperti? — Sí — disse Timul, il giovane cercatore di piste. — Benché abbiamo attraversato le rapide, essi devono avere scoperte le nostre tracce. E si accorgeranno subito che noi siamo qui. — Perché? — chiese Kammamuri. — Visiteranno la macchia dei fiori dolci e troveranno foglie e rami tagliati. — Abbiamo commessa un’imprudenza, ma noi avevamo fame; è vero, rajaputo? — Molta fame! — disse il gigante. — Io credo di essere diminuito dieci o quindici chilogrammi. — Finita la guerra, mangerai costolette di nilgò o di ascis finché vorrai. — E quando sarà finita? — Tutto dipende dai montanari di Sadhja. Io credo che siano ormai in viaggio colla rhani e forse con Soarez, il piccolo figlio del Maharajah. Non hanno paura quegli uomini dei banditi di Sindhia. — Tardano un po’ mi pare — disse il rajaputo. — Dovrebbero essere già qui. — Le vie sono aspre e le montagne pessime, ed occorre del tempo per raccogliere i guerrieri dispersi per le vallate. Io non dubito di vederli giungere, e piú presto di quello che tu credi. Sono fedeli alla rhani ed anche al Maharajah, mentre odiano Sindhia. — Si era bruscamente abbassato, ritirandosi sotto la cupola. Il rajaputo e Timul lo avevano imitato. — Non ci facciamo vedere — disse il maharatto. — Hanno troppe carabine. Nessuno piú si mostri sulla veranda. — Lo sapranno egualmente che noi siamo qui, sahib — disse Timul. — Lo credo anch’io, e... Si era interrotto e contava: — ... quindici, sedici, diciassette, diciotto, diciannove, venti... Ma prima non erano in venti! — disse. — Ah, cane! Non è ancora morto! Quell’uomo deve avere l’anima incavigliata. — Di chi parli, sahib? — chiese il rajaputo. — Ai venti banditi si è unito il padrone dello stallone e li guida, quantunque mi sembri ferito. — Monta un altro cavallo? — Sí, un cavallo che non è capace di percorrere due leghe e trottando molto adagio! — rispose il maharatto. — Tutte quelle bestie sono sfinite non meno dei loro padroni. Vieni a vederli quelle canaglie. Si gettarono a terra e sporsero le teste attraverso la balaustrata, la quale era assai ampia ed in ferro battuto. — Li vedi? — chiese il maharatto, il quale tormentava il grilletto della carabina mentre fissava il padrone dello stallone. — E si avanzano sicuri di prenderci, sahib, — rispose il gigante. — Forse noi abbiamo fatto male a rifugiarci qui; ma d’altronde non potevamo piú tenerci in piedi. Quei banditi hanno dei cavalli, siano pure ischeletriti; invece noi non avevamo piú forze per sfuggire a questo feroce inseguimento. — Aspetta un po’ — disse Kammamuri. Aprí la piccola bisaccia che conteneva le munizioni e si mise a contare attentamente. — Ancora settantadue proiettili — disse. — Io abbatterò tutta quella cavalleria prima che giunga sotto la torre. Si spara bene dall’alto, specie quando non siamo veduti... Ah, il padrone dello stallone! La prima palla sarà per te. Ho ucciso il tuo cavallo pazzo, ed ucciderò una buona volta anche te. Tu hai vissuto abbastanza, e le tigri delle jungle non so come ti abbiano risparmiato. Ora basta! — Aspettiamo, sahib, — disse il rajaputo. — Non vedi che muovono verso la nostra torre e senza deviare? — Ma sí, ci hanno scoperti — disse Timul. — Seguendo le tracce, fra poco giungeranno qui. Ah!... — Che cos’hai? — chiese Kammamuri. — Noi non siamo affatto sicuri qui dentro, sahib. — E perché? — Perché tutta la torre è avvolta da grossi calamus che si sono spinti fino alla cupola. Non vedi quei due rami oscillare sopra le nostre teste? — Io non avevo pensato a questo pericolo, ma per il momento lasciamo in pace le piante parassite. Quando i banditi tenteranno la scalata, s’incaricherà il rajaputo di precipitarli nel vuoto. — Il mio tarwar è sempre affilatissimo — disse il gigante. — Con pochi colpi reciderò tutta questa vegetazione, che avrebbe potuto rimanere abbasso senza aggrapparsi alla torre. Gli alberi non mancano nella foresta per le piante parassite. — Aspettiamo — disse Timul. — Non tanto, amico, — disse il maharatto, la cui fronte si era abbuiata. — Voglio scavalcare il padrone dello stallone prima che giunga qui. Si era nascosto dietro una colonnetta della veranda e spiava attentamente i banditi, pronto a far fuoco. I cavalieri procedevano con infinite precauzioni, fors’anche perché i loro cavalli non dovevano piú reggersi dopo tante corse furiose attraverso terreni fangosi. Ora comparivano in qualche radura, ora scomparivano sotto le piante, ma nessuno degli assediati ormai dubitava di dover fare nuovamente i conti con quelle canaglie. Kammamuri continuava a spiare, ma i suoi amici si erano gettati a terra, per timore di qualche scarica improvvisa. Passarono alcuni minuti. Si udivano i cavalli nitrire e sbuffare e i banditi parlare ad alta voce, ma la boscaglia proteggeva gli uni e gli altri, poiché i mhowah si stringevano intorno alla base della torre. Ad un tratto una voce rauca, quasi sfiatata, gridò: — È inutile che vi nascondiate. Sappiamo dove vi trovate, e fra poco vi prenderemo. — Chi te lo dice? — chiese il maharatto, il quale si teneva sempre prudentemente dietro la colonna. — Io. — Saresti tu il padrone dello stallone? — E vengo a vendicare quella bestia impareggiabile. — La torre è salda come una rocca, e voi non riuscirete mai a sfondare la porta di bronzo. — Vi prenderemo colla fame! — rispose il bandito. — E noi ci lasceremo morire, poiché sappiamo che Sindhia non ci risparmierebbe. Cosí non saprà nulla dei tesori della rhani e del Maharajah. — Il rajah non è cattivo come tu credi, e non ti toglierebbe la pelle. — Uhm! Non mi fido di quel briccone! — Basta! Vi arrendete? — A chi lo dici? — A voi. — Noi, mio bel brigante, siamo persone da vendere a molto caro prezzo la nostra vita. Noi arrenderci? Ma tu sei pazzo! — Allora prendi questo! Echeggiò un colpo di carabina, ed una palla attraversò la cupola di rame dorato. — Ora prendi questo tu! — gridò Kammamuri. Il maharatto fece fuoco a sua volta, sempre tenendosi riparato dietro la colonnina. Il bandito che guidava la truppa stava per ricaricare la carabina, quando la palla del maharatto lo raggiunse. Ed essendo ancora in sella, si aggrappò al collo del cavallo per non cadere, poi mandò quel grido di sciacallo sfiatato che serviva di richiamo allo stallone. I suoi compagni si erano affrettati ad accorrere, ma troppo tardi. Il maharatto, come aveva ucciso lo stallone, aveva anche ucciso il padrone di quello. Il bandito, colpito dall’infallibile palla del vecchio cacciatore della Jungla nera, era stramazzato pesantemente al suolo. — Bel tiro! — disse il rajaputo, il quale spiava i cavalieri coricato sulla veranda. — Tu, sahib ucciderai tutti quegli uomini. — Sarà un po’ difficile, amico. — rispose Kammamuri. — Ecco che sono già scomparsi dentro la macchia dei mhowah, ed il fogliame è cosí fitto, che non si possono scorgere. — Che siano proprio convinti di prenderci? — Ne dubito. — E se mandassero qualcuno a cercare dei soccorsi? — Sarebbe costretto ad attraversare il fiume, e non mi sfuggirebbe. — Lo tenteranno forse di notte. — I loro cavalli sono troppo slombati per ricondurli fino agli accampamenti di Sindhia. — Ed allora ci assedieranno? — Certo. Tenteranno di prenderci per fame. Il viso del rajaputo si oscurò. — Dovremo stringerci ancora le fasce? Noi abbiamo viveri per un paio di giorni, ma facendo molta economia. — Cercheremo di farli durare tre. Il bravo rajaputo, sempre alle prese colla fame, mandò un lungo sospiro e si picchiò il ventre che doveva essere vuoto. — Se Siva ha scritto nel suo gran libro che io debba morire completamente vuoto, mi adatterò. Sono un guerriero, e la morte non mi fa paura. Ma preferirei uscire da questa torre, e farmi uccidere piuttosto da quei banditi. — Ed io niente affatto! — rispose il maharatto. — Io sto benissimo qui, e non andrò certo ad attaccare venti uomini, venti disperati, decisi a tutto pur di prenderci. Preferisco rimanere qui. — Ad aspettare che cosa? — I montanari della rhani, i quali ormai non devono essere lontani. Noi di quassú dominiamo la gran via che conduce alle montagne di Sadhja, e se passeranno, li vedremo. — E se tardassero? — Stringeremo le fasce. In quell’istante due colpi di carabina rimbombarono nel folto dei mhowah e due palle attraversarono sibilando la veranda conficcandosi nelle colonne. Fu quello il segnale. La macchia parve incendiarsi. I banditi, nascosti dietro gli alberi e protetti anche dai loro cavalli, sparavano furiosamente colpendo ora la cupola, ora la veranda, ora le feritoie. Le palle fioccavano cosí fitte, che anche Kammamuri fu costretto a gettarsi a terra. — Che spreco di munizioni! — disse. — E senza alcun risultato, poiché qui ci vorrebbe un cannone. La porta di bronzo non si sfonda con dei semplici proiettili. Sfogatevi! Ma spero di fare qualche colpo anch’io, e con maggior fortuna di voi. — Li vedi, sahib? — chiese il rajaputo, il quale lo aveva raggiunto trascinandosi carponi. — Scorgo il fumo delle carabine — rispose il maharatto — ma a me non basta. Quelle canaglie non osano farsi sotto. — Si saranno spaventati dopo la morte del padrone dello stallone. — Comincio a crederlo anch’io; tuttavia pare che abbiano molte munizioni da sprecare. Non ci lasceranno certamente uscire. — E noi moriremo di fame. — Taci una buona volta, orso delle montagne sempre affamato! Ci sono due bei tipi con noi: il gurú che si ricorda e poi non dice nulla, e tu che brontoli sempre contro la fame. Vuoi la mia razione di mhowah? Io te la cedo ben volentieri. Nella Jungla nera io ed il mio padrone non mangiavamo né nilgò né ascis, e tanti giorni ci contentavamo di succhiare una canna da zucchero selvatica, scoperta miracolosamente fra i bambú immensi che coprivano le Sunderbunds. — Oh mai, sahib, — rispose il gigante. — Tu, che sei il nostro capo, devi anzi avere la parte piú grossa. — Noi, maharatti, possiamo sopportare la fame per parecchi giorni senza deperire e senza... Si allungò bruscamente sulla veranda, tenendo la carabina per un momento immobile. Risonò sotto la cupola una detonazione, a cui tenne dietro un grido straziante. — Eccone un altro di meno! — disse Kammamuri. — Ora non sono che diciannove. — Hai veduto qualche bandito? — No; ho sparato a casaccio in mezzo alla nuvola di fumo e pare che io sia stato fortunato. Quei furfanti tenteranno forse di assalirci questa notte, servendosi delle piante rampicanti che contornano la torre. — Vuoi che le recida tutte? — Ti ho detto di no: aspettiamo che montino all’assalto per scaraventarli nel vuoto. Si ritrassero sotto la cupola, perché le palle continuavano a grandinare. Nessuno d’altronde s’inquietava: il gurú succhiava di quando in quando qualche fiore; Timul pareva che studiasse sul pavimento delle orme lasciatevi dai mongoli tre o quattrocento anni prima. Chi aveva la peggio era la cupola. In meno d’un quarto d’ora era stata traforata come una schiumarola. Le palle l’attraversavano facilmente, essendo il metallo ormai consunto. — Aspettiamo il momento propizio — disse Kammamuri. — Delle palle ne ho anch’io, e non ne farò economia se si offrirà l’occasione. Si gettò sui rami di mhowah e si mise a succhiare anche lui, come il gurú, alcuni fiori. Il rajaputo, malgrado le sue promesse, aveva già dato l’attacco. Non contava piú le razioni. CAPITOLO XVIII. L’ARRIVO DEI MONTANARI I banditi, furibondi per non aver potuto prendere quei quattro uomini che da tanti giorni inseguivano attraverso alle jungle ed ai pantani, sfogavano la loro ira con frequenti scariche, le quali per altro non potevano ottenere nessun successo. Solamente la cupola a poco a poco se ne andava poiché le palle l’attraversavano in gran numero, portando via dei pezzi interi di rame. Ma le salde muraglie dei costruttori mongoli non si sgretolavano, quindi gli assediati, protetti dalla pesante porta di bronzo barricata con tre grosse spranghe di ferro, potevano aspettare tranquilli, e non si occupavano quasi piú degli assedianti. Un gran fracasso regnava intanto intorno alla torre. I banditi, decisi questa volta di prendere o vivi o morti quegli inafferrabili avversari, continuavano a sparare, mirando specialmente alla veranda e alla cupola. Delle palle entravano anche attraverso le strette feritoie e andavano a conficcarsi nell’opposta parete. Era già mezzogiorno e piú di tre o quattrocento colpi di carabina erano stati sparati, ora isolati, ora a salve, eppure non pareva che quei testardi si fossero persuasi dell’impossibilità dell’impresa. Rimaneva l’assedio, e con l’assedio lo spavento del povero rajaputo, il quale guardava malinconicamente i mhowah già ridotti a quel tanto che avrebbe potuto servire per una o due giornate tutt’al piú. Verso l’una il fuoco fu sospeso, ed il capo della banda, passando dietro i grossi tronchi per non prendersi una fucilata, giunse a venti passi dalla porta di bronzo. Era un bandito d’aspetto imponente, barbuto quanto il rajaputo, ed armato di carabina, di pistole a due colpi e di tarwar. Si mostrò un momento, poi si ricacciò dentro la macchia dei mhowah tirandosi dietro il suo cavallo slombato. La sua voce tuonò: — Ogni difesa è inutile! Ormai siete nelle nostre mani. Arrendetevi una buona volta! — Chi lo dice? — rispose Kammamuri, il quale si era trascinato fino sulla veranda. — Voi non uscirete vivi. — Tu credi di prenderci per fame, ma t’inganni: abbiamo viveri per due mesi, e tanto riso da fare del carri eccellente. — È impossibile! — gridò il capo della banda. — Voi cercate di guadagnare tempo, contando forse su un aiuto del Maharajah. — Ma no, ma no, amico. Non è il principe bianco che noi aspettiamo e che da un momento all’altro può giungere qui alla testa di dieci o quindici mila montanari. È Khampur, il vecchio orso della montagna, il protettore della rhani. Il bandito lanciò tre o quattro imprecazioni, poi ripeté: — Vi arrendete, sí o no? — No, aspettiamo Khampur e la bellissima rhani. Quella gente vi farà correre fino al campo di Sindhia colle lance alle reni. — Tu menti: nessun montanaro è piú disceso dopo che la rhani si è rifugiata fra le montagne di Sadhja. — Ed il Maharajah che cosa fa? — È stato preso tre giorni fa insieme col principe bruno che ha portato quelle terribili armi. — A chi la dai a bere, amico? — Te lo dico io, e basta. — La parola d’un bandito! Ah ah! Sindhia non ha ancora veduto il principe bianco e nemmeno quello bruno; te lo assicuro io. Quegli uomini sono capaci di gettare a gambe levate tutti i paria, i fakiri, i bramini e i banditi, anche se sono in pochi. Ma voi dovete aver fame. Volete un sacco di riso? Ne abbiamo sette. — Sarai tanto generoso? — chiese il bandito uscendo dalla macchia colla carabina armata. — Non offriresti tu una coscia di qualcuno dei tuoi cavalli, che ormai sono sfiniti, a noi che non abbiamo nessuna specie di carne? — Io no! — rispose il bandito. — Io invece, piú generoso, ti farò un regalo. Abbiamo, come ti ho detto, anche troppa abbondanza di viveri. — Gettami il sacco di riso. I miei uomini sono affamati, e a loro piace poco o punto la carne di cavallo. Si era novamente avanzato fino a venti passi dalla porta di bronzo. Kammamuri sapeva ormai e da tempo che l’aveva da fare con banditi pronti a qualunque sbaraglio e capaci di qualunque tradimento. Lo sorvegliava attentamente, tutto allungato sulla veranda, colla carabina armata e pronta. — Getta dunque! — gridò il capo. — Abbiamo fame di riso. — Eccolo! — gridò il maharatto, balzando rapidamente in piedi. — Questo riso sarà un po’ duro, ma non ne abbiamo nessuna colpa noi. Il capo, temendo a sua volta un tradimento, aveva cercato di rifugiarsi nella macchia dei mhowah, dove lo aspettavano i compagni, ma la palla del vecchio cacciatore lo raggiunse in tempo e lo stese a terra fulminato, alla base d’un grosso albero. Dieci o quindici colpi di carabina echeggiarono subito, crivellando novamente la cupola. Ma il maharatto che si aspettava quella sorpresa si era lasciato subito cadere sull’impiantito della veranda, abbastanza grosso per arrestare le palle. — E due! — disse il rajaputo, mentre i banditi continuavano a sparare sempre piú furiosamente e ad urlare. — Cosí sono diciotto, se non m’inganno — disse Kammamuri. — Sono ancora troppi, ma delle palle ne ho per tutti. — Serbale per questa sera, sahib. — Che cosa temi? — Io sono certo che quegli uomini approfitteranno della nebbia e dell’oscurità per dare la scalata alla torre. Vi sono troppe piante rampicanti molto grosse e resistenti. Vuoi che le tagli? — Non ancora. — Vuoi accopparne degli altri? — Lo spero — rispose Kammamuri. — Se monteranno all’assalto, li precipiteremo nel vuoto. Il tuo tarwar è sempre affilatissimo? — Taglia come una scimitarra di Damasco. Quando me lo dirai, le piante cadranno recise insieme cogli assalitori. — Ed io che non vi posso aiutare! — disse Timul. — Che cosa ne faccio di queste due pistole scariche? — Le romperai sulla testa di qualcuno — rispose Kammamuri. — Vi sarà lavoro per tutti. — Fuorché per il gurú — disse il rajaputo. — Ha succhiato fiori fino a poco fa, ed ora è addormentato placidamente. — Lascialo russare: già, non ci servirebbe a nulla. È troppo vecchio. Mentre chiacchieravano, i banditi non cessavano di sparare e di urlare. Parevano furibondi per la morte del loro capo, che valeva forse piú del padrone dello stallone. Nuvole di fumo si alzavano al di sopra delle piante, ed i colpi si succedevano ai colpi sempre con lo stesso risultato. Kammamuri ed il rajaputo spararono a casaccio alcuni colpi, ma essendo il bosco di mhowah troppo folto, non potevano accertarsi della giustezza dei loro tiri. Tuttavia i banditi non osavano avanzarsi. Sparavano sempre di mezzo alle piante senza fare un passo avanti. — Hanno paura della tua carabina — diceva il rajaputo al maharatto, il quale non mancava di quando in quando di rispondere al formidabile fuoco degli assedianti. — Sanno bene che se mostrano solamente un pezzetto d’orecchio, possono considerarsi perduti, però si tengono alla larga. — Vorrei vedere solamente i loro turbanti. Ne getterei giú molti in pochi minuti di quegli ostinati banditi rompendo le loro teste come fossero noci di cocco. — Ti credo, sahib; tuttavia siamo sempre allo stesso punto. Infatti i montanari non giungono, le provviste sono già quasi esaurite poiché il gurú non fa che masticare, e fra poco la notte calerà. Vuoi che tagli le piante rampicanti? — Ti ho detto di no. Lasciamoli salire — rispose Kammamuri. -Questo attacco me l’aspetto. — Pensa, sahib, che ho un solo tarwar, e nessuno che mi possa aiutare. — Ci sarà la mia carabina, amico. — Aver due pistole e non poterle caricare!... Quel bramino ci ha salvato la vita, ma è stato un grand’asino. Che cosa valgono quattro palle nelle jungle? Doveva lasciarci almeno un po’ di piombo. — Non avrà avuto il tempo. I banditi non erano lontani, e potevano sorprenderlo e denunciarlo al rajah. — E che cosa farà quel cane di Sindhia? Che continui ad ubriacarsi o che cerchi d’impadronirsi del Maharajah e della Tigre della Malesia? — Io credo, amico, che nel suo campo il colera faccia già gran numero di vittime. Il medico olandese sapeva quello che si faceva. — Allora i due principi saranno sempre trincerati sulla collina. — Coi loro sikkari ed i tigrotti di Mompracem. Le mitragliatrici ed il colera sono bestie troppo cattive anche per quel pazzo. — Ed intanto mangeranno gli elefanti. — Qualcuno l’avranno già certamente divorato. — Gente fortunata! E noi invece abbiamo solamente dei fiori dopo quasi quattro giorni di digiuno! — Ti prenderai, a suo tempo, la tua rivincita. — A suo tempo! Ah, sahib, tu non sai quanta fame ho sofferto e quanta ne soffro ancora! La rivincita vorrei avermela già presa. — Abbi un po’ di pazienza. Tu sei un forte guerriero, e negli assedî gli assediati devono saper resistere. — E morire — disse Timul sorridendo. — Tante volte sí... Oh, infuriano ancora i banditi! Hanno fretta di crivellarci di piombo, ma non otterranno nessun... S’interruppe e si mise in ascolto. A rischio di prendersi un colpo di carabina, uscí carponi sulla veranda. — Odo un lontano fragore — mormorò, guardando la grande strada che conduceva alle montagne di Sadhja, e che spiccava bianchissima attraverso le immense jungle che occupano il cuore dell’Assam. Guardò il sole che tramontava rapidamente, anzi pareva precipitare e scosse la testa. — Che i banditi ricevano dei soccorsi? — si chiese. — Che cosa borbotti, sahib? — chiese il rajaputo. — Dico che attraverso la grande strada galoppano dei cavalieri e molti. — Io non vedo nulla. — Non odi questo fragore? — Che sia la cateratta? — No — disse Timul, il quale pure si era messo in ascolto. — Sono dei cavalli che si avanzano. — Da ponente o da oriente? È questo che vorrei sapere. — Io non posso dirtelo ancora, sahib. — Se quei cavalieri vengono da levante, potrebbero essere i bravi montanari della rhani. Se vengono invece dall’altra parte, non possono essere che dei banditi — disse Kammamuri. — Io non posso ancora saperlo, ma mi pare che il fragore si avvicini rapidamente, e fra poco noi sapremo se avremo da fare con degli amici o con dei nuovi nemici. — Ebbene, aspettiamo. In quel momento il gurú, che si era trascinato sulla parte opposta della veranda, mandò un grido altissimo: — Al fuoco! al fuoco! — Che cosa brucia? — chiese Kammamuri, balzando in piedi. — Guarda giú, sahib, — rispose il sacerdote. — Ah, i miserabili! Hanno dato fuoco alle piante parassite che avvinghiano la torre per arrostirci vivi o farci uscir fuori. — Devo tagliare, sahib? — chiese il rajaputo, impugnando la mezza scimitarra. — Se le fiamme giungono fin quassú, tutta la veranda, che è di legno, crollerà. — Taglia! taglia! E bada alle palle! I banditi, approfittando dell’oscurità e della nebbia che ricominciava ad alzarsi, si erano spinti sotto la torre, ed avevano dato fuoco alle piante rampicanti che si spingevano fino alla cupola. Alcuni erano rimasti nascosti nella macchia dei mhowah, e non avevano cessato di sparare. Le piante vecchie ed abbastanza secche, si erano subito incendiate crepitando. Strisce di fuoco serpeggiavano intorno alla torre, mentre colonne di fumo si alzavano fino alla cupola. Il rajaputo, quantunque esposto al fuoco dei banditi rimasti ancora imboscati, si era messo a recidere rabbiosamente i vecchi calamus che si abbarbicavano alla veranda. Kammamuri intanto aveva ripreso a far fuoco, sparando sempre dentro la macchia dove vedeva balenare i lampi delle fucilate. Timul e il gurú erano invece scesi a precipizio ed avevano levate due delle tre spranghe che barricavano la porta di bronzo. Alla base della torre un calore intenso si sviluppava già, e delle lingue di fuoco entravano attraverso le feritoie sibilando. I quattro disgraziati correvano il pericolo di morire lentamente arrostiti, poiché i calamus continuavano a bruciare con estrema rapidità, spingendo nubi di fumo verso la cima della torre. — Sahib, — disse il rajaputo il quale aveva udito parecchie palle fischiargli agli orecchi — ciò che mi hai ordinato l’ho fatto, ma l’incendio non accenna a scemare. Sono troppo secchi questi calamus. Kammamuri, che aveva sparato un altro colpo di carabina, sempre sdraiato sulla veranda, guardò il gigante e disse: — Le cose vanno male, pare. — Quelle canaglie ci aspettano all’aperto per prenderci tutti. — Lo so, per Siva! — esclamò il maharatto con voce rauca. — Non potremo resistere a lungo. Questa torre diventerà un forno crematorio, e noi non salveremo nemmeno le ossa. — Perché non tentiamo un’uscita? — Quattro contro... mettiamo che ormai i banditi siano quindici, poiché io ne ho colpiti alcuni... ma anche quindici sono sempre troppi. — Pensa, sahib, che il fuoco continua a salire. Tutta la torre è avvolta dalle fiamme. — E quel fragore, che abbiamo udito nel momento in cui il sole tramontava, si ode ancora? — chiese il giovane cercatore di piste, comparendo insieme al gurú. — Pare che tutti quei cavalli si siano arrestati sul margine delle jungle — rispose Kammamuri. — Ma la torre fa piú luce d’un faro, e se quelli sono i montanari della rhani, non mancheranno di accorrere. — E se fossero invece altri paria o fakiri mandati a chiamare dagli assedianti? Il maharatto incrociò le braccia sulla carabina che fumava ancora, poi disse con accento di rassegnazione: — Se Visnú vuole, ci porti pure nel suo paradiso. — Senza combattimento, sahib? — chiese il rajaputo, il quale era diventato furioso. — Oh, no! Balzeremo fuori come tigri e scompariremo nella jungla. Ma aspettiamo che i cavalli, che marciavano al cadere delle tenebre, si mostrino. — Tu credi siano i montanari di Sadhja? — Ho questa convinzione — rispose il maharatto. — E se tu t’ingannassi? — Impegneremo una lotta suprema che già dura da troppi giorni... Che caldo! È impossibile resistere! — Scendiamo, sahib? — Giú fa piú caldo che qui — disse il giovane cercatore di piste. — La porta non si è fusa? — No, sahib. In quel momento sulla grande strada, che conduceva alle montagne di Sadhja, si udirono alcune scariche, fitte, serrate. Una grandine di grossi proiettili cadeva sulla torre ardente, tempestando specialmente la cupola che cominciava ad arrossarsi. Kammamuri mandò un grido: — Son grossi fucili di montanari! Ecco la nostra salvezza che giunge! — Non sono carabine, sahib? — chiese il rajaputo. — No, sono i vecchi fucili dei cipai, che il governatore del Bengala, sempre buon negoziante, ha venduto loro. Buone armi cinque o sei anni fa. Si slanciò sulla veranda e si mise a gridare a gran voce: — Accorrete in aiuto dei guerrieri del Maharajah. Sospendete il fuoco! Io sono Kammamuri! La fucileria, che rimbombava fortissima sulla grande strada delle montagne, subito cessò. Poi mentre i banditi di Sindhia non cessavano di sparare si udí una voce tonante gridare: — Io sono Khampur, capo dei montanari di Sadhja e guido la rhani. Veniamo in tuo soccorso. Tre o quattrocento cavalieri si slanciarono nella jungla, decimando crudelmente, con poche scariche, i banditi del rajah e giunsero in un momento sotto la torre, la quale ormai minacciava di crollare sotto i morsi delle fiamme. — Giú! giú! — gridò Kammamuri. — La nostra salvezza ormai è assicurata. Si precipitarono tutti e quattro giú per le scale, trattenendo il respiro, poiché l’aria era diventata ardente dentro la torre. Il rajaputo con un colpo di tarwar fece cadere la terza sbarra di ferro che cominciava a diventar rossa, spinse con un poderoso calcio la porta e passò primo attraverso ad una vera cortina di fiamme. I montanari, dopo aver messo in fuga i pochi banditi, erano prontamente tornati. Li guidava un vecchio guerriero dalla pelle assai bruna e la barba assai bianca, d’aspetto imponente quanto il rajaputo. Vestiva come un rajah, e sul turbante larghissimo portava un pennacchio di crini di cavallo bianco, tempestato di diamantini. — Dov’è Kammamuri, l’amico del Maharajah? — chiese avanzandosi, e facendo caracollare il suo bellissimo cavallo morello. — Eccomi, Khampur! — gridò il maharatto, il quale era pure riuscito dalla torre ardente insieme al gurú ed al giovane cercatore di piste. — Noi ti dobbiamo la vita. — Chi vi assediava e tentava di arrostirvi? — chiese il capo. — Le genti di Sindhia. — Quelle che noi abbiamo fugate? — Sí, Khampur, e stavano per prenderci. Dov’è la rhani? — È sulla strada della montagna insieme a mio figlio, scortata da quindicimila cavalieri risoluti a riconquistare un’altra volta l’Assam. È ora di finirla con quel Sindhia. Ed il Maharajah resiste sempre? Noi abbiamo saputo che si era trincerato su una collina insieme agli uomini venuti dal mare colla Tigre della Malesia. — Io spero che quei valorosi non si siano ancora arresi. — Abbiamo pure saputo che il colera è scoppiato negli accampamenti del rajah e che fa strage. — Quel malanno l’ha scatenato un famoso medico che la Tigre aveva condotto con sé. — Quanti uomini potrà avere Sindhia? — Un mese fa ne aveva ventimila, ma ora non credo che ne abbia piú tanti. — Sono banditi, paria, fakiri e bramini; è vero? Oh, che pessimi combattenti! — disse il vecchio montanaro. — Avremo da fare i conti anche con un migliaio di rajaputi. — Siamo in buon numero, e la rhani ed il Maharajah riavranno ancora una volta il loro impero. Fece scendere a terra quattro uomini, e fece condurre i loro cavalli dinanzi a Kammamuri. — Montate e seguitemi — disse. — Abbiamo fretta di raggiungere il Maharajah e di dare un’altra e decisiva battaglia a quell’ostinato di Sindhia. — Ai tuoi ordini, Khampur. In quel momento la veranda della torre e la cupola, minate dalle fiamme che continuavano a innalzarsi, rovinarono con immenso fragore, sollevando una grossa nuvola di fumo e di scintille. — Per Siva! — disse il rajaputo aiutando il gurú a montare a cavallo. — Se questi bravi montanari tardavano ancora un po’, a quest’ora eravamo morti e sepolti. In mezzo alle folte piante si udirono alcuni spari. — Non è ancora finita? — chiese Khampur, il quale era impaziente di raggiungere la rhani per accorrere poi in aiuto del principe bianco. — Quei banditi avrebbero la pretesa di misurarsi con noi? Che cento uomini si accampino qui ed attendano i miei ordini. Su, partiamo! Cinquanta cavalieri sbucarono di tra le macchie di mhowah con le carabine ancora fumanti in mano. — Sono fuggiti o li avete fucilati? — chiese il vecchio montanaro. — Vi sono dieci o dodici morti, capo, — disse il comandante del drappello. — Gli altri sono riusciti a scapparci, attraversando un canale che poteva essere pericoloso. — Prendi altri cinquanta uomini e rimani qui — disse Khampur. — Se quei furfanti ritornano, fucilateli come cani arrabbiati. Al galoppo! I quattrocento cavalieri si misero rapidamente in moto, in file serrate, attraversando l’ultimo lembo della jungla. Altri cento si erano accampati intorno alla torre, la quale continuava a fiammeggiare, minacciando da un momento all’altro una completa rovina. I primi dopo dieci minuti raggiunsero la via della montagna, che era ingombra, a perdita d’occhio, di cavalieri d’aspetto imponente, con lunghe barbe, armati di grossi fucili, di pesanti scimitarre e di pistoloni a due canne. Erano là i quindicimila montanari che Khampur per la seconda volta stava per scatenare contro il rajah pazzo. Le linee si aprirono facilmente, essendo la via larghissima, ed il capo, Kammamuri ed i loro amici giunsero ben presto là dove si trovava la rhani, la principessa dell’Assam, moglie di Yanez, circondata da cinquanta cavalieri di statura imponente. — Ah!... Kammamuri! — gridò la bella principessa, la quale montava una candida giumenta, ed indossava un lungo vestito di seta azzurra. — Mi porti finalmente notizie di mio marito? — Io credo, signora, che resista sempre nei dintorni della capitale insieme con la Tigre e i tigrotti di Mompracem. — Che non si siano arresi per fame? — Ma che! Avevano cavalli ed elefanti, e per difendersi le terribili mitragliatrici. — È vero che nei campi di Sindhia è scoppiato il colera? — Un amico della Tigre ha portato delle bottiglie che contenevano dei germi terribili, e alcuni dei nostri si sono incaricati di vuotarle intorno alle tende del rajah. — Ed i miei uomini non cadranno anche loro distrutti dalla terribile epidemia? — Il signor Sandokan ha ai suoi ordini un famoso tobib che può scatenare ed anche curare rapidamente quel terribile morbo. La rhani guardò Khampur e suo figlio, un giovanottone saldo come la cima d’una rupe e formidabilmente armato, e fece poi un cenno. La nebbia in quel momento si era alzata e la luna cominciava a far capolino sopra le jungle. Verso il sud la torre bruciava ancora, cadendo a pezzo a pezzo e continuando a lanciare in aria nembi di scintille e di fumo. — Quando potremo giungere a Gauhati? — chiese la rhani al maharatto, il quale aveva preso le briglie della bianca giumenta. — Domani all’alba potremo piombare sulle orde del rajah. — Sei sicuro che non sono bravi guerrieri? — Sono banditi piú abituati a maneggiare il coltello e il bastone. Ed il piccolo Soarez? — L’ho lasciato sulle montagne — rispose la principessa. — È ben guardato, e nessun nemico giungerà lassú. — Allora si può partire — disse Khampur, il quale frenava a stento il suo cavallo, nero come la notte. — Faremo una sola volata e spazzeremo via i campi di Sindhia, prima che i rajaputi, i soli guerrieri temibili, si preparino ad una vigorosa difesa. — Via! — gridò la rhani. — Andiamo a salvare il Maharajah e la Tigre della Malesia. Uno squillo di tromba echeggiò, e allora tutti quei cavalieri si mossero a gran trotto, avviandosi verso la capitale dell’Assam, nei cui dintorni dovevano ancora resistere il Maharajah, Sandokan e le tigri imbrancate coi sikkari, i famosi cacciatori di tigri. CAPITOLO XIX. SINDHIA ALLA RISCOSSA — Un altro parlamentario! Dategli una fucilata prima che venga a portarci il colera, — gridò Sandokan, il quale vegliava giorno e notte sulle trincee improvvisate con grossi tronchi d’albero. — Aspetta un po’ — disse Yanez alzandosi. — Potrebbe essere Kiltar, e non vorrei ammazzare quel bramino che ci ha resi tanti favori. — Infatti mi pare che sia proprio lui — disse Tremal-Naik, il quale fumava placidamente la sua pipa sdraiato su un folto strato di foglie fresche. — È inutile che venga qui ancora — disse la Tigre. — Rimanga in mezzo ai microbi. — Sindhia avrà qualche notizia importante da comunicarci — disse il Maharajah. — La solita, fratellino: arrendetevi o vi stermineremo tutti! — E consegnate prima di tutto i tesori della corona! — aggiunse Tremal-Naik. — Quel furfante ci tiene a spogliare la rhani dei suoi gioielli. — Dev’essere a corto di denaro — disse Yanez. — Ventimila uomini costano, quantunque i paria ed i fakiri si accontentino di un po’ di riso con qualche pezzo di pesce secco e poca frutta. Orsú, lasciamolo entrare. — È la quarta volta che viene, Yanez, — disse Sandokan, il quale pareva di assai cattivo umore. — Sarebbe ora che grattasse i piedi al rajah. — Se è il suo primo ministro!... — Un ministro malfermo in gambe. Io non vorrei trovarmi al suo posto. Vedrai che un giorno o l’altro quel pazzo di Sindhia lo farà schiacciare da qualcuno dei suoi elefanti. — Cioè dei miei — corresse Yanez. — Andiamo a vedere. Intanto il nostro famoso medico prenda le precauzioni necessarie, onde il colera non scoppi anche fra noi. Dayachi, malesi, sikkari e maout, vedendo i tre capi avanzarsi verso l’ultimo sperone della collina, si erano prontamente raggruppati collocando le mitragliatrici, temendo sempre qualche sorpresa da parte di quei ventimila disperati, se pure erano ancora ventimila. Kiltar, il bramino a cui un giorno Yanez aveva donata la vita mentre era già stato attaccato alla bocca d’un cannone, saliva lentamente la costa della collina, tenendo in mano una lancia sulla quale pendeva una bandiera piú o meno bianca. Era solo; ma a mille passi di distanza tre o quattrocento rajaputi si erano schierati nella pianura, dinanzi ai vasti accampamenti del rajah, pronti a proteggerlo. — Che nuove dunque, signor ministro del rajah dell’Assam? — gridò Yanez con voce ironica, facendo cenno al parlamentario di fermarsi. — Possiamo parlare anche a cinquanta metri di distanza. I microbi non faranno cosí lunghi salti: noi non vogliamo saperne del colera. — Mi manda il mio padrone — rispose il bramino fermandosi presso una roccia e piantando la bandiera. — Mi porti delle sigarette? Sai che non ne ho piú e che sono furibondo? — Non abbiamo che del pessimo tabacco del Mysore, Altezza, — rispose il bramino. — Tutto quello che avevamo lo ha consumato il rajah. — Il rajah! Alto là, amico! Rajah di che cosa? Del Bengala forse, o del Guzerate, o del Coromondal? — Dell’Assam, dice lui. — Ah, dice lui! Non siamo ancora vinti, e la rhani coi montanari di Sadhja non tarderà a giungere e rovescerà sui campi di Sindhia migliaia e migliaia di cavalieri agguerriti. — Venivo appunto a dirti, Altezza, che i soccorsi stanno per giungerti. Noi siamo stati informati che la rhani, tua moglie, marcia a gran furia sulla capitale. — La mia capitale! — gridò Yanez, rompendo in una fragorosa risata. — Bisognerà rifarla da cima a fondo. — Quando tu avrai riconquistato nuovamente l’impero, Altezza, farai fabbricare palazzi piú grandiosi di prima. Il denaro non manca di certo alla rhani e nemmeno a te. — Ebbene, che cosa vuoi? La Tigre della Malesia aveva già dato l’ordine di fucilarti. — Io vengo come parlamentario e come parlamentario amico. — Sia pure, ma resta lontano. Il colera ci ha finora risparmiati e non desideriamo prenderlo ora, proprio nel momento della suprema lotta. Cadono i guerrieri di Sindhia? — Ne sono scomparsi almeno cinquemila in pochi giorni. — E Sindhia? — Gode ottima salute e non dispera di riprendersi l’Assam ed anche la bella rhani per soprammercato. — Prendersi mia moglie? — urlò il portoghese con voce rauca. — Ed anche tuo figlio cercherà di rapirti. — Ah, brigante! Cosí forte si crede ancora? Quell’uomo è pazzo e finirà la sua vita in un manicomio. Si ubriaca sempre? — Sempre, per preservarsi dal colera, dice lui. — Ebbene, che cosa vuoi? — Il mio padrone vorrebbe fare la pace con te a condizione che tu lasci a lui tutto l’Assam occidentale. — Che è il piú ricco e il piú popolato. — E conservi alla rhani le montagne di Sadhja. — Ah, ah! — esclamò Yanez. — Quell’uomo è assolutamente straordinario. Si crede un Timur od un Tippo Saib. — Non so che cosa dire, Altezza, — disse il bramino il quale rimaneva sempre allo stesso posto, sorvegliato da una dozzina di rajaputi. — Questa è la sua ultima proposta che ti fa. — E mi lascerà la rhani? — Certamente, se tu accetterai. — E mi rapirà mio figlio? — Ne ha avuta l’intenzione, ma credo che si sia raffreddato vista l’impossibilità dell’impresa. È fra i montanari tuo figlio; è vero? — E ben al sicuro — rispose Yanez. — Non saranno i paria, né i fakiri di Sindhia che andranno a cacciarsi in mezzo a quelle gole per tentare una simile impresa. — Lo credo anch’io — disse Kiltar. — E poi col colera che infuria sempre piú!... Non potresti, Altezza, mandarci il tobib bianco? — Il mio medico è ammalato perché non ha piú sigarette. — Fumi la pipa. — Non gli piace. Allora, amico, puoi tornare dal tuo padrone per avvertirlo che fra poco lo spazzeremo via insieme con le sue orde. — Ha qualche migliaio di rajaputi ed una ventina di elefanti. — I montanari di Sadhja non hanno mai avuto paura di quei barbuti guerrieri. — Sicché, Altezza?... — Ho detto. — Non accetti? — Non sarò cosí stupido. — Bada che il rajah farà un altro supremo tentativo per prenderti. — E noi siamo qui ad aspettarlo — disse Sandokan, il quale fin allora era rimasto silenzioso. — Contate sui montanari. Noi sappiamo che si avvicinano a grandi tappe e che sono moltissimi. Se giungono in tempo, risparmiate almeno la mia testa. — Tu sei nostro amico — disse Yanez, — e saprò anzi ricompensarti quando questa guerra sarà finita. — Addio, Maharajah! Che Brahma, Siva e Visnú veglino su di te. Spiantò la lancia, fece ondeggiare la bandiera, poi se ne andò scendendo lentamente l’ultimo sprone della collina, che declinava verso la distrutta capitale ed i campi del rajah. — Che cosa dici tu, Sandokan? — chiese Yanez alla Tigre della Malesia. — Che tu riconquisterai l’Assam — rispose il famoso pirata. — Se i montanari si sono già mossi e si avanzano velocissimi, noi metteremo un’ altra volta a posto quell’ostinato che vuole carpire la corona a tua moglie. — Potremo resistere? — Sono sette giorni che combattiamo e nessuno di quei predoni è ancora riuscito a mettere i piedi su questa collina. Hanno troppa paura delle mitragliatrici. — Ma sono ancora in molti, ed hanno elefanti ed anche dei cannoni. — Dei quali non sanno nemmeno servirsi — disse Tremal-Naik, il quale terminava la sua pipata, seduto su un grosso tronco d’albero, che serviva da trincea. — Vorrei che Khampur fosse già qui — disse Yanez. — Mi sentirei piú tranquillo. Vedrai che stanotte il rajah tenterà un altro colpo disperato per prenderci tutti. — Se riuscirà a prenderci! — disse Sandokan. — Di quei guerrieri non dobbiamo aver piú paura. — Eppure hai veduto che per tre volte sono montati all’assalto con gran coraggio. — Per scappare dopo come sciacalli ai primi colpi delle mitragliatrici. Non siamo che in cento, e non abbiamo perduto finora che sei uomini, mentre il rajah ha cinquemila cadaveri nei suoi campi. Tuttavia prendiamo le nostre precauzioni. Non ci lasciamo sorprendere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Da quando Yanez, Sandokan, Tremal-Naik coi loro valorosi dayaki e malesi avevano lasciate le grandi cloache per rifugiarsi su quella collina isolata, che sorgeva proprio di fronte alle rovine della capitale, i combattimenti si erano seguiti ora di giorno ed ora di notte, ma le malferme bande del rajah non erano mai riuscite a spuntarla. Avevano lasciato lungo gli sproni dell’altura centinaia di uomini, fulminati dalle mitragliatrici e dal fuoco serrato delle carabine, e ora immense turbe di marabú e di aiutanti li stavano spolpando. Il rajah si era provato a mettere in batteria una mezza dozzina di vecchi cannoni, ma i rajaputi, i soli che avrebbero saputo servirsene, erano stati pei primi colpiti dal colera, e dopo pochi colpi, senza nessun risultato, le grosse bocche erano tornate mute, poiché ne i paria, né i fakiri, né i bramini s’intendevano di quelle armi cosí grosse. Era molto se sapevano adoperare le carabine e spararle come coscritti. Nondimeno Sindhia non si era perduto di coraggio, ed aveva spinte colonne su colonne verso la collina, ormai completamente difesa da grossi alberi e da grosse stecconate che i pirati si erano affrettati ad abbattere. Tutti gli sforzi del pazzo erano stati quindi assolutamente nulli e ci aveva rimesso ogni notte un bel numero di disgraziati paria e di fakiri, decimati crudelmente dal fuoco regolare delle tigri della Malesia e dalle mitragliatrici. Durante quei sette giorni d’assedio il valoroso drappello non aveva sofferto né la fame né la sete, poiché i cavalli abbondavano e vi erano ancora degli elefanti. Chi per primo si era lamentato della lunghezza della guerra era stato il Maharajah, perché era rimasto senza sigarette e non sapeva adattarsi alla pipa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sandokan ed i suoi amici seguirono cogli sguardi il bramino che aveva sempre dato loro preziose informazioni, poi quando lo videro scomparire sotto l’altissima tenda di seta rossa del rajah, si ripiegarono verso le trincee facendo mettere in batteria le mitragliatrici. Erano sicurissimi di non passare la notte tranquilla e si preparavano animosamente all’ultima prova in attesa dei montanari di Khampur: — La tua corona dipende forse da questa notte — disse Sandokan a Yanez, il quale continuava a frugarsi le tasche, sempre colla speranza di scoprire una sigaretta. — Lo temo anch’io; eppure non sono affatto spaventato. Quei banditi pidocchiosi non possono resistere cinque minuti al fuoco serrato. Ma che Sindhia tenti un gran colpo, ne sono sicurissimo. — E forse Khampur non è lontano! — E con lui ci sarà pure, spero, Kammamuri — disse il vecchio cacciatore della Jungla nera. — È un furbo che non si fa prendere facilmente — disse Yanez. — Vale cinque uomini. — E se lo avessero ucciso? Tu sai che il rajah ha mandato dei cavalieri ad inseguire i nostri amici che si recavano verso le montagne. — Ha con sé il gigantesco rajaputo, un altro uomo che ne vale dieci per forza, e poi Timul. — Tuttavia non sono tranquillo, Yanez, — disse Tremal-Naik, la cui fronte si era oscurata. In quel momento il cacciatore di topi, innalzato alla carica di gran cuoco, si avvicinò ai tre capi annunciando loro che la cena era pronta. Aveva fatto abbattere un elefante che stava per morire di fame, non essendovi piú foglie né erbe sulla collina, e ne aveva cucinato gli zamponi e la tromba. Il medico olandese aveva preso parte allo squartamento del gigantesco animale, essendo anche un terribile chirurgo. — Che i sahibs mi seguano — disse il cacciatore di topi. — Il sole sta per tramontare, e i bocconi scelti del pachiderma sono fumanti. Ah, che profumo! Per i capi, in mezzo alle trincee improvvisate, era stata innalzata una spaziosa capanna ben riparata da ammassi di vecchie foglie, che ormai i cavalli e gli elefanti non mangiavano piú. Dinanzi alla porta quattro dayaki, sotto la sorveglianza del medico olandese, avevano già levato dai forni improvvisati i pezzi migliori del bestione, e li avevano deposti sulle ultime foglie di banano, che erano riusciti ancora a scoprire nei dintorni della collina. Un profumo squisito si espandeva intorno alla casa, che parecchi malesi guardavano colle carabine a bandoliera, temendo sempre qualche brutta sorpresa da parte dei paria, i quali si erano spinti piú volte fin lassú per tentare di distruggere le trincee. Malgrado le loro preoccupazioni, Yanez ed i suoi compagni fecero onore ad un pezzo di proboscide, lasciando agli altri i mostruosi piedi, bocconi altrettanto eccellenti, innaffiando la cena colla loro ultima bottiglia di whisky, che il medico olandese aveva serbata per le grandi occasioni. Sandokan e Tremal-Naik avevano accese le loro pipe, mentre Yanez per la centesima volta si frugava le tasche, sempre colla speranza di trovarci qualche sigaretta, quando Sambigliong, il vecchio capo dei malesi, entrò dicendo: — Si vede nelle pianure d’oriente un fuoco che arde e non pare si espanda. Si direbbe che è un faro. — Dei fari nel mio Stato non ve ne sono mai stati — disse Yanez. — Delle torri e delle pagode, finché vuoi: se ne trovano anche in mezzo alle piú selvagge jungle. — Che sia qualche segnale? — disse Sandokan. — Andiamo a vedere, Yanez. Io non sono affatto tranquillo ora. — Un segnale fatto da chi? Ad oriente non vi devono essere guerrieri di Sindhia. — Se fossero i montanari di Khampur... — Vedremo — rispose Yanez con un sospiro. — Il fatto è che noi passeremo certamente una pessima notte e che dovremo difenderci peggio delle tigri. — Tu non hai pensato agli altri tre elefanti che stanno pure per morire. — Che cosa vuoi dire, Sandokan? — Che noi li getteremo addosso alle bande di Sindhia quando tenteranno di montare la cresta. — Infatti io non avevo pensato a quelle povere bestie che continuano a domandare dall’alba alla sera la colazione, il pranzo e la cena con barriti che cominciano a diventare spaventevoli. — Ed allora li sacrificheremo — disse Sandokan. — Sindhia ne ha degli altri, quelli che prese a te con l’infame tradimento di quelle canaglie di rajaputi. — Me ne ha portati via venti. — Lo credono un pazzo! Io invece lo credo un uomo di guerra capace di tentare tutto. Ma non farà altra strada, speriamo, se i montanari di tua moglie giungono in tempo per liberarci da questo noioso assedio. — Il faro, torre o pagoda che sia, brucia sempre — disse in quel momento Sambigliong rientrando. — Venite a vedere. Tutti si alzarono prendendo le loro armi e le loro munizioni, contando di portarsi agli avamposti per sorvegliare le mosse delle bande del rajah. Il sole era tramontato da qualche ora, ed una fitta nebbia si stendeva nel cielo coprendo gli astri. Giú nella pianura, verso i bastioni semisventrati della capitale incendiata, brillavano numerosi fuochi. Nei campi di Sindhia vegliavano assiduamente quella notte. — Dov’è questa pagoda che brucia? — chiese Yanez a Sambigliong. — Io non vedo che i fuochi che illuminano i colerosi. — Non guardare da quella parte, Altezza, — disse il vecchio malese. — La fiamma misteriosa brilla laggiú, verso le jungle pantanose. — Non mi pare che sia una pagoda che arda — disse Sandokan, il quale aveva fissato subito i suoi occhi potenti su quella specie di razzo che lanciava in cielo, ad intervalli, miriadi di scintille. — Io dico che si tratta d’una torre. — Allora fanno dei segnali a noi — disse Yanez. — Quanto sarà lontano quel fuoco? — Quindici o venti miglia per lo meno. — Conosci quelle jungle? — Vi ho cacciato molte volte e vi ho ammazzato delle tigri coll’aiuto dei miei sikkari. — Hai veduto delle torri? — Laggiú la vegetazione è cosí folta, che non si potrebbe scoprire nemmeno una grossa pagoda. — Che sia Khampur che segnala il suo arrivo? — chiese Tremal-Naik. — Può darsi — rispose Yanez. Non avrebbero potuto mai immaginarsi che dentro quella torre avevano dovuto rifugiarsi il prode maharatto ed i suoi compagni, inseguiti dai cavalieri di Sindhia. Aspettarono una buona ora, poi quando quella luce si spense, tornarono sollecitamente verso le trincee. Il cacciatore di topi insieme ai capi malesi e dayaki aveva prese tutte le misure per rendere il campo inaccessibile, almeno per parecchie ore. I tre elefanti, che barrivano sempre piú spaventosamente, e che ormai erano destinati a morire per mancanza di nutrimento, erano stati condotti, con grandi fatiche, dai cornac verso lo sperone della collina, e subito era stata accumulata dietro di loro della legna ben secca. Si sa che tutti i pachidermi temono il fuoco, e che quando se lo vedono divampare alle spalle, non esitano a precipitarsi senza badare al pericolo. I dayaki ed i malesi intanto avevano rinforzate le trincee colle houdah, ossia con le casse che servono a portare i viaggiatori sul dorso dei giganti, ed avevano collocate le mitragliatrici nei luoghi piú opportuni per battere il nemico, se si fosse deciso a montare all’assalto. Nelle piccole e strette gole, che conducevano verso la cima della collina, i guerrieri di Sindhia erano saliti, non potendo girare l’ostacolo che dietro era tagliato quasi a picco, ed i malesi ed i dayaki le sorvegliavano attentamente, tenendosi ben nascosti fra le rocce e gli alberi privi ormai di foglie. Yanez, Sandokan e Tremal-Naik, dopo essersi ben assicurati che i loro uomini erano a posto, a piccoli gruppi, pronti a scatenare le mitragliatrici e le carabine, si erano nuovamente spinti verso l’estremità dello sperone, scortati da una dozzina di malesi e da mezza dozzina di sikkari. Erano piú che certi di dover subire un nuovo assalto e piú disperato degli altri. Kiltar, il bravo bramino sempre riconoscente, aveva parlato abbastanza per farlo supporre. D’altronde il rajah non poteva aspettare i cavalieri della montagna, i quali potevano giungere da un momento all’altro ed attaccarlo ferocemente. La sua salvezza stava solo nella cattura del Maharajah, poiché avrebbe poi potuto trattare colla rhani. — Sarà una notte pesante — disse Sandokan, il quale scrutava attentamente i campi del rajah, che piú nessun falò illuminava. — Tu, che hai gli occhi migliori di noi, li vedi muoversi? — chiese Yanez, il quale tormentava il grilletto della carabina. — Non li vedo, ma invece li odo — rispose il famoso pirata. — Devono essere già in marcia. — Quanti saranno? — Il colera ne avrà spazzati via molti ed immobilizzati molti altri; ma Sindhia è sempre il piú forte, e se invece di ubriacarsi avesse rovesciato fin da principio tutti i suoi uomini contro di noi con grande slancio, non so se saremmo ancora liberi. — È un pessimo condottiero di truppe — disse Yanez. — E poi i paria ed i fakiri non possono resistere al fuoco. Lo hai già veduto. — E soprattutto delle mitragliatrici hanno paura. Ho avuto una buona idea a portare da Mompracem queste armi niente ingombranti che possono talvolta gareggiare colle artiglierie di questi paesi. — Ritorniamo — disse Tremal-Naik, il quale aveva raggiunto l’estremo limite dello sperone. — I banditi hanno levato i campi e si avvicinano a noi in fitte masse, introducendosi nelle piccole gole. In quel momento un lampo ruppe le nebbie che si abbassavano continuamente sulla città distrutta, ed una fragorosa detonazione echeggiò. — Per Giove! — esclamò Yanez, il quale aveva ripreso il suo solito buon umore. — Sindhia ci saluta a colpi di cannone. Si vede che non tutti i miei rajaputi traditori sono morti di colera. — Hanno sparato da un bastione della città — disse Tremal-Naik. — Hai udito il rombo della palla, tu? — Io no, Yanez. — Allora gli uomini che servono quel pezzo devono essere alle prese coi crampi e coi vomiti. Forse si saranno perfino dimenticati di metterci dentro il proiettile. — Ma non se ne sono dimenticati i paria, i fakiri ed i bramini, quantunque siano dei pessimi tiratori. — Capaci di fucilarsi fra di loro — disse Yanez ridendo. — Non s’improvvisa un esercito atto a combattere. — In ritirata! — gridò Tremal-Naik. Tutta la pianura era solcata da lampi, e gli spari si succedevano agli spari. Sindhia spingeva energicamente i suoi uomini, risoluto a catturare il Maharajah suo rivale prima che ricevesse in tempo dei soccorsi. Le palle fioccavano sulla cima dello sperone e dentro le profonde gole, ma non vi era pericolo che facessero dei danni. I malesi ed i dayaki, appoggiati dagli sikkari, si erano subito spiegati, appena avevano veduto ritornare i loro capi. — Dobbiamo rispondere? — chiese il vecchio Sambigliong accostandosi a Yanez, il quale stava facendo accendere i fuochi dietro ai tre elefanti. — E senza ritardo — rispose il Maharajah. — Vuoi aspettare che siano sullo sperone? Quanti colpi hanno ancora da sparare le mitragliatrici? — Cinquemila almeno, Altezza. — Credo che basteranno per quei pessimi soldati. Poi alzando la voce gridò: — Non vi trattengo piú! Bruciate polvere piú che potete e badate soprattutto di colpire. In questo momento si giuoca la mia corona. Un grande urlo rispose: — Viva il Maharajah! Morte a Sindhia! Poi le mitragliatrici e le carabine cominciarono a tonare con un crescendo spaventoso, infilando le gole già occupate rapidamente dagli assedianti. — Che cosa ti dice il tuo cuore? — chiese Sandokan a Yanez, il quale pareva che avesse perduto il suo solito buon umore. — Che verrai con me al Borneo, dove posso dare a te, a tua moglie e a tuo figlio un regno, o che la corona dell’Assam ti rimarrà ancora in capo? — Sarà un po’ pesante questa corona, ma il mio cuore è tranquillo. Fuggire dinanzi a questi indiani, come un brigante venuto d’oltremare in cerca di rupie, mai! Noi abbiamo ammassato abbastanza fortune in Malesia; è vero, Sandokan? — Saccaroa! Tengo ancora a tua disposizione cinque milioni di fiorini che ti spettano e che ho fatto fruttare favolosamente nel sultanato del Borneo. Sai che quel caro Sultano è sempre a secco di moneta?... Hai ragione. Uomini come noi non si fanno ammazzare; vincono sempre, facendo sventolare la rossa bandiera che per tanti anni ci ha protetti. — Ed intanto, mentre tu parli di fiorini, qui il piombo cade in abbondanza. Sindhia vuol darmi un’ultima battaglia prima che giungano i montanari. Ed il piombo cadeva davvero fitto fitto sull’accampamento dei cento uomini, crivellando di quando in quando i poveri elefanti che si trovavano completamente esposti. I malesi ed i dayaki per altro non mancavano di far tuonare le mitragliatrici e le carabine, atterrando dentro le gole grandi masse di nemici. Altri paria, altri fakiri, altri bramini, come invasati dal demonio della guerra, si succedevano senza tregua, riempiendo i vuoti e spingendosi risolutamente sotto la mitraglia. Sparavano a casaccio poiché erano pessimi tiratori, ma pure facevano paura. Guai se fossero riusciti a forzare le tre piccole gole e montare sullo sperone della collina! I cento uomini di Yanez correvano il pericolo di venire spazzati via o precipitati nel burrone che si apriva dietro di loro. Era già mezzanotte, e la battaglia infuriava sempre. Le masse facevano delle brevi soste sotto le scariche delle mitragliatrici, ma poi riprendevano la marcia mandando urli selvaggi e sprecando polvere. A poco a poco stavano per sbucare dalle tre gole. Sandokan, che fino allora aveva maneggiato una delle quattro mitragliatrici colpendo in pieno gli assalitori, lasciò il posto a Sambigliong e si avvicinò a Yanez, il quale alla testa di cinquanta uomini si preparava a tentare un disperato contrattacco. — Che cosa fai, fratello? — gli chiese. — Vuoi farti fucilare? Non impegnarti nelle gole. Il nostro posto è quassú. — Ma salgono continuamente, quantunque debbano aver subito delle perdite crudeli. Non credevo che quei banditi fossero capaci d’un simile sforzo. — È questo il momento per giocare la nostra ultima carta, Yanez, — disse la Tigre della Malesia. — Gli elefanti sono crivellati di proiettili e cercano di fuggire, ora che il fuoco divampa dietro di loro. Lanciamoli, e se non basteranno, rovesceremo nella gola anche tutta la nostra cavalleria. — Potranno i cornac farsi ancora obbedire? — Speriamolo. Affrettiamoci: abbiamo già perduto dodici uomini. — Un bel vuoto per una colonna cosí minuscola! — rispose Yanez. — Un paio d’ore ancora di questo fuoco infernale, sia pure senza nessuna mira, e noi tutti saremo morti. E Khampur non giunge!... — Giungerà quando meno te lo aspetterai, fratellino. Orsú, scagliamo gli elefanti dentro le gole. Faranno una bella strage. L’ordine era stato rapidamente dato. I cornac non potevano piú trattenere i tre bestioni che il fuoco, acceso dietro di loro, spaventava, e che colavano sangue da numerose ferite, poiché alcune palle erano arrivate anche sulla cima della collina. — Potete lanciarli? — chiese ai conduttori il Maharajah. — Hanno troppa paura del fuoco e preferiscono affrontare le carabine dei paria, Altezza, — rispose un cornac. — Ormai sono quasi moribondi, ma qualche cosa faranno ancora quando si troveranno stretti fra le bande di Sindhia. I tre bestioni, che barrivano sempre piú spaventosamente e che non obbedivano quasi piú ai loro conduttori, furono spinti verso le tre gole, tempestati da una pioggia di tizzoni ardenti. — Via! — gridò Sandokan, riprendendo il suo posto dietro la mitragliatrice. — Lanciate! I tre pachidermi tentarono dapprima di retrocedere, ma vedendo i falò bruciare in gran numero, spaventati anche dalle grida feroci dei dayaki e dei malesi, presi quasi da improvvisa pazzia, si precipitarono ognuno in una gola, agitando furiosamente le possenti proboscidi. — Vediamo — disse Sandokan. — Se questo tentativo non riesce ad arrestare quelle canaglie, non ci resta che arrenderci. Abbiamo il burrone dietro di noi, che i cavalli non potrebbero mai saltare. In quel momento urli spaventevoli dominati da barriti non meno spaventevoli, si alzarono entro le tre gole ormai piene di cadaveri. L’urto dei tre bestioni colla gente di Sindhia era avvenuto. — Come gridano i fakiri! — disse Sandokan, il quale aveva ripreso il suo posto dietro alla mitragliatrice. — Si prendono certamente dei buoni colpi di tromba. Poi alzando la voce gridò: — Su, tigri della Malesia, uno sforzo ed avremo vinto per la seconda volta quel pazzo! Accelerate il fuoco e tenetevi dietro le trincee. E ricominciò a scagliare torrenti di proiettili, imitato da Yanez, da Sambigliong e dal dottore olandese, che erano i soli a maneggiare quei terribili strumenti di guerra. CAPITOLO XX. LA MORTE DEL «RAJAH» L’incontro fra i tre elefanti, discesi a gran corsa per le tre diverse vallette, e gli uomini di Sindhia era stato spaventoso. I poveri animali in cento parti feriti, tutti grondanti sangue, si erano scagliati con furia terribile agitando le trombe. Gli assalitori chiusi nelle vallette, sospinti da quelli che venivano dietro a migliaia e migliaia, (poiché il rajah aveva impegnato tutta la sua riserva composta quasi esclusivamente di fakiri, pessimi combattenti, come abbiamo detto, ma sprezzanti assolutamente la vita), avevano ricevuto un urto terribile. Spaventati dalle furie dei tre pachidermi, che non erano riusciti a calmare colle carabine, si erano schiacciati per modo di dire contro le pareti rocciose delle tre valli, e si lasciavano uccidere senza nemmeno piú difendersi. D’altronde le mitragliatrici continuavano a tonare, e cadaveri su cadaveri si accumulavano. — Saccaroa! — esclamò Sandokan. — Non speravo tanto da questi animali completamente sfiniti dalla fame. Come lavorano! Fracassano teste e resistono ancora! Che colpi! Sembra che centinaia di zucche o di durion si cozzino. Vedi, Yanez? L’assalto è stato arrestato. — Fino a quando? — chiese il portoghese, il quale si trovava a poca distanza dal terribile pirata, dietro una trincea, seduto dietro la sua mitragliatrice. — Resisteranno finché potranno quei bravi animali. Non ho la pretesa che spazzino via i quindicimila banditi di Sindhia. — Fra pochi minuti quelle povere bestie saranno a terra. Odi come barriscono raucamente? Son certo che soffiano già sangue dalle loro proboscidi. — E noi lanceremo ora tutti i nostri cavalli che faremo legare sei per sei. Anche quelle bestie ormai a noi non occorrono piú; e poi sono sfinite. — Bell’idea! — disse il Maharajah. — Una carica di cento cavalli è sempre impressionante, e noi li renderemo furiosi empiendo le loro orecchie di cenere calda. Vedrai come fileranno: nessuno li arresterà. — Mentre io mi occupo delle mitragliatrici, tu fai preparare i cavalli. Sbrigati, Yanez: i nostri elefanti sono spacciati. Infatti i tre giganteschi pachidermi, dopo avere rovesciato centinaia di assalitori e averne ammazzati non poche dozzine a gran colpi di proboscide, non resistevano piú. Un fuoco infernale li colpiva proprio di fronte, aumentando le loro ferite già numerose. Se la prima linea dei fakiri e dei paria aveva ceduto sotto il brutale assalto ed era andata a rotoli, cercando di salvarsi su per le rocce, le altre che si avanzavano sempre fittissime, sparavano furiosamente, empiendo le tre vallette di nuvole di fumo pesante. — È finita — disse ad un tratto Sandokan, il quale cominciava assai a preoccuparsi di quel formidabile assalto, che solamente i montanari di Khampur avrebbero potuto arrestare. — Povere bestie! I tre pachidermi erano caduti, uno dopo l’altro, ingombrando coi loro corpacci il passaggio delle vallette. Dovevano averne del piombo nel corpo! Gli assalitori delle prime file, che si erano messi in salvo sulle rocce, vedendo i tre pericolosi avversari cadere per non piú rialzarsi, erano scesi ed avevano ripresa la marcia, certi ormai di riuscire a conquistare lo sperone che era la chiave della collina. Intanto Yanez aveva chiamato a raccolta tutti gli uomini disponibili, ed aveva fatto legare i cavalli con delle corde in tanti gruppi di sei ciascuno. Le povere bestie, quasi fossero presaghe della loro strage, avevano tentato di ribellarsi, sicché perfino i malesi, che combattevano dietro le trincee a fianco delle mitragliatrici, avevano dovuto lasciare per un momento le carabine e aiutare i dayaki e gli sikkari. — Presto! Presto! — gridava Sandokan, il quale non riusciva piú a trattenere gli assalitori che si spingevano furiosamente in avanti, scalando i corpacci inanimati e sanguinanti dei pachidermi. — Fra pochi minuti saranno sullo sperone, ed allora non so che cosa succederà!... I cento cavalli, divisi come abbiamo detto, furono spinti con grandi grida e legnate verso l’imboccatura delle vallette. Colà altri uomini li attendevano per empire le loro orecchie di cenere calda, operazione un po’ difficile, ma che pure fu condotta a fine rapidamente. Resi come pazzi, i poveri animali che si sentivano perseguitati dai loro antichi padroni, si lanciarono a corsa sfrenata giú per le vallette, affrontando risolutamente il fuoco dei paria e dei fakiri. — Qualche cosa faranno anche questi — disse Sandokan a Yanez. — Ritarderanno almeno l’assalto di qualche poco. — E Khampur non si vede!... — rispose il portoghese, la cui fronte si era assai offuscata. — Che questa volta debba proprio perdere la corona ed anche la rhani? — Quei montanari dovrebbero essere già qui. Che Kiltar ci abbia ingannati? — Non credo. Quel brav’uomo ci ha dato troppe prove di amicizia. — Ah, poveri cavalli! Su, tutti alle carabine, tigrotti della Malesia! Fra poco qui farà ben caldo, e molti di noi cadranno. Le mitragliatrici avevano ricominciato a funzionare, appoggiate da fitte scariche di fucileria che battevano le tre vallette. I cento cavalli intanto si erano scagliati furiosamente contro gli assalitori, rovesciandoli e calpestandoli, ma non avevano la resistenza dei pachidermi. Cadevano a gruppi, fucilati quasi a bruciapelo, od orrendamente feriti dalle larghe lance dei fakiri. Non erano trascorsi dieci minuti, che piú nessuno ne rimaneva in piedi. Ma le genti di Sindhia si trovavano ora assai imbarazzate ad aprirsi il passo fra quel carnaio che si stendeva in tutte le tre gole. Vi erano elefanti, vi erano centinaia di cadaveri umani sventrati dal fuoco terribile delle mitragliatrici, e cavalli caduti a gruppi e ancora trattenuti dalle corde. Tuttavia gli assalitori, resi furiosi dalle grosse perdite subite, ed aizzati dalle grida terribili dei bramini, non cessavano di avanzare, desiderosi di spazzar via quel gruppo d’uomini che resisteva cosí tenacemente dietro le loro trincee. Si erano già radunati all’estremità delle vallette e cominciavano a dare l’attacco allo sperone. Sandokan si era alzato, lasciando per un momento la mitragliatrice. Incrociò le braccia sul petto e guardando Yanez, gli disse: — Se fra mezz’ora i tuoi montanari non saranno qui, noi saremo tutti morti. Non credevo che quei paria e quei fakiri avessero tanta resistenza e tanto coraggio; eppure hanno i bacilli del colera sotto le loro brune pelli. Vuoi che tentiamo una carica disperata? — Un contro attacco? — Lanciamo i dayaki coi kampilangs in pugno ed i malesi dietro colle carabine. — Brutta carta! — disse il Maharajah. — Appena saranno sullo sperone, verranno tutti fulminati. Almeno qui abbiamo ancora delle difese. — Che dureranno ben poco — rispose la Tigre della Malesia, riprendendo il suo posto. — Quei selvaggi rovesceranno tutto, se riusciranno a giungere fino a noi, ed allora... — Taci! Ho udito verso la jungla, sulla grande via che conduce alle montagne, una scarica di fucili. — Che siano i montanari di Khampur? — Lo spero — rispose il portoghese, il cui viso si era rasserenato. — Vengono! vengono! Io li odo già galoppare. — Anch’io — disse la Tigre. — Giungeranno in buon punto per salvare la tua corona e la pelle di tutti i tigrotti che ho portati dalla lontana Malesia. Su, consumiamo tutte le munizioni e tentiamo di trattenere quei rettili finché giungano i salvatori. Mitragliatrici e carabine avevano ripresa la loro musica infernale. Le palle spazzavano lo sperone che ormai i paria avevano conquistato, abbattendo gran numero di nemici. Come si sa, tutti gli uomini che Sandokan aveva condotti con sé erano tiratori di prima forza, i quali difficilmente mancavano il colpo; gli sikkari di Yanez, vecchi cacciatori, non valevano meno. Già le prime colonne, sfidando imperterrite il fuoco infernale che faceva dei grandi vuoti, stavano per lanciarsi all’assalto della collina, quando furono veduti arrestarsi, poi ricalare attraverso le vallette, per rifugiarsi negli accampamenti e tentare di salvare il loro signore. Scariche formidabili echeggiavano sull’ultimo tratto di via che conduceva dalla capitale alle montagne, accompagnate da urli assordanti. — Largo alla rhani! Viva il Maharajah! I quindicimila cavalieri di Khampur si erano lanciati all’attacco dei tre campi di Sindhia, fugandone rapidamente i difensori o gettandoli a terra a colpi di scimitarra. I paria ed i fakiri, che si trovavano sullo sperone della collina, si erano spinti animosamente incontro ai cavalieri, perseguitati dai tigrotti di Mompracem, i quali consumavano le loro ultime cariche senza piú contarle. Yanez, Tremal-Naik e Sandokan lasciarono le mitragliatrici diventate in quel momento troppo pericolose per i montanari che combattevano e che si potevano trovare sulla linea dei tiri, e si precipitarono anche loro attraverso una delle valli per appoggiare i loro amici. Nei tre campi di Sindhia si combatteva ferocemente, ma ormai tutto era inutile per le genti del rajah, già demoralizzate dal primo combattimento che aveva fatto dei grandi vuoti. Tentavano qua e là di raccogliersi condotti dai bramini, i quali mostravano un coraggio piú che straordinario, ma andavano subito a catafascio sotto gli assalti sempre piú impetuosi dei montanari. La lotta si era concentrata intorno alla grande tenda del rajah, che tre o quattromila fakiri, decisi a farsi scannare pur di salvare il loro signore, cercavano ancora di difendere. I paria invece erano stati i primi a scappare, senza nemmeno occuparsi dei colerosi che giacevano in grandissimo numero sotto le tende. L’esercito si sfasciava rapidamente, malgrado gli sforzi disperati dei bramini, che incoraggiavano con altissime grida i combattenti. Dopo tre o quattro cariche, Khampur, Kammamuri, Timul, il gurú e la rhani, spazzati via anche i fakiri, piombarono dentro la grande tenda del rajah, seguiti da una forte scorta. Gli altri davano la caccia ai fuggiaschi per impedire loro di raccogliersi, e li inseguivano fin sotto le boscaglie. Il rajah, sorpreso dalla rapidità dell’attacco, non aveva avuto il tempo di fuggire. Forse aveva contato troppo sulle sue bande raccogliticce, che non potevano avere molta consistenza. Era rimasto solo con Kiltar, e impugnava due lunghe pistole, tenendosi sotto la grande lampada d’argento. — Indietro! — gridò vedendo Khampur e gli altri irrompere nella vasta tenda. — Io sono il rajah dell’Assam e voi siete ancora miei sudditi! Indietro, miserabili! Voi non avete il diritto di porre le vostre mani sulla mia persona che è di sangue principesco! — Noi siamo venuti qui per arrestarti, Altezza, — disse Khampur. — Ne abbiamo avuto l’ordine. — Da chi? — Dalla rhani. — Tu scherzi! Quella donna non oserebbe tanto contro di me, ora che il Maharajah è stato ucciso dai miei prodi sulla cima della collina. — Ah, canaglia! — gridò una voce. — Anche questo inventi per spaventare mia moglie? Guardami! Sono piú vivo di prima. Era Yanez che cosí aveva parlato e che era giunto proprio in buon punto. Sandokan e Tremal-Naik l’avevano seguito, aprendosi impetuosamente il passo fra i montanari che ingombravano la tenda, e che per tema di qualche tradimento si erano stretti intorno alla rhani. Il rajah, vedendo Yanez, digrignò i denti come uno sciacallo arrabbiato, e fece cinque o sei passi indietro impugnando sempre le pistole. — Arrenditi! — gridò il portoghese. — Ormai tutto il tuo esercito è sfumato, e tu non hai piú fondi per assoldare altra gente. — Arrendermi? — esclamò il rajah con voce cupa. — E che cosa farai tu di me? — Ti rimanderemo a Calcutta! — gridò una voce femminile dall’accento metallico. — Surama! — gridò Yanez. — Sí, sono io, sposo diletto. — E nostro figlio? — È al sicuro sulla montagna. — Lo rimanderemo a Calcutta quest’uomo, o lo imbarcheremo per la Malesia insieme con Sandokan e con le tigri di Mompracem. Cosí non ci seccherà piú. Sindhia proruppe in una gran risata. — Ah, — disse poi — voi volete ricacciarmi fra i pazzi e pensate ora di portarmi via dall’India per condurmi in quel paese di barbari? Sindhia, rajah dell’Assam, morrà all’ombra delle pagode e si farà seppellire in terra sacra. — Noi ti costringeremo ad imbarcarti — disse Yanez. — Siamo decisi. — Io ti dico, principe bianco, che non lascerò questo paese. — Ti metteremo su uno degli elefanti che mi hai carpiti insieme ai miei rajaputi. — La guerra è la guerra — rispose Sindhia. Fece altri cinque passi indietro e disse a Kiltar, che era stato il solo a rimanere di tutti i suoi combattenti: — Dammi un bicchiere di gin o di brandy. Ho sete. — Non vi sono piú tazze, Altezza, — rispose il bramino. — Nella lotta sono state tutte fracassate. — Ma vi è una bottiglia in quell’angolo e che deve essere stata appena sturata. Dammi da bere: io brucio. Kiltar interrogò cogli occhi Yanez, ed invece di obbedire si slanciò dietro le file dei montanari e dei malesi. — Ah, anche tu mi tradisci! — urlo il pazzo. — Non sono piú nulla dunque io qui? Non ho nemmeno un servo che mi dia da bere? Poi, con uno scatto selvaggio si precipitò verso la bottiglia che doveva contenere ancora un paio di quinti di gin e la vuotò d’un fiato, prima che Khampur, che era il piú vicino, avesse potuto impedirglielo. Allora puntò le due pistole gridando con voce terribile: — Qui morranno il Maharajah ed anche il rajah. Due colpi di fuoco echeggiarono. Il pazzo aveva sparato contro Yanez e l’aveva mancato. Le sue mani ormai tremanti non gli permettevano piú di servirsi di quelle splendide armi. Quando la nuvola di fumo si diradò, ed i montanari furiosi si lanciavano innanzi colle scimitarre in pugno, rimbombarono due altre detonazioni. Il rajah, come il crudele Teodoro imperatore dell’Abissinia, si era sparato in bocca facendosi saltare le cervella. — Disgraziato! — gridò la rhani. Sandokan e Yanez si erano precipitati sul corpo del rajah, il quale era caduto su uno splendido tappeto di Persia. Il viso era tutto sfracellato, gli occhi erano stati strappati e dagli orecchi gli uscivano dei pezzi di materia cerebrale. — Al suo posto anch’io avrei fatto altrettanto — disse la Tigre della Malesia. — Eppure avrebbe potuto vivere ancora felice — disse Yanez con voce triste. Kiltar era accorso portando uno scialle del Cachemire che gettò sul corpo del suo padrone. — Usciamo — disse Yanez, prendendo sotto braccio la rhani. — Qui non abbiamo piú nulla da fare. — E per poco non ti assassinava — disse Surama, la quale era in preda ad una violenta emozione. — Andiamo — disse Sandokan. — Qui regna il colera: non dimenticatelo. Ritorniamo sulla nostra salubre collina. È vero che abbiamo il medico olandese, ma non so se potrebbe da solo curare migliaia di ammalati. — E nemmeno la nostra collina potrebbe bastare a raccogliere tutti noi — disse Yanez. — Lasceremo qui un migliaio di uomini, ma noi, ora che piú nessun pericolo ci minaccia, raggiungeremo subito Jaintapru che conta centomila abitanti, i quali non si sono mossi né alle richieste né alle minacce di Sindhia. Qui ormai tutto è infetto. Muoiono ed imputridiscono cavalli, elefanti e centinaia di uomini. — Sarà quella la tua nuova capitale? — Chi lo sa? Dei barriti assordanti giunsero in quel momento ai loro orecchi. Kammamuri, aiutato dai cornac, aveva scovato i venti elefanti che il rajah aveva fatti nascondere dentro una folta foresta. I colossali animali ben pasciuti non domandavano altro che di fare una lunga passeggiata. — Partiamo — disse Yanez, aiutando la rhani a salire sull’elefante piú gigantesco, che era stato completamente bardato. — Col fuoco e colle palle scherzo, ma col colera, no. Un quarto d’ora dopo un’imponente carovana lasciava la capitale distrutta, che per il momento non poteva piú servire, muovendo verso Jaintapru. Si componeva di venti elefanti e di quattordicimila cavalieri. Mille uomini erano stati lasciati nei campi di Sindhia per seppellire i cadaveri e curare i colerosi, che erano in buon numero, e gemevano sotto le tende. Il dottore olandese aveva preso il comando di quei valorosi, che avrebbero potuto fuggire subito e andare a respirare dell’aria pura. Fortunatamente vi era la collina, capace di accampare un piccolo esercito. Due giorni dopo la rhani e Yanez entravano in Jaintapru salutati dal popolo festante, il quale aveva troppo temuto che il crudele Sindhia si fosse ancora assiso sull’impero dell’Assam. Kiltar, incaricato di seppellire il suicida in uno dei mausolei della vecchia capitale sfuggito al fuoco, li aveva subito raggiunti. — Quali nuove dunque? — gli chiese subito Yanez, il quale finalmente poteva fumare sigarette a volontà. — L’esercito del rajah si è squagliato e deve aver già attraversata la frontiera del Bengala. Non torneranno piú indietro, ora che non hanno un uomo che li guidi. — Ed il colera? — Quel tobib è straordinario, Altezza. Gli ammalati cominciano a migliorare. — E tu non avrai indosso i germi della terribile epidemia, spero. — No, Altezza, poiché mi sono prima accuratamente disinfettato. — Allora puoi far parte della nostra piccola corte. Sappi che la rhani ti ha nominato ministro della guerra. Tu meritavi questa ricompensa. Per due mesi Yanez, sua moglie e Sandokan, con Tremal-Naik e Kammamuri, si fermarono nella città, poi, cessata l’epidemia, fecero ritorno a Gauhati per riedificare la capitale. Già migliaia e migliaia di abitanti erano tornati e si erano messi alacremente al lavoro aiutati da mille montanari che non avevano piú colerosi da curare. — Che sia questa l’ultima volta che tu mi fai venire da Mompracem? — chiese la Tigre un bel mattino a Yanez, mentre venivano bardati quattro elefanti e armati di mitragliatrici. — Il greco lo uccidemmo sul lago del Kini Balú; Sindhia si è ammazzato. Io spero ora di regnare finalmente tranquillo e di potermi dedicare tutto a mio figlio. — Ricordati, fratellino, che io son sempre pronto. Queste corse mi piacciono. Ormai a Mompracem non si combatte piú, ed i miei tigrotti ingrassano enormemente. Si abbracciarono come se fossero due veri fratelli, baciandosi piú volte sulle gote, poi Sandokan, dopo aver salutata la rhani che teneva in braccio il piccolo Soarez, montò sul primo elefante col medico olandese. Tre altri li seguivano colle houdah piene di gente risoluta: erano i malesi ed i dayaki, gente che non aveva paura certamente né dei paria né dei fakiri. Tre settimane dopo un dispaccio giungeva a Yanez. Annunciava che la traversata era stata felice e che Sandokan aveva ritrovata la sua amica olandese piú bella che mai. Un anno dopo Gauhati era risorta piú splendida di prima. Yanez poteva finalmente respirare e dedicarsi al suo popolo.