Matilde Serao LE AMANTI LA GRANDE FIAMMA A Rocco Pagliara I. Nell’ora tarda della sera, partita l’ultima persona amica o indifferente, per la quale essa provava l’orgogliosa e invincibile necessità di mentire, chiuse tutte le porte ermeticamente, piombata la casa nel profondo silenzio notturno, interrogate con lo sguardo sospettoso fin le fantastiche penombre della sua stanza solitaria, dove sola vivente era una pia lampada consumantesi innanzi a una sacra immagine, prosciolto il suo spirito dall’obbligo della bugia e le sue labbra dall’obbligo del sorriso, ella si lasciava abbruciare dalla grande fiamma. Immobile, con le palpebre socchiuse e le mani abbandonate lungo il corpo, ritta come un bianco fantasma nel mezzo della sua stanza, sentiva un flusso di calore salire alle guancie delicatamente brune e smorte, un flusso di calore vivificarle il cervello, un’onda di lacrime calde pungerle i bellissimi grandi occhi bruni. Scorrevano taciturnamente, senza singhiozzi, le lacrime calde sulle guancie e le avvampanti guancie se le ribevevano: dal cuore e dal cervello che ardevano, si diffondeva per tutta la persona l’impetuoso torrente di quel calore ed ella sentiva tutte le sue piccole vene palpitare nella fiamma che le dilatava. Lo scoppio della passione lungamente represso, in quel generoso organismo, assumeva la forma di febbre ad altissima temperatura: ed essa, vacillante, come se avesse smarrito il senso di ogni altra cosa che la sua febbre non fosse, si lasciava cadere sul letto, rigida, con la vestaglia bianca che si stendeva come un sudario sul broccato scuro della coltre. Così, sola, con gli occhi sbarrati ove si disseccavano le estreme lacrime, guardando il soffitto pieno di ombre, col petto sollevato da affannosi sospiri come i febbricitanti, ella abbruciava di passione per l’assente, per il lontano: nè le sue labbra convulse osavano pronunziarne il dolce nome, temendo che le fatali sillabe pronunziate in quel silenzio, in quella solitudine, rivelassero a tutto il mondo il suo segreto. Sopra un fondo di fiamma, nella sua fantasia che vampeggiava, ella vedeva scritte le sillabe divoratrici di quel nome, in lettere nere e vive, talvolta immobili, talvolta confondentisi in una bizzarra danza; ma non osava pronunziare quelle sillabe seduttrici; temeva di struggersi, dicendole; temeva di morire di dolcezza, pronunziandole. Quell’entrata così vibrante di febbre appassionata, nelle prime ore della notte, si ripeteva due o tre volte; pareva che ella si assopisse in un soave abbruciamento di sangue, in un seguirsi di fiammeggianti visioni, dove talvolta, accanto al nome adorato, si veniva a delineare vagamente un fiero profilo maschile, dove uno sguardo superbo e amoroso lampeggiava; ed ella sentiva tutto il suo spirito carezzato, cullato da questa visione; la veglia si tramutava in sopore febbrile e in sogno. Ma, ogni tanto, la visione diventava così vera, così viva, così fremente di amore che ella udiva, sì, udiva, una voce sommessa pronunziare il suo nome: ella trabalzava, ripresa da un soffocante impeto di passione, cercando con le mani, nell’oscurità, quelle calde mani amate; soffocava, bruciava. Si levava come un’anima errante, andava al balcone, sollevando la pesante tenda di broccato, schiudendo le imposte di legno, appoggiando l’acceso volto sul gelido cristallo. Era alta la notte; nella strada non passava alcuno; spesso, il freddo vento notturno agitava le fioche luci dei lampioni, riempiendo la via di bizzarre forme oscure; o qualche viandante in ritardo, ignoto, a capo basso, passava senz’accorgersi di quel balcone quietamente, mitemente, illuminato, dietro il quale stava un’ombra immobile; qualche malinconica carrozza notturna, vuota, dal cocchiere sonnacchioso, dal sonnacchioso cavallo, veniva lentamente dall’alta ombra della via, si perdeva lentamente, lontana, nella bassa ombra della via. Ella guardava questo spettacolo di oscurità e di pace, con gli occhi intenti, sentendo il freddo esteriore penetrare dalla fronte, dalle guancie, dalle labbra che quasi baciavano il cristallo: la sua febbre si calmava; le vene battenti si chetavano; il petto, oppresso, respirava più liberamente; macchinalmente ella si staccava dai cristalli, richiudeva le imposte, lasciava ricadere le molli, strascicanti tende di broccato, faceva un paio di giri nella sua stanza, guardando talvolta nell’alta e stretta specchiera la sua figura bianca e i suoi occhi che bruciavano sempre. Come tutti quelli che soffrono d’insonnia, per una forte causa morbosa o per una forte causa morale, ricoricandosi, ella sentiva come un grande refrigerio, dolcissimamente parea che si dovesse addormentare nel ricordo, nella speranza del suo amore. La passione consumatrice nell’ora che fuggiva, si faceva tutta tenerezza letificante, diventava un fresco soffio che le alitava sulla fronte, sugli occhi, sulle labbra, sulle mani, come a vincerne il bruciore, ed ella si assopiva, nuovamente, con le labbra che si muovevano a una benedizione. Ma, ad un tratto, un incubo mostruoso, senza nome, qualche cosa come un’orribile paura, la scuoteva, la faceva balzare sul letto, come cercando soccorso, non sapendo, non conoscendo, non pensando più nulla, vinta da uno spavento folle. Era allora che, levatasi, nella penombra, in preda a un delirante bisogno di soccorso, ella andava a buttarsi innanzi alla sacra immagine, prostrandosi sul gradino dell’inginocchiatoio, abbassando il capo sul duro legno di quercia, dicendo rapidamente le preghiere, per non pensare, per non sentire, pregando, pregando, pregando, con un fervore di anima disperata, restando lì, attaccata a quel legno, come se fosse quello della sua salvazione. Ma sia che l’alba la sorprendesse dietro i cristalli del suo balcone, o distesa sul letto con gli occhi spalancati, o sonnecchiante malamente, o immersa in preghiere con le labbra frementi sui grani di legno del suo rosario, certo che, a quell’ora gelida, la sua febbre era domata, era caduta: ella tremava di freddo, pallida, con le labbra violacee, con la bocca amara, con le ossa rotte, quasi uscisse dal terribile abbraccio della terzana; il viso le si era allungato e come pietrificato in un’espressione di sofferenza; i capelli le ricadevano sul collo, disciolti, prendendo certi profili tragici, che solo le chiome delle donne appassionate hanno. Invano cercava di riscaldarsi, buttando sul letto una pelliccia, facendo un gran fuoco nel caminetto, accendendo tutti i lumi della sua stanza: fra quel grande calore esteriore ella batteva i denti, si addormentava rabbrividendo, rabbrividendo, livida, con la fiamma del caminetto che crepitava, con le candele la cui fiammella strideva nel calore, col sole mattinale che entrava, scintillando, fra i velluti, i broccati e le pelliccie, non giungendo a riscaldare quel gelido corpo di donna dormiente, dalle palpebre scure e fredde come il granito, dalle labbra assottigliate e tremanti ancora di freddo. Come la mattinata scorreva, entrava la cameriera, trovando le candele che si consumavano, le legna arse che si coprivano di cenere, il sole che invadeva tutta la stanza gaiamente, e quel cadavere dormiente, che riaprendo gli occhi, rabbrividiva ancora, come se ritornasse dal gelo di un sepolcro. Ogni mattina, sopra un piatto di argento, la cameriera porgeva una lettera. Ma già la maschera umana aveva velato la sembianza della povera febbricitante: ed ella stendeva la mano, con indifferenza, a prendere quella lettera, aspettava che la cameriera avesse spento i lumi, riacceso il caminetto, spalancato le imposte al sole, aspettava, intorpidita e immobile. — Si sente male? — diceva la cameriera, guardando il volto bruno e smorto della sua padrona che ella amava. — No: ho freddo — mormorava la padrona, stringendo la lettera d’amore nella mano sottile e agghiacciata, senza neppure guardarne la busta, come se fosse inutile aprirla. La fanciulla devota le riassettava le molli coltri scomposte dall’insonnia, le rialzava i cuscini disordinati su cui era abbandonata la foltezza dei capelli neri, la interrogava con una umile occhiata: ma vista la padrona tutta perduta in un pensiero, usciva discretamente dalla stanza, chiudendone la porta, aspettando di esser chiamata per ritornare. Allora soltanto, con un atto breve, quasi convulso, la smorta signora faceva saltar via la busta lacerata e leggeva la lettera tutta bruciante di passione che il suo amore le scriveva. Lettera incoerente e puerile, balbettìo talvolta bizzarro, talvolta monotono di frasi stravaganti che si ripetevano, si accavallavano, si confondevano, si affannavano sulla carta, come nell’anima malata di chi le scriveva. Eppure egli non era nè un fanciullo, nè un pazzo, nè un infermo; era un uomo di trent’anni, vigoroso, completo nella sua manifestazione morale, che aveva saputo vivere, amare, soffrire. Era un forte lottatore che le aveva coraggiosamente combattute le sue battaglie, talvolta vinto, spesso vincitore, mai domato: era un sagace conoscitore di sè stesso, delle cose e degli uomini, capace di grande scetticismo e di grande entusiasmo, poichè questa è la vita, e saggio chi sa apprezzarla e viverla così. Eppure quell’amore nato tardi, nato improvvisamente, come quei misteriosi e voluttuosi fiori del tropico che germogliano ricchi e violenti, in una notte, quell’amore impetuoso destinato a essere soffocato sotto le apparenze fallaci della cortesia, gli faceva tremare i polsi come se lo assalisse, a ogni suo nuovo tumulto, il ribrezzo tragico dell’agonia. In certe ore di pensiero, quando gli era concesso di dialogare con l’anima sua, egli si stupiva della brevità di quella passione, della sua semplicità, mentre sentiva dentro sè scardinato ogni senso della realtà, mentre si sentiva preso per la vita e per la morte. Una sera, in un ballo, egli aveva scambiato poche parole con la bruna e pallida signora che ancora portava il nero vestito del lutto, dopo tre anni di vedovanza, che bizzarramente trascinava al ballo il nero vestito e la persona stanca, senza sorrisi, senza gioia: e come per un’attrazione ipnotica, egli aveva seguito dovunque il nero strascico di velluto ondeggiante, cupo velluto bruno, simile alle acque nere di un lago che gli alberi coprono: egli aveva fissato gli occhi sedotti sopra la mezzaluna di opali lattee, scintillanti in riflessi siderali azzurrini, che mettea una luce selenitica fra i neri capelli di donna Grazia: e come la snella persona muliebre si muoveva, indolentemente, da un salone all’altro, egli sentiva di doverla seguire, come un’ombra. Levando lenta lenta le palpebre, essa lo guardava, ogni tanto, tacendo: e una irradiazione di fascino partiva da quei grandi occhi neri, arrivava sino a lui, intensa, vibrante, conquidendolo, a poco a poco, ma continuamente, ma sicuramente. Nè egli tentava difendersi. Aveva, in quell’ora, il cuore arido e la vita fatta deserta, se non libera da una secreta catastrofe famigliare: la donna cui avea dato il suo nome era assente, lontana, nemica, egli era solo, in tutta la sua lunga giornata, solo. Perchè difendersi? Si sentiva debole e misero come un fanciullo abbandonato, mentre tutti applaudivano alla sua fermezza di carattere, al suo coraggio virile, alla dignità fiera che gli aveva suggerito la risoluzione più confacente al suo onore; egli si sentiva timido e fragile come lo stelo secco, che nelle mattinate di autunno va in cenere sotto il piede brutale del viandante, e lo sguardo di quella donna parea tremasse di tenerissima pietà, parea che gli dicesse: — Vieni. Breve romanzo e intenso, condotto fuor di loro da una mano invisibile: un giorno si erano incontrati fuori Roma, in quella umida, lugubre via Angelica, lungo il fiume tragico che ogni giorno ha il suo morto. Chi aveva strappato la dama ai suoi convegni aristocratici per mandarla a contemplare i vortici traditori del Tevere? Chi aveva preso l’uomo alla sua ambizione, alla sua politica, ai suoi affari? Esiste dunque una fatalità nella passione; o il cuore ha la sua seconda vista, che è anche qualche cosa di fatale; o vi è nell’anima una seconda vita latente, incosciente, sopra cui nulla può la volontà? — È vero che mi ami? — le aveva chiesto lui, arrossendo e impallidendo, come se quella fosse la prima volta che parlasse di amore. — Sì — ella aveva detto, senz’altro. La virile mano dell’uomo aveva sfiorato la sottile mano guantata di nero. Si guardavano e si sentivano bruciare di passione; una uguale grande fiamma li ardeva. Più la reprimevano e più essa divampava internamente, consumando le loro forze in una febbre singolare. Temevano il mondo, malgrado che fossero liberi; lo temevano con una paura di tutti i momenti, con un tremore come d’imminente catastrofe. Niuno aveva il diritto di muovere loro un rimprovero, eppure essi temevano tutto, l’uomo che passa e sogghigna, la donna che passa e sorride, l’impiegato postale che consegna la lettera con uno sguardo d’intelligenza, il servo che domanda permesso prima di entrare, l’amico che assume un’aria discreta, l’amica che interroga con un cenno: la più umile, la più sciocca creatura li faceva fremere di spavento. Forse, amandosi in quella forma così rovente, sentivano di abbandonarsi a una passione tanto diversa dai miseri e fallaci amori quotidiani, da dover meritare l’invidia, il biasimo e la calunnia; forse, il segreto è la grande condizione dell’intensità. Così si vedevano, alla sfuggita, ogni tanto, avendo messo nella rapida ora tanti sogni, tante speranze, tanto fuoco d’amore, che non trovavano parole, soffocati, come coloro che hanno le vertigini degli altissimi pinnacoli; in tre o quattro mesi, fra la primavera e l’estate, vivendo egli a una villa sui colli albani, essa nella palazzina campestre fra gli aranci di Sorrento, si erano incontrati due volte, per due giornate, in un villaggio presso Milano, la prima volta, a Baia la seconda volta. Tutta la loro vita era sospesa a quei due giorni di passione ardente; tutto l’intervallo fra quei due giorni non era che una lunga aspettazione di giorni aridi e annoiati, di notti vegliate, in una rivoluzione del cuore e dei nervi. Ad ambedue, quando, per consolare le ore di lontananza, essi evocavano quelle due giornate, appariva come una grande fiamma lieta e alta e divorante; il ricordo era vasto, immenso, vago, quale un oceano di fuoco, sopra cui qualche punta appariva, come estremo albero di nave sommersa. Insistentemente egli si rammentava il volto smorto di lei, quando ella si affacciò al vagone fermato nella stazione di Monza e, malgrado ogni suo impeto di evocazione, pur volendo fermamente rivederla col suo delicato e profondo sorriso delle ore più felici, egli continuava ad avere innanzi quella faccia pallida di donna morente. Egli cercava di rianimare tutti i suoi ricordi, di quei due giorni, come ella era vestita, la foggia della sua acconciatura, le parole che aveva dette, il tono della sua voce: ma una sola sensazione, acuta, squisita, gli ritornava, con la persistenza di un martello sull’incudine: il profumo che avevano i guanti morbidi di Grazia e le mani sottili profumate. Quando le scriveva di quei giorni, confusamente, egli ritornava sempre a dire di quella faccia pallida allo sportello e di quelle mani odorose, di quei guanti così profumati «...che è quel profumo, dimmi, dimmi, amore, perchè io l’ho confitto nell’anima e ogni tanto mi fa piangere, come un fanciullo, perche il mio amore è lontano e io non posso avere, sotto le mie labbra, le sue mani inebrianti?...» Ed ella nella fiorita campagna sorrentina, quando i villeggianti vicini, o i suoi ospiti, ritirandosi, l’avevano lasciata sola, libera, ella voleva far riapparire fantasticamente quei due indimenticabili giorni di oasi; ma armandosi con la stessa forza, con la stessa intensità, lo stesso inesplicabile fenomeno psicologico avveniva in lei ed ella non poteva che ricordare qualche scintilla della grande fiamma. Fra un turbine roteante d’impressioni, rammentava soltanto, Grazia, un sorriso enigmatico alla sua domanda: e tu, perchè mi ami? Sì, egli aveva avuto un sorriso bizzarro, lungo, pieno di un segreto profondo: ella rivedeva sempre innanzi agli occhi quel sorriso acuto, crudele, che parea le nascondesse la verità, tormentosamente. E nelle orecchie, nel cervello di Grazia restava una sensazione fissa, continua, invincibile, il ricordo della sua voce, quando la chiamava sommessamente, teneramente, dolorosamente, come se chiedesse amore e soccorso, come se invocasse pietà: Grazia, Grazia, Grazia!... Così identica era la loro passione nel carattere, nella profondità, nella misura che il grande sogno da realizzare nacque nelle loro fantasie esaltate, contemporaneamente, germogliando nello stesso pomeriggio autunnale, nella stessa ora di disperazione, mentre erano lontani lontani, per molte miglia. Ambedue furono colpiti dal medesimo, irresistibile desiderio, contro cui nulla più poteva difenderli; ambedue arsero di tale desiderio come se fosse il più alto, l’estremo delle loro anime. L’immenso avvenire innanzi, alle loro esistenze ancora giovani, li sgomentava con la sua solitudine arida, mentre essi portavano in cuore di che riempirlo per sempre, di una strabocchevole felicità. Al punto in cui la grande fiamma che li ardeva era giunta in entrambi, era loro insopportabile vivere ancora, divisi, lontani, estranei: lo stesso cupo dolore li abbatteva. La paura del mondo, delle sue ciarle, delle sue calunnie veniva man mano scomparendo innanzi a questo bisogno di amore, di felicità che è in fondo a tutti i temperamenti umani, più freddi e più silenziosi, e che nell’ora della passione parla di una voce che nulla fa tacere. Per chi si sacrificavano? In nome di quale principio, di quale idea, di quale persona? Su quale altare sconosciuto deporre l’olocausto della loro passione? — Io non posso più soffrire, la mia vita finisce — scriveva Grazia. — Io non posso più soffrire, il mio coraggio è esausto — scriveva Ferrante. In tale ardente impazienza, la loro sensibilità sentimentale raffinata dai sogni, dalle insonnie, dalle lettere incoerenti, si era fatta così acuta, così squisita, così fremente alla minima impressione, che quanto li circondava era complice del loro abbandono. Quando donna Grazia passeggiava sotto gli ombrosi viali della sua villa di Sorrento e fra gli aranci odorosi le arrivava il canto sottile di qualche voce innamorata, un improvviso fiotto di lacrime la inteneriva: e coloro che l’accompagnavano, si meravigliavano. Quando ella vedeva, nella sera, dalla sua terrazza, levarsi la luna sul golfo napoletano e tutte le case intorno soffondersi di bianca luce molle, una collera le saliva alla gola, di non essere via, di non essere con lui, in quell’ora di dolcezza, una collera contro il tempo che fuggiva, contro gli ostacoli che si frapponevano al suo amore e contro sè stessa che non sapeva vincere gli ostacoli. E a Roma, l’autunno è apportatore di novi, profondi turbamenti alle anime già turbate: quando Ferrante portava il suo vagabondaggio a Villa Borghese, dove ancora i viali pare che conservino la appassionata fantasima di Beatrice Cenci, ogni ombra femminile, snella, dal volto pallido e bruno dietro la veletta, lo facea trasalire; quando egli portava il suo vagabondaggio serotino a uno dei teatri, bastava che dietro alla nuca bionda di una donna, in un palchetto, si profilasse il volto di un uomo innamorato perchè egli si sentisse, a un tratto, immerso in una disperazione inguaribile. Allora, lontani, divisi, si tendevano le braccia come creature anelanti, che sanno un posto solo dove appoggiare il capo stanco: ed è questo il petto della persona che adorano, assente, lontana. E allora, confusamente, nella crisi fatale di questa passione, si venne delineando un piano di amore, imperfetto, vago, ma che conduceva a un sol desiderio: quello di rivedersi, di stare insieme, lungamente, per sempre. Ognuno di loro, invece di perdere la propria forza in vani conati di dolore, avrebbe cercato di adoperarla a vincere tutti gli ostacoli morali e materiali per potersi riunire, fra quindici, fra otto giorni, in un paese solitario, tranquillo, in un ambiente di poesia e d’amore, dove potessero passare sconosciuti o indifferenti alla folla, o ravvolti in una comune indulgenza. Chi di loro due disse la parola: Venezia? Chissà! Fu così, naturalmente, che i loro cuori si fermarono su quel mite orizzonte di arte e di quiete, su quell’ambiente di case mute e sommerse nel languore che la morte precede, su quella città dove l’amore pare abbia la sua naturale atmosfera di pensiero, di lirica umana. Venezia, Venezia! Fu il nome amabile, seducente, che videro brillare ogni giorno, ogni ora; innanzi alla loro immaginazione; parola magica che fece scomparire tutte le altre; sillabe ravvolgenti e incantatrici da cui le loro anime prese, legate, non si potettero svincolare mai più. E man mano le loro lettere andarono perdendo tutto quel carattere d’indefinito, tutta quella vaghezza di contorni, quel continuo agitarsi errabondo dello spirito, quella incoerenza di anime deliranti: la passione addossata al muro della realtà, era entrata in un periodo positivo, pratico, preciso. Ogni giorno, sotto la volontà inflessibile, sotto la doppia inflessibile volontà, il loro piano acquistava linea, colore, cifra; il suo aspetto di fatto si veniva così minutamente facendo reale, che, già quasi quasi, per Grazia e per Ferrante, parea di vivere in quella realtà. Accanto a questi particolari definiti, matematici, dove la loro insofferenza si appagava, come per il fatto compiuto, ogni tanto, ma sempre più scarsamente, si veniva allogando qualche scoppio improvviso di frase amorosa: oppure una parola soltanto: Venezia. Anche l’aspetto degli amanti era mutato. Si eran fatti, nell’esteriore, freddi, risoluti, distratti in un pensiero o in un’azione, sempre occupati in qualche cosa, schivando, con la freddezza, la folla degli estranei e anche quella degli amici. Parlavan poco, brevemente. Non più le belle passeggiate della penisola sorrentina vedevano comparire il bruno volto pensoso di donna Grazia: ma in una stanza accanto alla sua erano aperti tutti i bauli, tutte le valigie della casa e la cameriera, che le voleva bene, ignorava ancora la destinazione che prendeva la sua signora. Ella vedeva che ogni giorno donna Grazia veniva chiudendo, in quei bauli e quelle valigie, tutto quanto aveva di prezioso come valore e come ricordo: ella vedeva che donna Grazia si aggirava per la casa, in vestaglia di lana bianca stretta alla cintura da un mistico cordone di seta nera, guardandosi intorno come trasognata, considerando le pareti vuote e i cassetti aperti, come se volesse portare via ancora qualche cosa. — La signora parte per un lungo viaggio? — chiese timidamente, un giorno, la fanciulla devota. — Lungo, lungo... — mormorò vagamente, donna Grazia. — E io debbo venire? — No... Meglio che non veniate — soggiunse donna Grazia. — Tutta sola, un lungo viaggio? — osò chiedere ancora la ragazza. Donna Grazia chinò il capo e non rispose: un velo di tristezza le passò sulla faccia. Tacquero. E Ferrante, come il giorno della partenza si approssimava, non andava più nei soliti ritrovi di Roma autunnale: male o bene, ma con una febbre di uomo preoccupato, aveva cercato di risolvere alcuni affari stringenti, assorbito, distratto, accettando qualunque peggiore risoluzione, purchè fosse immediata. Quando i suoi intimi lo vedevano ricomparire, per un momento, gli domandavano, sorpresi: — Ma che fai, dunque? — Parto — rispondeva lui, pensando ad altro. — Dove vai? Egli faceva un cenno vago, come di paese molto lontano. Per discrezione, gli intimi non chiedevano altro: sapevano quale tragedia morale avesse sconquassata la sua famiglia e molti supposero qualche improvvisa, bizzarra decisione. Anzi, la voce ne corse, avvolta in veli misteriosi. Una sera, un amico più affettuoso, più insistente, andò a casa di lui: e lo trovò solo, fumando, con le finestre aperte, ma col caminetto acceso dove buttava delle carte, dopo averle lette. Sul tavolino vi erano altri pacchi di lettere, un grosso portafoglio di pelle, tutto sdrucito, due o tre libri dalla legatura usata e un paio di minute pistole nella loro scatola che pareva quella di un gioiello. — Che fai, ti vuoi ammazzare? — domandò ridendo l’amico. — Forse — rispose Ferrante, ridendo un poco, ma poco. Nè dissero altro, mentre nel caminetto le lettere avvampavano allegramente. Così, nell’alba bigia in cui donna Grazia partì da Sorrento per Napoli, mentre aveva detto ai suoi amici che sarebbe partita solamente la sera, in quell’alba bigia, la sua devota cameriera, vedendola andar via, avvolta nel grande mantello bruno, avvolta nel bruno velo che le circondava il capo, il viso, il collo, si chinò, commossa, a baciarle la mano: — Io la rivedrò, nevvero? — chiese, cercando di trattenere le lacrime. — Forse — disse donna Grazia, andandosene, senza voltarsi. Tanto la fatalità li aveva vinti, ambedue. Donna Grazia non vedeva nè il mite sole che rallegrava le vie di Napoli, nè le azzurrità fini del cielo e del mare, nè la folla lieta che si godeva quel giorno soave: chiusa nella carrozza da nolo, guardando ogni istante il piccolo orologio sospeso alla cintura pur senza vederne l’ora, ella divorava lo spazio con la mente, cercava di ripetere per la millesima volta il calcolo del tempo e dello spazio, per chetare la propria impazienza. Sarebbe partita da Napoli per Roma alle due e cinquantacinque, col treno più celere, tutta sola nel suo compartimento; sarebbe giunta a Roma alle otte e trentacinque della sera; alla stazione avrebbe ritrovato Ferrante e dopo un’ora e mezzo, in cui non sarebbero neppure entrati in Roma, sarebbero ripartiti, via Firenze e Bologna, per Venezia, insieme. Insieme! Pensando, ripensando, pronunciando sottovoce questa parola, ella vedeva scomparire l’ora, il tempo, lo spazio tutto, una nebbia le scendeva sugli occhi, una lieve vertigine le confondeva ogni moto. Insieme! Fu macchinalmente che pagò il cocchiere, scendendo alla partenza, nella stazione, stringendo fra le mani il sacchetto dove erano i suoi valori più preziosi. La grande galleria coperta dove si prendono i biglietti era quasi vuota. Ella non vi badò. — Di prima, per Roma — disse, affannando un po’ al bigliettinaio. — Ecco — fece quello — ma si affretti, perchè il treno parte. Improvvisamente, presa da una orribile paura, ella si mise a correre, vedendo appena la sua strada, urtando le persone, lasciando appena il tempo alla guardia di tagliare il biglietto, arrivando sul terrapieno, appena a tempo per vedere il treno delle due e cinquantacinque allontanarsi lentamente. Ella tese le braccia e gridò, come se avesse potuto fermarlo. Un facchino sorrise; mentre gli impiegati della stazione, raccolti in gruppo, la guardavano con curiosità. Alla paura ella sentì subentrare una grande angoscia e una grande vergogna: rientrò nella sala di aspetto, deserta, si andò a buttare in un cantuccio, stringendo le labbra per non singhiozzare dietro il velo, stringendo nelle mani nervose, convulsamente, il manico di cuoio della borsetta. Perdere il treno, che miseria, che disgrazia ridicola, che tragedia buffa! Le pareva un’avventura così sciocca, così volgare che non sembrava possibile fosse capitata proprio a lei, nel momento supremo in cui si decideva la crisi del suo amore; era fremente di sdegno e di onta. Tanta forza di volontà, tanto impeto vincitore, tanto magnetismo trionfante di amore, tanta elettricità condensata... e farsi buttare a terra da un orologio che non va, o da un cocchiere che non ha saputo sferzare il suo cavallo. Avrebbe pianto di collera. Vediamo, quale era la piccola, meschina causa, la causa stupida per cui tutto l’edifizio era crollato? E cercava, invano, di ricordarsi: se era stata la propria lentezza nell’annodarsi il velo in casa sua, a Napoli, nel suo appartamento solitario; o l’esser tornata indietro, un momento, per aver dimenticato un taccuino da cui non si separava mai; o il non aver trovato immediatamente la carrozza da nolo; o perchè il cocchiere avea prescelto la stretta, difficoltosa e ingombra via di Forcella alla via della Marina, per andare alla stazione. Chi lo sa! Si trattava di cinque minuti, di soli cinque minuti, cinque piccolissimi, cortissimi, brevissimi minuti, che si perdono così naturalmente, così facilmente un po’ qui, un po’ là, senza saper come: e la loro perdita, poi, equivale alla rovina di tutto un sogno! Fu solamente dopo un’ora di riflessioni amarissime, che ella sentì un soffio di rassegnazione penetrarle nel cuore: ma pur essendosi calmata, un’amaritudine gliene rimase. Si levò, risolutamente: andò a leggere l’orario, sulla parete stuccata di bianco. Avrebbe potuto partire soltanto la sera, alle dieci e quarantacinque. Circa sette ore di attesa! Pure, non ebbe il coraggio di rientrare in città, a Napoli; le sarebbe parsa una rinunzia completa. Avrebbe aspettato nella stazione. Non l’avrebbero mandata via, da quella sala d’aspetto? Non aveva mai viaggiato sola: non sapeva niente. Il guardiano le si accostò, guardandola curiosamente. Ella gli donò subito cinque lire: si sentì meno timorosa. Cercava di ricostruire il suo piano. Bisognava, innanzi tutto, telegrafare a Ferrante — e tal pensiero la faceva arrossire, pensava che avrebbe egli detto, trovandola così sciocca, così distratta da perdere il treno. Che dirà, che dirà? — si andava domandando, mentre girava intorno alla stazione, senza ritrovare l’ufficio telegrafico. Alla fine lo trovò. E allora non seppe dove indirizzare il telegramma; non seppe che cosa dire, si sentiva così irritata e umiliata, con sè stessa, col caso, che lacerò i fogli, senza riescire. Alla fine, mettendo l’indirizzo della stazione di Roma gli telegrafò, così confusamente, che le riesciva impossibile partire prima delle dieci e quarantacinque, senza aggiungere le ragioni di questo impossibile e soggiunse, umilmente: perdonami. Lo soggiunse, poichè non potea resistere all’idea del dolore di lui, Ferrante, non vedendola giungere alla stazione di Roma, trovando un telegramma invece della sua persona. Oh quelle sette ore di attesa! La pallida signora, vestita di un grande mantello bruno, tutta chiusa in un grande velo di garza bruna, snella e flessuosa nella persona, dall’andatura un po’ lenta, un po’ stanca, fu vista da per tutto, ripetutamente, nella stazione, per quel pomeriggio e per quella sera. Innanzi alle lunghe vetrine del libraio e nella sala gelida dei bagagli, camminando, fermandosi, sfogliando distrattamente un libro, aprendo un giornale illustrato; di nuovo alla sala del telegrafo, donde telegrafò a Sorrento, a due o tre persone che non la interessavano punto; verso le sette nella sala del buffet, dove prese un brodo e una tazza di caffè, malgrado che non avesse fame, seguendo con l’occhio distratto i multicolori avvisi della macchina Singer, della Coca Buton e della ferrovia lombarda ai Tre laghi; fu vista finanche fuori stazione, passeggiare in giù e in su, facendo voltare tutti quelli che la incontravano, mentre essa guardava, certo senza vederli, il malinconico giardinetto della piazza, e le carrozze da nolo disposte intorno come i raggi di un cerchio, e le insegne dondolanti degli equivoci alberghi dal fanale verde o rosso; e da capo, come se ella non potesse stare ferma, fu incontrata al telegrafo, alla posta, nei terreni incolti della Piccola Velocità, presso il venditore di libri e di giornali, su e giù, su e giù per tutte le gallerie. Questo irrequieto fantasma muliebre vide empirsi e vuotarsi le sale di aspetto dei viaggiatori che partivano successivamente per le linee di Salerno, di Castellammare, di Foggia, di Aquila: vide fermarsi e andarsene i treni carichi di uomini, di donne, di borghesi e di contadini, che se ne andavano ai loro affari, al loro lavoro, alle loro cure. E nella ultima ora di attesa la invase una stanchezza profonda; rincantucciata in un angolo della sala di aspetto, silenziosa, immobile, col sacchetto sulle ginocchia, ella guardava le ondeggianti fiammelle del gas che il vento della sera agitava, e fu il guardiano della sala che l’avvertì della partenza — tanto in lei si era fatta la convinzione che era inutile più partire, che Ferrante non l’amava più, che tutto era finito. Tutta la notte del viaggio, lunga, lenta, con le sue numerose, monotone fermate, ella la passò in una veglia dolorosa alternata da qualche torpore doloroso, tutta sola nel suo compartimento, tremando di freddo malgrado le coperte e le pelliccie. L’alba si levò sulla severa campagna romana; donna Grazia dormiva, ora, pallida pallida, e solo i tre lunghi, striduli fischi del treno che entrava in Roma la riscossero. Le parve di uscire da un sogno triste: il sole illuminava le prime case di Roma, e la nebbia romana, e il fumo del treno, una felicità di calore e di luce l’avvolse, scendendo dal vagone, poggiando la sua mano sottile guantata sempre di nero in quella tremante di Ferrante. Si guardarono, così, lungamente, fra la folla, tenendosi per mano, camminando quasi portati. — Sei venuta, poi... — mormorò lui, cercando di dominare la propria emozione, intensa, soffocante. — Credevi che non venissi più? — chiese lei, con uno sguardo scrutatore, fermandosi un minuto. — Sì, l’ho creduto — soggiunse lui, chinando gli occhi, confessando con quelle parole tutte le angoscie della sua serata e della sua nottata. — Mi perdoni? — domandò lei, umilmente, dolorosamente, sentendo bene che fra loro era già sorto e consumato il primo dolore. — Non dir così: tu ti puoi dare e ti puoi ritogliere — disse fermamente lui, guardando altrove, per non far vedere che sforzo questa fermezza gli costava. Essa non rispose. Poteva dirgli che il proprio ritardo non era stata una crudele esitazione, l’idea novamente feroce di spezzare quell’amore: poteva semplicemente dirgli che era stata la perdita di cinque minuti, per annodare il velo del cappello, o per prendere il taccuino dimenticato e che quindi ella aveva perduto il treno. Le parve, questa ingenua narrazione, così ridicola, così volgare, che non osò farla; e lasciò, per viltà, che perdurasse quell’amaro malinteso, quel senso triste di sfiducia che era nato nell’animo di Ferrante. Adesso, col facchino dietro, erano in piazza della stazione. — Dove andiamo? — ella chiese. — Non so... — rispose Ferrante, incerto. — Avremmo dovuto partire ieri sera. Stanotte, io non sono rientrato in casa mia, ero così turbato... — Quando parte, il prossimo treno, per Firenze? — diss’ella, brevemente. — Alle dieci e mezzo, fra tre ore. — Tre ore, tre ore... — mormorò Grazia, come pensando. — Vuoi che ti accompagni a casa mia... non vi è nessuno... o in albergo? — E il verbo accompagnare era stato molto sottolineato. — No, no, a casa tua — rispose subito Grazia, con una paura nella voce. — Allora, in albergo? — soggiunse lui, pazientemente. -... Sì,... ma senza entrare in Roma — e abbassò gli occhi, come vergognandosi. — Vi è il Continentale qui dietro, in Piazza Margherita, non ti stancherai molto. Seguìti dal facchino che portava le loro robe, vi andarono; sottovoce come se indovinasse le intenzioni di Grazia, Ferrante chiese due stanze al segretario dell’albergo; sottovoce costui gli domandò se le voleva vicine, e Ferrante gli disse subito che non importava. Grazia saliva innanzi, chinando il capo; alla porta della sua stanza, il segretario li salutò. Ella restò ferma, guardando Ferrante, con la mano appoggiata sulla maniglia della porta. — Rammentati, è alle dieci e mezzo: verrò a prenderti alle dieci — disse Ferrante, gelidamente. Le fece un saluto corretto e si allontanò subito. II. Ella entrò nella sua stanza e vi si chiuse, buttandosi pesantemente sopra una poltrona: si sentiva morire di tristezza, sentiva di essere disamorata, crudele con Ferrante, eppure non trovava ancora uno slancio di tenerezza, un impeto di passione per fargli dimenticare tutte quelle noie, quelle punture, quei disinganni, quelle amarezze. Ma tanta gente era loro intorno, dovunque, alla stazione, in piazza, nell’albergo, gente estranea, è vero, ma curiosa, dall’orecchio teso, dallo sguardo acuto! Ella si era chiusa nella sua stanzetta, stanzetta piccola, linda, ma banale come tutte le stanze di albergo, ma fredda con tutto il lieto sole autunnale che vi entrava; Grazia si era chiusa lì dentro, e un profondo pentimento le veniva in cuore, pel modo come aveva trattato Ferrante; la propria ingiustizia verso quel forte e docile amante che nulla chiedeva, che non si lagnava, che cercava di allontanarsi, di ecclissarsi sempre, onestamente, correttamente, mentre nell’anima gli ardeva la grande fiamma, questa propria ingiustizia, le faceva orrore, le sembrava un egoismo mostruoso, la crudeltà di una donna glaciale che pospone sempre il mondo all’amore. Rivoltata contro sè stessa, si levò per chiamare, per far avvertire Ferrante di venire da lei: voleva buttarglisi alle ginocchia per farsi perdonare, poichè egli solo era buono e giusto. Ma mentre era lì per premere il campanello elettrico, udì parlare sommessamente, nella stanza attigua. Si fermò: non era sola dunque, malgrado che si fosse chiusa a chiave? Aveva dei vicini, a destra e a sinistra, forse da tutte le parti, che, come ella udiva la loro, avrebbero udita la voce di Ferrante e la sua, parlando d’amore? Oh questi alberghi, che realtà, che realtà meschina, sconfortante, nauseante! Tornò alla poltrona, vi si sedette, senza far rumore, aspettando che le voci cessassero; forse i vicini sarebbero usciti, partiti: allora ella avrebbe chiamato Ferrante, per farsi perdonare. Ma le voci dopo qualche intervallo di silenzio, brevissima pausa, si udivano di nuovo: erano quelle di un uomo e di una donna, che discutevano pacatamente; si afferrava ogni tanto una parola, facevano il conto del loro viaggio. Ella fremeva, si agitava sulla poltrona, sperando sempre, a ogni momento di silenzio, che i vicini se ne fossero andati: ma quietamente essi ricominciavano a chiacchierare, con un’intonazione monotona, senza stancarsi. Per un momento Grazia si turò le orecchie quasi piangendo, al colmo di un urto nervoso che le poche ore di cattivo riposo del treno non avevano calmato: malediceva questi vicini che le rubavano quelle altre ore di felicità. Andò ad aprire la finestra della stanzetta, per sottrarsi a quell’incubo: il sole allietava tutto il piazzale della stazione, la giornata era dolce e bella, Grazia, stette guardando come un fanciullo che un nulla distrae, le persone che passavano sulla piazza. Così assorta, non udì che la seconda volta, quando bussarono alla sua porta. Era Ferrante: ma non entrò, rispettosamente. — Andiamo? — diss’ella sorridendogli. — Sì — disse lui, sentendo e vedendo la luce di quel sorriso, per la prima volta. Ella mise il suo braccio sotto quello di lui: si appoggiava lievemente. Non potea dirgli nulla: ma vi era nei suoi occhi, nella sottile mano guantata, in ogni movimento della persona tanta femminile tenerezza, una così affettuosa domanda di perdono che egli dovette intenderla, in tutta la sua manifestazione: due volte, per le scale in penombra, si fermò a guardare il volto della sua donna, quasi volesse imprimersi nel cuore quella espressione così viva. Chi li vide passare di nuovo, sulla piazza, per la stazione, andando a mettersi nel vagone, in quella bionda mattinata di autunno, intese, certamente, che passava sul capo di quei due felici una silenziosa ora celestiale. Di quanto intorno ad essi avveniva, quei due più non sapevano: una macchinale coscienza, memore di altri viaggi, di altre partenze li guidava nella loro vita esteriore: una coscienza meccanica che si chetò, anch’essa, quando il treno fu partito da Roma. Erano soli. Una parte delle tendine color di legno erano tirate, contro il sole che si avanzava; solo da due cristalli si vedeva il paesaggio fuggente. Ferrante si era seduto accanto a Grazia: la mano di lei era fra le sue, stretta mollemente: a un certo momento ella la ritirò, ma soltanto per sollevare il suo velo bruno; la picciola mano fedele ritornò subito fra quelle dell’amor suo. Nè dicevano nulla. La delizia di due amanti, soli nel vagone fuggente per la campagna, fuggente innanzi ai villaggi e alle piccole città, ha poche delizie che la eguaglino: tanto è acuto il senso di libertà, di amore inconturbato, di oblìo terreno che dà quella fuga. Non esistono più nè lo spazio, nè il tempo, nè l’uomo, nè la vita: esiste solamente l’amore, nella sua massima condizione d’indipendenza, trasportato lontano, lontano, dove non vi sia che amore. Che dirsi? Ogni tanto ella sentiva che Ferrante la chiamava per nome, ripetendone due o tre volte le sillabe incantatrici: ma forse non la voce di Ferrante, era l’anima che parlava e l’anima di Grazia stava a sentire. Due o tre volte, a un lembo di paesaggio illuminato di sole, a un piccolo paese sospeso lungo i fianchi di una collina, innanzi a una grande pianura maestosa, i due volti si accostavano, dietro allo stesso cristallo, per vedere come era bello il mondo esteriore, non quanto quello che portavano nel cuore. Tacevano. Sentivano che era quella l’ora invocata tante volte, nelle insonnie della notte, nelle vuote mattinate, nelle sere affannose; sentivano che era quella la realtà del loro infinito desiderio, l’amore nella solitudine suprema; e sembrava loro che qualunque parola dovesse turbare questo sacro raccoglimento, questa concentrazione di felicità. Niuno sapeva più nulla di loro: essi non sapevano più nulla, di niente: e poteano dire che il mondo era scomparso, o era stato assorbito nella incommensurabile dolcezza del loro amore. Solo quando il sole cominciò a discendere sulla poetica campagna toscana, un senso di malinconia si mescolò, naturalmente, a tanta dolcezza. Era una mestizia fuor di loro, che veniva dalle cose: il paesaggio verde, i colli così pittoreschi, e le bianche case, e il fiume mormorante sul greto, e i campanili dei villaggi si fecero prima rossi, poi violacei, poi bigi: tutti i veli avvolgenti, misteriosi, malinconici del tramonto salirono dalla terra al cielo. Parve che il treno corresse meno rapidamente, come preso anch’esso da una fiacchezza; le voci delle stazioni erano meno vivaci, meno allegre, alcune sembravano rauche, altre fioche; il fiume, apparendo, riapparendo, assunse un aspetto tragico, di acqua traditrice gorgogliante; la stretta di mano di Ferrante che teneva nella sua quella sottile di Grazia, si allentò, come se lo cogliesse una improvvisa, crescente debolezza e la mano sottile si raffreddò sotto il guanto. Videro un cimitero: un piccolo cimitero di paesello a mezza costa, con quattro o cinque cipressi e poche lapidi bianche. — Beati i morti — ella disse sottovoce quasi parlasse a sè stessa. — Chissà! — le rispose lui, sul medesimo tono. — Forse amano ancora. — Tu hai tombe, per il mondo? — gli domandò lei, piegandosi a guardarlo, in quella penombra crepuscolare. — No: ma tutti abbiamo delle tombe, in noi. — Molte cose hai veduto morire? — Molte cose e molte persone che son vive. — È triste, è triste — diss’ella ributtandosi indietro, sulla spalliera. — La tristezza è in fondo alle anime: non bisogna andarla a cercare — soggiunse Ferrante, come se pronunziasse una sentenza. Tacquero. Ella aveva abbassato il velo sul viso di nuovo e il capo sul petto. Egli si levò, guardò dallo sportello opposto, nella penombra, per qualche tempo; poi ritornò vicino ad essa, sedendosi. — Grazia? — Ferrante? — Che hai? — Nulla — fece lei, con un gesto largo. — Dimmi, dimmi che hai. — Quello che hai tu — rispos’ella, enigmaticamente. — Non parlare di me: io sono una quercia fulminata. Tu non puoi essere come me; sei così giovane, e così bella, Grazia, e così destinata alla felicità! — Io ho paura... paura... — Di che, amore, hai paura? — Della vita. — Fole! — egli esclamò, sorridendo nella penombra. — E della morte, della morte, assai più. — La morte è lontana — fece lui. — Taci, taci — mormorò Grazia — forse passiamo innanzi a un altro cimitero. Quasi presa da un vago ma forte terrore, ella si era stretta a lui, infantilmente, poggiandogli la guancia sulla spalla, chiudendo gli occhi. Quei due sportelli su cui non erano tirate le tendine di lana, quegli sportelli oramai neri, nella sera fitta, affascinavano la donna, come se fossero aperti sull’infinito. Egli se ne accorse, vedendola immobile, estatica, con gli occhi sbarrati sul nero orizzonte che fuggiva dietro i cristalli: volle fare un moto per levarsi, per tirare le altre due tendine. — No, no — lo supplicò lei, stringendosi ancora, socchiudendo gli occhi. Restarono così: il lumicino ad olio del vagone tremava, pareva dovesse spegnersi ogni momento. Bizzarre ombre danzavano. sui divani: tenendola stretta a sè, bimba spaurita, Ferrante sentiva che Grazia affannava un poco. L’aria si era raffreddata. Una angoscia li opprimeva, entrambi, angoscia ignota, angoscia di chi ha intravvisto il negro problema dell’infinito. Due o tre volte egli volle muovere una mano per carezzarle i bruni capelli: ma ella temendo che Ferrante la lasciasse, rabbrividì di paura. Due o tre volte egli disse, sottovoce, come un soffio amoroso: — Grazia! Grazia! Ma ella fremeva, fremeva, e gli diceva: — Taci, taci, taci. Tanto che il lungo, sonoro fischio, triplicato fischio della vaporiera, le fece gittare un grido di spavento. — È il fischio di allarme, nevvero — domandò, piena di ambascia, quasi che non fosse possibile, in quel momento, altro che una grande catastrofe. — No, no, è Firenze. — Tre fischi, grave pericolo — balbettò lei ostinata. — È Firenze, è Firenze, cara. L’arrivo spezzò l’incubo. La carrozza in cui essi viaggiavano avrebbe proseguito sino a Venezia, attaccandosi, al treno in partenza da Firenze; ma per la partenza ci voleva un’ora e mezzo. — Scendiamo? — Sì, sì, sì — disse lei, levandosi, subito, avida di moto, di luce. — Vuoi pranzare, nevvero, cara? — chiese lui, trattandola infantilmente. — Sì, subito, subito — fece ella, attaccandosi al suo braccio, con un’improvvisa disinvoltura. Ora, per il livido chiarore del gaz, nella calda sala del Doney, seduta di fronte a lui, togliendosi lentamente, con un moto seducentissimo, i lunghi guanti neri, raddrizzando i numerosi anelli delle sue mani gemmate, appoggiando le lunate spalle a un seggiolone e distendendo i piedini sopra uno sgabello, ella era ridiventata la bella, vivace signora dei convegni aristocratici, dei balli inebbrianti, dei folleggianti pique-niques. Anzi, mentre i nervi le si chetavano nel senso di riposo che dà una sala lucente, tiepida, con qualche mazzo di fiori sparso qua e là, con una folla rumorosa che si rallegra nell’apprestamento del cibo, a questa sua bella serenità si mescolava la maliziosa soddisfazione della donna che gusta la libertà, il piacere bizzarro e pericoloso della prima, audace avventura di amore. Essere in compagnia di Ferrante che l’amava, che ella amava, guardandosi negli occhi, sorridendosi, innanzi a molta gente e senza punto curarsi della gente, pranzando insieme, come due sposi innamorati, parlando pianissimamente, a fior di labbro, ciò costituiva per lei una nuova, acre, vivida, soddisfazione umana, quasi, che ella esercitasse una lungamente meditata vendetta, di tanti pranzi di cerimonia, noiosi, banali, fra persone indifferenti e antipatiche. Una novella impensata trasformazione si faceva in lei: ella si sentiva fatta di umana argilla, si sentiva donna, si sentiva felice di quella libertà conquistata a prezzo di tante lacrime, assaporava con lentezza raffinata la sua parte di felicità terrena. Ferrante, con lo sguardo profondo dell’amore, le leggeva nell’anima; uno strano sorriso di conquista gli vagava sulle labbra; ed ella che vedeva questo sorriso di conquista, non se ne offendeva, no, anzi ne pareva singolarmente orgogliosa. Un senso segreto ma traboccante di sfida le saliva dal cuore, ribellatosi al cervello: una sfida contro tutto quello che aveva venerato, di cui aveva avuto, sino allora, rispetto e paura: parevale sentire, in quell’ora, la inutilità dell’abnegazione, la vacuità del sacrificio, la ingratitudine del mondo a qualunque privazione morale fatta per esso. E come questi superbi e acri pensieri le passavano nell’anima, corrodendone il buon metallo lucido del carattere, Ferrante seguiva questo passaggio e nel suo orgoglio di uomo si gloriava del cangiamento. Donna Grazia prese dei fiori, una grossa manciata di fiori, dalla fioraia che glieli offriva non senza timidezza: i morti fiori autunnali di cui ella adornò il suo grande mantello bruno, fra occhiello e occhiello: e dopo aver aspirato lungamente il fiore, quasi impercettibile profumo di una rosa thea, lo offrì a Ferrante con un muto cenno, con uno sguardo pieno di amore, sguardo così vibrante di elettricità che l’uomo impallidì. Adesso passeggiavano su e giù, nella galleria di aspetto, coperta di cristalli, e curiosamente donna Grazia si fermava a tutte le piccole botteghe, dove si vendevano dei nonnulla, piccoli ricordi fiorentini, chincaglieria povera di viaggiatori sentimentali ed economici. Essa volle comprare le noci intagliate che raffigurano la cupola di Santa Maria del Fiore, le scatolette di legno d’ulivo che vengono da Lucca e portano sul coperchio le due rondinelle fuggenti, col motto francese; je reviendrai, le scatole da guanti, di paglia, foderate di raso azzurro o rosso. Pareva una bimba bizzarra e ingenua, al suo primo viaggio; essa risalì nel vagone, ridendo, ridendo, buttando sui sedili i fiori, gli oggettini, andando e venendo, con le guancie un po’ calde e le belle mani che sembravano farfalle gemmate, volitanti di qua e di là. Siccome non si partiva ancora, Ferrante le chiese permesso di passeggiare sul terrapieno, per fumare una sigaretta. — Fuma pure — disse lei, crollando il capo, ridendo ancora sottovoce. Egli accese la sigaretta e si appoggiò a uno dei pilastri della tettoia, fumando silenziosamente, immobile, guardando il vagone, fisamente, come se là fosse tutta la sua vita, come se gli fosse impossibile di perderlo d’occhio. Improvvisamente ella si era fermata, nel vano dello sportello aperto, appoggiando la testa allo stipite di legno, e guardava Ferrante che fumava. Attorno a loro i viaggiatori si arrabattavano per trovare i migliori posti, per la notte: qualcuno si fermava innanzi al vagone, di cui donna Grazia sbarrava l’entrata, ma si ritirava subito, tanto quell’alta e snella figura di donna pareva lei posta a guardia della carrozza. Ferrante prese ancora un’altra sigaretta bionda, l’accese, la fumò, imperturbabile fra il chiasso di quella partenza per la linea Bologna-Venezia. Donna Grazia si era seduta dietro lo sportello, ma teneva il busto un po’ inclinato, per guardare ancora il suo compagno di viaggio: quando gli vide gittare metà della seconda sigaretta, spenta, mormorò sommessamente: — Non vieni? Egli dovette più che udire, intendere, tanto era fioca la voce seduttrice: fu nel vagone in un attimo, tirandosi dietro lo sportello. — Fuma anche qui: non mi fa male — disse lei, mettendosi di nuovo i guanti, mollemente. — No, no, tu devi dormire — rispose lui, con una tenerezza quasi fraterna. Ma fra le pelliccie, gli scialli, le coperte, al caldo, ella si addormentò assai tardi. Teneva gli occhi chiusi, però, lasciandosi prendere da tutta quella dolcezza dell’amore e delle cose; ogni tanto, con un moto adorabile di stanchezza, li schiudeva e trovava gli occhi di Ferrante fissi su lei, così teneri, così amorosi che la magnetizzavano di nuovo, nella dolcezza. — Non dormi? — chiedeva ella, vagamente, come se parlasse in sogno. — Non ho sonno — diceva lui facendole cenno di chetarsi, sorridendo tacitamente. Solo nel mezzo della notte, ella trabalzò, scossa da un grande fragore, vedendo una gran luce rossastra. — Che è? — gridò, levandosi a metà. — Niente, non aver paura: passiamo sul Po. Sulle rive nere del fiume, nella notte, grandi cataste di legna secca bruciavano: attorno ad esse i guardiani del fiume vegliavano e si riscaldavano, temendo l’inondazione autunnale. — Dormi, non aver paura — soggiunse lui, lasciando ricadere la tendina, sedendosi accanto a lei, passandole lievemente la mano sui capelli, per chetarla. Quando ella si risvegliò di nuovo, all’alba, avevano già oltrepassato Mestre, erano sulla stretta lingua di terra che attraversa la laguna. E non si vedeva altro, da tutte le parti, che una grande estensione di acqua immobile, senza che un solo soffio ne agitasse la tinta argentina, opaca. Ogni tanto una pianta acquatica, senza fiori, senza foglie, cioè un cespuglio di rami nudi e neri, irti come spini, usciva dall’acqua: o un pilone nero, un po’ inclinato, sorgeva dal fondo. Una lieve nebbia argentina ma senza luccicori fluttuava sull’acqua, e tutto l’orizzonte era della stessa tinta, senza che si potesse distinguere dove l’acqua finisse, dove cominciasse il velo di nebbia. Un vento umido e molle alitava. E il vagone parea molle di umidità, tutto il treno pareva andasse sull’acqua dormiente, attraverso la nebbia, fra il fiato umido e soffocante. — Ecco Venezia — disse Ferrante, un po’ ansioso, guardando più il viso di Grazia che il paesaggio. — Non vi è — diss’ella, vedendo solo la laguna e la nebbia, tremando un po’ nella voce, pallidissima. Si risedette; due volte mise la testa fuori del cristallo, guardò attorno, lungamente; si passò le dita sulla manica, come per sentire se fosse molle di umidità. Alla fine, fra la laguna e la nebbia, sorse qualche profilo bigio di una massa più oscura. — Ecco Venezia — ella mormorò, quasi fra sè. — Pare una tomba. Come tutte le altre mattine, fosse avvolto nella bigiastra velatura il Canal Grande e la chiesa della Salute, e lontano, laggiù, scomparisse addirittura il canale della Zuecca; o la lenta pioggia di ottobre piovesse solingamente su quell’acqua dormiente, su quella chiesa dormiente, su quei palazzi dormienti; o il biondo sole illuminasse i tenui azzurri del cielo e le sagome fini della chiesa e circondasse l’isola di San Giorgio in un’aureola di luce; come in qualunque mattinata, Ferrante entrando nel salotto pieno di fiori, trovò donna Grazia seduta, nel vano dello stretto e lungo balcone a ogiva, guardando vagamente il paesaggio. Ella portava sempre una delle sue vestaglie di lana bianca, dalla forma di peplo, che odoravano di violetta, poichè fra le arricciature di merletto del collo, fra le morbide pieghe del petto, alla cintura, spuntavano dei freschi mazzolini di violette. Ella guardava, con gli occhi fatti quasi più grandi e un po’ vitrei dalla lunga contemplazione. — Che hai? — disse Ferrante, baciandole le mani. — Nulla — fece lei, con un piccolo sorriso. — Mi ami sempre? — Sempre, sempre. E un cenno largo, come ad accennare un fatto ineluttabile, accompagnò la monotonia di quella voce dove pareva si fosse infranta ogni corda di vivacità. — Sei triste, mi pare — disse lui, chinandosi a guardarla meglio. Ella sorrise ancora, senza rispondere, gli dette, con un atto gentile, uno dei suoi mazzolini di violette; egli lo prese, l’odorò e poi lo rigirò fra le dita, senza parlare. — Anche tu sei triste? — chiese ella, levando su la testa, con un gesto affettuoso. — No, cara. Venivo a chiederti se volevi uscire. — ... Sì — disse lei, dopo una pausa, — Dove andiamo? — In giro — fece lui. — Dove tu vuoi. Invece, la voce di lui era un po’ stanca. Senza dire altro, ella si levò e passò nella sua stanza a vestirsi. Occupavano un vasto appartamento mobiliato, in uno dei magnifici palazzi del Canal Grande, dirimpetto alla chiesa di San Giorgio: appartamento mobiliato con qualche traccia del lusso antico, a cui si mescolava tutta la confusione fra comoda ed elegante del lusso moderno. Ma le stanze erano tanto grandi che parevano vuote, sempre; le finestre, i balconi erano così piccoli che la luce vi entrava scarsamente, anche nelle più limpide giornate; e malgrado i fiori di cui Grazia riempiva tutte le stanze, tutti gli angoli, tutti i tavolini, i saloni non si rianimavano, restavano freddi e muti come se fosse impossibile farvi risuscitare anche una finzione di vita. Grazia e Ferrante stavano sempre insieme; spesso, lui, per discrezione, si ritirava nella sua camera, lasciava Grazia libera; ma dopo un poco, era preso da tale insoffribile malinconia, che cercava di lei, e la trovava così insoffribilmente malinconica, che si tendevano le mani, come se l’uno dovesse salvare l’altro. Quando erano insieme, certo, di fronte a quel paesaggio grandioso ma dormiente, in quell’ambiente di cose morte e di cose moribonde, fra quei colori che erano stati vivaci ed erano pallenti, fra quel silenzio grande di uomini e di fanciulli, certo, non avevano la grande giocondità delle anime intensamente felici; ma si teneano per mano, quieti, silenziosi, senza sussulti e senza tristezza. Si ricercavano, dunque, ansiosamente, come se dovessero sempre partire per un lungo viaggio, come se dovessero iniziarsi ad un altissimo diletto spirituale, come se dovessero raccontarsi tutto un romanzo misterioso, il romanzo del proprio cuore: ma, essendo insieme, parean subito appagati, senza bisogno di dire nulla, anime che già l’ambiente aveva impregnate di sè. Così quel giorno, come tutti i giorni, solo dopo pochi minuti di assenza, donna Grazia ritornò per uscire, vestita tutta di nero, come sempre, mentre in casa era sempre vestita di bianco: sul nero vestito, qua e là, dai merletti, dalla cintura, facevan capolino i freschi mazzolini di violette. III. Andarono, per i grandi saloni, per la scalea scuriccia: un servo aprì loro il portone che dava, per tre scalini, sulla laguna. L’acqua appena appena fiottava, contro il marmo corroso. Il barcaiuolo che sedeva a prora della gondola, senza far nulla, aspettando, si levò subito e domandò qualche cosa, nel suo dolce dialetto: — Ha detto — spiegò Ferrante a Grazia, interrogandola — se deve togliere il felze. — Sì, sì — rispose ella subito — lo tolga pure; lì sotto si soffoca. E aspettarono: il gondoliere, con un certo moto bizzarro, essendo entrato nella negra cabina dagli ornamenti di ferro lucido, ne sollevò con le spalle tutta la parte superiore, simigliante alla gobba nera di un dromedario, al coverchio di una lunga bara di ebano dalle intarsiature artistiche e dalle finestrine microscopiche: sempre portandola sulle spalle, la depose innanzi al portone, raccomandando al servo questo negro felze. La gondola ora aveva la sua aria di barca da passeggiata, con l’elegante rostro lucido a prora, i due posti di divano, a poppa, foderati di panno nero, adorni di cordoni e di fiocchi di lana nera, sgabelli neri su cui appoggiare i piedi. Grazia e Ferrante vi si sedettero, senza dire nulla: e il gondoliere cominciò a remare verso il Rialto, senza aver loro chiesto nulla. Quel giorno lo scirocco era più pesante del solito e dava pena al respiro. Delle zàttere cariche di carbone andavano per il Canal Grande, con un moto così lento che pareva quasi indistinto; l’uomo della zàttera puntava sul fondo del canale con una lunga pertica e, facendo forza, e camminando sulla zàttera in senso inverso della corrente, la faceva avanzare. Era tutto bruno, arcuato, quasi piegato in due, e passando vicino, Grazia udì uscirgli dal petto un gemito rauco e cadenzato, quello che esce dal petto dello spaccalegna. — Questo non canta certo le ottave di Torquato Tasso, come dicono i poeti di Venezia — osservò Ferrante, nel cui cuore lo scetticismo soverchiava ogni tanto il sentimento. — Eppure questa laguna avrebbe dovuto esser fatta solo per l’amore e per l’arte — mormorò ella, aspirando il profumo di un mazzolino di violette — non per il duro lavoro e per la miseria. — Gli uomini guastano tutto — osservò sentenziosamente Ferrante. — Sì — approvò lei, chinando il capo. La gondola andava lentamente, fra il gorgoglìo delle acque smosse; a un certo punto, lasciando il Canal Grande, infilò un piccolo canale, fra due alti palazzi grigio-verdastri. Così faceva sempre il gondoliero che li conduceva in giro, senza chieder loro dove volessero andare. Due o tre volte lo aveva chiesto: ma essi si erano guardati in faccia, esitanti, non sapendolo. Ora, non domandava più. A ogni voltata di piccolo canale gli usciva dal petto un grido gutturale di avvertimento; a cui spesso rispondeva un altro grido, simile, dall’altro gondoliere che gli veniva incontro, con la sua gondola. — Perchè le gondole sono così nere, nere dappertutto, nel panno, nel legno, nei cordoni, nei fiocchi?— domandò distrattamente donna Grazia. — Portano il lutto della repubblica — rispose Ferrante, che aveva accesa una sigaretta e fumava. — Veramente? — fece ella, guardandolo. — Veramente. — È triste, è triste — susurrò lei, colpita. Ma sbucavano in Cannaregio, il quartiere popolare, le cui case sono piccole, le cui finestre sono adorne del bucato familiare, le cui fondamenta sono continuamente battute dai vivaci zoccoletti delle donne: ed è un andirivieni, al sole, di bimbi biondi, di donnine dai capelli neri e ricci, a ondate fulve, di uomini piccoli e tarchiati dai mustacchi folti, ispidi e rossastri, mentre l’allegro e lezioso dialetto forma un brusìo, dovunque. Anzi, dinnanzi a una casa, vi erano certi suonatori di chitarra, seduti per terra, mentre una donna in piedi, sotto l’arco del portone, cantava una bizzarra melopea, gutturale, quasi orientale, chiamata la strega, che un coro di donne e di bambini riprendeva, a ogni ritornello, con voce sorda e grave. — Qui sono allegri, almeno — disse donna Grazia, un po’ rinfrancata, sollevandosi sui cuscini. — Restiamo qui, un poco. Sotto l’arco di un ponticello, accanto al traghetto, la gondola si fermò. I due amanti tacevano, mentre il gondoliere si riposava. La canzone della strega continuava, grave, come una canzone di Costantinopoli o di Algeri: ma i suonatori e i cantanti sogguardavano spesso i due signori della barca, intimiditi, mentre la musica, a poco a poco andava diventando più debole, più bassa, come scoraggiata dalla presenza di quegli estranei. Una ragazza snella, dallo sciallino di lana rossa, che distendeva una fune da un anello ad un altro sulle fondamenta, per mettervi ad asciugare delle matasse di seta tinta, si fermò nel suo lavoro, facendo solecchio con la mano, per vedere se quei signori se ne andavano. — Andiamo via, non disturbiamo questa buona gente — disse Grazia. — Sono poco abituati ai forestieri: il Cannaregio è un quartiere di poveri, di operai — rispose Ferrante. La barca si allontanò, mentre, alle spalle, ricominciava l’allegro brusìo del dialetto, ricominciava il ticchettìo degli zoccoletti sulle fondamenta di pietra levigata, ricominciava la canzone costantinopolitana della Strega. Andarono innanzi molto tempo, incontrando pochissime gondole, trovandosi a un tratto in un largo canale deserto: un canale così vasto, così torbido nelle sue acque immobili, così malinconicamente intonato che donna Grazia, per vincerne l’impressione, ne chiese il nome al gondoliere. — È il Canale Orfano, eccellenza. E la gran leggenda tragica, che era durata, sinistra e tetra, per centinaia di anni, la leggenda di tutti quei condannati, innocenti o rei, che dopo aver agonizzato per giorni e mesi nelle carceri soffocanti della Repubblica, in una notte oscura, facevano l’ultimo loro viaggio sotto il felze opprimente della gondola, per essere strangolati tacitamente e gittati nelle acque profonde del Canale Orfano, si parò innanzi alla fantasia dei due amanti, con tutti i fremiti di sgomento che tale visione truce può dare. — Il fondo deve essere coperto di scheletri — disse donna Grazia, guardando fissamente l’acqua. — Torniamo indietro — soggiunse Ferrante con voce alterata. Tornarono: e come il gondoliere affrettava il movimento dei suoi remi, donna Grazia gli fece cenno, con la mano, di far piano: pareva che temesse di disturbare quei morti. Ancora, silenziosi, vogarono per i canali, muti, quasi stanchi, non guardandosi neppure. Il movimento della gondola, a lungo, li gittava in un intorpidimento di tutti i sensi; tanto che neppure l’ora fuggente aveva più valore per essi. Canali seguivano canali: l’acqua era, dove verdastra, dove bigia, dove semplicemente torbida, dove con un’opaca oscurità di carbone: palazzi seguivano i palazzi, portoni pesanti chiusi come da secoli, gradini corrosi dalla salsedine, alti pilastri piantati nelle acque per legarvi le gondole e che s’inclinavano come se fossero presi da una inguaribile debolezza, finestre senza cristalli, ma le cui imposte verdi sembravano sbarrate per sempre. Ogni tanto un monastero, una chiesa, una bottega d’infilatrice di perle; di nuovo portoni chiusi a catenaccio e finestre serrate sino all’ultimo piano. La linea era pura, bella, artistica: la poesia che traspirava da tutto l’ambiente era grande, ma portava un profumo di fiori morti. E i due cadevano in un languore di mestizia che ne domava ogni entusiasmo, che ne annullava ogni impeto di vitalità. — Qui, dicono fuggisse Bianca Cappello, per andarsene con l’amante a Firenze — disse Ferrante indicando una finestra bassa di un grande palazzo. — Oh!... — fece Grazia, senza aggiungere altro. E dopo un poco, sogguardando l’uomo che amava, facendo cadere le parole, ad una ad una, gli chiese: — Tu sei stato un’altra volta, a Venezia? Egli intese la profondità della domanda e il pericolo della risposta: una rapida emozione gli scompose il volto. Ma fu incapace di mentire. — Sì: un’altra volta — rispose nettamente, buttando nel canale la sigaretta spenta. -... Molto tempo fa? — aggiunse ella, con la freddezza e la tenacità di un giudice che interroga. -... Non molto. Ella tirava, macchinalmente, ad una ad una, le violette dal mazzolino che teneva nelle mani e dopo averle fatte girare intorno al dito, le buttava in acqua, seguendole un momento con l’occhio. Poche ne rimanevano, smorte, quasi appassite nella larga foglia verde che le accartocciava, penzolanti sugli stelucci. — Eri solo? — finì d’interrogare lei, sempre tenendogli piantati gli occhi sul volto. Egli non rispose, nè prima, nè dopo, sentendo la crescente crudeltà di quel dialogo. Non rispose e volse il capo altrove. Allora ella, con l’aria di una persona perfettamente convinta, guardò un’altra volta le sue ultime violette e con un atto risoluto, le buttò in laguna, tutte. Ostinatamente, per nascondere il rivolgimento del suo spirito, egli guardava dall’altra parte; e anch’essa si mise a fissare un punto qualunque dell’orizzonte. Una brutta gondola passò: le finestrine del felze, senza i soliti delicati ornamenti di ferro lucido, erano chiuse coi lucchetti, come una cassa forte. E sulla porticina del felze, a guardia, stavano seduti due carabinieri in tenuta di viaggio e coi fucili fra le gambe, immobili, in quell’attitudine seria, pensosa, che dà loro come una nova aureola di rispetto. Era la gondola del carcere che avendo preso alla stazione i carcerati e i carabinieri, li conduceva per la laguna, alla tetra dimora. Grazia seguì con l’occhio il nero convoglio filante sulle acque; poi abbassò il capo sul petto, reprimendo le ardenti lacrime che le salivano agli occhi. Fu più innanzi, in un canale laterale che si lega al Canal Grande nel sestiere di Dorsoduro, che incontrarono la più tetra barca della laguna. Era tutta nera, come le altre, ma mancava di quella grazia civettuola della gondola di passeggiata: non aveva, a prua, il rostro lucido; era più larga, più piatta; si dondolava goffamente sulle acque: e i due gondolieri, invece del solito gabbano fra cittadino e marinaro, invece del solito berretto, portavano una giacchetta nera e un cappello a cilindro, con una coccarda nera. Stava ferma, la gondola, innanzi a un portoncino aperto; due o tre donne erano sotto il portoncino. — Che è quella gondola? — disse Grazia al gondoliere, scattando in piedi. — È la gondola dei morti, eccellenza: quelli sono i becchini. — Andiamo via, andiamo via, Grazia — disse Ferrante rompendo il silenzio, dolcemente, volendo infrangere il malo incantesimo di quella giornata. — No, no, voglio vedere — disse lei, duramente — gondoliere, fermati un poco. — È meglio andare, cara, è meglio — ribattè lui, umilmente, crollando il capo. Ma ella non gli dette retta. In piedi, appoggiata al divanetto di destra, guardava nel portoncino nero, donde arrivava un confuso mormorio. — Voglio vedere questo morto — disse a sè stessa, senza distogliere gli occhi dal portoncino. E quasi la sua anima desiosa di dolore, avesse avuto una forza magnetica, un tumulto si fece nell’ombra del portoncino, e fra un piccolo gruppo di donne e di uomini, portata da due altri becchini, comparve la bara; dietro le persiane di una finestra, al primo piano, si udiva un singhiozzo disperato e si vedeva una mano convulsa che tentava di aprirle, mentre qualcuno si opponeva, tenendole ferme. Questi volevano vedere la bara, che veniva caricata nella gondola funeraria: la piccola bara, la sottile bara, poichè era la bara di un bambino, e lassù, era certamente la madre del bimbo che singhiozzava e tentava disperatamente di aprire la finestra. A un tratto, con un moto svelto di gente pratica, i becchini gondolieri ficcarono la piccola bara sotto il felze e ne richiusero con un colpo secco la porticina. Il picciolo morto era solo, là sotto. Ai quattro lati del felze furono sospese delle povere e pallide corone di sfatti crisantemi, che una fanciulla piangente in silenzio aveva porto ai becchini. — Andiamo via, presto, presto — disse nervosamente Grazia al gondoliere, ricadendo a sedere sul divanetto. A un tratto era stata presa dall’orribile paura di dover fare la stessa via del morticino; e soggiungeva, mentre si allontanavano, senza voltare il capo indietro, presto, presto. Alle spalle il singhiozzo della persona che si disperava dietro la gelosia si era fatto più forte, più alto: la barca funeraria si metteva in moto. Ma era così lenta, che la gondola di Grazia e di Ferrante scomparve subito. Quando ebbero camminato per un pezzo, allora soltanto ella si voltò a guardare Ferrante, ma lo vide così travolto, così pallido, che ne ebbe orrore e pietà. E dopo un minuto di intensa riflessione, ella intuì, ella indovinò il pensiero di lui: — Tu pensi al tuo bambino? — gli disse, sottovoce, nella faccia. Ah, questa volta, questa volta, egli non ebbe il coraggio di negare: disse di sì, semplicemente, senz’altro. Ed ella, allargando le braccia, fece un atto di persona vinta, che lascia andare la sua vita al vortice soverchiante. Pure, nella serata, ubbidendo alla sua natura buona e generosa, ella andò a lui, nella pace fredda del grande salone e lo pregò che le perdonasse. Si umiliava, tutta confusa, sentendo sempre più grande farsi la lontananza fra loro, cercando, con la bontà, con la pietà, di riavvicinare le loro anime, nuovamente. E lo vide tremare, come essa tremava, di dolore, di tenerezza, di compassione: egli le carezzò lievemente i capelli, con quel moto affettuoso, famigliare, aggiungendo qualche vaga parola di conforto: e l’uno voleva consolar l’altro, a forza, come di una grande sventura ignota, di cui nessuno dei due voleva pronunziare il nome. Nell’ombra del salone che solo la vampa del caminetto spezzava, gittando spruzzi sanguigni di luce sul vecchio tappeto veneziano, essi si tenevano per mano, frementi di dolore, balbettando incerte parole di consolazione e sembravano, insieme, in quell’ora bruna, in quella camera, la rovina di una grande cosa, i superstiti di un naufragio dove tutto avessero perduto. Nè il sole novello, nè le miti giornate di ottobre, nè gli sforzi dei loro cuori coraggiosi e onesti, nè la paura della catastrofe che vedevano avvicinarsi e pure volevano scongiurare, potevano ridonare a Grazia e a Ferrante, ciò che era irreparabilmente fuggito. Ancora per vari giorni Venezia che tanti amori e tanti amanti ha visti e dovrà ancora vedere, per vari giorni la soave città languente di morte, vide questi due amanti nelle sue calli, nelle sue piazze, nelle sue chiese, sempre insieme, tenendosi sempre per mano, come se volessero comunicarsi un fluido che li legasse per sempre, come se volessero vincere un potere ignoto che aspirasse al dissolvimento. Incapaci di reggere alla solitudine della loro stanza segregata, della loro casa così piena di tristezza, incapaci di prolungare un dialogo solitario senza che li conducesse, istintivamente, inconscientemente, a una fatale conclusione, essi cercavano di mettere il mondo esteriore fra loro, desiderosi di quanto potesse distrarre i loro occhi e le loro anime. Quella semplice e bonaria vita esterna veneziana, li seduceva, non in sè, ma perchè li toglieva alla tetra domanda della loro coscienza; le lunghe stazioni sotto le Procuratie, innanzi ai piccoli tavolini del caffè Florian, dove si ripetono, meno ingenue e meno piacevoli, le scene goldoniane; le lunghe stazioni, in piazza, guardando il volo dei colombi che discendono a mangiare il miglio, buttato dalle candide mani di una fanciulla inglese, ammalata di nostalgia e di anemia; le lunghe stazioni nella basilica dove, sotto le arcate che pare abbiano profondità infinite, i lumicini delle lampade moresche brillano innanzi alle sacre immagini cristiane, innanzi ai santi e alle sante dalla faccia nera e dal vestito di argento; le lunghe stazioni sulla riva degli Schiavoni, nell’ora del tramonto, in una luminosità così fine, così trasparente che nessun paese possiede, che nessun poeta ha saputo descrivere e nessun pittore dipingere; le lunghe passeggiate per le straduccie strette che sembrano corridoi di una immensa casa, la compra di gingilli, di ricordi nelle microscopiche botteghe di Merceria e di Frezzeria; le lunghe contemplazioni artistiche nei musei e nelle gallerie, innanzi ai capolavori umani e divini di Carpaccio e di Gian Bellino, del grande Paolo e del superbo Tiziano. Qui erano più lunghe e intanto più pericolose le loro dimore, poichè la sublime arte veneziana è così fatta di amore supremo e di amore terreno, che è impossibile non amare o non parlare di amore, per essa. Queste manifestazioni così potenti della passione, mentre li attraevano, li lasciavano turbati sino agli strati imi del cuore. Più di una notte, levandosi nella veglia affannosa, uscendo dalla sua stanza nella bianca vestaglia come un fantasma che non avrà mai requie, Grazia andava fino alla porta della stanza di Ferrante e sentiva che anche lui vegliava, passeggiando, fumando, schiudendo la sua finestra per guardare il negro Canal Grande. Due volte sentì che egli scriveva, che scriveva tanto concitatamente che la penna strideva sulla carta. E a chi scriveva? Ella non osò mai chiamarlo, mai chiederglielo. Due volte Ferrante era uscito, solo, forse per impostare queste sue lettere; mai era giunta una lettera di risposta. L’angoscia che li ardeva, adesso, non era più che dolorosa: era una vampa che li consumava in una lotta contro un nemico sconosciuto che prendeva sempre più terreno, che ogni giorno guadagnava una piccola o una grande battaglia; era una fiamma che li devastava da cima a fondo, facendo il vuoto in essi, senza che le lacrime alla tenerezza valessero a smorzarne l’incendio. Nè l’uno diceva all’altro il segreto di queste veglie ardenti e desolate; ma ognuno lo indovinava questo segreto, sul volto dell’altro, senza parlare, anzi temendo di parlare. Ancora camminavano accanto, nella vita, tenendosi per mano: ma a un motto, a un gesto, tremavano di veder sparire l’amata figura daccanto. La solitudine, la solitudine a cui nessun segreto resiste, la solitudine che risolve a rilento o bruscamente tutti i grandi problemi morali dello spirito, era quella che li sgomentava. Avevano deserta la casa, ora. Un giorno, sul finire di ottobre, non sapendo dove portare il loro bizzarro tormento, s’imbarcarono sul vaporetto che porta all’isola del Lido, un’isola tutta verde, piena di piccole ville, che da una sponda dà sulla laguna, sul mare immobile, dormiente, dall’altra sponda sullo squillante, fragoroso, tempestoso Adriatico. È su quella sponda che si erge il bello stabilimento di bagni marini, dove accorre tutta Venezia e vengono italiani da tutte le parti, e anche stranieri, tanta è la gaiezza estiva di quel ritrovo. Ma nulla è più stranamente malinconico della città di svernatura al mese di agosto, e delle spiaggie di bagni quando l’estate è fuggita via, da tempo. I viali dell’isola erano deserti e il piccolo tramvai andava e veniva, pian piano, vuoto, tanto per fare le sue corse di quel giorno. Lo stabilimento aveva tutte le porte dei suoi camerini aperte; alcune sbattevano contro le pareti, per il vento forte del mare, le onde schiumavano rabbiose contro i pali, frangendosi. Nel grande salone-terrazza, non un’anima; solo il custode sonnecchiava nel suo casotto, malgrado il cattivo tempo. Grazia e Ferrante andarono ad appoggiarsi alla ringhiera, guardando quel grande mare burrascoso che li aspergeva di minute stille gelide. A un tratto una voce amica li riscosse dalla triste contemplazione: un altro solitario era, colà, un amico di entrambi, un gentiluomo meridionale, cuore profondo sotto apparenze un po’ leggiere, un po’ scettiche. Era il solo che aveva intravveduto la loro passione: e trovandoli colà non mostrò nè meraviglia nè freddezza. Per una stranezza Grazia e Ferrante oppressi dalla solitudine e dalle loro segrete torture morali, per quanto prima avevano odiato ogni contatto umano, per tanto in quel giorno furono contenti di trovare quell’amico, quel terzo. E la conversazione, sui banchi umidi di salsedine del vuoto stabilimento, fu insolitamente cordiale, come se un misterioso vincolo legasse spiritualmente quelle tre persone. E anche Giorgio, il gran signore ricercato dei balli e delle caccie, lontano da Roma, in quel posto così deserto, in quella giornata di temporale, pareva avesse dimenticato il suo leggiadro scetticismo, pareva che una nota più sentimentale, più tenera, vibrasse nel suo cuore e nella sua voce. Grazia che lo conosceva da anni glielo disse. — È il contagio — disse Giorgio, con una velatura di sorriso. — Della persona? — gli domandò Ferrante, serio serio. — Anche. Ma è Venezia, sovra tutto. Io non posso ritornare in questo paese, senza sentir rinascere in fondo al cuore tutte le onde soffocate di tristezza. — Anche voi? — mormorò Grazia, abbassando gli occhi. — E perchè ci vieni? — chiese Ferrante. — Perchè scavare in sè questi strati così amari? I saggi sanno dimenticare. — Sei un saggio, tu? — gli chiese ironicamente Giorgio. — No — fece l’altro, con un senso di umiltà nella voce. — E io neanche. Ogni anno vengo qui per un pellegrinaggio... — Religioso? — chiese Grazia. -... pietoso — rispose Giorgio. — Quando la vita esteriore più mi ha inaridito tutte le fonti del sentimento, quando più mi sento un freddo egoista capace di sacrificare tutto al mio piacere, quando più mi corrode la pazza vanità e la folle ambizione, allora io lascio Roma, lascio Parigi, lascio Londra e vengo qui, solo, a guarirmi, a diventar più umano, più buono. Voi ridete di me, forse? — No, non rido — soggiunse Grazia, pensosa, guardando il mare coperto di bianca spuma. Ferrante taceva, pensando. — Venezia mi contrista e mi guarisce — disse il bel gentiluomo, con la contrizione di un penitente, passandosi la mano sulla fronte, a scacciarne le ombre che la offuscavano. Stettero in silenzio, tutti tre: ognuno era preso dal proprio pensiero e il mare mugghiante accompagnava i voli di quelle fantasie. Fu Ferrante che si risolse a rompere il silenzio per il primo, sospirando chiedendo all’amico: — Dicci questa istoria, Giorgio. Giorgio guardò Grazia: e benchè ella non parlasse, lesse negli occhi di lei una preghiera. — Che vi può importare, una storia d’amore? — domandò Giorgio ad ambedue, guardandoli. Ma nuovamente vide in ambedue tanto ardente e doloroso desiderio di sapere, di conoscere, di misurare, che intravvide financo, dietro il desiderio, l’angoscia di ambedue. Intravvide, non si spiegò: intese che come a lui era necessario, in quel momento, uno sfogo, ad essi era necessario, in quello stesso momento, l’appagamento di quel tormentoso desiderio. — Sentite — disse. — Io ho conosciuta quella soave donna a Livorno, quattro anni fa. Era una polacca; si chiamava Anna; aveva un marito brutale, e che ne era molto, molto geloso. Ella era piccola, delicata, con certi lunghi e folti capelli fulvi e una salute così delicata, che il più piccolo soffio di vento la faceva tossire. Così leggiadra e così debole, io l’ho amata più di tutte le donne opulente, trionfali, maestose, l’ho amata più di qualunque donna abbia mai incontrata, più di qualunque donna potrò mai incontrare sul mio cammino... — Ella vi ha amato? — chiese ansiosamente donna Grazia. — Sì — disse Giorgio con semplicità, — Era buona e pia; ma mi ha amato, con tanto ingenuo trasporto, che io consumato alle esaltazioni della passione, fui scosso per la prima volta. Era così geloso il marito, che non le lasciava un’ora di libertà: qualche volta soltanto, quando ella andava in chiesa, poichè ella era cattolica e lui ateo. Bene, la cercai in chiesa: ella tremava, povera piccola, poichè diceva che questo era un sacrilegio, un’offesa a Dio, il quale ci avrebbe puniti, nell’amore nostro. Ma non poteva fuggirmi come io non potea trattenermi dal seguirla dovunque, dovunque... Ferrante e Grazia, ora si guardavano. — Tanto che — soggiunse Giorgio, preso dall’amarezza eccitante della sua narrazione — tanto che qualche cosa fu detta al marito; e da un giorno all’altro egli decise di partire. Oh quella notte! Coi piedi nudi nelle pianelle, ravvolta in uno scialle, tremando di freddo e di paura, Anna ebbe il coraggio di lasciare la sua stanza, senza svegliare suo marito e di venire da me, disperata, soffocando i singhiozzi. Ogni minuto che passava, di quella notte, poteva metterci in pericolo di morte, entrambi, eppure non sapevamo dividerci, delirando di amore e di dolore. Quando dovette lasciarmi, ella s’inginocchiò per terra e disse una breve preghiera, e sempre inginocchiata, giurò sopra un piccolo crocifisso di argento che le pendeva dal collo, che per il giorno venti di ottobre, alle dieci di sera, ella si sarebbe trovata a Venezia, ad aspettarmi: e che solo la morte avrebbe potuto impedirglielo... — Venne? — domandò Grazia. — Sì — riprese Giorgio — venne. — Aveva giurato. Io era da dieci giorni all’albergo Danieli, nascosto, inquieto, folle talvolta di paura, talvolta di speranza. Venne. Ma era morente, la piccola adorata; nè io seppi mai come aveva potuto sfuggire alla sorveglianza del marito, e quale lotta l’aveva ridotta in quello stato. Pure fingeva di star bene, per amarmi, per amarmi assai, sempre meglio, sempre più, mentre discendeva precipitosamente alla morte... — Una breve stagione d’amore? — chiese Ferrante. — Diciotto giorni. — Una sera che era andato fuori, costretto da un dovere inrecusabile, trattenendomi due o tre ore, al ritorno, non la ritrovai più. Era venuto il marito, improvvisamente, e l’aveva portata via. Per due giorni girai Venezia come un pazzo, cercandola. Non credevo a una immediata partenza. Poi mi misi disperatamente in via per la Polonia... — E la raggiungeste? — disse Grazia, quasi affannando. — No — fece Giorgio — era morta per viaggio. I tre amici, come si avanzava l’ora pomeridiana, uscirono dallo stabilimento e si avviarono lentamente verso la spiaggia lagunare dove ancorava il vaporetto che doveva ricondurli a Venezia. — Voi avete dovuto molto soffrire di quella morte — osservò mestamente Grazia che camminava fra i due uomini, rivolgendosi a Giorgio. — Molto: ma per poco tempo. Sapete che il mondo dove viviamo e la vita che facciamo, non ci permette di soffrire che intensamente. — È vero — disse Ferrante. — Però — soggiunse Giorgio — quella poveretta è stata per me la grande, fuggente, sparente, idealità, buona e pura di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, sia essa una finzione o una realtà, una donna o un’idea. Intendete ora perchè chiamo Venezia un pietoso pellegrinaggio; perchè Venezia mi sembra la tomba dove è sepolta tutta la poesia della mia vita; e perchè quando mi sento divenire perverso a furia di frivolezze e di scetticismo, io vengo qui a ricordare la dolce creatura vissuta e morta solo per l’amore. S’imbarcavano, soli, sul vaporino; poichè niuno faceva più il tragitto dal Lido a Venezia. Rosso, rotondo, come disco di rame arroventato, il sole tramontava, basso sull’orizzonte. Erano seduti tutti tre sulla terrazzina di prora e tacevano. A un tratto Grazia, scuotendosi, disse: — Povera donna! Avrebbe potuto vivere, amare, esser felice... — Chissà! — disse profondamente Giorgio. — Se non fosse morta lei, sarebbe morto l’amore. — È vero — -disse Ferrante. — È vero — disse Grazia. Nè più sino alla sera riparlarono di tal soggetto: tennero compagnia a Giorgio fino a che egli ripartì, alle dieci e mezzo per Roma, discorrendo quietamente e freddamente di arte, di poesia, di viaggi, della società romana e napoletana, cui appartenevano. Invece di prendere la gondola, per ritornare alla loro casa, in quell’avanzata ora notturna, essi, per un tacito accordo, se ne andarono per le strette vie, a piedi, ombre rasentanti le alte muraglie dei palazzi patrizii, salienti e discendenti per i ponticelli, fermantisi ogni tanto, per tacito accordo, a contemplare le nere acque dei canali. Non si davano il braccio, non si tenevano per la mano, non si parlavano: andavano col capo chino, senza neanche guardarsi, quasi l’uno non si accorgesse più della compagnia dell’altro. La stazione era assai lontana, dalla loro casa; il tragitto era lungo e camminando così vi misero più di un’ora. Arrivati innanzi alla piccola porta di terra, con una chiave Ferrante la schiuse. Ma non entrarono: si guardarono, immobili, con una gelida occhiata. — Addio, Ferrante — ella disse, glacialmente. — Addio, amore — egli disse, glacialmente. E si allontanò, nella notte. La porticina si richiuse subito. In ambedue, la grande fiamma era spenta. TRAMONTANDO IL SOLE A Enrico Nencioni I. — Chiarina, ti presento un amico, Giovanni Serra — disse la padrona di casa, mentre Serra faceva un grande inchino. — Oh Anna, ma io lo conosco! — esclamò Clara Lieti, vivacemente, stendendogli la mano con un atto famigliare. — Veramente? E come? — soggiunse Anna, con quel falso interesse mondano, che copre di amabilità la perfetta indifferenza. — Da vari anni... da moltissimi anni... da un numero infinito di anni, lo conosco — e Clara finì con una risatina squillante. — Non tanti, poi, signora Lieti — osservò Giovanni Serra, quasi facendo una correzione di pura cortesia. — Allora, tutto va bene, vi lascio insieme — concluse la gentile e frettolosa padrona di casa, allontanandosi verso gli altri gruppi che popolavano il suo salone. Serra restò in piedi, presso la signora Lieti: e taceva. Malgrado la luce bonaria dei suoi occhi azzurri, la sua fisonomia aveva qualche cosa di austero, che contrastava con la mondanità dell’ambiente. — Non sedete? — chiese Clara, reprimendo un breve moto d’impazienza. Egli ebbe una fugace esitazione; poi, si sedette in una poltroncina, accanto a lei. A poca distanza da loro, tre signorine chiacchieravano e ridevano con due giovanotti. — Perchè vi siete fatto presentare? — domandò Clara a Serra, rompendo il silenzio, parlandogli con una intonazione più intima nella voce. — Non sono stato io. Mi ha detto, la signora Anna: venite, vi presento a una donna di spirito. — Sono io, disgraziatamente... — Come, disgraziatamente? — Lo spirito è una gran disgrazia, per una donna — ella sentenziò, con una di quelle tetraggini improvvise che le oscuravano la sorridente faccia. — Perchè, signora? E un dono affascinante, un dono conquistatore... — Per conquistare che? — I cuori degli uomini. — Bella conquista! — Non l’apprezzate più? — No, Serra — ella disse, profondamente. Egli la guardò, ma senza stupore. Si vedeva che non le credeva. Ella abbassò le palpebre, per celare un lampo d’ira passeggiera nei suoi dolci, ma anche fieri occhi castani. — Mi duole, che vi abbiano presentato... — mormorò, poi, quasi parlando a sè stessa. — Lo ripeto, non è colpa mia. -... come se foste un estraneo — ella soggiunse, vagamente — mentre io ho pensato a voi... spesso... — Oh! — disse lui, con una incredulità modesta e cortese. -... molto spesso — ella terminò, senz’aver l’aria di accorgersi della sua negazione. — E come mai? — domandò lui, con un po’ d’ironia, niente altro. — Così — disse Clara tristemente e brevemente. Giovanni Serra abbassò gli occhi, quasi celando una domanda che si potea forse leggere nel suo sguardo. Di lontano, mentre attraversava il salone per pregare una signora di cantare, Anna mandò loro un sorriso: li vedea discorrere, era contenta di aver bene collocati due suoi ospiti. — Voi non credete alle voci interne dello spirito? — ella gli chiese, guardandolo fiso, con quei suoi occhi che il pensiero rendea più oscuri. — Voi non avete inteso che io pensava a voi? — No, signora. — Non credete a queste voci, o non ne avete inteso? — Io ci credo, come credo purtroppo, a tutte le cose sentimentali: ma nulla mi ha detto nulla — e sorrise. — Peccato! peccato! — ella soggiunse, a bassa voce. Cantavano, adesso. Era una signora bionda e fine che, in giovinezza, si destinava al teatro e che un felice matrimonio aveva tolta al palcoscenico. Ma ella cantava dovunque, sempre, appena le domandavano di cantare, posando il suo manicotto o il suo ombrellino, levando la testolina dal colletto di pelliccia che ornava la sua mantellina, come un uccelletto canoro che vive del suo canto e morrebbe, se non cantasse. Tutti tacevano, nel salone: donna Clara Lieti ora guardava la cantatrice, quasi non volendo perdere una espressione di quel volto, sereno nella soddisfazione del canto. Poi, voltandosi verso Serra, pianissimo, gli disse, con un sorrisetto malizioso, tutta mutata nel viso: — Non vi siete ammogliato, poi? — Io? E perchè avrei dovuto ammogliarmi? — Dicevano... — Voi ci avete creduto? — egli le chiese, mostrando per la prima volta una ansietà nel viso. — No, mai. — Volevo dire — replicò lui, tranquillizzato. — Mai creduto, mai — riprese Clara, sorridendo. — Poteano passar gli anni, potevate viaggiare, cambiar paese, cambiar viso, dimenticare la patria, ma ammogliarvi, no! E le balenò il trionfo, nel viso. Egli si ritrasse: una espressione di austerità, di nuovo, gli chiuse il volto. — Siete fedele, voi — esclamò lei, ridendo. — Io, sì — replicò, a occhi bassi, duramente. — Fedele, quand même — e rideva sempre più. — Quand même, no, signora Lieti. — Vale a dire? — Vale a dire che il fedele quand même, è l’uomo che seguita ad amare, anche se è schernito, o vilipeso, o abbandonato. A me non è accaduto nulla di questo. — Come? — diss’ella, diventata grave. — Io non ho amato nessuna donna frivola o perfida... — Oh sì, Serra, voi avete amata la più frivola e la più perfida fra le donne! — ella esclamò, pianissimo, con un velo di lacrime negli occhi. — Che importa quella? Io ne ho amata un’altra — egli dichiarò pianissimo, guardando innanzi a sè, come se vedesse la visione di una creatura incorporea. — Ahimè, sono la medesima persona — Clara disse, pianissimo, con una mortale tristezza. — Per me, no. — È una illusione, Serra. Ella era cattiva, e voi avete gittato il vostro cuore. — Il mio cuore serba un divino ricordo, un ricordo ideale a cui resta fedele: e giacchè tutto si riassume e si risolve in illusione, signora, io preferisco la mia. — E la donna umana, la donna terrena, quella fatta di ossa, di carne e di nervi, quella che vi ha fatto soffrire e vi ha fatto piangere, l’avete dimenticata, Serra? A questa domanda così diretta, così limpida, che Clara gli faceva, con voce pianissima, ma tremante, egli rispose subito, pianissimo, ma senza tremare: — No, per molto tempo. — Per quanto tempo? — Per cinque o sei anni, credo, portai questo tormento. Dopo, ebbi una grave malattia. Quando guarii, ero guarito anche del mio segreto tormento. — Guarito? Completamente? — Sì, signora, completamente. — Felice? Felice? — Sono come un uomo liberato da una grave e crudele croce. Quando la depone, egli si sente mortalmente stanco: e, forse, si domanda, se quella croce non era la sua vita. — Non so che farei, per vedervi felice, Serra — essa gli mormorò, pianissimo, con tenerezza. — Quando volete, sapete anche esser buona. — Non siate così amaro. È da un’ora, che vi parlo con la più grande dolcezza. — È così strana, per me, la cosa, che non la capisco. — Perchè siete così ironico? Non sentite che vi parlo a cuore aperto? — Quale cuore, donna Clara? — Il mio cuore. — Quello di dieci anni fa? — Quello di oggi, Serra. — Io non lo conosco, donna Clara. — È un cuore pieno di umiltà e di tenerezza. — E perchè? — Così. Perchè la gente si stanca di essere cattiva, si disgusta della propria perfidia, ha la nausea di sè stessa! — Pare impossibile, donna Clara. — Non mi chiamate così! — Non è il vostro nome? Il vostro bel nome luminoso e glorioso? — È il duro nome di altri tempi; chiamatemi: Chiarina. — Vi chiamerò: signora. — Non siate così duro, Serra, ve ne prego. — Io non sono che rispettoso. — Il vostro rispetto è freddezza, è sarcasmo. Sapete che odio questa battaglia di freccie avvelenate. — Signora Lieti, perdonatemi, se vi ho irritata. — Non mi avete irritata, mi avete addolorata. — E da quando in qua voi soffrite, signora? — Ah il dolore è delle più trionfanti creature, sappiatelo! — ella disse, battendo le palpebre per diradare le sue lacrime. Giovanni Serra tacque. — Scusatemi, se vi ho detto qualche parola pungente — egli riprese, sottovoce. — Ma la vostra dolcezza, inaspettata, improvvisa, mi ha sconvolto. Perdonatemi. Nessun cuore vi è più devoto del mio, signora. Ella lo guardò. Il pallore e la tristezza di quel bel volto di cui egli aveva adorato la gaiezza, lo colpirono. Anna si avanzava, tutta contenta, attraverso la gente che discorreva un po’ qua, un po’ là, ma riunita secondo le simpatie o gli interessi. — Ebbene, sono rifioriti i ricordi? — chiese, mostrando i suoi bei denti bianchi di donna grassottella, elegante, fredda e felice. — Rifioriti, certo — disse, levandosi, Clara. — Viole mammole? Rose bianche? — Crisantemi, crisantemi, Anna! — e sulla tetra parola fece una gran risata, si licenziò con un sorriso da Serra, con una stretta di mano da Anna, attraversò il salone, salutando ancora qualcuno ed escì. Donna Clara Lieti, sotto l’atrio del gran portone magnatizio, in piazza Santi Apostoli, sentì un gran freddo. Erano gli ultimi di febbraio: ma sovra, nel salone, il caminetto era acceso, tanta gente vi si agitava, sotto le lampade coperte dai larghi paralumi rosei. Giù la via era fredda, nella prima ora della sera: nè via Santi Apostoli è molto frequentata. Ella affrettò il passo, chiudendosi meglio nella sua giacchetta di lontra, abbassando la faccia sotto la veletta, stringendo le mani nel manicotto. Tutto quello che era accaduto, sopra, da Anna, le appariva molto confusamente in questo primo momento di solitudine; ma a traverso il tumulto delle sue sensazioni, ella sentiva, nitidamente, tutta l’amarezza di una delusione. Come, perchè? Avrebbe forse preferito che Giovanni Serra le avesse parlato del passato, scherzando, come qualunque altro uomo avrebbe fatto, violando, nella realtà del presente e dell’oblio, tutta la sentimentalità di un grande e violento amore? No, lo scherzo l’avrebbe offesa intimamente, dandole una delusione. Avrebbe ella preferito che Giovanni Serra, l’uomo che ella avea ragione di stimare come il più leale che avesse incontrato mai, fingesse, innanzi a lei, un rimpianto che non sentiva? No, ella avrebbe inteso l’ipocrisia e ne sarebbe stata tristemente delusa. Avrebbe ella preferito che egli le facesse una scena violenta, come nei tempi in cui ella infliggeva a un amore giovane, onesto e ingenuo le torture di una glaciale civetteria e le perfidie di una fantasia muliebre mobilissima? Chi sa! Ella non sapeva bene che cosa avrebbe preferito, in quell’incontro con l’antica sua vittima, se l’oblìo assoluto, o la menzogna gentile, o il rinfocolarsi della passione: ma quello che era accaduto, non le piaceva. Era scontenta e triste. Sentiva di aver fatto troppi passi sovra un terreno infido, su cui aveva vacillato varie volte: e si pentiva della via intrapresa, così, obbedendo a non so quale segreto impulso del cuore. E dire che da tanto tempo, nel mistero della sua anima, ella si preparava a un incontro con Giovanni Serra; dire che aveva tanto desiderato, mitemente desiderato questo incontro e pensato con umiltà, con tenerezza, tutte le cose umili e tenere che gli avrebbe dette; dire che ella aveva tanto creduto all’effetto della bontà e della dolcezza, sovra un cuore che ella aveva abbeverato di fiele! L’incontro vi era stato, ma stupidamente combinato, senza poesia; ella aveva detto le cose umili e le cose tenere, ma le aveva dette male ed egli non le aveva credute; era stata buona e dolce, e non aveva fatto che tentarlo dolorosamente, rammentandogli i dolori passati. Ah come era triste, e scontenta, e affaticata, e infinitamente delusa, di tutto quello che era accaduto! — Queste cose del passato, forse, bisogna lasciarle stare — pensò fra sè, e un sospiro le uscì dal petto. Per andare al Corso ella non aveva osato, a quell’ora, prendere la via dell’Archetto che è deserta e male illuminata: così, aveva attraversato tutta la via Santi Apostoli, sul marciapiede, uscendo a piazza Venezia. Pensò se non fosse meglio, per rientrare in casa sua, in via Babuino, prendere una carrozza. Ma la folla, di quell’ora, al Corso, la rincorò: la sua vivace immaginazione ricevette una impressione, immediata, di distrazione. — Non ci pensiamo — disse ancora fra sè, sentendo in fondo all’anima una delusione infinita. Così, camminò lungo le botteghe fulgidamente illuminate, guardando con occhio distratto le vetrine. Quanto si pentiva di essere stata così affettuosa e così dolce, con Giovanni Serra! No, non avrebbe mai voluto apparirgli leggiera, frivola e schernitrice, come dieci anni prima; ma avrebbe dovuto trattarlo con disinvoltura, ecco, come se nulla fosse stato. Come un altro indifferente qualunque. Quasi quasi aveva tentato di farsi fare una dichiarazione d’amore, da lui! Quasi quasi gliene aveva fatta una, lei! E quello, intanto, glielo aveva detto così chiaramente, che non l’amava più! E tutto lo scetticismo naturale e giusto, che egli aveva alimentato nel cuore dieci anni, non era sgorgato, quando quasi quasi ella gli aveva detto di amarlo! Ora, nella via, Clara Lieti, soffriva atrocemente nell’orgoglio. Quasi aveva chiesto e non aveva ottenuto: quasi si era abbandonata ed era stata respinta. Un’ira si mescolava alla delusione; ella camminava più presto, internamente esaltata dalla ferita che aveva scoperto alla sua superbia. Poi, camminando, ad un tratto, l’ira cadde: — Bene mi sta — pensò. — Raccolgo quel che ho seminato. Giovanni ha ragione. Un uomo la raggiunse: erano in piazza San Marcello. — Signora, buonasera... — e si cavò il cappello, mettendosele accanto. Era Giovanni Serra. Un po’ pallido, niente altro. — Buonasera — ella rispose, con voce stanca. — Siete venuto via? — Sì: avrei voluto scendere con voi di là... ma siete fuggita, così... e poi, si poteva notare... — Oh, non importa! — diss’ella con un sorriso amaro. — A me, importa. La voce di Giovanni pareva meno breve, meno secca. Evitava di guardare Clara. — Posso accompagnarvi, un poco? — le chiese, frenando il tremore di emozione che lo vinceva. — Sì, sì, anche molto. — Non seccherà nessuno? — Chi, nessuno? — Qualcuno che vi ami e che voi amiate. — Io non amo nessuno e nessuno mi ama, Serra — ella rispose, freddamente. — Non è possibile, signora. — Oh è possibilissimo, credetelo. — Voi mi parete una donna degna dell’amore di tutto il mondo — e la guardò con un impeto di ammirazione, in cui parve risorgesse l’uomo di dieci anni prima. — Siete stato sempre molto esagerato, per me, Serra — continuò ella a dire, con un freddo e triste sorriso — e mi avete abituata male. Vi assicuro che la gente fa di meno di amarmi, senza nessuno sforzo. — Non vi conoscono — egli disse, a bassa voce. — Anche chi mi conosce. Specialmente chi mi conosce. — Siete in un periodo di pessimismo, signora. — In verità, Serra, niuno pensa di me tutto il male che io ne penso. E sì che tutti mi giudicano assai mediocremente. — Non parlate così — egli mormorò. — Voi stesso, Serra. — Io ve ne domando perdono. Ero tanto turbato... mi avete parlato in un modo così strano... — Già: è la mia nuova maniera, quella di esser buona — disse Clara, con un sorrisetto amaro e gelido — ma mi riesce poco, come vedete. — Fare il male, vi piaceva di più? — egli le chiese, chinandosi a guardarla attentamente, come quando gli parea intravvedere la verità di quell’anima femminile. Ma ella schivò la confessione. Rispose, di scatto: — Piaceva di più agli altri. — La perfidia? A chi, dunque? — A voi. — A me? — Proprio. Se io fossi stata una buona e affettuosa donnina e non una civetta infernale, se fossi stata un’anima pia e tenera e non una beffarda e arida creatura, mi avreste amata ben poco, credetemi — e le lampeggiarono gli occhi, come in quei tempi in cui egli delirava per quegli occhi. — Se voi foste stata non buona, ma umana, semplicemente umana, Clara — egli disse, a voce bassa — allora, voi non avreste disfatta la mia vita. — Veramente, disfatta? Mi sembra che stiate benissimo — e sogghignò. — Io non mi lagno, signora — rispose Serra, semplicemente, ma senza durezza — e non vi rimprovero. Ella lo guardò, in silenzio. Veramente, in quel momento, mentre attraversavano piazza Colonna tutta fulgida di lumi, Giovanni Serra le parve invecchiato. Su quegli occhi azzurri che ogni tanto aveano qualche cosa d’infantile, parea che veli e veli di lacrime fossero passati, nell’ombra e nella solitudine, quando l’uomo può lasciar erompere il suo dolore, oltre le dighe della fierezza. Su quelle labbra si era posata una stanchezza che ella soltanto ora scorgeva, la stanchezza di aver invano chiamato un nome, di aver invano invocato un bacio, di aver invano singhiozzato, nelle ore solinghe dell’abbandono. Per la prima volta, e con una intensità profonda, ella sentì che vi hanno ferite che non si chiudono mai, e sentì che il tempo può portare via una vita, ma non può portare via un dolore da un uomo vivente. — Quanti anni avete, ora, Serra? Ella lo chiedeva, così, vagamente, tristemente. — Trentaquattro, signora. — Un uomo è giovane, a questa età. — Anche una donna — egli disse, cortesemente. Clara ebbe un lieve moto della testa. E con una infinita tristezza, soggiunse: — Io non ne ho più trentaquattro, amico mio. — No? Non eravamo coetanei? — Eravamo? Non siamo più. Io ho centotrentaquattro anni, credo. È incalcolabile quanto io sia vecchia, Serra. E mentre ella si abbandonava a quest’asserzione, piena di un vero dolore — ella soffriva moltissimo d’invecchiare — tendeva l’orecchio, a raccogliere la contraddizione. Ma egli non contraddisse; disse, con un ritorno di candore ammirativo: — Per me, non sarete mai vecchia. — Vecchissima, vecchissima! — insistette lei, a denti stretti. — Non dite questo, non lo credete: io non lo credo. — Io ho dei capelli bianchi, fra i neri. — Ma non si vedono: io non li vedo. — Perchè li nascondo o li mostro con disinvoltura. Se mi guardate bene, di giorno, ho una quantità di piccole rughe, accanto agli occhi e accanto alle labbra. — Non si vedono; io non le vedo. — Perchè rido sempre. Ma se sono triste, non so come, i miei capelli bianchi appariscono subito e le mie rughe si vedono tutte, sottili, che tagliano leggermente la pelle, visibilissime. Che orrore! Aveva detto questo in fretta, eccitata, come una persona che si confessa di un suo grave errore, piena di dolore, con una brutalità di particolari, che le rendean fischiante, quasi flagellante la voce. — Io vi vedrò sempre come vi ho amata, Clara — egli le rispose, con la sua buona voce consolante. — Ah io sono vecchia, Serra: nessuno mi ama più e nessuno mi amerà più! — gemette ella, levando il manicotto, sino alla bocca, a soffocare un singhiozzo. Turbato sino al profondo del cuore, egli non trovò parole per esprimere il suo pensiero. Forse non ne aveva neppure uno preciso, in quell’agitazione di sentimenti. Delicatamente, con una tenerezza paterna, egli le prese una mano guantata e la carezzò fra le sue: — Poveretta, poveretta! — Se sapeste, se sapeste! — ella balbettò, al massimo dell’emozione. — So... so qualche cosa... — e il calore della piccola mano che egli sentiva, dall’apertura del guanto, aumentava immensamente la sua confusione. — Se potessi dirvi... amico mio... se potessi dirvi tutto — ed affannava, come se i più terribili segreti la soffocassero. — Tacete... non dite niente — egli le susurrò, all’orecchio. — Che bene mi farebbe il parlare, amico mio! ah io mi sento affogare. Da anni e da giorni, io vorrei gridare, urlare, pur di gittar via la mia pena. E lo guardava con occhi così dolorosi e così interrogativi, così invocanti un orecchio pietoso alle confidenze, che egli si arretrò. Era pallidissimo: ma Clara, nell’egoismo della sua angoscia, non se ne accorgeva. — Non potrei ascoltarvi, Clara. — E perchè, e perchè? — Così: non potrei. — Non mi siete amico, allora? — Sì, vi sono amico — e parlava con un evidente sforzo. — E non vorreste confortarmi? — Vorrei, vi giuro che lo vorrei; ma così, non posso. — Che crudele siete! Voi sapete che se io potessi dirvi la mia croce, essa sarebbe meno schiacciante, meno pesante; voi sapete che se io potessi piangere accanto a voi, a lungo, a lungo, piangere immensamente, infinitamente, queste lacrime mi laverebbero da ogni torbido proposito: e mi negate questo sollievo. Ah siete un crudele! Non eravate, crudele! Si erano fermati all’angolo di via Babuino, dopo aver attraversata piazza di Spagna. Egli la guardava, immobile, con gli occhi pieni di dubbio. — Ma che donna siete voi, Clara, che non dovete intendermi nè prima, nè poi? Io, vi debbo consolare, quando tutto il tempo della vostra gioia è stato dato ad altri? Io? Chi sono io? Niente, nessuno Così avete voluto che io fossi: niente e nessuno. — Avete ragione — ella disse, domata a un tratto, caduta nella rassegnazione e nell’umiltà. — Non vi rammentate che vi ho adorata come uno schiavo e che avete battuto sul mio cuore, come si batte sul dorso di uno schiavo? Non vi rimprovero, non mi lamento: ma voi mi domandate anche della pietà, voi che non ne avete avuta mai! — Avete ragione — Clara ripetè, umilmente. — Vi rammentate, Clara, che vi ho voluto bene così teneramente e che non me ne avete voluto mai? Vi ricordate che avete lasciato che io vi amassi, incoraggiandomi talvolta, talvolta avvilendomi, facendomi passare dalla gioia alla disperazione, in un giorno, e non volendomi bene mai, mai, nè prima, nè dopo, nè mai? È vero, o no? — È vero, è vero — ella annuì, chinando il capo, fatta quasi più piccola dall’annichilimento, in cui la gittavano il rimorso e il rimpianto. — Vi rammentate, Clara, che ne avete amato un altro, me presente, che avete voluto che io lo sapessi, che me lo avete detto, ridendo? — Sì, sì, è vero. — E ora, Clara, ora che sono passati dieci anni, ora che voi avete mutato il vostro cuore, come dite, ora voi siete come allora, voi volete che io vi conforti, perchè un altro vi ha lasciata. Voi siete crudele come in quel tempo, Clara: allora ridevate, adesso piangete, ecco la differenza! — Scusatemi — ella mormorò, nel colmo dall’avvilimento. — Ma io sono un uomo, Clara, e se posso avere spezzato il mio cuore, se posso aver vinto ogni desiderio e ogni speranza, sono sempre un uomo, e voi non mi potete raccontare i dolori, che vi ha dato l’amore di un altro! — Perdonatemi! E fece l’atto di volergli prendere la mano. Ma egli la ritrasse. — Non mi avrete capito, mai, Clara. Morirò, ma non saprete nulla di me — concluse egli, più freddamente, essendo giunto quasi a vincere la sua emozione. Così camminarono in silenzio verso la casa di Clara. Ella andava a capo basso, sentendo di avere errato ancora, di avere inutilmente violato la fierezza del proprio cuore, mostrandone il segreto dolore, a un uomo che non poteva avere pietà di lei: sentendo di avere nuovamente offeso quel cuore che era stato così intieramente suo e che ora non aveva più forza pel desiderio, avendone solo per la dignità. Più amaro crebbe in lei il rimpianto, comprendendo di essere passata accanto all’amore, alla devozione, alla dedizione più completa, senza accorgersene, abbandonando alla solitudine, all’angoscia questo cuore inutilmente devoto e inutilmente affezionato. Era troppo tardi, oramai, anche per far risorgere in questo cuore una mite affezione: troppo tardi, per ridare a questo cuore la bella luce della fiducia. Due volte, quasi fosse sola, ella fece un piccolo cenno definitivo, con la mano aperta che pendeva lungo la gonna e le cui dita pareva avessero lasciato andare un piccolo e prezioso tesoro. Camminavano accanto: ma ella che non aveva mai capito chi egli fosse, intendeva che le loro strade erano diverse. Quando furono innanzi al portone, si fermarono. Egli aveva l’aspetto più stanco che mai; ma niuna durezza vi fu nello sguardo con cui la fissò. — Buonasera — ella disse, con un’intonazione monotona. — Buonasera — egli rispose, cavando il cappello e facendole un grande saluto. Ma non si lasciarono subito. Parea che si dovessero dire qualche altra cosa. Parea che ambedue sapessero di non doversi veder più e che una qualche cosa, più intima, più misteriosa, si dovessero dire. Ella gli stese la mano: egli la rattenne un poco fra le sue, ma senza stringerla. Ambedue sedavano a stento il tumulto delle loro anime. Poi, a un tratto, egli le domandò una cosa strana, impensata: — Che fate ora, sopra? — Io? Nulla. — Qualcuno vi aspetterà? — No. Nessuno. Il tono era della più perfetta franchezza. — E voi, che fate? — chiese ella con eguale incoscienza. — Vado a casa. — A casa! E che ci farete? — Non so. — Buona sera, Giovanni — ella mormorò, facendo per andarsene. Ah, quale sussulto, lo scosse! Ella che aveva sempre trovato antipatico, brutto, volgare il suo nome di battesimo, tanto che egli aveva finito per odiarlo, ella lo pronunciava adesso, dopo dieci anni, con tanta soavità! Egli s’inchinò e le baciò la mano, leggermente. Si guardarono: ella volse le spalle; pian piano entrò nel portone, cominciò a salire le scale. Non era forse incerto il passo della donna, salendo per quelle scale, alla sua casa deserta? Il passo dell’uomo era incerto, andando alla sua casa deserta. II. Ella lo ricercò, dopo soli tre giorni: ed egli che l’aveva fuggita per quattro o cinque anni, da quando Clara, dopo un lungo viaggio, era ritornata in patria, egli si lasciò ricercare e tenne l’invito. Fatalmente, Clara era troppo sola e troppo libera, adesso. Gli aveva scritto un biglietto fra il malinconico e scherzoso, per dirgli che la sera istessa sarebbe andata al vecchio teatro Argentina, dove cantavano una vecchia musica, l’Armida, di Glück. Ella vi arrivò prima. Vi era un gran ballo, quella sera, all’Ambasciata d’Inghilterra, e tutta la grande società romana era colà: l’Argentina era quasi vuota, male illuminata, freddina: pochi amatori di musica antica stavano nelle poltrone, immobili, a pregustare le melodie incantatrici. Clara era vestita di nero: stava in un palco di terza fila, di fianco, scelto apposta: una veletta nera le scendeva dal cappellino molto semplice e molto carino. Così, sembrava più piccola e più giovane. Serra tardò. Due o tre volte, ella pensò che non sarebbe venuto e si pentì di avergli scritto. Aveva la più ferma volontà di essere umile e schietta, ma il suo amor proprio dava dei sobbalzi all’idea di un rifiuto sprezzante. Però, quando egli entrò, senza far rumore, ella chiuse gli occhi, a nascondere la gioia del suo sguardo. Ella si voltò, gli sorrise e gli stese la mano: — O ma belle ténébreuse... — egli disse, con una certa disinvoltura. Il tono disinvolto durò così, un pochino. Poi, a lui sfuggì una frase pericolosa: — Io non voleva venire... — E perchè? — Mah... per paura. — Paura di chi? — Di voi. — Di me? Paura? — Me ne avete sempre fatta un poco, Clara. — Io sono una povera scema — diss’ella, con la più perfetta umiltà — io non faccio paura a nessuno. Ed era umile e semplice, nello stesso tempo: e una gran bontà le si leggeva negli occhi, nel sorriso, trapelava nella sua voce. Gli parve piccolina, così giovane e sempre così cara! Pure, volle dire quest’altra cosa lui: — Credevo che non sareste venuta... — Io? E perchè? — Per farmi soffrire... — Io vorrei che foste l’uomo più felice della terra, amico mio — esclamò ella, con una sincera convinzione. Giovanni ebbe un sorriso malinconico. Disse, di nuovo: — Sì, sì, ho creduto che non sareste venuta... — Come avete potuto credermi così cattiva? — Il mio animo è così combattuto dai dubbi, Clara — e il volto gli si turbò. — No, no, non parliamo di ciò — ella replicò, subito, interrompendolo. — Fa male ad ambedue. — È vero — egli consentì. Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra. Ma il pessimo demonio che si annida nelle anime buone e le fa tormentate e tormentatrici, gli fece soggiungere: — Mancavate così spesso ai convegni, allora! Ella guardò sul palcoscenico, un momento. Lo chiamò, poi: — Giovanni? — Che volete? — Mi fate un piacere? — Sì, subito. — Vogliamo lasciare in pace il passato? Vogliamo non amareggiarci qualche ora graziosa, che possiamo passare insieme? Vogliamo essere anche per un mese, anche per una settimana, anche per una sera, due cari amici che si ritrovano, che non ricordano più i torti comuni, i torti di uno, è più giusto, e che si dànno, ingenuamente, alla serenità e alla letizia di un colloquio senza ira e senza malintesi? Vogliamo? — Potremo noi far questo? — chiese Giovanni ansiosamente. — Se voi lo volete, sì. — Io lo voglio, Clara. E quetamente, tirandosi un po’ indietro, i due si posero a discorrere sottovoce, guardandosi con dolcezza, l’uno prendendo la parola dall’altro, senza mai alterarsi, senza mai alzare il tono della voce, mentre la soave musica glückiana che culla l’incantesimo del cavalier Rinaldo, pareva cullasse quel dialogo così mite e così dolce. In verità, Clara fu perfetta, quella sera. Giustamente malinconica, ella seppe a tempo sorridere, perchè il loro colloquio non cadesse nella tetraggine, dove sarebbero risorti gli amarissimi ricordi del passato: e tutta una dolcezza fioriva dalla sua malinconia e dal suo sorriso, dalle sue parole come dal suo silenzio. Più, dal suo silenzio. Giacchè ella lasciò molto che parlasse lui, con le manine inguantate di nero congiunte sul suo ventaglietto a stelline d’argento, con il viso intento dietro il sottil velo nero, con gli occhi placidi e dolci, con la bocca tranquilla e dolce che approvava, con un gentil motto delle labbra. Sovra tutto, ella non rise mai. Si rammentava che egli, dieci anni prima, nei tempi dell’amore e del tormento, detestava quel suo riso squillante e clamoroso che le scopriva tutti i denti bianchi, che dava un non so che di feroce alle labbra rosee e che le riempiva gli occhi di scintille. Lo aveva tante volte visto fremere e impallidire, dieci anni prima, a quel mal riso beffardo e aveva sempre più riso, per ucciderlo a forza di risate, come in una leggenda! Non rise mai, quella sera, mentre Armida cantava le sue magiche canzoni, che davano le visioni ineffabili al sonno di Rinaldo. Lo ascoltò, serena, raccolta, con un’attenzione così dolce, che l’animo di Giovanni, restato in grande trepidanza sino all’entrata in teatro, si venne rassicurando, rianimando, rallegrando. Due o tre volte, involontariamente, egli alluse al passato, giacchè troppo il suo amore mancato aveva influito sulla sua esistenza, deviandola, torcendola ad altri ideali dello spirito, più alti, più inaccessibili e più tormentosi. Ma ella, dolcemente, non rispose alle allusioni che con un cenno di umiltà, abbassando il capo: ed egli si riprese subito, commosso da tanta dolcezza. Solo a vederla così, ascoltatrice intenta e cheta, tutta data alle parole che, egli le diceva, coi begli occhi limpidi nella loro nerezza, piccola, vestita di nero, senza gioielli, senza nulla che sfolgorasse, senza nulla che stridesse, egli si sentì invadere da una tale letizia dell’anima che giammai gli parve di averne provata una simile. Ella fu, in questo, perfettissima: giacchè lasciò svolgersi quell’alta consolazione spirituale, senza avere l’aria di sospingerla, di provocarla, di goderne come di un trionfo: e quando lo spettacolo finì, si levò in piedi, pian piano, prendendo il suo mantello. Egli fu più lesto di lei: ed ella sentì che mentre l’aiutava ad indossarlo, le sue mani tremavano. Allora, ella ebbe un pensiero orgoglioso, muliebre. Pensò: — Ora mi dà un bacio. Egli s’indugiò a metterle questo mantello ed ella sentì il suo respiro, sulla sua nuca: ma Giovanni non le dette il bacio. E come Clara aveva nascosto la sua subitanea ambiziosa idea, così nascose la sua pronta delusione. Nè fu una delusione fortissima. La dolcezza di quella serata, aveva ingannato anche lei. Ella sapeva bene di fare uno sforzo su sè stessa, per reprimere gli impeti del suo temperamento bizzarro e per essere assolutamente dolce: ma sperava di poter continuare così, sempre che lo volesse seriamente. E come lui credeva di aver innanzi una creatura trasfigurata, che gli avrebbe dato le fredde, tranquille e ultime tenerezze senz’amore, ma tenerezze sicure di un’amicizia muliebre, così ella si lusingava di poter essere questa amica gelida, affettuosa e quieta. Però, ambedue, chiudendo gli occhi, si lasciarono andare a questa consolante fiducia. Egli cominciò a vederla più spesso. Ella era molto stanca, invincibilmente stanca della vita mondana che aveva fatta sempre: e si appartava volentieri. Se andava a una passeggiata, era in ore strane e in posti deserti: lo avvertiva, egli ci veniva. Se andava in un teatro era alle terze rappresentazioni, in serate vuote; e dieci minuti dopo il suo arrivo, entrava lui, nel palco, si sedeva in fondo, ella si tirava indietro, un poco. Vestiva di scuro, sempre; sapeva di piacergli così. Si può essere una semplice amica, ma si deve piacere all’amico. Parlavano con fredda tenerezza. Molto ella ascoltava: ma quando diceva qualche parola, era sempre sapiente, detta con la più squisita cautela sentimentale. Giammai un’allusione al proprio cuore, al proprio stato, nè diretta, nè indiretta: sempre la massima pietà per gli altri, la massima indulgenza per ogni peccato, come chi sa che è impossibile non peccare, quando si deve peccare. Egli si era mutato, però. Non poteva tenere il patto di non evocare il passato. Era la sua vita, il suo amore di dieci anni prima, e ricompariva sempre più spesso, fino a che divenne il solo soggetto dei suoi discorsi. Taceva da tanti anni e con tutti, che ora la verità di quella mortale passione sgorgava infrenabile. Ella ascoltava, stupefatta; ma non interrompeva mai. Veramente, egli aveva ragione: Clara non aveva mai capito quanto era stata amata: ora, lo capiva. Ogni tanto, quando egli le diceva una delle sue torture ineffabili di gelosia, di allora, ella faceva un atto come per chiedere perdono, un atto in cui ella si dichiarava colpevole, sì, ma incosciente, ma ignorante, ma degna di perdono. Egli la guardava con tanta tenerezza, che, senza parlare, le diceva di averle perdonato. Quando egli si meravigliava che ella avesse potuto essere così atroce, essa gli diceva di esserne stupita, di stupirsene, lei stessa: e ciò come se si parlasse di una donna assente, di cui si compatissero gli errori. E quando egli giungeva a narrare certe ore terribili in cui avrebbe voluto morire, pure di strapparsi dal petto questo amore, ella aveva una frase di pietà profonda, intima, raumiliata, la frase del carnefice pentito innanzi alla sua vittima: — Voi siete buono. Niente altro, diceva. Ella non si difendeva mai, nè si accusava: quando egli l’accusava, gli dava ragione, con un’occhiata, con un triste sorriso, con un cenno espressivo della bella bocca. Vi era un ritornello, che egli pronunziava sempre, nervosamente, a traverso i suoi racconti scuciti; un ritornello che rivelava l’attossicamento della sua vita, in tutte le sue più pure sorgenti, l’avvelenamento crudele di un sangue giovane e di un’anima, resa inetta a vivere e incapace di morire così. Il ritornello: — Che veleno mi avete dato, che veleno! Quando ella lo udiva, aveva un moto così pessimista della testa e della persona, sulla crudeltà muliebre, che egli si commoveva. Talvolta, tornava la frase: — Quanto veleno, Clara, quanto veleno! Ella diceva, allora, umilissimamente: — Avete ragione. Ma da questa sua umiltà voluta, e poi quasi fatta naturale, nei loro colloqui, da questo suo abbassarsi nella coscienza dei suoi gravi torti, da questo non difendersi giammai, da questo dargli ragione, sempre, da questo racconto triste e violento di un amore infelicissimo, ella trasse una nuova sensazione e un nuovo sentimento. Il senso della sua colpevolezza, verso Giovanni, giganteggiò ai suoi occhi: e il sentimento della riparazione divenne acuto e ardente, quanto era stata la colpa. Così, mentre Giovanni risaliva tutta la piena della sua grande sciagura sentimentale e con la sua sensibilità fine e tenera ne approfondiva, narrandoli, tutti i dolorosi particolari, Clara che aveva un temperamento più fantastico che sensibile, esagerava, con una dura voluttà di abbassamento, contro sè stessa, la propria aridità passata e l’atroce perfidia. Tanto che, alla fine, secondandolo e sorpassandolo ella, ambedue sembrarono accanirsi contro una persona assente, lontana, morta, che ad ambedue avesse commesso i più gravi torti. Anzi quella lunga istoria intima, tenuta chiusa nel cuore per dieci anni di esistenza triste, priva di spirituali conforti, traboccando dalle labbra di Giovanni perdeva molta amarezza, nello sfogo: e la naturale indulgenza di quel cuore virile che non sapeva dimenticare, ma sapeva perdonare, trovava delle misteriose scuse alla donna che era stata con lui senz’amore, senza carità, senza pietà. Invece, quella medesima istoria, a Clara sembrava più lugubre e più ignobile che mai, quando ella pensava il come e il perchè della sua perfidia e della sua durezza. Internamente, ella si maltrattava, molto più che Giovanni l’avesse maltrattata mai, nei momenti di maggior furore. Ogni tanto, quando egli le aveva descritto una delle sue sere tragiche, di quel tempo, quando egli passeggiava le serate intiere sotto la sua casa, non per vederne le finestre illuminate, giacchè ella era fuori, a ridere, a divertirsi, ma per aspettarla quando tornava, per vedere con chi tornasse, per vedere il suo bianco volto nella oscurità, per udire quel riso alto e beffardo e per allontanarsi, non salutato, non riconosciuto, non visto, non rammentato, egli, col più tenero dei rimproveri, le prendeva le mani e le chiedeva: — Come avete potuto essere così cattiva? Ella non s’inteneriva, col viso chiuso, con le sopracciglia aggrottate, piena d’ira e di disprezzo contro questa Clara tanto colpevole, e rispondeva, duramente: — Io sono stata sempre cattivissima. — Chi sa... — mormorava lui, nella semplice clemenza del suo animo — chi sa per quali strane ragioni... — Non v’illudete, Giovanni: per nessuna misteriosa ragione. Non vi fate di me una figura romantica. Io ero civetta, volgare e cattiva come l’ultima delle donne, ecco tutto. — No, no, cara donna, non vi avvilite così — soggiungeva lui, colpito dai più bizzarri sentimenti, in contraddizione — io non voglio che vi avviliate. Forse, io fui ingiusto: forse, sono ingiusto ancora adesso. Chi soffre, chi ama, è così facilmente ingiusto. — Voi siete il più onesto e il più buono fra gli uomini — ella rispondeva, con gli occhi velati dalle lacrime. Tacevano. Spesso, in quel periodo acuto di reminiscenze, mentre Giovanni si lasciava andare alla immensa consolazione di parlare del suo amore passato, egli intravedeva confusamente, in queste tenere e tristi confidenze, non so quale pericolo. L’intensa attenzione con la quale Clara lo ascoltava, la squisita furberia sentimentale con cui lo interrogava, i suoi silenzii pieni di una repressa emozione, a un tratto facevano risorgere tutti i suoi dubbii e la sua anima sofferente si rigettava indietro, sgomenta di essersi troppo abbandonata. Spesso, diffidente vagamente, egli tentava di togliere il discorso, dicendo che questi ricordi lo turbavano troppo: ma ella l’obbligava, prima con la dolcezza, poi con una certa energia di volontà coperta di dolcezza, a ritornare alla triste istoria. Una sera, in una passeggiata al chiaro di luna, gli disse: — Ditemi tutto. Forse mai più ci potremo vedere così liberamente e così spesso: forse, fra una settimana, fra un giorno, non ci vedremo più. Dite, dite, che io sappia, che io non muoia senza aver saputo, che qualcuno mi ha veramente amata. — Potremmo non vederci più, Clara? — La vita è oscura — ella rispose, profondamente. Forse, per questo, ella moltiplicava gli incontri, dandogli sempre dei nuovi convegni, ansiosa, affannosa, come se il tempo le fuggisse, come se ella avesse qualche misteriosa chiamata altrove e che la presentisse. Ella arrivava più presto, portando dei fiori nelle mani, come era il suo costume, un po’ pallida sempre, sotto le fini velette nere, vestita quasi sempre di nero, piccola, con un viso che si levava verso lui, esprimente una immensa ansietà negli occhi dolci che egli aveva adorato, nella bocca ancora fresca e vivida che era stata la sua adorazione. Si stringevano appena la mano e si mettevano accanto, passeggiando piano, non vedendo nessuno, andando per le vie più strane e più remote, perdendosi per ore intiere, parlando di quel passato che ella evocava, con un motto, con un gesto. E più il tempo trascorreva, più cresceva in lei, in duplice corrente spirituale, un infinito rimpianto per il passato e un acuto rimorso. Di lontano, questo amore di cui ella aveva riso, in pubblico, questo amore di cui ella si era burlata, come una pessima femminetta, questo amore per cui ella aveva avuto il più palese disprezzo, questo amore si faceva più alto, più puro, più spirituale, staccato dal tempo e dallo spazio, sciolto dalla realtà dei fatti. In certe sere, in cui lui la riaccompagnava a casa, sino al portone, non volendo mai salire sopra — non voleva salire, era inflessibile, non voleva metter piede in casa sua — dopo aver ancora chiacchierato a lungo, nell’ombra, ella saliva sopra, così smorta che pareva svenisse. Nella casa non vi era che un sol lume, nella sua stanza da letto; ed ella l’attraversava, questa muta e deserta casa, all’oscuro, a tentoni, guardando nell’ombra. Ma quando giungeva nella sua stanza da letto, ella si gittava sul letto, col capo nascosto nei cuscini, piangendo, singhiozzando, sull’irreparabile: — Che ho fatto, che ho fatto! Che amore ho perduto, per sempre, per sempre! Acuto rimpianto e acuto rimorso! Essa, forse, nel furore contro sè stessa, esagerava, dipingendosi come l’anima femminile più turpe comparsa nella gran falange muliebre; ma non era men vero che la esistenza di Giovanni Serra era stata infranta da quella passione infelice, tanto che egli non aveva raggiunto, come il suo cuore e il suo talento meritavano, nè la gloria, nè la felicità: non era men vero che egli era un essere senza molla interna che lo spingesse, senza desiderii e senza speranze: non era men vero che, per questo amore, egli aveva gittato la sua salute, la sua gioventù e la sua fortuna: non era men vero che egli possedeva la più preziosa qualità umana, che è l’onestà, e la sublime virtù che è la bontà. Come non doveva Clara piangere, nella solitudine della sua stanza, tutte le più ardenti e le più amare lacrime su questo amore perduto e su questo cuore infranto? Come non doveva sentire in sè, temperamento mobile e violento, assetato di amore, assetato di felicità, la ribellione contro l’irreparabile? Invero, si trovava di fronte all’irreparabile: ed era quello che le faceva torcere le braccia, nella notte, quando per tutta una serata ella aveva udito il mormorio dell’amore, al suo orecchio, ma di un amore finito, morto. Giacchè ogni parola, ogni frase di Giovanni Serra, pur restando nella più fine gentilezza da uomo a donna, pur avendo la poesia della tenerezza, diceva a Clara, che egli non l’amava più. Invano ella, con l’animo ansioso — era questa, la sua ansietà — interrogava ogni tono di voce, scrutava il senso riposto di ogni motto, rifaceva, da sola, tutto il loro dialogo, per scoprirvi una sottil luce presente. No, non l’amava più, malgrado la commozione che egli aveva, sempre, nel lasciarla, nel rivederla, malgrado il fascino che subiva, malgrado la gran tenerezza che dominava ogni suo atto. Amore vissuto tanto tempo e così ardentemente e ora sepolto sotto un mucchio di gelida cenere che una mano andava smovendo, mano sapiente che conosceva la storia di quel fuoco e di quella vampa e che la rievocava, sulla fredda cenere. Giovanni non parlava quasi mai del presente, con un atto di finezza d’animo, quasi dolendogli di non poter ancora ardere come prima, quasi sembrandogli un’offesa al suo idolo, la fiamma spenta e le ceneri gelate. Non diceva nulla, ma si capiva così chiaramente, che nulla più, più nulla, non la più piccola scintilla ardeva innanzi alla cara donna, simulacro vano della passione, morto, come la passione era morta. Ed ella, sì, singhiozzava nelle sue notti senza sonno su quella grande fiamma spenta, sentiva di essere passata accanto alla felicità senza vederla, allontanandosene per sempre, ma esclamava, fra l’inutile pianto: — Ha ragione, di non amarmi più, ha ragione: egli soltanto ha ragione, egli che ha amato! Ma da queste nascoste battaglie dello spirito che Clara combatteva, con tutto l’impulso di una natura appassionata, sebbene fugace; da questa umiliazione in cui la sua anima era caduta, tanto che parea si prostrasse innanzi a Giovanni Serra; da questo indicibile rimpianto dell’amore, acutissimo in una donna che aveva amato l’amore sovra tutte le cose umane e a cui l’età non calmava l’anima; da questo tormentoso rimorso che si sollevava da tutti gli istinti di giustizia e di equità offesi, sorse dentro Clara una impetuosa volontà di correggere e di vincere il destino. Ella pensò, questo: che era suo dovere morale amare Giovanni Serra, di un amore profondo e devoto che fosse l’estremo della sua vita, e in cui ella prodigasse tutte le ultime e supreme dolcezze del suo cuore; che non solo era suo dovere, ma che era questo il suo desiderio sentimentale più forte, più immediato, più irresistibile; che non solo era un desiderio irresistibile, ma che era, questo amore, la più cara speranza del suo cuore che voleva lavarsi, che voleva purificarsi e diventar nuovo e candido come il cuore del Salmista; che non solo era la sua più cara speranza, ma che era la salvazione della sua dignità di donna, l’assoluzione dei suoi errori trascorsi, la vecchiaia percorsa senza più sentire rimorsi, aspettando serenamente la morte. Sorto dalle ire soffocate e dai profondi disprezzi di sè stessa, questo pensiero di amore l’avea in un baleno soggiogata e tutta l’anima ebbe il calore del metallo in fusione. Nessuna voce interna l’avvertì di non mettersi a questo periglioso passo, nelle sue condizioni, alla sua età, con un uomo come Giovanni Serra: e se talvolta, un nero presentimento la colpì, a traverso le esaltazioni del suo entusiasmo, se il negro presentimento le susurrò che ella si avviava a un errore anche più fatale e anche più irrimediabile degli altri, ella ebbe il cenno disperato di coloro che sono ebbri di sacrificio. Giovanni non l’amava più: è vero. Che importava? Il suo cuore di donna che ella aveva sentito morto, duro come una pietra, per tanti anni, dentro il suo petto, ardeva di un sentimento dove tutto era elemento di ardore, il rimorso, il rimpianto, la pietà, la tenerezza, il bisogno di devozione, il bisogno di darsi, il bisogno di abbandonarsi. Che importava che Giovanni Serra non l’amasse più? Ella voleva amarlo così profondamente, così piamente, con tanto completo abbandono di ogni amor proprio e di ogni orgoglio, con tanto perfetto oblio di ogni vanità e di ogni altro istinto mediocre umano, che tutto il dolore passato sarebbe pagato da questa immensa abnegazione amorosa. Ella voleva espiare il suo passato, soffrendo come egli aveva sofferto, dando il suo cuore a un essere che non poteva più amarla; voleva espiare di non avere amato, amando senza speranza, solitaria anima che recitava un monologo appassionato e doloroso. In fondo, come per tutti i grandi penitenti, la sua espiazione sarebbe stata anche il pascolo della sua anima. Oramai, la sua esistenza di donna era deserta. Aveva trentaquattro anni: e nell’abbandono in cui era caduta, si sentiva assai più vecchia, incapace di tentare un’altra volta l’ignoto dell’amore. Era stata molto amata, due o tre volte: ma fatalmente, questi amori si erano dileguati, come se mai fossero esistiti: e due volte ella aveva dato il suo cuore, e due volte era stata abbandonata. Esistenza finita, dunque, giacchè le illusioni non risorgono mai dalla loro tomba: e le stanchezze morali sono più forti di quelle fisiche. Che restava a Clara, se non questa ultima speranza di potersi dare a un sentimento vivido e duraturo, a null’altro simile, senza fallacie e senza disfatte? La sua espiazione, quella di voler amare Giovanni Serra, era anche la sua salvazione, giacchè ella sapeva di non poter vivere senza l’amore, un amore qualunque, ma un amore, un amore! Meglio, meglio, se ciò non era un’avventura in un cuore sconosciuto, innanzi a un’anima misteriosa, un’avventura di incerto risultato, ma portante con sè, forse, una disperazione e un’onta novella: meglio, se era l’amare una creatura nota, stimata, ammirata per le sue nobilissime virtù, una creatura senza amore, è vero, ma che aveva saputo amare, ma che si sarebbe lasciata amare, dolcemente, teneramente. L’espiazione sarebbe stata la vita della sua anima ed ella vi si sarebbe buttata con ebbrezza, giacchè quello che più temeva, per sè e intorno a sè, non era il dolore, ma era l’aridità, non era la tortura, ma era il silenzio, non era la passione infelice, ma era l’indifferenza. Un mese prima, ella era immersa nel marasma più profondo, moralmente così misera che non osava neppur dire a nessuno la sua miseria: ella si vedeva già finita, senz’amore, senza amicizia, coi soli legami frivoli mondani, ritenuta per una donna senza cuore — giacchè questa, fatalmente, era la sua reputazione — e gemente intanto nel desiderio dell’amore. Ora, ora, da quel pomeriggio in casa di Anna, ella aveva dato una sublime ragione alla sua esistenza. Dai grandi occhi spiranti uno strano turbamento, dai subitanei pallori che le coprivano il volto, quando egli appariva, dalle mani che si facevano fredde nelle sue, da certi più prolungati silenzii che regnavano fra loro, dall’imbarazzo crudele di certi momenti, dai sussulti che ella non sapeva reprimere, a certi atti, a certe parole, Giovanni intravide che accadeva qualche grave fatto nell’anima di Clara. Una o due volte, la interrogò: — Che avete? — Nulla — ella diceva, chinando gli occhi, mordendosi lievemente il labbro, come quando non pronunziava la parola che voleva pronunciare. Egli credette che Clara gli nascondesse un fatto dispiacevole, forse una lettera dell’uomo che l’aveva abbandonata, o il suo ritorno, forse. Diventò più freddo, più riservato. Mancò a un appuntamento. Ella lo rimproverò assai, quando lo rivide. — Io vi disturbo, Clara — diss’egli, malinconicamente. — Che vi fa pensare ciò? — gli chiese ella, precipitosamente. — Sono stato sempre così superfluo, nella vostra vita. È sempre l’ultimo venuto, che mi ha scacciato. Almeno, confessatemi la verità. — Non ho nulla da confessarvi, Giovanni. — Ma voi siete agitata, molto, da qualche tempo. — Sì, è vero. — E non volete dirmi perchè? — No, non ve lo voglio dire. — Non me lo merito? — È inutile. — Non vi posso metter rimedio? — No — ed ella voltò la testa in là. — Nè consolazione? — Consolazione? Forse. — Ditemi come e lo farò. — Non qui, Giovanni. — Dove, dunque? — Nella mia casa — ella rispose, tendendo a sè stessa, e a lui, inconsciamente, il più terribile tranello. — Sapete che non ci verrò mai — egli, disse, sgomento, sentendo il pericolo. — Ebbene, io non vi narrerò le mie pene, Giovanni — diss’ella, tetramente. — Scrivetemi... — No. — Parlate qui, altrove... — Nella via, in teatro? No, no. — Io non posso venirci, lo sapete, in casa vostra — egli mormorò, già più debole, già affascinato. — Perchè? — Non mi obbligate a dirlo. — Ditelo. — È la casa dove avete amato un altro. — Che ve ne importa, se non mi amate più? — ella disse, levando le spalle, amaramente. — Ah io soffro sempre, Clara, anche non amando! — Quante volte, lo ripetete, che non amate, Giovanni! è troppo — e il suo tono fu così lamentoso che egli s’intenerì. — Verrò... forse... una sera... Ella sorrise, nel fondo dell’anima. III. Tre volte Giovanni Serra mancò alla sua promessa. Le diceva: verrò domani sera, alle nove. Clara lo aspettava in preda a una emozione nervosa, a cui la sua fantasia dava un carattere passionale. Ella dal pomeriggio dava ordine che nessun altro venisse introdotto e ripeteva le sue raccomandazioni, alla cameriera, con insistenza: quando l’ora si appressava, per frenare la sua torbida impazienza, ella si metteva a riordinare delle carte, prendeva un libro, forzandosi a intendere ciò che leggeva. Giovanni non veniva. Le fresche rose che ella aveva messe nei vaselli nitidi, rientrando a casa, parea che declinassero e languissero, quasi per morte; il fuoco si covriva di cenere, nel caminetto; ed ella, discesa dalle esaltazioni sentimentali, cadeva in uno snervamento profondo. Alla fine di queste serate d’inutile attesa, la parte più sincera di lei pensava che era meglio, lasciar finire, senza finirla, questa singolare avventura, che le cose morte non si vivificano e che anche per lei, Clara, così innamorata dell’amore, era troppo tardi per tentare un ultimo fatto del cuore. Ma l’istinto della vanità muliebre, mediocre istinto, ma che non isbaglia mai, tanto è finemente esercitato, le diceva che quegli appuntamenti mancati erano tante vittorie negative, è vero, ma vittorie, sul cuore di Giovanni: che chi non va, ha paura di andare; e chi ha paura di andare, ha sempre il cuore debole e facile a essere trascinato, in un impeto dell’altrui energia. Così, ella, nelle immense prostrazioni di una vivacissima speranza delusa, trovava novelle forze per ritentare l’anima di Giovanni. Egli balbettava, inventava delle scuse magre, per colorire la sua assenza: ma ella lo vedeva molto confuso. Dietro il pretesto di un impegno dimenticato, di un ostacolo improvviso, il freddo istinto della vanità intravedeva il combattimento del cuore di Giovanni; ed ella se ne compiaceva, dimenticando il suo nobile divisamento di amare Giovanni, senza domandargli il ricambio. Alla terza sera, ella lo aspettò dietro i cristalli del balcone; più nervosa, più triste, più esaltata che mai, ella finì per aprire il balcone, malgrado il freddo della serata. Ebbene, all’ora indicata, ella lo vide giungere frettolosamente, a capo basso, fermarsi due minuti sotto il portone, ed uscire di nuovo, lentamente allontanandosi. Non aveva avuto la forza di salire. Era un gran freddo nell’aria, quella sera: ma ella rientrò con le guancie brucianti. E l’indomani non gli fece nessun rimprovero. Sentiva che Giovanni aveva subìto una tortura segreta. Egli venne, al quarto appuntamento, quando ella non lo aspettava più, alle dieci e mezzo, invece che alle nove. Il suo orecchio fine udì il suono timido e debole del campanello, udì la voce bassa con cui egli domandava di lei, in anticamera, e il passo cheto con cui egli si avanzava, a traverso l’appartamento. Clara soffocava per il battito del suo cuore: e l’accoglienza che gli voleva fare, disinvolta e serena, come a un amico che venisse sempre, e le parole che gli voleva dire, tutto sparve, ed egli la trovò in mezzo alla stanza, aspettandolo con troppo palese ansietà e porgendogli una mano glaciale e tremante. Sedettero ambedue non accanto, ma dirimpetto: taciturni, imbarazzati. Clara non osava aprir bocca; intendeva che la sua voce l’avrebbe tradita. Egli guardava, come trasognato, i galloni rossi e azzurri che adornavano il vestito di lana bianca di Clara. — Mi volevate: — eccomi — egli disse, con un sospiro, chinando gli occhi. — Grazie — mormorò ella, semplicemente. — Chiederete voi che io faccia qualche altro sacrifizio, al vostro fascino? — Tanto vi è costato, questo? — Clara interrogò, ansiosamente, piegandosi verso lui. Egli si arretrò, quasi temendo la vicinanza di quel volto. Disse: — Mi è costato moltissimo. — Ma perchè? — e aveva un tono così ingenuo, chiedendo ciò, ella! — Proprio, non lo capite? — No. — Questa casa mi è odiosa. E un riflesso di tetraggine gli si diffuse sul volto. Clara si guardò intorno. — Non capisco — disse. — Siamo soli... — Siamo soli? — Dubitate di ciò? — ed ebbe, sulle belle labbra un riso forzato. — Io credo che vi sia possibile fare tutto — egli soggiunse, guardandola con quel misterioso terrore, come quando gli parea veder sorgere un mostro nella donna. — Tutto, che? — Non mi domandate troppe cose, Clara: io sono molto turbato. Parlate voi, piuttosto. — Sì — ella annuì, cercando di vincere, prima di tutto, sè stessa. — Lo vedete, siamo soli. Nessuno può venire e nessuno ha diritto di entrare. Qui vi è la vostra amica, che vi aspetta da tanto tempo, che è così felice di passare un’ora, con voi, in una stanza chiusa... Egli guardò le porte, con una lieve ombra di diffidenza e di paura negli occhi. — Anche a voi, fanno terrore le porte socchiuse? — ella soggiunse, infantilmente. E si levò, andò a chiudere le due porte, fra le tende. — Voi temete di vedere entrare qualcuno, sempre, è vero, Clara? — Sì, da bimba, l’ho sempre temuto. Se qualcuno saliva alle mie spalle, nelle scale, se qualcuno mi seguiva, in un appartamento, se una porta restava aperta, con un vano oscuro, io era assalita da uno sgomento folle, e, sentite, adesso — soggiunse, dandogli la mano — solo a parlarne, io tremo tutta... Egli trattenne quella mano fra le sue, ma mollemente. — Sono sempre così sola! — ella soggiunse, e gli occhi le si velarono di lacrime, mentre il volto, le si tramutava. Giovanni guardò quello scoloramento e quei begli occhi velati: impallidì leggermente. — Non sempre siete stata sola — mormorò, con un’intonazione ironica, ma non aspra. — Oh! — e Clara fece un gesto largo, per dire che tutto era finito. — Lo avete già dimenticato, Clara? — Intieramente — ella rispose, con un cenno tagliente. — Dimenticate presto, mi pare. — Sì, tutto quello che non merita di esser ricordato. — Ma che meritò di essere amato, però. — Oh chi non ha errato, nelle cose del cuore? Chi ha mai preso la via giusta, amando? — Nessuno, avete ragione — diss’egli, malinconicamente. — Io ho sbagliato sempre, io — e il bel volto ebbe un fremito di dolore. — Sempre? — Sempre. Mi hanno amata poco: o male: o niente. Sarà una bella burla, alla fine della mia vita per me, che porto la reputazione di avere ispirato delle passioni folli, l’accorgermi che nessuno mi ha amata, mai. E un doloroso, amarissimo ghigno le contrasse il viso. Clara era immensamente sincera, in quel momento. Aveva tenuto solo all’amore, nella vita e, probabilmente, non lo aveva, nè visto nè provato mai. — Quanto siete ingiusta, Clara! — Con chi? — Con me. — Ah già, è vero, voi pretendete di avermi adorata — -ella soggiunse eccitata, ma schiettissima, sempre. — Chi ne sa nulla! È una leggenda: tante leggende sono false. — Perchè dite questo? Perchè volete negare il passato? — Bella istoria, il passato! Ognuno se ne inventa uno, a propria convenienza, quando il passato è passato. Chi conosce la verità? Voi intanto, no: e io, neppure. Forse non mi avete amata mai; e tutta la leggenda non è che una cosa buffa — e rise clamorosamente, offendendolo anche col suo riso. — Clara, io non sarei qui, se non vi avessi amata — egli disse seriamente. — Vale a dire? — Che ci vuole una grande tenerezza, per dimenticare quello che mi avete fatto: e una grande tenerezza non viene che da un grande amore. — Bella rovina, illuminata a chiaro di luna — ella disse, non ridendo, tetramente. — Ognuno dà quello che può — Giovanni rispose, con una tristezza semplice. Clara tacque. Scherzava con un tagliacarte giapponese e se ne pungeva le dita. A un tratto, si rivolse tutta mutata: — Perdonatemi, Giovanni: ho avuto un accesso di cattiveria. — Tanto, per non cambiare — ed egli ebbe un pallido sorriso. — Sono cose che restano, a filoni, nell’anima. Ma l’anima è così cangiata! — Così? — e la tenerezza velava l’incredulità. — Tutta quanta. Non ve ne siete accorto? Vi sono sembrata la stessa, in questo tempo, la stessa di dieci anni, ditelo, in coscienza? — No, non mi siete sembrata la stessa. Ma non vedo la causa del vostro cangiamento e non so lo scopo. — Al solito, voi mi supponete qualche infernale progetto? No, Giovanni, disilludetevi. Nulla vi è di più complicato in me — e sorrise, con una mesta semplicità. — Nulla? — Nulla: a che? Per sedurre chi? Voi siete inseducibile. — Vi piacerebbe sedurmi? — Sì, moltissimo — ella esclamò, impetuosamente, con la verità sulle labbra e nel cuore. Giovanni fu scosso, da questo colpo diretto. — La cosa è già fatta — egli disse, piano, cercando una via obliqua, per ischermirsi. — La seduzione passata, Giovanni, non conta — soggiunse subito, la terribile e infelice donna, riportandolo al duello. — Era una pessima seduzione, fatta da una donna perfida e fallace, una seduzione fondata sull’inganno, che partiva dalla malvagità e arrivava alla perversità. Non quella, non quella! Mi sarebbe piaciuto sedurvi, mi piacerebbe sedurvi, con una seduzione nobile e alta, quella della schietta anima femminile, che si dà in tutta la sua naturale bontà, con una seduzione fondata sull’amore, profondo, umile, segreto e pure sgorgante da ogni atto e da ogni parola! Si era avvicinata a lui, chinata verso lui, parlandogli: e gli parlava con una voce tremante, roca, come egli non aveva mai inteso uscire da quelle labbra. Egli ebbe un atto di smarrimento: — Tacete, Clara, tacete! — No, amico mio, non mi fate tacere, non vi ho mai detto nulla, in questo tempo, e ora muoio, se non vi dico tutto... — Io non posso udirvi... — e cercava sciogliere le sue mani da quelle di lei che le tenevano, nell’affanno dell’emozione, strettissime. — Sì, sì, potete udirmi, giacchè io nulla debbo dirvi che vi turbi, che vi offenda! Giacchè io non voglio niente da voi, Giovanni, niente! Voi mi avete amata, è vero, nel passato e io sono sacrilega, quando lo nego, ma anche il sacrilegio è una forma della passione, anche il calpestare è una voluttà dell’amore! E ora voi non mi amate più e avete ragione; io sono stata crudele, io sono stata infame, con voi, vengono dei momenti in cui mi faccio orrore, ve lo giuro... Mentre parlava ella, così, singhiozzava e il suo petto si sollevava, nel singulto. Qualche rara lagrima le usciva dagli occhi e Clara l’asciugava rapidamente, col fazzoletto. Giovanni l’ascoltava, la guardava, stupefatto, incapace di difendersi più, e incapace di sottrarsi al pericolo estremo in cui si trovava. — Ma, sentite, Giovanni, sentite con pazienza, poichè queste cose mi soffocano, sino a morirne, e le debbo dire, giacchè sono le ultime parole di passione che mi usciranno dalla bocca, in questa vita. Sì, sì, le ultime, poichè io ho trovato in questa mia anima, così maltrattata, così ingiustamente maltrattata da chi non doveva mai farlo, ho trovato una sublime speranza, Giovanni, quella di poter essere un’altra donna, quella di poter amare con un infinito entusiasmo e una infinita devozione, quella di poter essere in una estrema tenerezza, una donna leale, pia, umile, vivente solo per voler bene, così, come una povera creatura ammalata e convalescente si innamora della vita, di nuovo! — Illusione, illusione — balbettò lui, tentando reagire contro quella esaltazione sentimentale, che gli si comunicava, fatalmente. — Voi non potrete mai far questo, Clara! — Io posso fare tutto quello che voglio, io lo farò — ella rispose energicamente, altieramente. — Ah ho ben visto, io, in questo tempo, nella mia anima, io vi ho letto come in un libro aperto, io so tutto, io so che una sola cosa può farmi rivivere ed è un affetto schietto e saldo, senza altri interessi morali che l’affetto istesso, senza altro desiderio che dare uno slancio di purezza a quest’anima, senz’altro ideale che la redenzione di uno spirito malato e corrotto. — Non vi riescirà, non vi riescirà — egli esclamò, in preda a tale un’agitazione e a una confusione, che gli pareva di non aver parlato lui, ma un altro. — Se questo non mi riesce, io sono perduta, Giovanni — ella soggiunse, cupamente, — Ma perchè, perduta? — Perduta, perduta! Questo è l’ultimo anello che mi lega alla vita: se si spezza, cessa la ragione della mia esistenza. Ebbene, io non posso perdermi, Giovanni, io non posso morire, io sono vecchia, perchè ho vissuto troppo, è vero, ma non ho che trentaquattro anni, e sono troppo pochi per rinunziare, per morire! Io non voglio rinunziare, io mi abbranco a questa speranza, essa mi deve aiutare a vivere, io voglio amare così, se no, sono perduta e niuno, niuno può desiderare la perdita e la morte di una creatura come me! — Ma chi, chi volete amare? — gridò lui, levandosi, volendo fuggire, ma non trovandone la forza. — Voi — esclamò ella, guardandolo con gli occhi sfolgoranti, con le labbra schiuse che mostravano i bianchi denti minuti, che egli aveva adorato. — Me? me? E perchè? — Perchè voi solo ne siete degno — diss’ella, aprendo le braccia, chinando il capo, con un atto di umiltà. — Clara, io sono uno sciocco, un malato, un infelice, io non merito questo — disse lui, turbatissimo, dando indietro, cercando fuggire. — Voi siete l’anima più buona e più nobile che io abbia mai incontrata — ella disse, con un accento profondo di amore, che finì di sconvolgere Giovanni. — Clara, voi avrete con me le maggiori delusioni. Io ho sofferto, io sono stanco, sono vecchio, oh quanto più di voi, così piena di vita, di vivacità! Clara, Clara, se sapeste quanto sono vecchio, e quanto sono stanco, non dareste al mio cuore questa tortura, questa nostalgia... L’ultima parola era così imprudente! Superbamente, realizzando il suo invincibile bisogno di espiazione, ebbra di sacrificio, folle di sacrificio, ella gridò: — Che importa? Fosse anche così, così mi piacete: fosse anche peggio, voglio amarvi così! — È un inutile amore, Clara — egli replicò, tristissimamente. — Perchè, inutile? L’amore non è mai inutile! — Inutile, lo vedrete, Clara: io non debbo ingannarvi. Io non vi amo. — Lo so: non importa — diss’ella, crollando orgogliosamente le spalle. — Ciò che è fuggito, non ritorna più. Io non posso amarvi di nuovo. — Non importa — replicò ancora lei, giunta al culmine della superbia e dell’umiltà sentimentale. — Clara, Clara, questo è un romanzo: io non ho le forze morali per seguirvi in questo romanzo. — Non importa: camminerò sola. Il mio cuore è saldo, quando l’amore lo regge. — Oh Clara mia, mia amica buona, voi v’illudete, voi non mi amate punto, voi siete in preda a un accesso di infinita bontà, voi v’ingannate, sul vostro cuore! — Io vi adoro — ella disse, semplicemente, sorridendo. — Non è vero. — Provate — ella soggiunse, subito, con una tal luce nello sguardo, con un tal sorriso di offerta sulle labbra, che il poveretto vacillò. — Sentite, Clara, io sono il più saggio, fra i due, e invece vi sembro il più scortese e il più crudele. Clara, restiamo amici, non tentiamo la Provvidenza, non prepariamoci un avvenire di amarissime delusioni. Guai, se vi credessi! — Mi crederete — e sorrise, fiduciosissima di sè e dell’amore. — Io non vi vedrò più! — gridò lui, sentendo sfuggirgli l’estremo suo lembo di coraggio. — Perchè, Giovanni? Non mi amate, è vero: ma non è una dolce consuetudine di vedermi, per voi? — Sì, sì, purtroppo... — Non mi amate, lo so: ma non sono io, la donna che più avete amata? Non sono io la donna con cui più avete desiderato di vivere, la sola con cui abbiate desiderato di vivere! — La sola, la sola! — Ebbene? perchè mi dovreste fuggire? Dite che siete stanco, ammalato, vecchio, e che non mi potete amare? Quale pericolo correte, dunque? Voi avete la gran sicurezza; che temete? — Nulla... infatti... ma dovrò fuggirvi. — No. Restiamo amici, voi volete così? Restiamoci. Solamente, solamente io non sarò amica, ma innamorata di voi. — Clara, sarebbe una condizione insopportabile! — Io sola, la debbo sopportare! Che fa, a voi? Vi amerò così quietamente, così segretamente, che quasi quasi non ve ne accorgerete neppure. Sarete buono con me, ecco tutto: mentre io fui così cattiva! — Voi, non siete fatta per questo orribile stato di animo, che è l’amore non corrisposto. Voi siete stata sempre una vittoriosa... — Lasciatemi provare la dolcezza di esser vinta — disse ella tenerissimamente. — Voi finirete per odiarmi, Clara, io lo so! — e fece un atto di disperazione. — Ma perchè combattete questa lotta inutile e inefficace, Giovanni, contro me, contro voi stesso? Perchè mi negate il permesso di volervi bene, quando ciò non vi costa nulla e quando ciò può anche piacervi? Perchè rinunziate, quando non vi si domanda altro che di lasciarvi amare, Giovanni? Che vi fa? Perchè dite di no, quando nessuno vi chiede di dir sì? Lasciatevi amare, lasciatevi amare, è una cosa tanto confortante, tanto consolante, credetelo! Egli non le rispose nulla. — Vedrete, amico mio, vedrete che questo mio amore, mentre sarà il segreto della mia esistenza, non turberà la vostra. Fidate in me. Io vi saprò amare così bene, che non ne avrete nè preoccupazione, nè noia. Verrete a vedermi, quando vorrete. Io non vi darò le mie ore: vi aspetterò, sempre. Sarò profondamente felice, quando vorrete darmi qualche ora del vostro tempo: e se non vi vedrò, ebbene, non uscirà un lamento dalla mia bocca. Vi scriverò. Mi permetterete di scrivervi, è vero? Le lettere sono uno sfogo così dolce a chi ama: e non turbano colui che non ama. Giovanni, Giovanni, lasciate che io vi ami, non mi togliete questo amore, se vi sono stata cara una volta. E pian piano, dalla sedia in cui era seduta dirimpetto, gli scivolò inginocchiata, innanzi, levando il volto trasfigurato verso Giovanni Serra. Egli la sollevò, nelle sue braccia, dicendole forte, violentemente come se volesse convincerne sè stesso, mentre la stringeva a sè: — Io non ti amo... non ti amo! — Ne sei certo? — ella chiese, misteriosamente, con la testa sul suo petto, col volto proteso a lui. — Non lo so — balbettò il poveretto, in un impulso di luminosa verità. E la baciò, sulle labbra. Tutta la virtù di quel cuore d’uomo, in quel bacio, cadde. IV. Infelicissimo amore! Immediatamente Giovanni Serra provò il confuso avvilimento della sua caduta e Clara la delusione della sua prepotenza sentimentale. Passata l’ebbrezza singolare e pur triste della grande serata, ella si trovò di fronte a Serra, nella condizione tormentosa e misera, di una donna che ama troppo, che vuole amar troppo e che, sovra tutto, pensa e dice di amar troppo, mentre non è riamata abbastanza. Infelicissimo amore! Giacchè nello speranzoso e baldanzoso animo di Clara, restituito ai consueti trionfi della sua beltà e della sua grazia, tolto dal fittizio ambiente di umiliazione morale, in cui ella si era collocata con amara voluttà di punizione, rimesso nella posizione solita ed orgogliosa di una donna che ha conquistato un uomo o che lo ha riconquistato, in questo animo in cui gli impeti della immaginazione erano il fondamento della passione e dove la vanità si nascondeva sotto le forme più semplici, in questo animo tramontò subito quel purissimo e inaccessibile ideale di un amore che volontariamente rinunzia alla corrispondenza, di un amore che volontariamente invoca di esser dolore e di essere espiazione. L’imperioso cuore che si voleva dare in un immenso sacrificio, privo di premio, ritirò subito la sua offerta, quando negli occhi smarriti di Giovanni Serra vide la follia dell’amore, quando egli si curvò a baciare quelle labbra col trasporto di un uomo che non ha mai finito di amare, che ricomincia ad amare, con la forza di dieci anni di ricordi, accumulata e repressa. Clara passò la notte seguente nella veglia deliziosa, e indescrivibilmente deliziosa di chi ha trovato, nell’amore, quello che cercava, il gran segreto che tutte le anime sentimentali e passionali cercano: un amore eguale al proprio, la corrispondenza perfetta e l’armonia sublime. La vita, infine, aveva dato, con dieci anni di ritardo, è vero, ma con più potenza di concentramento, alla donna innamorata dell’amore, ciò che ella non aveva mai provato, ciò che pochi uomini e poche donne provano sulla terra: un amore schietto e profondo, così sentito e così corrisposto. Immensa delusione: e infelicissimo amore! Poichè, quando ella rivide Giovanni e guardò nei suoi occhi, ella vi scorse un imbarazzo mortale, una tristezza mortale, come ne nascono nelle pure coscienze di coloro che caddero per una inesplicabile debolezza della volontà. Clara credeva, era certa di vedersi apparire innanzi un uomo felice, ringiovanito, ridato alla forza vincitrice degli ostacoli e ridato agli entusiasmi dell’età più bella: e invece, Giovanni aveva l’aspetto di un uomo che ha errato e che sente amaramente tutto il peso del suo errore. Clara era lieta e dolce, aveva rialzato i suoi capelli in un grosso nodo attraversato dagli spilloni di tartaruga, come dieci anni prima, aveva un vestito chiaro e gaio: e Giovanni la guardava, con certi occhi distratti e stupiti, dove, ogni tanto, si abbassava il velo di una malinconia intensa, dove, ogni tanto, passava la nuvola dello sgomento. — Come siete gioconda, questa sera! — le disse, come trasognato. — Perchè ti voglio tanto bene — ella gli rispose, dolcissimamente, prendendogli le mani. Egli si turbò sempre più. — Non parliamo di questo, Clara. — Perchè? Non mi credi? Non mi credi? Egli tacque. Non le credeva, infatti. Ella intese perfettamente questa sfiducia. — Che debbo fare, perchè tu creda? — Nulla, Clara: non fare nulla. Io sono uno sventurato. — E perchè? Non ti voglio bene, io, malgrado la tua incredulità? Non mi vuoi bene, tu? — Io! — gridò lui. — No, no, non ti amo! — E che mi hai detto ieri sera, allora? Hai mentito? Sei diventato bugiardo, ora? Non eri bugiardo, prima. Giovanni Serra non rispose. Era così pallido, così disfatto ed evitava tanto di guardarla! — Amore mio, amore mio — ella riprese, tenerissimamente, carezzandogli una mano — non tormentarti, te ne prego. Non ti dico nulla, non ti domando nulla: la mia voce e le mie parole ti agitano, lo vedo. Lascia ch’io stia vicino a te, così, in silenzio. Era, difatti, seduta accanto a lui, sul divano, e gli aveva passato un braccio sotto il braccio; aveva appoggiata lievemente la testa sulla sua spalla. Un lungo silenzio: ma ella, a occhi bassi, sentiva che il respiro di Giovanni diventava affannoso. Allora, pian piano, levò gli occhi, lo guardò, gli mormorò: — Mi vuoi bene? Una così grande espressione di dolore, negli occhi di quell’uomo! Ella tacque, ancora un poco, legata a lui, cheta, respirando appena: poi le parve che egli le sfiorasse con le labbra i capelli: — Mi vuoi bene, amore? — chiese, sorridendo nel fondo del cuore. Giovanni sospirò profondamente e rispose: — No. Attraversata da un impeto d’ira, ella si staccò bruscamente da lui, si levò, esclamando: — Sei cattivo e scortese. Una scena dolorosa avvenne fra loro, dove tutta la violenza e tutta la natural tenerezza del cuore di Clara — tenerezza repressa nel periodo d’isolamento in cui era stata — sgorgarono in parole precipitose, ardenti, innamorate e pure ingiurianti: e dove tutta la mitezza e tutto il profondo scetticismo di Giovanni si manifestarono, più dolci e più freddi, pieni delle grandi timidità di chi, avendo amato invano per tanto tempo, ha oramai una paura invincibile di amare. Due o tre volte, durante questa penosissima scena, ella lo offese in un modo crudele, poichè era avvezza a calpestare i cuori che adorava, per poi adorarli più profondamente, dopo; ed egli sentì l’offesa, con un amaro piacere, giacchè essa lo autorizzava non a reagire, ma ad andarsene, per non ritornare mai più. Questo, questo, era il suo intimo desiderio, innanzi a quella donna che lo affascinava e che lo terrorizzava coi tumulti strani della sua fantasia, con le singolarità di un temperamento fuggevole e pericoloso, con l’impensato di un’anima, nella quale la inconscienza assumeva degli aspetti terribili e dolcissimi. Nel momento in cui ella più gravemente lo ingiuriò, egli pensò che era giunta la salvazione per lui, se partiva. Ma quando ella lo vide arrivato alla soglia, quando intese che lo perdeva, così, miseramente, irrimediabilmente, lo chiamò con una voce così spezzata dal pianto, che egli si volse, venne a lei. Clara piangeva, Piangeva! Mai l’aveva vista piangere, Credeva che non potesse piangere, tanto il gran riso clamoroso, e il riso breve, e il sorriso, e il sogghigno le eran particolari. Clara piangeva, soffocando dai singhiozzi, con un lamento che le usciva dalle labbra, continuo. Il cuore di quell’uomo buono s’infranse, ed egli intese sul suo petto quel povero corpo femminile scosso dai singulti, ed essa intese da quella voce tremante e fievole la parola d’amore, strappata dall’essenza di quell’anima, dolorosamente. Tali furono, sempre, le amarissime vittorie di Clara; e procedendo oltre, il combattimento fu diversamente aspro, con forze maggiori o minori dall’una parte e dall’altra, ma concedenti sempre il più triste dei trionfi al soldato più energico e più ardente, più abituato alla guerra dell’amore, più multiplo nelle sue risorse di attacco e di difesa. Giacchè appena Giovanni Serra si allontanava da Clara, dalla sua casa, dal cerchio magico in cui ella lo rinserrava, rinasceva in lui il desiderio della fuga ultima, della liberazione. Quando ella non era presente ed egli non ne vedeva le grazie delicate, e la novissima incantatrice dolcezza, e tutta la seduzione muliebre potente, Clara gli appariva come l’aveva sempre considerata, da dieci anni: una donna attraente, perfida e fallace, a cui egli aveva gittato inutilmente il suo cuore e per la quale aveva perduto ogni fede in sè stesso e nella vita. La figura di una creatura quasi mostruosa, senza pietà femminile, senza alito di sentimento nell’anima, senza coscienza pel bene, come pel male, formatasi in dieci anni nel suo spirito, lo signoreggiava, di nuovo, con novello impulso di ribrezzo, di orrore. Mutata, forse? Forse. Ella era capace di tutto, anche di vestire l’aspetto della maggior tenerezza della maggiore nobiltà spirituale, e di essere, forse, tenera e nobile veramente, per un certo tempo per ordine della propria volontà, sino a che la natura sopita si risvegliasse, e l’onda della perfidia e della menzogna trasportasse via il bel sogno di bontà e di dolcezza. Mutata? E che, perciò? Anch’egli s’era mutato purtroppo, e dove la lava incandescente della passione aveva gorgogliato, schiumando, del fuoco, si stendeva il lapillo grigio e freddo delle devastazioni vulcaniche: dove aveva vissuto la fede nell’anima umana e nella sua purezza, vi era il gelo di un dubbio tranquillo e non più torturante: dove avevano balzato di gioia e di voluttà gli entusiasmi giovanili, vi era l’inazione e l’aridità. La lealtà, il rispetto, la bontà virile rimanevano intatte in quell’uomo che aveva avuto in dono, nella giovinezza, le qualità più nobili dello spirito: ma ciò che restava, non bastava all’amore. Una parte di quel cuore, era veramente finita. E tutta la sensibilità che ancor viveva in lui, fremeva di sgomento all’idea di essere stato ripreso da quel fascino; non si sentiva più la forza morale per quelle lotte e il risultato non gli sembrava più la sua grande ambizione. Così, di lontano, egli formava sempre il disegno di non vedere mai più Clara. Ella gli scriveva delle lettere lunghe e bizzarre, con un’incoerenza sentimentale che sarebbe stata molto interessante e molto seducente per un uomo più giovane e più vivace, meno provato dai dolori della vita, ma che gli produceva un senso di ripulsa, di maggior distacco: non rispondeva alle lettere. Ella gli mandava degli appuntamenti; Giovanni vi mancava, due o tre volte. Perchè, alla quarta volta, egli non resisteva più e vi andava, riluttante, pieno di tutte le incertezze? Egli non se lo spiegava: e nella sua timida immaginazione, il fascino di Clara assumeva un aspetto onnipossente; Giovanni aveva bisogno di credere a un potere ascoso, rarissimo, unico, per spiegare la mollezza della sua volontà. Perchè, tante volte, quando egli andava da lei, ben deciso, ben risoluto, a dichiararle che quell’amore così povero di gioie, così dubbio, così squilibrato non aveva ragione di essere e di durare, perchè Giovanni, innanzi al bel volto tranquillo e sorridente di Clara, a quelle mani che gli si tendevano affettuosamente, al suono di quella voce che ella rendeva così insinuante, per lui, perchè egli non diceva più niente, lasciandosi andare alla corrente di quel sentimento, illuso per un poco, credendo di essere amato, credendo di amare? Perchè, nelle loro grandi scene, scoppiate improvvisamente, egli aveva provato a proclamare la sua libertà, la sua indifferenza, sempre più duramente, meravigliandosi anzi talvolta della propria durezza, ed era riescito soltanto ad esasperare Clara; ma non aveva svincolato il proprio cuore? Perchè, mentre egli era dei due quello che meno pensava d’amare, che meno diceva d’amare, che non scriveva, che rinunziava ai convegni, perchè, poi, era lui quello che più cedeva, che più si dava, che più rientrava in servitù, con ritorni di affetto che costituivano le pochissime soavità di quell’amore? Perchè, una volta, quando stettero quindici giorni senza vedersi ed ella continuava a scrivergli, egli non ebbe la forza di non aprire, come aveva dichiarato, le sue lettere? E una sera, ella passava, sola, triste, pallida, per una via, rientrando nella sua casa deserta con aspetto di tale abbattimento ed infelicità, che Giovanni, vedendola innanzi a sè, non visto da lei, provò uno schianto indicibile. Ritornò a lei, subito, senza che lo avesse chiamato: e Clara stessa si stupì di questo ritorno inatteso, mentre il suo cuore si era immerso già nell’amarezza dell’abbandono. E ingenuamente, puerilmente, Giovanni non sapendo come spiegarsi la sua debolezza e la sua disfatta, pensava a qualche cosa d’insolitamente affascinante, e diceva, come un bimbo: — È una strega. Ma per colei che misteriosamente lo riconduceva a sè, ogni volta, questi trionfi erano un tossico. Fermentavano dentro il suo spirito indomito le ribellioni più profonde contro questo stato di lotta che avviliva l’idea ch’ella si era fatta di quell’amore e che la mortificava in tutte le sue vanità muliebri. Ella, infine, lo amava, è vero, come poteva e come sapeva, con un senso immensamente egoistico che aveva sempre dominato in quell’anima: lo amava, perchè le faceva piacere di amare, perchè il suo stato migliore era l’amore, perchè ella non sentiva la vita che quando era innamorata: l’amava perchè così aveva voluto ed ora la sua volontà era più forte di lei. Ciò che la sconvolgeva, era di non sentirsi amata abbastanza, mentre ella sapeva di dare a Giovanni il meglio che restava di lei: ciò che la esasperava, era questa battaglia quotidiana che ella sosteneva, per conservare, se non l’amore, la larva di amore che le portava quest’uomo: ciò che la faceva delirare di collera, segretamente, era di avere ancora sbagliato, anche in quest’ultima volta e di non potere in nessun modo metter rimedio al suo errore. Per il passato, coloro che l’avevano amata, erano stati tipi soliti, comuni, non più buoni e non più cattivi di qualunque altro uomo, in modo che il mondo psicologico di Clara non aveva avuto sviluppo che nelle ombre della sua anima, assai più grande e assai più complessa di quelle che ella aveva avuto ai suoi piedi. Ella aveva sofferto per loro, non già per le complicazioni sentimentali, ma perchè questi due o tre erano esseri limitati, non meschini, ma limitati, a cui ella aveva creato una luminosa e inesistente aureola. Aveva sofferto di non essere amata abbastanza, disprezzando coloro cui mancava la potenza spirituale, rimpiangendo sempre Giovanni, Giovanni, ch’ella aveva disdegnato e di cui si rammentava la violenza giovanile di passione: e lentamente, nella sua coscienza, si era formato il criterio che solo Giovanni l’avesse amata e che solo lui, così profondo, così intimo, così squisito, avrebbe potuto amarla come ella desiderava. Gli altri, erano, infine, poveri diavoli, ai quali ella aveva dato il manto di porpora della sua immaginazione e uno scettro d’oro, sotto cui ella medesima si era curvata; ma l’anima bella per sè, grande per sè, unica nella tenerezza come unica nella passione, era quella di Giovanni. Ella aveva creduto a una fatalità del destino quando, finendo la sua giovinezza, prima del tramonto, s’erano incontrati nuovamente ed egli le aveva parlato dell’amore passato. E in lei si erano dileguate le profonde stanchezze, mentre più vivo, più forte rinasceva il desiderio di amare eccezionalmente, di essere eccezionalmente amata. Ella si rammentava un Giovanni Serra tutto pieno di un ingenuo e vibrante ardor giovanile, che faceva dell’amore non un breve episodio, come tutti gli altri, ma il grande affare dei suoi giorni e delle sue notti, che dava all’amore un tesoro di intima mestizia e di gioie delicate, che portava l’immagine dell’amata come la sola visione degna della sua fantasia, e che ne pronunziava il nome con una emozione vivissima e candidamente mal repressa. Aveva creduto, quando egli le narrava i suoi dolori passati con sì grande senso di amarezza, che egli fosse sempre il medesimo: e che era giusto e umano l’amarlo; e che era una voluttà dolorosa l’amarlo senza conforto; e che, infine, infine, egli l’amasse ancora, malgrado i tentativi di fuga, malgrado i dinieghi, malgrado i terrori che gli si dipingevano sul volto, malgrado che egli restasse freddo e confuso, nelle ore più calde, in cui ella più si abbandonava a questa estrema passione. E dall’antico concetto e dal novissimo errore suo, ella traeva un veleno interno di delusione, un seguito di sconfitte inavvertite da lui, ma di cui ella provava il colpo nel fondo dell’anima, un ricadere continuamente sulle proprie speranze e un soffrire per tutte le parti, dall’amore all’amor proprio, dalla delicatezza all’orgoglio, dalla sensibilità femminile bonaria alla sensibilità femminile maligna. Come si torturava ella, per un ritardo di un’ora, per una parola detta con troppa disinvoltura, per un voi apparso improvvisamente nel più intimo discorso: e il suo umore si cangiava, per la sottile ferita ricevuta, ed egli, che non sapeva di aver ferito, si stupiva del cangiamento, e arretrandosi, pallido, come se avesse visto un fantasma, le diceva la tetra e monotona frase: — Voi siete sempre la stessa. Sì, Clara era sempre la stessa, con un carattere mobile e pure ostinato, con una energia breve e caduca, con un disprezzo intimo e cordiale di sè, con un egoismo a cui dava le forme nobili dell’amore, con un desiderio di vivere e di godere che non si saziava mai; e su tutto questo fondo stravagante, e spesso perfido, e spesso capace dei più alti sagrificii, il ricordo di una vita vissuta mediocremente, il ricordo di sciocchi errori e di delusioni meschine. Era sempre la stessa, lei, ma da tutti i pianti versati nella solitudine della sua casa, da tutte le angoscie soffocate sotto la sua maschera di donna mondana, da quell’abbandono in cui aveva passato un anno, le era venuta innanzi alla mente la grande verità, che tutti i calcoli dell’egoismo sono sempre sbagliati, e che bisogna vivere per gli altri, per poter essere felici. Non era fatta per questo, la sua natura capricciosa ed esaltata: ma la sua volontà le imponeva di assuefarsi alla più semplice verità umana, che è la felicità altrui: ed ella giungeva con uno sforzo supremo là dove altre creature arrivano naturalmente e la sua bontà calma, la sua dolcezza ragionata, la sua serenità esteriore avevano, forse, maggior merito, poichè ella affogava in esse tutto il clamore di un’anima ribelle. Soffriva profondamente, perchè non era amata abbastanza, perchè non era neppure certa di essere amata: dentro le vene ardeva il sangue per collere improvvise: cento volte ella sentiva la tentazione di scacciare Giovanni da sè, di non vederlo mai più. Ma il pensiero che egli, veramente, la credesse ancora una perfida femmina, capace del male per la voluttà del male, ma l’idea di desolare ancora Giovanni, con una catastrofe spirituale, tale che per sempre ne restasse violata la sua memoria, la rigettavano nell’amore e nel sacrificio. E più il suo spirito spasimava per la battaglia che sosteneva, più ella prodigava a Giovanni Serra i tesori della più squisita affezione. Egli, talvolta, ne restava avvilito. Ora, non le diceva più di non crederle; nè, d’altra parte, la fiducia nasceva in lui, bensì uno stupore malinconico. Quando ella gli dava qualche novella pruova, non chiesta, di amore, egli restava confuso e rammaricato: — Io non merito questo, Clara. Tu esageri sempre: e che sarà il nostro avvenire, così? — Io ti amerò sempre egualmente — diceva ella, esaltata. — Quante volte l’hai detta la parola sempre? — Ah tu sei crudele! — esclamava lei, abbassando il capo per nascondere il suo pallore. Sì, quell’onest’uomo, quell’uomo onesto e buono era spesso crudele, con lei. Non s’accorgeva di colpirla, così duramente: o non la credeva sensibile: o credeva che fosse necessario di colpirla, per guarirla da questo morbo spirituale che la teneva. Certi giorni, dopo un’assenza di una settimana, le appariva innanzi quietissimo, avendo l’aria di non vedere che ella era disfatta dall’attesa, non dando nessuna scusa alla sua mancanza. Un dialogo freddo si stabiliva fra loro due: le labbra di lei fremevano leggiermente, perchè reprimevano lo sdegno: egli non capiva ciò e dopo un’ora trascorsa, così, in uno strazio fine e pur terribile, egli si levava per andarsene: — Vieni domani? — ella diceva, a occhi bassi, pallida come uno spettro, — Non so. — Dopodomani, allora? — Non ti saprei dire: ho delle faccende noiose da sbrigare. — Ah! — diceva lei, senz’altro, sentendosi morire. — Ti scriverò, quando posso venire. — Va bene. E lentamente lo seguiva, mentre si avviava alla porta: gli porgeva una mano gelida ed immota. Talvolta, egli le chiedeva: — Che hai? — Nulla — ella rispondeva con voce così mutata che egli avrebbe dovuto capire. Ma, temendo una scena, egli se ne andava, senz’altro. Come ella correva nella sua stanza, gittandosi sul letto, mordendo i cuscini, ingiuriando la freddezza di Giovanni, imprecando alla propria viltà, esalando tutta l’ira della sua delusione, soffocando le grida del suo cuore che insorgeva contro un dolore così atroce! La crisi durava una notte intiera: ella si addormentava all’alba, con gli occhi rossi di lacrime, con il petto ancora esalante sospiri. Egli non sapeva nulla di ciò. Ella temeva che Giovanni la fuggisse per sempre, se diventava troppo insistente e troppo noiosa. L’altiera donna era giunta a credersi una seccatrice. Pure, qualche sera, quando più l’onesto e buon’uomo era stato crudele, ella sentiva cadere le forze della sua rassegnazione. Allora gli appariva infelice, così accasciata, così perduta in un abisso di delusioni, che l’oscuro mistero della sua tenerezza per Clara, si svelava. Una volta, egli era andato via. Appena fuori, sulle scale, egli intese, dietro la porta ancora chiusa, un tale scoppio di singhiozzi che tornò indietro, bussò e la trovò smarrita, incapace di affogare i suoi lamenti, incapace di dominarsi più. Qual notte! Egli le parlava ed ella, perduta in un oceano di amarezza, non gli rispondeva, mentre, come se fosse sola, si raccomandava alla Madonna ed ai santi, perchè la liberassero da quelle torture. Egli le prendeva le mani, ma ella le ritraeva, come inorridita, convulsa, per rivolgerle al cielo, per chiedere la pace, la pace, niente altro: egli cercava di abbracciarla, ma quel corpo fremente gli sfuggiva; essa passava da un divano all’altro, camminava al buio, per le altre stanze, parlando sola, gemendo, tutto il suo male, gemendo di dover amare così, gemendo di essere così poco amata. Notte fatale, invero: giacchè fu allora soltanto ch’egli capì tutta la gravità del loro caso: giacchè fu in quella scena di lacrime, di convulsioni, in cui ella pareva avesse dimenticata persino la sua presenza, che egli le parlò, per una volta, come dieci anni prima, come un innamorato, come un amante. Egli s’inginocchiò innanzi a lei e le chiese perdono della sua condotta, e la pregò che avesse pietà di lui; la scongiurò di credergli, quando le diceva che nessun essere le era devoto come il suo, e di compatirlo se egli non sapeva amarla, se egli non sapeva ritrovare in un’anima stanca, malata, vecchia, gli accenti e gli entusiasmi dell’amore; che per quanto egli poteva amare, l’amava; che era poco, sì, era poco, per una donna appassionata come lei; che ella meritava un miglior innamorato, un miglior amante; ma che lui non poteva amar meglio, ma che egli le aveva dato tutto, dieci anni prima, e che quella devastazione era opera sua. Mentre ella, sfinita, esausta, si passava ancora sugli occhi aridi il fazzoletto bagnato di lacrime, Giovanni, ai suoi piedi, le narrava ancora la sua miseria sentimentale presente, la sua morbosa sensibilità che aveva paura dell’amore, la sua impotenza spirituale, tutta la rovina irreparabile che gli impediva di esser per lei il perfetto innamorato, il perfetto amante. Alle sue ginocchia, in una evocazione straziante, di quello che era stato il suo passato d’amore e nello strazio della presente realtà, egli versò poche, cocenti lacrime, le più dolorose che avesse versate mai. Smorta, con gli occhi spalancati su lui, reggendosi la testa con le mani, ella che aveva gridato tutta la sua desolazione, udiva ora le parole di una ben diversa miseria, di un disfacimento umano assai più tragico del suo; e mentre l’alba faceva il cielo di un freddissimo biancoverdino, i due amanti si guardarono, presi da una pietà immensa, per sè stessi, e sentendo che nessuno dei due poteva consolare, giammai, giammai l’altro. Ella, folle oramai di sacrificio, fu dimentica di sè, e si rassegnò a una forma qualsiasi dell’amore, purchè Giovanni non l’abbandonasse. Rinunziava alla passione, chiudendo gli occhi: ella che adorava solo la passione! L’amasse Giovanni, come voleva, come poteva, quando voleva: purchè quel residuo di tenerezza fosse suo! Oramai ella diventava simile ai malati che, giorno per giorno, vanno rinunziando alle dolcezze che godono i sani e fanno un ragionamento malinconico a ogni rinunzia. Diceva, ella: — Tu, che non mi scrivi mai... E se egli annuiva, ella frenava il suo spasimo. Giovanni, un tempo, le aveva troppo scritto: adesso non ne aveva più la forza. Altre volte diceva: — Tu non vieni; è vero, domani sera? Ed era perchè soffriva troppo, a udirlo dire da lui che non sarebbe venuto. Parlando dell’amore, ella soggiungeva, con un debole sorriso: — Tu che mi vuoi bene così poco... E lo sogguardava, ansiosamente, per osservare anche l’espressione più fugace. Egli sorrideva, acconsentendo al fatto di amarla poco: Clara indietreggiava, disperata internamente della pruova. Qualche volta, bonariamente, ella gli tendeva un tranello: — Perchè mi ami così poco? Io ti voglio troppo bene. — Perchè non posso di più. — Non puoi, non puoi? Tenta. — Oh no! — esclamava, con un tono di stanchezza, di sfiducia, di paura. — Io ti amo troppo — ella diceva, affogando di dolore, ma non mostrandolo. — È ciò che mi trafigge. Io sono un indegno, Clara. — E se non ti amassi più? Giovanni impallidiva e taceva. Quel pallore, la rincorava. — Se non ti amassi più, di’? — Mi rassegnerei malinconicamente. Sono stato un grande sventurato, sempre. — Ti rassegneresti? — e fremeva, ella. — Mi rassegnerei. — Mi riesce impossibile di non amarti, Giovanni! — ella esclamava. — Se tu volessi, ti sarebbe facile. Credimi, non ti ho meritata prima: non ti merito adesso. Era destino! — Parliamo d’altro — diceva lei, brevemente, vinta. Ma si rinnovava ogni giorno, ogni sera, il duello, sopra una ben semplice frase così cara a tutti gli amanti. Quando ella era di umore più lieto, gli diceva: — Già, non ti domando se mi vuoi bene. Sarebbe inutile. — Sarebbe inutile — mormorava lui, sorridendo, cercando di scherzare. — Non mi ami affatto? — e la voce lievemente le tremava. — Affatto. Clara taceva, incapace di scherzare più. — Che hai? — chiedeva Giovanni. — Nulla. — Nulla? Ti ho rattristata? — Un poco. — Sono un infelice — diceva Giovanni, così schiettamente addolorato, che Clara non osava proseguire la discussione. Ma, talvolta, la domanda era diretta: — Mi vuoi bene? E se lui era tranquillo, senza fremiti nella sua sensibilità, le rispondeva: — Tu lo sai. — Non so nulla. Ripeti un poco, — Quante volte lo vuoi sentire, Clara! — Gli è che non lo dici mai, mai, mai! — A che serve? — Mi serve: mi serve immensamente. Te ne prego, Giovanni, Giovanni mio, mio amore, dimmi se mi vuoi bene! — Ti voglio bene — diceva lui, a occhi bassi, quasi per forza. — Quanto? — Quanto posso. — E poco, è vero, è poco? — Perchè mi ricordi che sono un poverello, in fatto di amore? Perchè mi rinfacci la mia miseria? Perchè mi rimproveri se non ho più lena, se non ho più una scintilla di entusiasmo? Clara, Clara, tu mi uccidi, così! — Perdonami — diceva lei, scivolandogli inginocchiata innanzi, con un moto che le era familiare. — Io non debbo vederti più — diceva lui, come se parlasse a sè stesso. Oppure, la frase cara agli amanti riappariva in altri modi tormentosi. Talvolta, dopo un lungo silenzio, vagamente, distrattamente, come per un moto delle labbra, ella chiedeva: — Mi vuoi bene? Giovanni non rispondeva. Immediatamente, ella diventava trepida e ansante: — Giovanni, mi vuoi bene? Allora egli usciva dalle sue riflessioni e vagamente, distrattamente, diceva: — No. — Giovanni? — Clara! — Hai detto che non mi ami? — L’ho detto. — Ed è vero? — È vero. Silenziosamente, ella curvava il capo, e le lacrime le discendevano sulle guancie. Giovanni la guardava, desolato: poi, le andava vicino, le carezzava una mano, le baciava le guancie bagnate di lacrime. — Ho scherzato — diceva. — Tu non ischerzi mai. — Ho scherzato. Tutto finiva, così: ma le lacrime erano state versate. E infine, sulla frase cara agli amanti, avveniva ancora questo: — Tu non mi chiedi mai, Giovanni, se ti voglio bene! — Perchè chiedertelo? — Non ti piace saperlo? — No, non mi piace. — Ti tormenta, il mio amore? — Sì, mi tormenta tanto. — Ma perchè, ma perchè? — Perchè mi hai amato troppo tardi — esclamava lui, per la centesima volta; — perchè io non sono più il giovanotto appassionato di dieci anni fa, ma un uomo arido e stanco, senza speranze e senza desiderii! È tardi, è tardi, Clara. — Mai tardi, per l’amore. — Siamo vecchi, Clara: il nostro sole tramonta. — Dio mi salvi dalla notte — ella mormorava, avvilita, senza più energia. Vi fu un giorno, però, in cui tutte le ombre malinconiche, e le incertezze, e i timori parvero dileguati. Era nella calda estate ed ella era andata ad Albano, sui colli, per fuggire l’aria soffocante di Roma. Colà, lo aspettava pazientemente, per giornate intiere, ma egli, pur promettendo di venire a trovarla, pur scrivendole, non veniva mai. Per tre o quattro volte ella era andata alla stazione, inutilmente. Una grandissima tristezza adesso opprimeva la donna superba; giacchè le pesava sulle spalle tutto l’irreparabile del suo errore sentimentale. Volontariamente ella si era ingolfata in questo amore; con ostinazione di passione ella ne aveva abbracciata la croce; la sua fantasia l’aveva spinta ai più duri sacrificii; e adesso erano impegnati il suo cuore e il suo onore. Stando sola, nella freschezza dei colli albani, ella approfondiva l’immensità del suo ultimo fallo e quel verde riposato tutt’intorno, e quella serenità la crucciavano. Infine, un giorno egli giunse, quasi inaspettato. Era così lieto! Le disse, subito che non era venuto, ma che aveva sofferto molto, a non venire: che l’aveva molto amata, nella sua assenza: e le domandò, se ella lo amasse ancora. Così lieto! Ella diventò lietissima. Andarono, insieme, sotto l’ombrellino di Clara, a una lunga passeggiata, a braccetto, a traverso i sentieri di campagna, fra i prati fioriti. Clara aveva un vestito di seta leggiera, di un bianco avorio: e un gran cappello di merletto avorio come una cuffia. Pareva molto più giovane e così delicata che egli la chiamò, ridendo: Madame la marquise. Ella era raggiante. Si sedettero sull’erba, all’ombra di un elce secolare, famoso in quelle campagne, e le loro anime furono così assolutamente e perfettamente armoniose, in quella solinga e serena campagna, che essi si guardavano e indovinavano l’un l’altro i pensieri. Si dispersero, due volte, per la via, ridendo, scherzando, baciandosi, dietro l’ombrello abbassato di Clara: e Madame la marquise arrossiva finemente di gioia, sotto l’ombra bianca del suo grande cappello. Non un motto del passato: non un pensiero del domani: non un velo di amarezza, mai. Egli aveva l’aria di un fanciullo; strappò dei fiori di campo, odorosissimi, ne fece un gran fascio, lo portarono all’albergo in trionfo. Là pranzarono soli, soli, in un angolo della stanza da pranzo, guardandosi negli occhi, sorridendosi, toccandosi le mani nel porgersi un bicchiere, un piatto, ebbri di una gioia di vivere che li faceva impallidire di piacere. Andarono sulla terrazza dell’albergo, soli sempre, tenendosi per mano, tacendo, dicendosi nello sguardo innamorato quelle cose profonde e intime, che l’amore pensa e non dice. Ogni tanto, ella chiedeva: — Mi vuoi bene? — Sì — rispondeva lui, semplicemente, senza reticenze. — Quanto? — Molto. — Io ti adoro — ella concludeva, arrossendo. Alla sera, ella lo ricondusse alla stazione, attaccata al suo braccio, innamoratissima di lui, mentre lui non sapeva staccare lo sguardo da quei cari occhi: si baciarono nella penombra della stazione, senza pensare a chi li guardava. Il treno si mosse, ella restava a guardare e lui si sporgeva dallo sportello, salutando. Ella gli scrisse, nei giorni successivi, otto o dieci lettere, folli: egli non rispose. Aveva giurato di ritornare: non ritornò. Ella ripartì per Roma, prima che la villeggiatura finisse. V. Vestita di bianco, con un leggiero scialletto di crespo bianco sulle spalle, Clara, in quelle ultime lunghe sere di estate, aspettava Giovanni al balcone. Prima, la solinga donna leggeva un poco, si aggirava come un fantasma per la casa deserta; poi, verso le nove, approssimandosi l’ora dell’arrivo, ella esciva sul balcone, interrogando le penombre di via del Babuino. Malgrado che l’afa di quella fine d’agosto togliesse la gente alle case soffocanti e la spingesse per le vie, in cerca di un fantastico fresco, via del Babuino era spopolata. È lontana dal centro: ed è via di forestieri, che la popolano solo nell’inverno. Pochissima gente l’attraversava; avanzandosi la sera, non più un viandante. Clara guardava l’alto della strada, verso piazza di Spagna, donde giungeva sempre Giovanni, quando giungeva: e appena una persona svoltava l’angolo, essa si piegava sui ferri, cercando distinguere l’alta figura e il passo un po’ lento, a lei così noti. L’ora serotina si svolgeva, calda, spesso attraversata da un molle soffio sciroccale; Giovanni non compariva. Affaticata dallo stare in piedi, ella si sedeva sovra uno sgabello di legno, che era fuori sul balcone; appoggiava la testa ai ferri, in atto di pazienza e di riposo; talvolta, un lieve sonno la coglieva; alle undici e mezzo, che ella sentiva suonare a Santa Maria del Popolo, si levava, rientrava, poichè Giovanni non sarebbe venuto più. Un brivido di freddo la coglieva, in casa: e si accostava alla sua scrivania, per scrivergli un biglietto, una lettera, lagnandosi che egli avesse ancora mancato alla promessa. Ma, sedutasi, si rialzava subito: a che lagnarsi? Su sette sere della settimana, egli mancava cinque: e la lasciava, così, in una interminabile aspettativa, fuori su quel balcone, in una solitudine e in una malinconia grande, sapendo benissimo che ella lo aspettava ogni sera e che era sola, solissima. Adesso, ella non si lagnava più, giacchè le scene la stancavano e la impaurivano, perduta di energia, precipitata e giacente nella inazione spirituale di chi ha troppo amato inutilmente: e non lamentandosi lei, egli non si scusava neppure e aveva l’aria di non rammentarsi che ella non esciva, non vedeva nessuno, per lui soltanto. Oramai, Clara non aveva più quelle crisi di violenza, in cui malediceva l’aridità del cuore di Giovanni e la viltà del proprio cuore che non sapeva infrangere un legame così fittizio e così torturante: ella era in preda a quelle sonnolenti rassegnazioni, che abbattono tutte le persone di carattere impetuoso, dopo un periodo di passione. Sul viso altiero di Clara, dove sempre aveva brillato il sorriso trionfale della donna padrona del proprio destino, ora sedeva l’espressione stanca e paziente della vittima. Quando Giovanni le riappariva innanzi, ella sorrideva tenuemente, gli si sedeva accanto, ma non troppo vicino, non gli faceva un rimprovero, gli parlava a voce bassa, senza ridere mai. Egli la guardava curiosamente: scrutava tutte le impressioni di quel volto mobile, di quegli occhi vivacissimi, e scorgendovi come disteso un velo d’inesorabile e quieta tristezza, crollava il capo, senza dire nulla. Egli stesso era profondamente triste. Forse, s’imponeva di non andare da Clara, più spesso. Forse, per una singolare contraddizione del suo spirito, quell’aspetto di vittima, quel silenzio, quella mancanza di sorriso, lo tormentavano più di una scena furiosa. Nel settembre, egli partì per Napoli, senz’avvertirla neanche; ella gli scrisse, tre o quattro volte, delle lettere pacate, ma senza rampogna; delle lettere dove tutto il fuoco dell’anima di Clara parea fosse stato smorzato dalle lacrime. Ritornò, Giovanni, dopo dieci giorni: ed ella non gli fece nessuna interrogazione, fredda e tenera, fredda e triste, fredda e oppressa da una fatica morale che le traluceva, torbidamente, dagli occhi. — Che hai? Che hai? — le chiese lui, quel giorno, con ansietà, andando volontariamente incontro a una spiegazione. — Sono stanca — ella disse, chinando gli occhi. — Di me? Ella esitò, un minuto. Disse: — No. — Finirai per odiarmi, io lo aveva preveduto — egli soggiunse, desolatamente. — E perchè, Giovanni? Tu non hai nessuna colpa. — E tu neanche, poveretta! — replicò lui, prendendole le mani. Ella si svincolò, dolcemente e freddamente. — Oh io, sì! — e un vero accento di convinzione, la dichiarava colpevole di quel malinconico ultimo peccato, pieno di tante delusioni. — La colpa è delle cose, è degli anni, è della fatalità — egli spiegò. — La fatalità è la scusa dei deboli e degli sciocchi — diss’ella brevemente. — Io ho voluto che questo fosse; la colpa è mia. — Poveretta, poveretta! — mormorò lui, con voce di pianto. — Mi sono ingannata, anche questa volta — ella replicò, con una freddezza di ghiaccio. L’accenno agli amori passati, il primo che ella facesse durante un anno e mezzo di relazione con lui, la comunanza del suo amore con gli altri, nella mente di Clara, gli fece una impressione pessima. — Io non ti ho ingannata — esclamò lui offeso, contristatissimo. — Chi sa! — ella disse. — Hai creduto di dirmi la verità: ma quando è che l’hai detta? — Mai, mai ti ho ingannata! — Eppure un giorno mi dicevi d’amarmi e un giorno lo negavi. Quando è che mentivi? — Mai, mai, Clara! — Vedi bene che tu stesso ignori la verità. Tu non sai niente! — So che soffro, ecco tutto. — Anche io, molto, Giovanni, molto. — Non più di me! — Più di te, più di te, in un modo diverso, con una intensità maggiore e diversa. Niuno ha mai espiato un peccato più immediatamente e più rigorosamente di me, credilo. — Povera Clara, io ti ho portato sfortuna! — e la più grande tenerezza vibrava in lui. Ma queste gelide consolazioni non arrivavano a riscaldare il cuore della donna. — La fortuna o la sfortuna è in noi — rispose ella, recisamente. — In me, in me! Sono un essere malaugurato e sventurato. — E perchè? Non hai amato? — Troppo presto e troppo male, Clara! — Non sei stato amato? — Troppo tardi, troppo tardi. — I tuoi ricordi saranno dolci, nella vecchiaia — ella soggiunse, con una glaciale tenerezza. — Io non giungerò alla vecchiaia degli anni, lo so. — Fortunato te! Fu l’unica parola profondamente disperata che le uscì di bocca, in quello strano duetto. Ma, adesso, i loro scarsi e rari colloqui diventavano penosi; vi aleggiava una tristezza infinita, i loro volti erano distratti e assorbiti, un soffio di gelo chiudeva la coppia amorosa. Amorosa? Niuna parola d’amore, più. Ella, a poco a poco, gli scriveva meno. Egli se ne lagnò: — Perchè mi scrivi così poco? — Ti affliggerei, scrivendoti. — Tu puoi dirmi tutto, lo sai. — Non ho da dirti nulla. Anche quando si vedevano, la conversazione si rallentava fra loro. Prima, Clara si interessava a tutta l’esistenza di Giovanni lasciandosi narrare le sue noie e le sue soddisfazioni: adesso, ella non lo interrogava più. Se egli voleva dirle qualche cosa, lo ascoltava, ma con gli occhi velati, quasi non intendendo. — La tua anima è lontana, Clara — le disse, una sera. — Non è che malata, tanto malata — ella si lamentò. — Non speri di guarire? — Sperare di guarire? Questa guarigione è anche la morte. — La morte è di tutte le anime che hanno amato. — È vero — ella concluse, a capo basso. Adesso, ogni tanto, guardandola, mentre essa lo guardava, gli pareva di vedere delle lacrime negli occhi. Ma esse si dileguavano. Talvolta, ella si alzava dal suo posto, andava verso un balcone, andava nell’altra stanza: egli indovinava che Clara rasciugava queste poche lacrime: l’avanzo dei grandi pianti antichi, — Perchè ti viene da piangere, guardandomi? — le domandò, infine, turbato assai di ciò, intravvedendolo. — Io? No, non piango. — Perchè me lo nascondi? Non sono il tuo migliore amico? — Amico? Io non ho amici. — Il tuo amante, allora? — ribattè lui, dopo una esitazione. — Io non ho amanti, Giovanni. — L’uomo che ti ama? — Nessuno mi ama. Profondo silenzio. Le lagrime erano inaridite negli occhi di Clara: ma egli vi ritornò sopra amaramente: — Non vuoi dirmi, perchè mi guardi e i tuoi occhi si orlano di lacrime? Ciò è così triste! Mi pare che tu pianga un morto. — Sono tanti i modi di morire. Così, in questo ambiente di gelido dolore, di amarezze quiete e infinite, di grandi veli bigi e fitti che li avvolgevano in una nuvola di orrenda e intima malinconia, evitavano di vedersi in casa, dove soffrivano anche più. Non si davano convegno, ma si incontravano randagi pallidi, vagabondi delle vie remote di Roma, camminando accanto senza parlarsi, o scambiando qualche motto insignificante. Una volta andarono al Colosseo; era un chiarore plenilunare bianchissimo, con un freddo vivido d’ottobre; ella era tutt’avvolta in un mantello col cappuccio. Si sedette, Clara, sovra uno scalino dell’anfiteatro; Giovanni, si sedette più giù, vicino a lei, toccandole le ginocchia con la testa. Il grandioso circo era tutto molle e candido, sotto il raggio lunare. Ella fece un atto, e la sua mano si posò, lievissima, sulla testa di Giovanni. Tacevano: la mano restava lì, lieve, fredda, immota. Egli si volse un poco, prese la mano e la baciò sulle dita, appena appena, con una carezza casta, fugace; la mano ricadde lungo la persona. Si guardarono negli occhi, in quella solitudine, in quella notte chiara, e quello sguardo infinitamente e rassegnatamente desolato fu inteso, da ambedue, per quel che era, per quel che diceva. L’indomani, nelle ore tarde pomeridiane, si videro al Pincio, dove ella gli aveva dato convegno. Ella era vestita di un abito di seta grigia e aveva una giacchetta di velluto nero; sul cappellino di velluto nero era una fine veletta nera. Egli pensò, vedendola, a quella sera di Armida, oramai lontana, nelle sensazioni e nelle memorie. Ma si forzò a scacciare ogni debolezza, tanto temeva di sè. Clara camminò un poco accanto a lui: poi guardando gli alberi di villa Borghese, dalla terrazza, gli disse la gran frase: — Dunque, si finisce? Ah egli si era creduto più forte! Si sentì vacillare, non potè rispondere. Che avveniva, dunque, in lui, di contradittorio, di bizzarro, che questa soluzione tanto da lui invocata, ora gli faceva orrore? — Non mi rispondi, Giovanni? — ed ella alzava, ogni tanto, il manicotto sino alla bocca, come a reprimere un singhiozzo, un grido. — Tu non hai pietà di me, Clara? — Tu pensi troppo alle tue miserie, e non a quelle altrui; io non ti chieggo pietà. — Tu sei forte. — Ero forte. — Tu sei forte. — La mia unica forza mi ha abbandonata — ella soggiunse, sempre guardando altrove. — Quale era? — L’amore. È finita, Giovanni — ed ebbe un cenno largo, definitivo, verso la campagna. — Non ci vedremo più, dunque? — -egli chiese, debolissimo, tremante, come un fanciullo disperato. — A che servirebbe? A maggiori dolori? — Come amici... qualche volta? — Io non ti sono amica, Giovanni: ti ho troppo amato per esserti amica. — Io sono il più sventurato fra gli uomini — egli gridò, gittandosi sovra un banco, non reggendo più. Ella gli sedette accanto: aveva gli occhi bassi, dietro la veletta. — Giovanni, sii buono, non diminuire il mio coraggio. Vedi... per giungere a questo, la mia anima ha dovuto fare un così lungo viaggio! Ho detto io, la parola estrema: io! Che ho innanzi, io? Sai che esistenza di solitudine, d’inutili e tardi rimpianti, di pentimenti postumi, di lacrime senza conforto? Sai che lungo e deserto viaggio io intraprendo, sino alla morte, sola? — Il più sventurato fra gli uomini! — gemeva lui, con la faccia fra le mani, come un fanciullo abbandonato. — Eppure... io, io stessa rinunzio. Tutto è stato inutile, fra noi: il tuo amore, prima; il mio amore, dopo. — Almeno, almeno, non mi avessi amato! — esclamò lui, in un ingenuo scoppio di dolore. — Ti ho amato, invece, molto, alla mia maniera, che è certo imperfetta, poichè tutti siamo degli esseri imperfetti. Ti ho amato... così teneramente, così passionalmente... ma era tardi, era tardi, era tardi! — Ma io ti voglio bene, Clara! — egli balbettò, smarrito, vedendo che ella era per levarsi, per andarsene. — Ne sei certo? — gli chiese ella, duramente, come nella prima sera del loro amore. — Ne sei certo? — Non lo so — rispose lui, annientato, ricadendo sul banco. — Addio, Giovanni! — ella disse, innanzi a lui, pallida come una morta. — Non te ne andare, non mi lasciare! — e tese le mani per rattenerla. Ella si trattenne in piedi, innanzi a lui. Si vedeva che non aveva la forza di fare un passo. Guardandola disperatamente negli occhi, tenendole una mano, egli la supplicava ancora, confusamente, di non lasciarlo, così, in quell’ombra; ed ella non rispondeva, levando il volto, mordendosi le labbra. — Giovanni, perchè vuoi che io resti? Che ci porterà di nuovo questa sera, o il domani? Non saremo sempre gli stessi? Che si muta, per un discorso o per un giorno? Avevamo strade diverse e ci siamo voluti amare: questo amore è stato il tuo cruccio, allora; è stato il mio cruccio, adesso. Riprendiamo la via, più stanchi e più delusi di prima: Dio benedica la tua strada! — Non te ne andare, non te ne andare! — Addio, Giovanni — e gli toccò la mano, con la mano guantata, allontanandosi subito. Per l’uomo che singhiozzava, lassù, sul banco del giardino solitario, come per la donna che discendeva alla città, senza vedere il sentiero, poichè le lacrime l’acciecavano, il sole era tramontato. Intorno ad essi era la grande, lunga, infinita notte dell’anima. L’AMANTE SCIOCCA A Luigi Gualdo I. Paolo Spada aspettava la sua nuova innamorata, con una vivace curiosità mescolata a una certa tenerezza piena d’indulgenza e a movimenti improvvisi e insoliti di buon umore. Egli aveva realizzato, finalmente, dopo alcuni anni vissuti fra i tormentosi piaceri di amori inconsciamente complicati, dopo aver adorato delle bizzarre e inquietanti creature che eran tali, naturalmente, o che si affrettavano a diventare bizzarre e inquietanti al suo contatto, dopo essere stato adorato nelle forme più turbolenti, più folli e più tetre dalle medesime creature, finalmente, egli aveva realizzato un suo antico desiderio: desiderio fluttuante sempre in quell’anima, ora sommersa in fondo al naufragio di qualche stravagante passione, ora galleggiante sul mare cheto che segue le tempeste, il desiderio, cioè, di amare una donna semplice e di esserne amato. Anzi, nei suoi momenti di accasciamento passionale, quando il più perfido ingranaggio psicologico e le mistificazioni dei sensi avevano esaltato i suoi nervi e il suo cuore, quando più egli aveva provato le stanchezze supreme e le nausee profonde di qualche amore complesso, impreciso ed enigmatico, egli non diceva di desiderare una donna semplice, diceva: una donna stupida. Era tale la sua ribellione a nuove avventure d’amore dove il cuore e la persona avessero dei misteri da rivelare, delle ombre da indagare, che egli arrivava alla volgarità di certi uomini comuni, i quali vantano, per aver inteso vantare ad altri, l’amore umile delle donne che non conoscono l’ortografia. Paolo Spada, l’artista squisito, narratore di storie sentimentali e crudeli, cesellatore, di versi ora sonori, ora dolenti, sempre alti, sempre nobilissimi, rassomigliava, in queste sue rivolte, a un qualunque farmacista di provincia, che dica il suo avviso sull’amore e sulle donne, a tre o quattro amici, al lume azzurro di un boccale illuminato. E, certo, egli l’aveva cercata, spesso, questa donna semplice, anzi questa donna stupida, per ripetere il suo sincero e brutale aggettivo: e due o tre volte egli aveva creduto di trovarla e aveva avuto dei sussulti di gioia, un senso generale di pace nel suo spirito, come un addormentamento di tutti i sottili dolori che stridevano sui suoi nervi. Era stato deluso, sempre: giacchè nella semplicità apparente e ingannatrice di queste donne, egli aveva presto ritrovato quei segreti moti, quelle illogiche azioni, quelle incoerenze talvolta leggiadre, talvolta repulsive, che danno all’uomo innamorato l’acuto e torturante segnale di non so quale mistero racchiuso in un carattere, in un temperamento muliebre. Fresco e lieto, egli si era abbandonato alla dolcezza di trovarsi con una creatura limpida, cristallina: invece, quasi per una ironia, troppe volte ripetuta, perchè non paresse fatta apposta, egli si trovava innanzi a un’enigma fisiologico e psicologico. In fondo, alcune di queste donne erano forse semplici, o meno complicate: ma appena elevatesi all’onore di essere amate da Paolo Spada e di amare Paolo Spada, subito vi era in loro, come per magica influenza, un annodarsi di pensieri, d’idee, di sentimenti, un ravvolgersi di circostanze e di fatti, un concentrarsi di veli e di ombre, per cui pareva che cangiassero di natura. Freddamente furibondo per l’inganno, Paolo Spada rodeva il freno di un giogo spirituale e sensuale, che lo opprimeva con una monotonia scorante. Quando veniva la liberazione, quando, cioè, l’amore finiva, egli giurava di essere più cauto, più sagace in un’altra prova. Così, a furia di sagacia, di cautela, di gelida pazienza, egli aveva ritrovata in Adele Cima la donna semplice, a cui il suo cuore stanco e disfatto anelava. Oh egli l’aveva sottoposta a una quantità di prove, la giovane donna, dai belli e lunghi capelli castani che si ammassavano sulla testina, dai grandi occhi lionati che guardavano con tanta tranquillità e tanto candore, e avevano il fascino della tranquillità e del candore, dalle fini sopracciglia nere e dalla fronte un po’ breve; e nelle prove, molto lunghe, convincenti, esaurienti, era risultato che Adele Cima era una donna assolutamente semplice e anche stupida, un pochino, non molto. La sua beltà mancava di finezza, la sua persona non aveva nè flessuosità nè opulenze, i suoi vestiti non erano elegantissimi: e, sovra tutto, ella non sapeva nulla di ciò, era giustamente persuasa di essere una donnina piacevole, era convinta di vestire come si conveniva, decentemente, era contenta di sè senza alterigia, e non aveva occhi per vedere nè il peggio, nè il meglio di quello che essa rappresentava. A Paolo Spada ella era piaciuta subito, per la sua freschezza, per non so che di nuovo e di fragrante, che era in lei, per questi indizii fisici di semplicità e anche di una certa stupidaggine, gentile, non soverchia, non urtante; quando ebbe fatti tutti gli assaggi per conoscerne l’anima, egli si abbandonò subito ad amare questa piccola Adele Cima. In quanto a lei, lo aveva amato immediatamente. Paolo Spada aveva fatto su lei un effetto folgorante. Il suo imbarazzo, la sua confusione, innanzi a lui, avevano qualche cosa di commovente. Le avevan detto che Paolo Spada era un illustre artista, che era un uomo celebre: ma ella non aveva letto di lui neppure una riga, e si era innamorata di lui, così, in un minuto secondo, senza rimedio. Ella si vergognava molto di questo subitaneo amore e non se lo sapeva spiegare. — Io vi amo molto: ma non so il perchè — ella gli diceva, guardandolo coi suoi buoni occhi, che ingenuamente indagavano. — Cercate bene — rispondeva lui, sorridendo teneramente. — È inutile: non so perchè vi voglio bene. Lo sapete voi, forse, che conoscete tutte le cose? — Io? Neppure per sogno. — Allora non vi è, questo perchè — soggiungeva lei, subito convinta. Pure, malgrado questo fulminante amore, Adele Cima era ancora la sua innamorata e non ancora la sua amante. Ella si rifiutava, debolmente, con argomenti vaghi, già quasi sedotta e trattenuta da uno sgomento che, ogni tanto, appariva nei suoi grandi occhi spalancati. — Vi faccio paura? — le diceva Paolo Spada, un po’ scherzando, un po’ rattristandosi, — Sì — rispondeva Adele. — E perchè? — Perchè siete una persona così diversa da me — ella diceva, con una umiltà sincera. — Non importa, non importa — era la parola indulgente e carezzosa del seduttore. Ella aveva finito per promettere di andare da lui, in quel giorno, alle due; e Paolo Spada, in un rinnovellamento pacifico di tutte le sue forze morali, in un rigoglio di tutte le sue energie fisiche, aveva inteso una viva gioia dilatarsi in lui. Nessun dubbio lo tormentava, come in tutti gli altri primi convegni, in cui mille volte aveva temuto che l’amata non giungesse — e gli era bene accaduto, di aspettare invano! — che un capriccio, un caso la trattenessero: egli era certo che Adele Cima sarebbe venuta al convegno. Era troppo semplice per mancare. — Ed ella verrà anche a tempo, alle due, non prima e non dopo: forse, si tratterrà per via; per non giungere troppo presto — egli pensò, leggendo a distanza nell’anima della sua dilettissima stupida, come già la chiamava. In onore della semplicità di Adele Cima, egli non fece nessun preparativo nella sua casetta di via San Sebastianello, che guardava piazza di Spagna e le prime vette degli alberi del Pincio: altre volte egli bruciava dei profumi, egli comperava dei gigli, delle orchidee per piacere alle sue raffinate amanti. Un fascio di rose in un vaso di cristallo gli parve che bastasse. Del resto, le sue stanze che formavano il suo quartierino da scapolo, da amante e da scrittore, avevano in sè tale accumulamento di bizzarrie, nei mobili, nelle stoffe, nella disposizione, in ogni oggetto, che egli guardava tutto ciò, con occhio compiaciuto, pensando allo stupore della cara piccola donna sorridendo, da prima, all’effetto che avrebbe prodotto su lei ogni cosa, dai tappeti di Smirne, a un idolo di bronzo e avorio panciuto, orribile; dal letto che era dissimulato sotto una grande stoffa di chiesa, ai ritratti delle donne amate che guardavano dalle loro cornici di argento inglese e di cuoio impresso. E una crescente tenerezza lo invadeva, all’idea di quella buona giovane creatura, così attraente e così nuova per lui, che veniva col suo passo quieto e misurato a dargli dell’amore senza enigmi, senza misteri, senza noie e senza scene. Egli si decideva ad amarla molto e bene, questa povera Adele Cima, senza mai darle un dispiacere, senza mai farle intendere da quali altezze di pensiero e di sentimento egli discendesse, per raggiungere l’umiltà di quell’amore, senza mai comunicarle la febbre che lo ardeva, nelle sue ore di lavoro e di doloroso lavoro. Voleva amarla moltissimo e bene, giacchè egli sentiva quale grande refrigerio alle sue vene ardenti sarebbe venuto dalla freschezza di quell’amore, quale equilibrio sereno avrebbe messo nei suoi nervi quella mitezza d’anima muliebre, quale pace forte e vivificante avrebbe data al suo mobile e inquieto pensiero, la lentezza, la semplicità, la piccolezza del pensiero di Adele Cima. Sì, quella stupida gli sarebbe stata infinitamente cara, giacchè sarebbe stata infinitamente utile al morbo del suo spirito! Ella venne alle due, precise. Paolo Spada che aveva gli occhi sull’orologio, come giuocando con sè stesso, sorrise, udendo suonare alla porta. Andò ad aprire egli stesso. Adele Cima gli apparve innanzi e gli sorrise, così innamoratamente, che l’uomo sentì vincersi da una emozione. Invece di baciarla sulle labbra, molto finemente, egli si inchinò e le baciò la mano. La trattava come una duchessa: egli si accorse subito che ella era meravigliata e confusa di ciò, cominciando a non capir nulla, da quel primo bacio. Poi, Adele Cima si distrasse immediatamente: egli l’aveva condotta a sedere sopra un divano, dove era gittato uno scialle turco, e le toglieva lentamente un guanto, scherzando con le dita: essa stringeva ogni tanto la mano di lui, mentre si guardava intorno, incantata. Mai, aveva visto nulla di simile: e tutto le sembrava strano e incomprensibile, producendole esattamente l’impressione che egli aveva preveduta. In sè, egli sorrise di aver perfettamente indovinato quell’effetto. Adele Cima era come egli la vedeva, la intendeva, la supponeva, di una facilità d’interpretazione tale, come se egli rileggesse un libro imparato a memoria nell’infanzia e tutti i brani gli si ricostruissero nella mente. — Vi piace, qui? — le domandò lui. -... Sì — ella rispose, dopo un minuto di esitazione. È sempre così oscura, la casa? — Sempre. Io odio la luce, in città. — Ah! — ella disse, senza chiedere altro. — E ci state solo, qui? — Ho un servo: l’ho mandato via. — Non vi annoiate, solo! — No, mai. Salvo quando vi aspetto. — Io sono venuta puntualmente — ella soggiunse, subito, volendosi difendere. — Sì, sì, cara — e le baciò le due mani. Paolo Spada era innamorato molto, in quell’ora, e la piccola donna vestita di un bigio comune, di un vestito che egli le conosceva già, gli piaceva moltissimo: ella era in casa sua: lo amava, ella, perchè era venuta a lui, senza maggiori indugi, senza pretese, senza domande di fedeltà, senza patti: lo amava, tutto lo diceva in lei: eppure egli indugiava a chiederle di esser sua, così, per prolungare quei minuti, così tranquilli, sicuro oramai di lei, come della luce del sole. Adele Cima guardò le rose. Egli si alzò, e gliene dette due, le più belle. Essa non le odorò, non le mise alla cintura, le tenne mollemente fra le dita, quasi senza guardarle. — Non amate le rose? — le chiese Paolo Spada. -... Sì. — Forse amate qualche altro fiore, specialmente? — No, nessun fiore, specialmente. — Io ho amato molto il giglio, una volta, poi le violette di Parma, poi le orchidee... — Che sono, le orchidee... — Certi fiori molto rari, molto strani... — Non li conosco — mormorò ella, distratta. Pure, un lieve pallore l’aveva scolorita. Egli non se ne accorse. Ora, ella si era levata e avvicinatasi a un tavolino, ne aveva preso un ritratto di donna. — Chi è questa signora? — Quale? Ah!... una russa. — Una straniera? Siete stato in Russia, voi? — Sì, una volta. — È lontano, è vero? — Lontano: vi fa molto freddo. — Perchè vi andaste allora? — Mah!... per seguire questa signora... — Voi l’amavate? — Sì. Un silenzio si fece. Adele Cima si morsicò il labbro inferiore: poi domandò: — Come si chiamava? — Questa russa? Natalia. — Che bel nome! — Vi pare? — Il mio è così brutto, non è vero? — disse ella venendo a lui, con una espressione di malinconia che lo turbò. — Adele? Ma Adele vale mille volte più di Natalia — egli esclamò, volendo consolarla subito. — Eh, no! — diss’ella, tristemente — è un brutto nome. — A me piace immensamente, cara. — Perchè mi volete bene. — Forse per questo. — Ma è un brutto nome, non dice nulla. Si allontanò nuovamente da lui, andò a guardare gli altri ritratti; egli la seguiva, tenendole una mano, lusingato e intenerito da quella semplicità, da quella ingenuità. Ella prese un altro ritratto e glielo porse: — Era bionda, questa? — Sì, bionda. — Vi piacciono le bionde? — Mi piace la donna che amo. — Più le bionde o più le brune? — Quella che amo, quella che amo! — replicò lui, lietamente, felice di essere amato così e di amare così, — Il castagno è uno sciocco colore di capelli — ella dichiarò a occhi bassi, come mortificata da questa inferiorità sua. — Ma no. — Me lo hanno detto, lo so. Avrei voluto esser bionda, io. — I vostri capelli sono belli. — Ma biondi, sarebbero stati bellissimi — replicò lei, ostinatamente. Egli le voltò, con un gentile atto, la testa verso lui e la baciò sui capelli. Ella sorrise, innamoratissimamente: e subito dopo, gli chiese: — Tutte queste signore sono state vostre amanti? — Quasi tutte. — Sono molte — ella disse, abbassando gli occhi. — Io non sono più un giovanotto. — Avete avuto molte amanti; tutti gli uomini ne hanno tante? — Sapete... nella nostra professione... le occasioni sono più facili... — Già... è vero, voi siete uno scrittore. Siete anche un poeta? — Sì, cara — disse lui, sorridendo. — Scrittori e poeti pare che abbiano molte amanti — e gli occhi grandi e belli le si velarono di lacrime. A quello schietto dolore, egli non resse. Le prese le mani, l’abbracciò, cercò di consolarla con una quantità di parole vaghe, come si dicono ai bimbi per farli finire di piangere, per farli addormentare; ella ascoltava, già subito confortata, guardandolo negli occhi, credendogli come il bimbo crede alla mamma. Egli le soggiunse che tutti quelli erano stati amori effimeri, che ella sola era l’amata, la vera, l’unica: e una immensa fede in queste proteste di amore si leggeva nel volto di Adele Cima. Pian piano egli l’aveva condotta di là, nella sua stanza. Sovra una scansietta di legno scolpito, sostenuta da una gran mano di bronzo, erano, in legature fini di pergamena, tutti i volumi di prose e di poesie di Paolo Spada. L’innamorata ne prese uno e l’aprì: — Che bella carta... — disse, passandovi sovra, lievemente, le dita. — Voi avete scritto tutto questo? — Sì, cara. — È un romanzo? — Sì, anima mia. — Deve essere bello. Io ho letto pochissimi romanzi — ella concluse, posando il libro. Guardò nuovamente i volumi nello scaffale: — Ci mettete molto tempo per scriverne uno, di libro? — Per lo più, molto tempo. — Ah! — ella disse, chinando nuovamente gli occhi. — E siete solo quando scrivete? — Solissimo. Qualunque rumore mi turba. La presenza di una persona, anche silenziosa, non mi fa scrivere. — Sì? — ella disse, con un accento fra sorpreso e sgomento. — E perchè questo? — Così — egli rispose, un po’ brevemente, non volendo darle altre spiegazioni. Ella ebbe il contraccolpo di quella piccola durezza. Si sollevò verso lui, lo guardò, gli chiese: — Mi volete bene? — Sì, tanto, cara. — Vi ho seccato con quella domanda sciocca? — No, no, non potete seccarmi. — Io stessa sono una sciocca, compatitemi. — Io vi voglio bene, non posso compatirvi. — Mi volete bene, malgrado la mia stupidità? — domandò, fra il riso e il pianto. — Malgrado la vostra stupidità, vi adoro — disse lui, lietamente e crudelmente. — Ah! grazie. Come l’ora cadeva, continuando a guardarsi intorno con stupore e con paurosa ammirazione, Adele Cima diventò l’amante di Paolo Spada; e fu senza lacrime e senza spasimi, senza proteste e senza giuramenti. Egli si sentì felicissimo, come mai. In quelle ore d’amore egli non si tormentò a sorvegliarsi e a sorvegliare l’anima dell’amata: egli non s’inchinò a misurare il pallore dell’amata e non tese l’orecchio a raccogliere il balbettìo della passione erompente: egli non pensò ad esser guardingo, in quell’eterno e terribile istinto di diffidenza, che, nei maggiori trasporti, divide le anime degli amanti, insuperabilmente. Il suo cuore e i suoi nervi si trovarono di pieno accordo in un abbandono giovanile e semplice, singolare in un uomo che aveva molto e bene e male vissuto, che aveva vissuto, infine. Il beneficio che egli aspettava dall’amore di Adele Cima, gli venne largo e completo, giacchè un cordiale, un morbidissimo senso di riposo avvolse tutte le sue forze, fece tacere ogni stridore, versò balsamo su tutte le vecchie cicatrici inciprignite: e quando ella fu per partire, e lui s’inginocchiò innanzi a lei per baciarle devotamente la mano, un verace, un grande impeto di riconoscenza animava Paolo Spada. E lei? Innamoratissima e timida, adorandolo già e sentendo una ignota, invincibile confusione in sè, ella fu felice e taciturna, piena di sorrisi ineffabili — il suo sorriso era più intelligente dei suoi occhi larghi e limpidi — piena di dedizioni semplici e complete, obbedendo alla legge dell’amore con una immensa umiltà che la inebbriava. Solamente, dopo, ella continuò a dargli del voi; e teneramente, egli la riprese di ciò: — Dammi del tu, cara... — Non mi riesce. — E perchè? Non oso. II. L’improvviso e soggiogante amore di Paolo Spada per Adele Cima aveva preteso che ella venisse ad abitare con lui nella casa di San Sebastianello. La resistenza della donna era stata debole e vaga: l’amante con facilità le aveva dimostrato che essendo ella libera e sola, nulla di meglio le restava a fare che unirsi a lui. — Io ti darò grande noia: tu sei abituato alla solitudine — aveva ella opposto, timidamente, due o tre volte. — Tu sei incapace di annoiarmi, cara — aveva sempre risposto lui, con quella tenerezza indulgente che era la nota principale del suo amore per Adele. Ella era rimasta interdetta e pensosa, come se cercasse una idea, ancora oscura nella, sua mente, e, forse, la forma per esprimerla. Finalmente, alle reiterate richieste dell’amante, perchè si decidesse a venire da lui, definitivamente, ella ebbe il coraggio di dire questo: — E se tu, un giorno, non mi ami più? — Io? Ti amerò sempre, diletta. Capisci che non vi è una ragione al mondo, perchè io finisca di amarti. — Pure... se non mi ami più? — aveva ella replicato, incapace di entrare in nessuna delle sottigliezze, talvolta crudeli, del suo amante. — Non è possibile. Se accadesse... rimarremmo egualmente insieme... — Come? — I mariti e le mogli non ci restano, forse, anche quando non si amano più? Adele tacque: ma non era convinta. Con una espressione di rammarico, soggiunse: — Senza l’amore, non ci vorrei restare. Ma queste brevi e innocue discussioni non potevano portare che a un sol risultato: alla vittoria della volontà di Paolo Spada su quella di Adele Cima. Ella lo amava profondamente, in una forma tutta rudimentale, cioè cieca e assoluta. Venne a stare con lui. L’artistico quartierino non fu guastato in nulla, giacchè vi furono unite altre due stanze, accanto, che erano disponibili e dove Adele Cima trasportò i suoi semplici mobili. Un tappeto di Smirne messo innanzi a una porta della camera di Paolo, nascondeva la comunicazione tra il quartierino e le due stanze di Adele, tanto che per molto tempo, tutte le visite di Paolo Spada, amici, ammiratori, seccatori, ignorarono l’esistenza della donnina dai morbidi e lunghi capelli castani, dai grandi occhi lionati, così sempre pieni di meraviglia. Appena ella udiva il campanello, diventava inquieta. Invano Paolo cercava di trattenerla: se un passo si avanzava, indicando che la persona era stata ammessa dal cameriere, ella si levava, spariva dietro il tappeto, senza far rumore, come un’ombra. Gli amici di Paolo Spada le davano una soggezione grande. Dalla sua stanza, involontariamente, poichè ella si sarebbe vergognata di origliare, ella udiva elevarsi il tono della conversazione, molto forte: le dispute si accendevano da un minuto all’altro, ed ella, non intendendone nè la causa nè lo scopo, non udendone bene le parole che non arrivavano precise sino a lei, finiva per avere una paura orribile di queste liti, di questi scoppii di voce, di questi urli. Poco a poco esse si chetavano: le voci si facevano più fioche: tacevano: passava un tempo di silenzio. Timidamente, ella sollevava il tappeto, faceva capolino: o Paolo Spada era uscito e la casa era deserta: o lo trovava sdraiato sopra un divano, sprofondato in quei trenta o quaranta piccoli cuscini di raso ripieni di piume, che gli formavano un letto di riposo, fumando una sigaretta, a occhi socchiusi, tranquillissimo: — Che avevate, a gridar tanto? — Parlavamo d’arte. — Ah! e si grida così? — Così, cara. Del resto, quando non vi era nessuno, Adele Cima stava sempre accanto a Paolo Spada. Essi pranzavano assieme; un cuoco mandava loro il cibo, da fuori, giacchè Paolo Spada odiava l’odore della cucina, in casa; il cameriere li serviva a tavola. Questo pranzo fatto di pietanze cucinate alla francese, sempre un po’ fredde, un po’ monotone nella loro voluta bizzarria, servite in fretta e in silenzio, nella piccola stanza da pranzo, sotto il chiarore azzurrino, come acquitrinoso, di una gran lampada sospesa e coperta di uno strano paralume, era una delle cose che più spostava i gusti e i costumi di Adele Cima. Tutte quelle conserve, quelle mostarde di gusto inglese che Paolo Spada sovrapponeva alla cucina francese, finivano di stordirla nelle sue quietissime inclinazioni culinarie. Per far piacere al suo amante, ella gustava di tutto, con un certo coraggio, giacchè molte di quelle cose non le piacevano punto: e sorrideva a lui, con quel luminoso sorriso dove ella trasfondeva tutta la sua adorazione per Paolo. A furia di dominarsi, ella aveva quasi finito per amare il fegato d’oca di Strasburgo, e per tollerare il caviale: ma non le riesciva di sopportare il roseo salmone, di cui egli era così ghiotto, pranzando solo con quello, talvolta, e con una tazza di tè. Egli capiva perfettamente lo stordimento di Adele, e ne godeva, e ogni volta che l’amore compiva un’altra di queste sorprese e un altro di questi miracoli, egli aveva un senso di trionfo nel suo animo. Non solo egli era riconoscente ad Adele Cima, che essendo una povera cara scema, cercava di seguirlo in tutte le naturali anomalie della vita delle persone di talento, ma le era anche grato che, malgrado lo stupore, malgrado l’impressione cattiva, ella restasse quel che era, così tenera, così adorabile nella sua adorazione per lui. Egli pensava: — Ella non ama questa cosa: ama me, però: e per questo si sforza di amare la cosa che odia; forse, non ci riesce: ma a me, che importa? Vedo il risultato, io. Essa mi adora e divorerebbe i carboni ardenti, per me. Uscivano insieme, sempre. Ella avrebbe preferito di andare per il Corso: anzi, ella trovava via Nazionale la più bella delle vie. Viceversa, egli era un appassionato, come tutte le anime artistiche, dell’antica Roma e più della sua solenne e poetica campagna romana. Egli non si stancava mai di ritornarvi, sebbene da anni ed anni vi andasse, figliuolo devoto dell’augusta città, ma più delle sue vaste solitudini. Colà, egli più si raccoglieva e pensava. Quelle estensioni di terra brunastra, qua e là appena appena sparse di qualche striscia di erba, quelle ondulazioni singolari del terreno, come per sommovimento tellurico, quelle alte barriere, che dividono, non si sa perchè, quei campi infecondi, l’uno dall’altro, quelle rive cretose che discendono al fiume giallo inclinandovi i neri bracci stecchiti dei salici, erano il miglior orizzonte per il suo gran sogno di arte e di poesia. E, amando Adele Cima, volendola insieme, sempre, come emblema di amore e di pace, come compagnia di equilibrio e di serenità, egli la conduceva seco, spiegandole benignamente tutta la grandiosità e la bellezza di quel paesaggio, che non rassomiglia a nessun altro. Ella lo ascoltava, incantata dal suono di quella voce così toccante nella sottile velatura che la rendeva un po’ roca, incantata da quella luce di entusiasmo che rendeva più seducenti i bellissimi occhi di Paolo Spada, incantata dall’armonia di quello che egli diceva: e chinava il capo, assentendo, diceva un monosillabo, stringendo la mano del suo amante. In verità, quella campagna romana la sgomentava; quella solitudine, quella sterilità, quel gran fiume torbido, quei neri carri di pozzolana su cui passavano lunghi distesi, sonnecchiando, pipando, fischiando lugubremente, talvolta, i carrettieri, le opprimeva i nervi. Però, piaceva a Paolo: ciò bastava. Lo seguiva, docilmente, ogni giorno, in queste passeggiate: anche quando il tempo era bigio, plumbeo e il gran cielo così tragicamente si abbassava sulla campagna: ogni tanto egli esclamava: — Guarda, Adele, quanto è bello... — Bellissimo — rispondeva lei, subito. Viceversa, il suo cuore era pieno di tristezza, per quell’ambiente. Fra le altre cose, ella temeva per Paolo e anche per lei, di prendere la febbre in quei giorni di autunno, in quelle ore crepuscolari. Ella che non aveva l’abitudine di fumare, gli chiedeva una sigaretta. Le avevano detto che la sigaretta è eccellente, contro l’infezione della febbre romana: — Tu fumi, cara? — Sì, sì — diceva lei, con un pallido sorriso. Ma presto la sigaretta, spenta, le cadeva dalle dita. Ella si stringeva nel suo mantello. Aveva i piedi gelati e non osava mai portare un plaid, per non dare fastidio a Paolo. Costui, assorto, taceva. Giacchè, nella consuetudine che aveva dapprima di andar solo nella campagna romana e nel gran fascino che quell’ambiente esercitava su lui, egli si dimenticava di avere accanto Adele Cima e lasciava trascorrere il tempo, nel più profondo silenzio. Il cocchiere seguitava a far trottare il cavallo, pigramente: la carrozza andava, andava, lontano, punto nero sopra la via giallastra; e Adele, obbliata, era presa da una voglia irresistibile di piangere. Allora, quando non ne poteva più, si voltava a Paolo, lo guardava coi suoi belli occhi grandi, sorpresi e un po’ supplici. Egli la guardava, ma non aveva l’aria di vederla. Ella lo chiamava, piano: — Paolo... — Che vuoi? — Dimmi qualche cosa. — Che cosa? E la voce sua era così strana, come di un dormiente che sogna, una voce di persona lontana, una voce di anima distaccata dal minuto presente, dallo spazio presente. Adele trasaliva: — Mi ami, Paolo? — gli chiedeva, per il bisogno di parlare, di sottrarsi all’incubo dell’ambiente. — Ti adoro — rispondeva lui, con un tono di maggior sonnambulismo. Poi, un silenzio. La carrozza andava sempre. — Torniamo, Paolo? — Ancora un po’. — È tardi, amore... — Non è tardi. Ma spesso, queste interruzioni dei suoi pensieri, dei suoi sogni lo turbavano molto... Senza durezza, poichè egli amava Adele, le diceva: — Taci: lasciami pensare. — A che pensi, amore? — Penso; lasciami stare. — Dimmi a che... — È inutile che tu lo sappia — rispondeva, inasprito, a un tratto. Ella aveva pianto, la prima volta che le parlò così; ma, peggio, egli non si era accorto di quel pianto. Da allora, si era rassegnata a subire tutte le interminabili e tristi passeggiate nella campagna romana, senza parlare che quando lui la interrogava. Moriva di freddo e di tristezza, ma soffriva tutto questo per amore di Paolo. Quando rientravano in città, man mano, si veniva riscaldando: Paolo esciva dal suo silenzio. Ella sorrideva, di nuovo: e un’altra prova era passata. D’altronde, a questi profondi assorbimenti di Paolo ella doveva cercare di assuefarsi, poichè, in casa, lo coglievano spesso. Loquacissimo e beffardo, insieme, ma graziosamente beffardo, egli cadeva, ad un tratto, in una mestizia taciturna che scombussolava, subito, tutto l’umore sereno e dolce di Adele Cima. Sdraiato, con la sigaretta spenta fra le dita, immerso in quei molli cuscini che erano così cari alle sue ore di riposo e di malinconia, Paolo Spada aveva l’aspetto immobile e triste, l’aria disfatta e triste, gli occhi socchiusi lasciavano errare uno sguardo vago e triste. Subito, Adele gli chiedeva: — Hai sonno? — No. — Sei stanco? — Sì. — Di che sei stanco? Non sei uscito. — Sono stanco — mormorava lui, con quella sua voce lontana. Ella faceva trascorrere un po’ di tempo in silenzio. Indi ritornava a lui: — Ti senti male? — No. — Vuoi qualche cosa? — No. — Debbo andarmene? — Resta pure: ma taci. Adele chinava gli occhi per non piangere. Le riesciva impossibile d’intendere la causa della tristezza di Paolo Spada, sfuggendole assolutamente tutto il lavorio dell’anima di costui. Ella non vedeva che l’immobilità, il pallore, la taciturnità; ella non capiva, che la risposta indifferente, o quella dura, nella loro durezza esteriore: ella intravedeva un mistero superiore dello spirito, arcano, avvolto in tali veli che giammai la sua piccola mente avrebbe potuto sollevare, e una pena acuta, intimissima, nascosta con gelosa cura la torturava, senza che ella volesse mai esprimerla, o trovasse mai parole per narrarla. Andava a prendere un suo lavoro all’uncinetto, una di quelle interminabili coltri a rosoni, bianche, e seduta in una poltroncina, lavorava nel più grande silenzio. Talvolta, la stanchezza la sorprendeva. Ella sonnecchiava. Il capo le si abbassava sul petto. — Tu dormi? — le dicea lui. — No, non dormo — rispondeva lei, trasalendo, scuotendosi. — Poverina, ti annoio. — Non mi annoi. — Le mie ore d’inchiostro sono così odiose! — Nulla di te, è odioso — ella replicava, a bassa voce. Ma questa frase ore d’inchiostro le faceva l’effetto di un gran buco nero nero, dove precipitassero Paolo Spada e l’amor suo, donde ella non potesse cavar più fuori nè l’amante, nè l’amore. Giacchè la paura più umile, più comune, che la teneva sempre, che la tormentava in segreto, era che Paolo Spada l’amasse poco, o non l’amasse punto. Non sapeva, ella, per quale paese dei sogni egli partisse, in queste sue ore tetre; neppur supponeva che vi fosse un immenso, interminabile, infinito paese dei sogni dove se ne vanno le anime dei poeti, degli artisti, dei sognatori: ma intuiva, così, semplicemente che Paolo Spada era ben lontano, lontano da lei e dal suo amore in quei momenti, e che quel corpo, abbandonato fra i cuscini, quel volto smorto e chiuso non avevano nè sentimento, nè volontà. Ella lo adorava con tutto il suo piccolo e serio cuore, con la sua piccola e limitata mente, e oltre l’amore, per natura, per temperamento, per carattere, non poteva vedere. Beninteso che, sempre, Paolo Spada usciva da una di quelle crisi di tetraggine, per gittarsi in impeti di folle gaiezza. Allora egli colmava la sua amante di liete carezze, di adorazioni gioconde e quasi infantili: la obbligava ad entrare nei magazzini di mode, dove le comperava pazzamente delle cose che non le servivano punto; la costringeva a seguirlo nelle grandi trattorie dove ordinava dei pranzi squisiti, sostenuti da vini generosi: la conduceva ai teatri, nelle grandi serate: e, sovra tutto, parlava con lei, rideva con lei, la corteggiava gaiamente, divertendosi di tutte le inveterate timidità della donna, delle sue ritrosie, del suo terrore del pubblico. Dappertutto, ella andava a malincuore, poichè ella preferiva, infine, la loro casa, in cui sempre l’ambiente la sconvolgeva, ma dove, almeno erano soli. Adesso, a poco a poco Paolo Spada la veniva presentando ai suoi amici, senz’altro nome che questo: la mia Adele, e al primo movimento di consolazione e di orgoglio che questo nome le produceva, detto così, da lui, ne subentrava uno di malinconia, sentendosi ricacciata nell’anonimo, senza personalità, più, come una povera cosa appartenente a lui, come gli apparteneva un bastone o un fazzoletto. Questi amici di Paolo Spada erano così singolari, anche essi! Le parevano tutti affetti da una leggiera o più grave pazzia, manifestantesi nei modi o familiari troppo, o fittiziamente freddi, nelle voci bizzarre che pronunziavano parole anche più bizzarre. Nelle loro conversazioni che ella si ostinava a voler intendere, ella non afferrava che le prime frasi, e subito la sua mente si confondeva in quei paradossi sull’amore, sull’arte, sulla vita, e non ci si raccapezzava più. Nei caffè, per le vie, le discussioni si prolungavano, accanite, rinascenti, giranti intorno all’argomento, col ritorno di certi nomi, di certe frasi, di certi intercalari; ella ascoltava, fingendo l’attenzione, ma senza capire più nulla. Talvolta, queste discussioni erano nelle vie, di sera: Paolo Spada e qualche suo amico andavano lentamente, fermandosi ogni tanto, accalorati, ardenti, e Adele Cima imitava il loro passo, si fermava con loro, sempre taciturna, levando ogni tanto il suo bel volto bianco e sorpreso verso Paolo, quasi a pregarlo di finire, di rientrare. Ma egli non vedeva lo sguardo timido e pregante dei bei grandi occhi limpidi e semplici, e la disputa si prolungava, mentre ella cadeva dall’oppressione in un sonno, per cui andava a casa come una sonnambula. Una notte, così, girarono per due o tre ore, intorno a piazza Navona, Paolo Spada e Massimo Dias, slanciati in una feroce discussione sull’Ariosto ed ella, alla fine, mezza morta, non osando dire nulla, si lasciò cadere a sedere sullo scalino, presso la fontana. Fu allora che egli si decise a metterla in carrozza ed a portarla a casa, invaso da una improvvisa pietà che lo rese dolcissimo e amorosissimo verso la donna. Questi amici di Paolo Spada la trattavano anche singolarmente. Alcuni la salutavano correttamente, ma non le dirigevano la parola; altri le indirizzavano delle frasi galanti in istile letterario; altri la riguardavano come un camerata e usavano familiarmente con lei, a grosse strette di mano, chiamandola Adele. Con quella intuizione delle persone semplicissime, ella sentiva che sotto la correttezza di alcuni si nascondeva il disprezzo; le galanterie in frasi fiorite la imbarazzavano e la facevano arrossire; le familiarità la turbavano. Qualche volta, malgrado la sua timidità, aveva sorpreso qualche parola che suonava caricatura per lei e certi sorrisi le sembravano dubbi. Ne aveva parlato a Paolo Spada: — I tuoi amici mi ritengono per una stupida. — No, cara. — Credilo, è così. — Da che te ne accorgi? Saresti diventata furba, per caso? — Non lo so: ma per loro, sono un’oca. — Per loro, come per me, sei una bella, buona, cara donnina, ecco tutto. Vuoi dei complimenti, a quanto pare. — Se sono un’oca per te, non voglio essere un’oca per gli altri — ella soggiungeva, assai più triste, convinta che Paolo Spada si vantasse della sua ocaggine. — O cara ochetta sentimentale e mesta, cara piccola oca bianca e malinconica, finirai per rassomigliare a un cigno — diceva lui, con la sua voce sonora e pure velata che la seduceva, toccandone le fibre più recondite del cuore. Avrebbe ella, forse, voluto allontanarlo, da queste conversazioni, da queste dispute con questi amici dagli occhi stralunati, dalle ciere malaticcie, che fumavano la pipa, talvolta, o che erano in una perfetta tenuta da gentiluomo, in marsina, con la pelliccia aperta, col fiore all’occhiello, ma che avevano egualmente la ciera morbosa e gli occhi sognanti, quasi allucinati. Ma era un desiderio, niente altro: ella era fatta per seguire Paolo Spada in ogni suo vagabondaggio e per obbedirgli in ogni suo capriccio. Gli faceva qualche obbiezione, soltanto: — Ti diverti tanto, in compagnia di Massimo Dias, di D’Arcello, di Lamberti? — Non mi diverto punto. — E allora, perchè li cerchi tanto? — Mi sono necessarii. — Oh! — Le dispute riscaldano il sangue ed eccitano i nervi... — E fan male alla salute, — Del corpo, forse. Viceversa, fanno bene alla salute dell’anima, che è la sola interessante. — La salute dell’anima? La vita eterna, cioè? — No, cara — concludeva lui, con quel sorriso d’indulgente amore che gli spuntava. sulle labbra, quando ella diceva una sciocchezza. Bensì arrivava il tempo in cui Paolo Spada abbandonava lui gli amici, non uscendo, chiudendo la sua porta, vivendo in casa per intiere settimane, fra le sigarette, il caffè e il lavoro. Questi furori di prosa e di poesia lo assalivano improvvisamente, dopo una gita nei dintorni, dopo la lettura di un libro, dopo aver ritrovato un vecchio pacchetto di lettere, ed egli si dava tutto a quel lavoro della composizione d’arte e della successiva scrittura, sommergendosi negli abissi della creazione e della forma, come chi da un altissimo picco si getta nel mare. Non conosceva più, Paolo Spada, in quelle sommersioni, nè misura di tempo e di spazio, nè fatti o circostanze, nè necessità o capricci, egli dimenticava l’ora del sonno come quella dei pasti, egli volentieri restava, in pieno meriggio, con le imposte sbarrate e la lampada accesa; inchiodato nel suo seggiolone di cuoio, chino sulla carta, levando ogni tanto, da essa, un par d’occhi nuotanti nelle visioni, o passeggiante per la stanza da studio, rapidamente, da un capo all’altro, a testa china, o leggendo ad alta voce, anzi declamando dei versi o della prosa, gettandosi, talvolta, da una sedia a una poltrona, ritornando al seggiolone, e, talvolta, cedendo al sonno, sul gran tavolino da scrivere, con la testa sulle braccia, come un fanciullo. L’amore? sparito, morto. L’artista si trovava nel gran tumulto interno che sconvolge ogni altro affetto e che trasporta nelle ansie e nelle ebbrezze della concezione e della procreazione d’arte, la febbre che lo ardeva aveva invaso e incendiato tutto il suo sangue, e le sue fantasime d’arte erano più vive, innanzi agli occhi della sua fantasia, più belle, più vive, più desiderate, più amate della vivente Adele Cima, che gli sembrava un’ombra vana e fredda. Ella si rendeva un’ombra. Girava intorno a Paolo Spada con un passo così lieve che non si udiva, non urtava un oggetto, non faceva stridere una chiave, spariva dalle porte come se si dileguasse nell’aria. Così ella faceva, un tempo, quando aveva assistito sua madre gravemente inferma: le pareva di essere presso un malato, tanto lo stato fisico e morale di Paolo Spada le sembrava scombussolato, tumultuario, perduto ogni senso di realtà. Obbediente come un bimbo buono, ella lo aspettava con pazienza alle ore dei pasti, non andava a letto, talvolta, che tardissimo, vegliando accanto a lui, leggendo un libro qualunque il cui senso le sfuggiva, o dicendo il suo rosario, o stando immobile, oramai abituata a questa vita di statua. Lui, che giammai aveva potuto lavorare con una persona presente nella stanza o anche nella casa, tollerava perfettamente quella di Adele Cima, tanto ella si rendeva piccola, minuta, inesistente. Anzi, la voleva presso a lui. Era come un mobile che si ama, su cui si posano gli occhi volentieri e le cui linee corrispondono a non so quale bisogno estetico interiore. Talvolta, in un brevissimo, lucido intervallo, era vinto dalla compassione: — Va a letto, cara, — No, ti aspetto. — Io ho molto da scrivere, va, va. — Che importa? aspetto. — Creperai di noia e di sonno. — No, niente. Aspetto. Tu hai molto da scrivere? — Moltissimo: enormemente. — Non importa, non importa. Di amore, in lui, non un atto, non una parola. Questo ella vedeva bene, e un morso le afferrava il cuore. La febbre del lavoro e di quel lavoro la colpiva solo per i suoi fenomeni morbosi; ella non ne comprendeva nè la purissima fiamma, nè il nobile tormento, nè l’ebbrezza del travaglio. Non si spiegava perchè un uomo giovane, sano e bello, amato, amante come Paolo Spada si desse a quella passione singolare che ne consumava i giorni, la salute, la beltà, che lo toglieva, sovra tutto, all’amore. Ah questo, questo, ella non se lo spiegava ed era il suo cruccio più intimo e più costante! Nel suo giudizio stretto e poetico della vita, le pareva che un’altra donna le potesse togliere Paolo Spada, ma non già un foglio di carta bianca e una penna intinta nell’inchiostro. Che egli scordasse i suoi baci, le sue carezze, il suo amore così saldo e così affascinante nella semplicità, per restare i giorni e le notti nella sua stanza di studio scrivendo, lacerando carte, riscrivendo, passando la penna a grandi colpi sulle linee scritte, per cassarle, leggendo, declamando, fumando, bevendo caffè, senza sole, senza luce, senz’amore, proprio, senz’amore, le sembrava una cosa tanto folle, tanto ingiusta e tanto crudele che, spesso, sparendo nella sua povera cameretta, se ne andava a piangere in un cantuccio, solitariamente. Per lei l’amore era la sola passione, la sola occupazione, il solo pensiero e il solo affare, e tutto questo, molto semplicemente, in vero temperamento muliebre nato per il ristretto campo dell’amore. Giammai, in queste sue ore di desolazione, ella trovava un pensiero contro l’egoismo artistico di Paolo Spada, giammai ella si pentiva di essersi data a lui, di esser venuta a vivere con lui, ma si sentiva ed era una creatura perfettamente infelice. Quando era stata lungamente assente, egli la chiamava. Ella si lavava in fretta gli occhi, riappariva quasi sorridente ed egli non vedeva punto il rossore delle palpebre. — Perchè te ne vai, Adele? — Ti disturbo, forse. — Non mi disturbi. Non ti vedo neppure. — E allora, perchè mi vuoi? — Così, per consuetudine. Ella crollava il capo, mentre si faceva pallidissima. Paolo Spada non se ne accorgeva. Nell’orgoglio fugace dei momenti di creazione, le diceva, esaltatamente: — Sai? Sto scrivendo un capolavoro. — Lo credo, Paolo. Ma non gli chiedeva che fosse. Temeva di dire una stupidaggine, chiedendo. — È una novella, una lunga novella: ma un capolavoro. Si chiama: il vincitore della morte. Ti piace il titolo? — Sì, mi piace. — Veramente, ti piace? Di’ la verità. — Mi piace moltissimo. — Ora te ne leggo un pezzo. Ti secchi? — No, amore, no. Egli dava di piglio alle molte cartelle dove scriveva col suo carattere lungo e sottile, e con voce tremante, mentre le dita che tenevano il manoscritto tremavano, egli cominciava la lettura. La voce si facea più ferma e ondeggiava nei periodi che si legavano l’uno all’altro, e si abbassava mollemente, s’innalzava violenta. Attentissima, ella non batteva palpebra. Pure, quest’attenzione non gli bastava: — Tu, non mi ascolti? — T’ascolto. — Hai l’aria distratta. — Non è così. Leggi. Paolo riprendeva la lettura. Si arrestava, per vedere se sul volto di Adele Cima passasse qualche impressione: e la vedea mutar di colore. In verità, era quella voce dell’amante, quella esaltazione, il rombo della lettura, che la commovevano. — Ti piace? Ti piace? — Moltissimo. — Dici sul serio? — Sul serio. — Non già perchè mi vuoi bene? — Non so: mi piace. Egli finiva la lettura, entusiasmato. — Ti piace? — È bellissimo. — Sì, credo di aver fatto una cosa buona — diceva lui, già un po’ smontato. — Quante cartelle ne hai scritte? — domandava Adele, dando un’occhiata obbliqua al manoscritto. — Sessantacinque. — E quante altre te ne restano? — Centocinquanta, più, forse. — Ah! Si voltava in là, per non fargli osservare il suo viso, dove la pena che questa febbre ancora molto, troppo durasse, si dipingeva. L’indomani, lo trovava tetro e disfatto. — Ho scritto delle corbellerie ignobili — le dichiarava lui. — Come? Non ti sembravano un capolavoro? — Mi sembravano. Ero esaltato. Sono corbellerie. — A me piacevano. — Naturalmente. — Paolo! — era la sola rimostranza dolorosa. — Mia cara, che vuoi capire tu? Quando piace a te, è segnale di ignobile corbelleria. — E allora, perchè leggi a me? — Così, per sfogare: niente altro. — Perchè mi domandi il giudizio? — Perchè gli scrittori sono delle bestie inconcludenti, deboli e vigliacche — esclamava lui, nella brutalità delle giornate di abbattimento. — Non dire questo, Paolo. — Taci, Adele. Vattene. Ebbene, ella si accorgeva che negli accasciamenti della sua febbre d’arte, in quegli accasciamenti in cui tutti i mortali chiedono soccorso di tenerezza, ella non poteva consolarlo. Sensibilissima sentimentalmente, ella misurava col cuore timido e trepido questa sua impotenza e la esagerava. Quel male ignoto e quel dolore ignoto traevano origine da radici di profonde e sconosciute infermità morali e forse fisiche: ella poteva bene piegare il volto su quell’ombra, il suo inesperto sguardo nulla vi potea mai distinguere. Adele si ritraeva, con un senso vivo di umiliazione sempre rinnovantesi e che le aveva omai aperto nell’anima una fine ferita sempre sanguinante e sempre frizzante. Il silenzio era il suo rifugio, dove naturalmente, le più semplici e anche le più tormentose supposizioni la facean dubitare di sè stessa, di Paolo Spada, dell’amore. Forse, egli era stanco di lei e non glielo diceva per gentilezza d’animo; forse, questo suo amore che era niente altro che amore, offerto con tanto abbandono, ma con tanta monotonia, aveva già nauseato Paolo; forse egli pensava a quelle sue donne così raffinate, così squisite, che lo amavano in una forma complicata e straordinaria, che gli scrivevano quei pacchi di lettere da lui conservate preziosamente, da lui spesso rilette, spesso giacenti in confusione sul tavolino da scrivere — talvolta, egli si serviva di quei documenti per la sua storia d’amore — mentre ella non aveva mai osato di scrivergli un biglietto, temendo di commettere degli errori di grammatica e di ortografia; forse, egli già ne aveva trovata un’altra... ella era così sciocca, così infelicemente sciocca! Con cura, ella nascondeva i suoi sospetti, per non torturarlo, giacchè ella gli risparmiava, amorosamente, qualunque puntura; ma, senza volerlo, trapelavano. — Anche oggi, sei così triste, Paolo? — Anche oggi. — Ma a che pensi? — Mi è impossibile di narrartelo: è troppo lungo. — Dimmi, almeno, a chi pensi? — A chi? A nessuno, cara. — A nessuno, proprio? A nessuna donna? -... No. Che pensi? — Nulla, m’immagino. Credevo... perdonami. Non sei stanco di me? — No, non ancora. — Dimmelo, quando sei stanco. — Te lo dirò, non dubitare. Ognuna delle risposte di Paolo Spada la meravigliava e la faceva soffrire. Lo credea sincero. Non amava un’altra donna: non era stanco di lei: ella gli piaceva ancora. Ma dunque era proprio per questo terribile lavoro dello scrivere, che il suo amante l’abbandonava, si dimenticava di lei come se non esistesse, la guardava in volto trasognato come se non l’avesse mai vista, non le prendeva una mano, non la baciava? Così sono, dunque, questi uomini che scrivono? E quest’arte, questa parola che ella udiva ripetere continuamente, senza intenderla, quest’arte pronunziata ora enfaticamente, ora a bassa voce in tono pauroso, quest’arte le cui quattro lettere escivano, pronunziate dalla bocca di Paolo Spada, con un ardor amoroso meglio di qualunque amorosa parola, ella aveva finito per odiarla in silenzio, con tutta la muta ribellione del suo cuore. Non era una donna l’arte, nè aveva i capelli neri, biondi o rossi, diversi dai suoi; non era una persona slanciata dagli occhi grandi e bruni e scintillanti, mentre i suoi erano limpidi e tranquilli e la sua persona era piccola e graziosa; non era una donna intelligente e sapiente, mentre ella era una povera buona, ignorante: eppure Adele era gelosa di quest’arte e la detestava, con tutto il cuore, come se fosse una creatura viva. A poco a poco i libri, le carte, il calamaio, l’inchiostro e la penna, e tutto quello che è il corredo di chi scrive, le cominciarono a fare orrore: e gli accessi di lavoro feroce, o gli assorbimenti lunghi in vaghe contemplazioni di Paolo Spada, le davano l’impressione d’una sua sciagura personale, sempre respinta e sempre ricadente sul suo cuore. Un giorno, quasi fosse presa da una curiosità puerile, gli domandò: — Come ti è venuto in mente, di scrivere? — A me? Non me ne ricordo. — Ma infine, hai dovuto cominciare? — Sì, ho cominciato... non potevo far di meno di cominciare. — Perchè? — Era il destino, cara. — Non hai mai pensato a fare un’altra professione? — Mai. Non avrei saputo farla. — Tu sai far tutto. Perchè non hai tentato? — E perchè dovevo tentare? — gli disse lui, un po’meravigliato. — Così... per fare quel che fanno tutti gli altri — diss’ella, penosamente. Egli intese qualche cosa: — Ti piacerebbe, eh, che io fossi un medico? O un impiegato? O un ufficiale di cavalleria? — e una lieve ironia era nella sua voce. Ella impallidì e arrossì. Subito, negò tutto: — Mi piaci come sei, Paolo. — Ma saresti più felice con un medico, m’immagino: felicissima, con un ufficiale di cavalleria: arcifelicissima, con un impiegato, Adele. — No, no, no — esclamò lei, disperatamente — non posso esser felice che con te. — Temo... temo che tu sia infelice... sono così incapace di capirti... — Non vi è bisogno, che tu mi capisca — soggiunse lui — nessuna donna capisce mai un uomo e viceversa. Io sono perfettamente felice, del resto, con te che non mi capisci: te lo assicuro. Amami e basta. Infatti, in quell’amore, così quieto e così uniforme, in quel sentimento rudimentale che di nessun altro si addoppiava e si facea difficile, in quell’espansione semplice quotidiana, senza grandi scene tragiche come senza troppo fini scene di commedia, in quella bontà costante e suadente, in quell’affetto dove mancava qualunque sorta di enigma, egli trovava l’ambiente migliore per il suo spirito stanco e per il suo cuore disgustato di eccentricità. Per troppo tempo, la donna era stata per lui elemento di curiosità vivacissima nella vita e nell’arte ed era, quindi diventata sorgente di disordine e di squilibrio: per troppo tempo, egli aveva errato per i paesi dove il peccato era anche romanzo e dove il romanzo conduceva al peccato: per troppo tempo, egli aveva cercato nella donna il pascolo della immaginazione artistica e l’urto obliquo e complicato dei sensi. Adele Cima era il riposo della sua stanchezza, era l’equilibrio dell’asse della sua vita, era la relazione posata e lunga, lunga e sicura, dove il peccato perdeva ogni tinta turpe e acquistava gentilezza mite coniugale. Mentr’ella era fuori centro, spostata, messa a contatto di una esistenza che aveva capovolte tutte le sue poche idee, messa a contatto con un uomo cento volte a lei superiore, della cui superiorità ella era un’adoratrice ma anche una vittima, mentre Adele Cima non giungeva più a riunire le sue forze per vivere, disperse in un’atmosfera troppo alta per i suoi polmoni, Paolo Spada si sprofondava nella beatitudine egoistica di colui che ha trovato, per una rarissima fortuna, lo strumento più adatto alla propria felicità. Per pensare, per leggere, per lavorare, egli aveva bisogno di non aver più nè lettere amorose da scrivere o da andar a prendere alla posta; di non aver più convegni da chiedere o da aspettare; di non aver più sciarade da sciogliere o drammi da annodare, tutte cose che impediscono, a uno scrittore, il pensiero, la letteratura, la scrittura. Adele Cima, in quei tempi di travaglio, mentre era intorno a lui, non vi era, camminava piano, non urtava gli oggetti, non chiudeva i libri, non muoveva le carte, spariva, riappariva, senza domandare di uscire, di pranzare, di dormire: nella sua semplicità o, piuttosto, nella sua stupidaggine, era un arnese umile e perfetto di pace amorosa e di paziente tenerezza. III. A un tratto, nel cuore innamorato di Adele Cima, e battuto e mortificato dal sentimento di non essere una donna degna dell’amore di Paolo Spada, surse una volontà improvvisa, che si maturò nell’ombra e nel silenzio, che fu covata e si schiuse al calore della passione, di cui ella ardeva per il grand’uomo. Ella si decise, così, senz’altro, a diventare una donna intelligente e colta; perchè, almeno, non tutto il mondo dove l’artista viveva le fosse vietato; perchè ella, almeno, potesse seguirlo in un discorso, in una divagazione, perchè ella non restasse più sola e abbandonata ad amarlo, mentre egli se ne andava negli orizzonti dei sogni e delle visioni a cui ella, misera, non partecipava. Ella concepì questo audace disegno nelle ore di solitudine e anche d’infinita mestizia in cui cadeva, quando Paolo Spada lavorava e si scordava assolutamente di lei: ella accarezzò entusiasticamente il suo disegno, nel tempo in cui maggiormente l’esistenza con Paolo le diventava grave e tormentosa, sentendovisi come una povera creatura perduta e senza guida; ella ostinatamente studiò questo disegno, quanto più amara e più insopportabile le pareva la sua inferiorità. Non disse nulla a Paolo. Era taciturna, sempre: e non avendo mai trovato modo di raccontargli la sua lunga miseria, la miseria della sua stupidaggine e della sua ignoranza, non volle neppure rivelargli il rimedio che il suo cuore aveva trovato o credeva di aver trovato. Con l’eroismo muto dei cuori che sanno amare e amare soltanto, ma che dall’amore traggono ogni coraggio e ogni luce, ella si accinse allo scopo, sebbene lo sentisse arduo, lontano, forse inaccessibile. La prima cosa che ella tentò, per aprire la sua intelligenza, fu la lettura dei libri di Paolo Spada. Dopo pranzo, quando egli, fumate nervosamente quattro o cinque sigarette, si levava come mosso da un impulso automatico, per sedersi a scrivere, ella si levava e spariva. Nella sua borsa da lavoro, accanto al merletto all’uncinetto, delizia borghese di altri tempi, ella aveva sempre un volume, dei varii fra romanzi e novelle scritte da Paolo Spada: e in camera sua, si metteva a leggere. Lo stile prezioso, ricercato con quella tortura mentale che era una delle grandi qualità di Paolo Spada, le produceva la prima impressione d’incomprensibilità: vi erano delle parole che non aveva mai lette o udite e dei giri di frase, il cui senso le sfuggiva: talvolta, delle frasi ripetute le davano fastidio, come il ronzìo di un moscone nell’orecchio. Non so come, ella aveva udito a parlare del vocabolario: e finì per ricorrervi, per conoscere il senso vero delle parole strane adoperate da Paolo Spada. Con molta gravità, teneva il libro aperto sul tavolino e con l’altra sfogliava il vocabolario: alla ricerca della parola, lasciava perdere il filo del racconto e, dopo, non si raccapezzava più. E, spesso, il vocabolario non le spiegava bene, tutto: ella restava sospesa, pensando troppo per la sua piccola mente, affaticata, e non trovando più nulla. Se contrariamente, erano i soggetti di quei romanzi, di quelle novelle che la turbavano immensamente. Ella aveva letto, come tutte le donnine della sua levatura, dei romanzi di Montépin e di Ponson du Terrail, qualche romanzo di Dumas padre e qualcuno, italiano, di Guerrazzi: ma le istorie di Paolo Spada erano così stranamente diverse da quanto era stato il poco pascolo della sua fantasia! Tutti i protagonisti di Spada le sembravano degli ammalati o dei pazzi: spesso la inorridivano per il cinismo: e quando s’interessava a qualcuno, più simpatico, ecco, egli moriva. In quanto alle protagoniste, ebbene, ebbene, malgrado che qualcuna di esse fosse buona e virtuosa, malgrado che quasi tutte fossero immensamente infelici, per le lotte con sè stesse, col mondo e con l’amore, ebbene, Adele Cima le odiava, tutte! La innamoratissima donna leggeva i romanzi e le novelle, più col cuore che con la mente: e la sua curiosità d’ignorante, era anche fatta di gelosia. Con quanta carezzosa voluttà Paolo Spada dipingeva certe figure di donna e Adele Cima vi ricercava, quasi, i ritratti delle donne che egli aveva amate: con quanta crudeltà egli ne disegnava delle altre ed erano forse quelle che lo avevano respinto, o, accettandolo, lo avevano reso infelice! Ella aveva troppo partecipato alla vita di Paolo Spada e dei suoi amici artisti, per non avere capito, a forza di udirlo dire, che quanto essi raccontavano nei loro libri, era loro accaduto: non aveva visto Paolo Spada copiare le lettere di amore, nelle novelle? Così, la lettura di questi volumi lenta, ma continua, produsse sullo spirito di Adele Cima, come una rivelazione sempre più triste, sempre più torturatrice, del passato di Paolo Spada. Ah egli aveva palpitato, e pianto, e sofferto, e spasimato, il suo amante, non per lei, ma per altre donne, egli aveva molto e troppo vissuto, il suo amante, e non con lei; egli aveva avuto delle scene di passione e di disperazione come giammai con lei! Quante volte in quelle eterne veglie, in cui ella aspettava che Paolo Spada si levasse dal tavolino e, chiamandola, le dicesse che era ora di riposarsi, quante volte ella posò il libro, pallida, disgustata, avvelenata, sentendo di essere giunta troppo tardi, quando già la vita aveva detto tutto al suo amante! Quante volte ella si sentì inutile, inutile a quest’uomo, adesso più che mai, adesso che conosceva o che le pareva di conoscere tutto il passato, e come pensò, spesso, che sarebbe stato meglio liberarlo della sua sciocca presenza! Le si ripeteva, nell’anima, fatidicamente, l’impressione della prima visita, quando aveva trovato le fotografie delle altre amanti e aveva tanto sofferto: perchè non era fuggita via, in quel giorno? Pure, un accanimento la teneva, di legger tutto, di saper tutto. Involontariamente, qualche parte del suo segreto le sfuggiva: — Perchè hai fatto morire quel povero Attilio Venturi? — ella chiese un giorno, al suo amante. — Attilio Venturi? Chi? — Il protagonista del tuo racconto: L’ucciso. — Tu hai letto il racconto? -... sì — diss’ella, profondamente sconvolta. — E perchè l’hai letto? — Mah... perchè era scritto da te... — Non vi era obbligo, anima mia. — Ho fatto tanto male? Sono dunque così sciocca, da non poter aprire un tuo libro? — e quasi piangeva. — Non importa, cara — diss’egli, indulgentemente — se ciò ti diverte, fa pure. Ti è proprio dispiaciuto tanto, che Attilio Venturi sia morto? — Oh, tanto! — Egli doveva morire — pronunziò Paolo Spada, col tono dogmatico dello scrittore. — Oh! — mormorò ella, senz’altro, sentendo il peso della sua ignoranza più forte, sulle spalle. Altri dialoghi simili, consecutivamente, accaddero. Un giorno, un amico di Paolo Spada aveva elogiato vivamente il volume delle Storie crudeli, in presenza di Adele Cima: e Paolo Spada aveva sorriso alle lodi. Ella riprese il discorso e arrossendo, disse: — Tutti i tuoi libri sono così belli e mi piacciono tanto, Paolo! Ma perchè sei così cattivo, nelle Storie crudeli? — Perchè la vita è cattiva, mia cara — disse lui, con un lieve rammarico nella voce. — Oh no, Paolo! — Che ne sai, tu? Tu non sai nulla. — Hai ragione — ella disse, soffocando un singhiozzo. E un’altra volta: — Non pensavi che la vita era cattiva, Paolo, quando hai scritto L’amore di Maria? — Quella storia è bruttissima. — Oh, no! — Bruttissima, ti dico. — A me è piaciuta — soggiunse ella, con timidità. — Questo è il segnale più certo della bruttezza — disse lui, duramente. Poi quando la vide piangere, cercò di consolarla, carezzandola, baciandola. — Tu leggi troppo, ti fa male, Adele. — Perchè, mi fa male? — La tua testa è debole, non leggere tanto. — Come, neppure i tuoi libri? — I miei meno degli altri. Già, non valgono niente. — Non dire questo, non dirlo. Perchè li hai scritti, se li disprezzi? — Così, Adele — rispose lui, enigmaticamente, chiudendosi nel suo silenzio. Ma, oramai, il male era fatto. Nel cervello confuso di Adele Cima turbinavano le frasi e i fatti in disordine: ed ella non afferrava più il nesso delle cose, ella imbrogliava i nomi dei personaggi e delle città, ella spesso faceva a Paolo Spada delle domande, dove appariva anche più chiaramente che ella aveva letto e non aveva inteso nulla. Due o tre volte, egli la redarguì, vivamente offeso nel suo amor proprio di artista: ed Adele che non conosceva la sensibilità sempre raccapricciante delle vanità di scrittore, due o tre volte giunse a ferirlo: e il modo come egli le si rivoltò contro, modo insolito, di animale irritato e ingiusto, la sgomentò talmente che, per un pezzo ella smise di parlargli delle sue letture. Ma il male era fatto. La serenità della mente di Adele Cima era smarrita, per sempre. Ella era entrata in una via d’intrichi e di spine che la pungevano e la soffocavano: nè conosceva più il sentiero per tornare indietro. In quella confusa e incerta rivelazione di un mondo per lei incomprensibile e in cui ella intravedeva le perfidie della menzogna, le malvagità del cuore freddo e duro, le perversità dei sensi non governati da nessuna delle schiette e fluide correnti del sentimento, la ingenua anima di Adele si arretrava, compresa di spavento: ma i suoi occhi avevano intravisto e il fiore del suo candore sentimentale era per sempre appassito. Sovra tutto, il maggior tossico le veniva da quelle donne ignote a lei, che Paolo Spada aveva conosciute e amate, che erano rimaste così impresse nella memoria dell’uomo, che l’artista aveva voluto renderle nelle sue storie. Tutte diversamente belle e attraenti sotto la viva penna dello scrittore, tutte dotate del fascino della vita che vibra, più forte, nei ricordi e par vita, tutte variamente strane e seducenti, tutte quante davano al cuore innamorato di Adele Cima le trafitture, e i sussulti, e i pallori, e gli scoramenti di una gelosia invincibile. Con curiosità tormentatrice, ella ritornava a rileggere quelle pagine dove la natural poesia dell’arte ingrandiva e affinava quelle creature muliebri: e nella loro essenza, nella loro forma, Adele Cima le invidiava, sentendosi da loro così diversa, così lontana, sentendosi a loro tanto inferiore da soffrirne come per persone umane che l’avvilissero con la loro superiorità, ogni giorno, ogni ora: — Tu hai conosciuto quell’Angelica, del tuo romanzo? — disse, in uno dei momenti di più forte pena. — Sì. — L’hai amata? — Sì. — Era molto seducente? — Molto. La povera semplice donna tacque. Ah che egli era una persona troppo sincera, mentre avrebbe potuto risparmiarle queste verità così atroci! — Perchè hai finito di amarla? — Mi ha tradito. — Ah! E se non ti tradiva? — Io tradiva lei. — Così... tutti questi vostri amori... finiscono col tradimento? — Quasi tutti. — Finirà anche il nostro, così? — chiese lei, desolatamente, mordendosi le labbra per non iscoppiare in singhiozzi. — Speriamo di no. — Speriamo? Non è che la speranza? — In fatto di amore, tutto è fallace. Ma perchè continui a chiedere di cose spiacevoli? Che ti importa? A che scavi nel passato? Quando mai tu hai scavato? Amami e basta. — Anche io ho un cuore e una mente — ella mormorò, mortificata di essere sempre respinta nelle sue umili e taciturne funzioni di donna innamorata. — Credilo, il cuore ti è sufficiente — egli concluse, un po’ sul serio, un po’ ironicamente. Ella sentì l’ironia e non sentì la serietà del consiglio. Una gran voglia di rassomigliare a qualcuna di quelle donne, di essere meno monotona, meno semplice, meno limpida, adesso le sconvolgeva l’anima. I suoi vestiti, dapprima graziosi e carini, ma di una grande povertà d’invenzione, cominciarono a diventare più ricercati: ella ebbe una vestaglia di lana bianca, con merletti pioventi e un grosso cordone di seta bianca che la serrava: ella portò delle camicette insaldate, da uomo, con una cravatta maschile: ella tentò di tagliarsi i capelli, ma il parrucchiere la consigliò di non farlo. Queste nuove fogge, però, la mettevano in imbarazzo e la rendevano goffa. Alle pareti quasi nude delle sue due camerette ella attaccò dei vecchi ventagli giapponesi, dei pezzetti di stoffa antica racimolati fra le cianfrusaglie del quartierino di Paolo Spada e vi sospese dei quadretti che erano stati donati a lui, e che egli aveva dichiarati orribili; e questo scemo tentativo di adornamento artistico contrastava con la semplicità e anche con la volgarità del resto dei mobili. Adele Cima non aveva mai voluto fumare; anzi il fumo della sigaretta e dei sigari di Paolo Spada, dei suoi amici, le dava gran fastidio. Si forzò a imparare: ebbe tre o quattro emicranie feroci, accompagnate dal mal di stomaco, ma fumò. Soltanto si scolorava come una morta, fumando: e faceva sforzi enormi per esser disinvolta. Non aveva mai bevuto liquori, con un disgusto tutto borghese: ella provò il cognac, e siccome aveva inteso parlare del gin, come di un liquore singolare, assaggiò anche quello. Paolo Spada, malgrado le sue profonde distrazioni, i suoi egoistici assorbimenti, notò a poco a poco tutte queste fittizie manifestazioni di bizzarria: e il sorriso con cui le accoglieva, aveva della bontà compassionevole. Due o tre volte, egli rise della goffaggine di Adele Cima: ed ella fu colpita da quel riso come da una pugnalata. Una sera, quando più ella era stata tentata di essere eccentrica e raffinata, e quando meno vi era riescita, quando più era stata ridicola nei suoi esperimenti, Paolo Spada, le aveva detto, con durezza: — Smetti. Ella si era fatta di mille colori e aveva abbassato gli occhi. — Non fumare più, smetti; smetti di vestirti come ti vesti; non bere cognac e non parlare di amore col terzo e col quarto. Smetti, smetti, Adele. — Che ho fatto di male? — Nulla: ma sei ridicola. Chi te lo fa fare? — Così — diss’ella, con voce fievole, a capo basso. — Vi è una ragione, a queste stravaganze. Dilla subito. — replicò improvvisamente. — L’idea di piacerti... — balbettò l’infelicissima. — Hai sbagliato. Mi dispiaci enormemente. — La paura del tuo disprezzo... hai amato tante donne intelligenti e fini... io sono una creatura volgare... — Mi sei piaciuta come eri: non ti guastare. Smetti tutte queste buffonate. Tu non ti puoi cangiare. — Oh Dio! — singhiozzò la poveretta. — E ringrazia il Signore, invece, che non ti cambia. Se ti cambiasse, non ti amerei più. — Perchè mi dici questo? — Perchè è la verità. Ritorna alla tua semplicità, mia cara, o ci lasciamo per sempre. Come ritornarvi totalmente? Ella obbedì, con la devozione della persona assolutamente innamorata, a quanto le aveva detto Paolo Spada; ella ritornò, tristemente, alle sue vesti di gusto borghese e ai suoi cappellini insignificanti: ella lasciò le sigarette e il cognac: ella schiodò tutti i ventagli vecchi e tutti i brandelli scoloriti delle stoffe, dalle pareti delle sue stanzette. Ma tutti questi atti, consecutivi, le rammentavano la inanità della sua persona: le ripetevano, mandando il rosso della vergogna al viso, che ella non poteva elevarsi, in nessun modo, dalla mediocrità dove era sempre vissuta: le replicavano, in tutte le forme, che una donna semplice o anche sciocca, sempre tale rimane e che non vi era speranza, per lei, di essere considerata da Paolo Spada salvo che per una donnetta di casa, scema, ignorante, che gli dava dell’amore senza fantasia e senza drammi, quando egli aveva voglia di essere amato. Lo scorno dell’esperimento fatto e mancato le ritornava sempre, massime quando, era sola: ed ella chiedeva al Signore, nelle sue preghiere, per qual ragione era stata slanciata e poi chiusa in un amore dove tutte le sue facoltà soffrivano, dove soffocava nel silenzio ogni suo dolore e dove ella non avrebbe mai più trovato la felicità, giammai. Le sue sofferenze si acuivano. Ella frequentò molto la chiesa, in quel tempo. Cercava la liberazione, o cercava la pace; ma non otteneva nè l’una, nè l’altra, giacchè ella era legata a Paolo Spada per la vita e per la morte, giacchè ella era sempre in un profondo spostamento morale e materiale. Paolo Spada, giusto in quel tempo, fu preso da un accesso di mondanità. Ogni sera indossava la marsina, metteva un fiore all’occhiello, arricciava e profumava i suoi baffi e partiva. Ella lo aiutava a vestirsi, avendo per lui le cure minute di una madre: non gli chiedeva neppure dove andasse e a che ora ritornasse. Lo aspettava. Quando aveva chiusa la porta; alle sue spalle, cominciava per Adele una lunga veglia. Ella riordinava la casa, tutta quanta, dandole il suo assetto notturno; lavorava all’uncinetto, alla coltre fatta a disegno di stelle, poichè aveva rinunziato alla lettura: sonnecchiava; si addormentava sulla sedia. Talvolta si svegliava, di soprassalto, a un rumore: non era nessuno. Talvolta lo stridore della piccola chiave inglese di Paolo Spada che schiudeva la porta del quartierino, la scuoteva. Lo vedeva riapparire bene spesso pallido e stanco, senza voglia di aprir bocca. — Fai male ad aspettare — le diceva, brevemente. — Non importa, Paolo. Non le diceva più nulla, lui, assorto nella stanchezza: non le faceva una carezza non le dava un bacio: si addormentava di un sonno pesante. Ella restava sveglia, nervosa, piangendo chetamente talvolta. Vi erano notti in cui egli rientrava eccitatissimo. Le raccontava tutto, mettendo in burletta i tipi ridicoli della società, ridendo dei buffi spettacoli, elogiando fugacemente qualche donna incontrata. Adele tendeva l’orecchio, a queste lodi: — Era molto bella, donna Maria Vargas? — Bellissima: pareva Monna Lisa del Giocondo. L’amante sciocca, dai capelli castani insignificanti, dai grandi occhi limpidi e meravigliati, ammutoliva. Egli continuava a chiacchierare, fumava, si faceva fare del tè che ella aveva imparato ad apprestare benissimo, mentre le mani le tremavano, nel suo ufficio di donnetta di casa. E, spesso, tornando da questa casa luminosa, da questi teatri scintillanti, dove aveva visto delle donne bellissime, dove il suo animo di artista aveva esaltato la sua ammirazione di uomo, egli era con Adele Cima così carezzoso e così appassionato che, malgrado la piccola intelligenza di lei, ignara delle mistificazioni umane dell’amore, ella intendeva donde venisse questo rinnovellamento passionato; e tutto il suo essere inorridiva alla mistificazione. Vagamente, ma ostinatamente, ella era gelosa di tutte queste donne mondane, signore e attrici, grandi dame e grandi avventuriere che, preso da un furore di esteriorità tutto estetico, Paolo Spada ricercava ogni giorno e ogni sera: ma Adele Cima non arrivava a precisare la propria gelosia. Non diceva nulla: ma fiotti di veleno le inondavano le vene. Si consumava, dentro, e non voleva dare un sol dolore a Paolo, sentendo anche che era inutile e dannoso fargli delle scene. Qualche indizio di tradimento, molto tenue, forse ancora ingiusto le s’ingrandiva nel cuore appassionato, col dubbio di qualche fatto compiuto. Paolo Spada aveva cambiato fiore all’occhiello: era una rosa bianca, adesso, quella che portava ogni giorno. Una copia dell’Amore di Maria era partita, avvolta in una stoffa medievale, a rose bianche su fondo rosa pallido, e diretta a un indirizzo sconosciuto. Un giorno, uscendo per alcune spesuccie, aveva incontrato Paolo Spada sotto l’atrio della Posta, a San Silvestro: egli aveva avuto innanzi ad Adele Cima, una leggiera fiamma al viso. Poi, finalmente, un giorno, Adele ebbe la prova precisa e netta del tradimento: un biglietto di convegno, di donna Maria Vargas: un biglietto cascato dalla tasca di Paolo Spada. Era impossibile il dubbio. Egli rientrò: trovò Adele Cima gittata sul letto, vestita, col viso verso la parete. — Che hai? Ti senti male? — Sì. — Dove hai male? — Alla testa. — Ora ti do l’antipirina. Vado a chiamare il medico? — È inutile: è un male che passa. Veramente, egli aveva udito qualche cosa di cambiato nella voce di Adele Cima: ed aveva esitato a ritornare nella sua stanza. Prima di uscire, andò da lei, di nuovo: — Come vai? — Meglio: grazie. — Vuoi qualche cosa? -... No — Io torno subito. — Va bene. Veramente non si era voltata a lui e la voce era più tronca e più velata che mai. Ma egli attribuì alla nevralgia tutti quei fenomeni e uscì. Quando rientrò, alle undici di sera, la trovò ancora sul letto, supina, in uno stato di abbattimento immenso, con orribili crampi allo stomaco. Aveva bevuto della morfina per avvelenarsi: l’aveva trovata in una boccettina che Paolo Spada teneva in serbo, per iniettarsi ogni tanto. Egli non le strappò questa verità che a furia di affannose domande, di richieste strazianti, giacchè tutto l’essere di Paolo era trangosciato all’idea che una povera creatura umana avesse potuto morire per lui. Ella lo guardava, con occhi così disperati e amorosi, insieme, che egli non resisteva a quello sguardo. Al medico accorso Paolo non disse nulla, non seppe neppure ricordarsi la misura della morfina che Adele aveva potuto ingoiare: e tutta la notte la sciocca amante che tutto aveva sopportato, ma non aveva saputo resistere al tradimento, tutta la notte ella fu in pericolo mortale, attaccata al collo di Paolo Spada, guardandolo con gli occhi stralunati dal male e dall’amore, toccandolo con le mani gelide e bagnate di sudore, senza poter pronunziare una parola sola, quasi strozzata, soffrendo come una dannata o cadendo in prostrazioni che parean simili alla morte. Accanto a lei, egli agonizzava. Aveva ritrovato il biglietto perduto di donna Maria Vargas, sotto l’origliere di Adele Cima ed aveva inteso la ragione di quel suicidio, la ragione immediata e invincibile. — Perchè hai fatto questo? Perchè? — le gridò, indignato contro sè stesso, contro i capricci mondani e contro tutte le donne mondane. La inferma non rispose, ma lo guardò con tale espressione di silenzio! — Non dovevi farlo. Non ne valeva la pena — le disse ancora lui, esaltatissimo. Alla morente gli occhi si sbarrarono in un infinito stupore, come se ella si meravigliasse, sentendo che un tradimento non è un tradimento. — Sei una scema; non capisci niente; io non amo che te; sei una scema — le continuò a dire lui, in preda a una indomabile agitazione. Adele Cima, a quell’aggettivo che si veniva ripetendo, con tanta ostinazione e tanta crudeltà, insieme a tanto amore, nella sua agonia, chiuse gli occhi per morire. Ma non morì. La salvarono il medico e Paolo Spada. Fu molto tempo malata, ma guarì. Il suo fu un suicidio mancato, come erano state mancate varie altre cose della sua vita. Spesso, nella convalescenza, in un effluvio di tenerezza, innamorato più che mai della sua stupidina, Paolo Spada le veniva ripetendo: — Perchè hai voluto morire? — Per donna Maria di Vargas. — Ti giuro che non ne valeva la pena, anima mia. — Oh sì! — No, no, sei sempre la stessa, non capisci nulla. Se morivi, vedi, Adele, era perchè non hai mai capito niente. — È vero — mormorava lei, assorta. Dopo quel tentativo di suicidio, inutile, che non le aveva dato la liberazione, ella non domandò a Dio neppure più la pace. Il suo destino era di vivere, di amare, e di soffrire per l’amore, giacchè il Signore le aveva inflitto il castigo di amare un uomo diverso da lei per istinti, per temperamento, per carattere, giacchè sul suo amore pesava la fatalità del dissidio intellettuale, lo stato di oppressione della creatura meno nobile e meno spirituale, accanto a un’anima che saliva nei cieli dell’arte. Ella doveva soffrire e non doveva trovare rimedio alle sue sofferenze, giacchè le anime alte e squisite trovano mille vie per isfuggire ai contrasti della vita quotidiana, mentre le piccole anime li subiscono tutti, senza scampo e senza rifugio. Poi, più tardi, quando ella fu bene guarita e Paolo Spada fu bene sicuro che quella donna gli fosse vincolata per sempre, egli scherzò anche sul tentato suicidio. Chi manca un suicidio, non corre un’avventura buffa? L’amante sciocca ne rise anche lei, per celare la vergogna di quella ridicolaggine. Più tardi ancora, Paolo Spada tornò a tradirla, come si tradisce una buona moglie fedele, con altre donne: ella lo seppe, ma non trovò la forza di voler morire, temendo troppo di esser chiamata la più scema fra le donne. Anzi, egli finì per confessarle le sue scappate, convincendola che erano necessarie alla sua vita d’arte, ma che egli amava sempre la sua cara sciocca. La quale sciocca donna non si convinse punto, di questa necessità del tradimento: vi si rassegnò, piuttosto, poichè voleva il suo destino, così, che ella, che sarebbe stata felice con un uomo limitato e buono e onesto come lei, fosse infelicissima con un grande artista. SOGNO DI UNA NOTTE D’ESTATE A Roberto Bracco Massimo era solo. L’amico d’infanzia, non veduto da anni e poi incontrato improvvisamente per la via, dopo il lieto riconoscimento era venuto, alle sette, a pranzare in casa di Massimo. E costui che trascinava pesantemente il fardello di un’estate cittadina, mentre tutti gli altri anni era partito nel mese di giugno, si riprometteva una buona serata di ricordi, in compagnia dell’amico ritrovato. Avevano, infatti, passato due ore insieme fra il pranzo, la sigaretta e i liquori, chiacchierando dei tempi antichi, cominciando tutti i loro discorsi con un ti ricordi, sorridendo vagamente alle care memorie che si affollavano alla mente, interrompendosi talvolta, dando in qualche esclamazione di rimpianto, di nostalgico desiderio. Ma nella amichevole giocondità che aveva dilatato i loro cuori, si era presto infiltrato un senso di malinconia; avevano fatte vie diverse ed erano diventati assai diversi, in tutto; partiti dal medesimo punto, avendo fatto gli stessi studii, l’amico era adesso un illustre avvocato di provincia, con moglie e figli, con idee pratiche e semplici, un po’ appesantito di fibre e di spirito; e Massimo se ne era andato per dieci o quindici anni all’estero, di legazione in legazione, diplomatico senza passione, indolente, non facendo carriera per la sua pigrizia, contento o non malcontento del suo posto di segretario, bello come un meridionale bello, ma già appassito, coi capelli che si facevano radi sulla fronte e gli occhi smorti, non ricchissimo, ma abbastanza ricco, e adesso inchiodato da un anno a Napoli, in licenza — in penitenza, dicevano gli amici. Massimo era fine, originale, ma già consumato dalla sua esistenza, e segretamente oppresso da altre cure: l’amico era pieno di talento, ma forte e tranquillo, rimasto un po’ grossolano, chiuso nel buon senso provinciale che chiama follia l’originalità, e che si mortifica nel presente, per godere in un troppo tardo avvenire. Così, mentre l’uno raccontava all’altro la propria vita, colui che ascoltava, apprezzava, giudicava, freddamente giudicava, senza dire il suo giudizio in forma cruda, mitigando, è vero, per riguardo all’amicizia d’infanzia, ma facendo intendere come si trovassero lontani: e a un certo punto si guardarono in viso, perchè pensarono di essere, oramai, due estranei; ma non lo dissero. E forse, in fondo, Massimo invidiava all’illustre avvocato di provincia la sua limitata ambizione e il suo assiduo lavoro, e la famiglia grassa, pacifica, al sicuro delle tempeste, e la casa messa alla buona, ma la casa degli avi, la casa dei figliuoli, e quel senso di praticismo, di serietà, di equilibrio, tutte le cose, infine, che gli mancavano; mentre l’avvocato invidiava a Massimo la vita vagabonda ma aristocratica nelle Corti straniere, e l’avvenire che potea essere splendido, e la libertà di scapolo, e tutte le avventure di quella esistenza fantastica, e quella casa di giovanotto elegante e squisito, visioni che avrebbero oramai turbato i suoi sonni di provincia. A un certo momento, sospirarono ambedue. La serata era calda: dal balcone aperto del salotto dove fumavano, non spirava un soffio di aria: solo un acuto profumo di gelsomini veniva di fuori. Si accorsero di essere diventati malinconici. Troppe cose del passato avevano ricordate, troppe pietre sepolcrali di persone care perdute, di amori morti avevano rimosse: tutto questo non si fa senza un triste piacere, e il piacere poi fugge, e la tristezza resta. Fumavano in silenzio, con la testa rovesciata sulla spalliera della poltroncina; poi l’avvocato aveva guardato l’orologio. Per cortesia, disse a Massimo: — Vieni via con me? Ma non si eran forse detto tutto? E non avevan forse fatto male, a dirsi tutto? Massimo rispose vagamente che doveva scrivere alcune lettere urgenti; che si sarebbero veduti più tardi, alla Villa, verso le undici, senz’altro. Freddamente, l’avvocato promise di esserci, e si divisero, convinti che non si sarebbero riveduti quella sera, e forse mai più. Per dolce che sia il passato, esso è morto; e fantasmi, anche soavissimi, turbano l’animo dei più coraggiosi. Quando fu solo, Massimo si pentì di essersi condotto a casa quell’amico: tante chiuse cicatrici avevano stillato sangue, in quelle due ore! Mentre egli seguitava a fumare, nel salotto, udiva il suo servitore che riordinava la piccola stanza da pranzo; e poco dopo, il giovanotto gli venne a chiedere se avesse bisogno di lui, in quella sera, chè avrebbe voluto andarsene a trovare certi amici, per fare una passeggiata, con quel caldo così grande. Massimo, con una parola, lo licenziò: la porta si richiuse; egli era perfettamente solo. Ma la sua serata era perduta, postochè aveva voluto risalire imprudentemente il fiume del passato, in compagnia di una persona che aveva amata: il viaggio lo aveva scoraggiato, facendogli perdere quell’ultimo resto di morale pazienza, che lo aiutava a tirare innanzi quella solitària e fastidiosa estate napoletana. In queste ore di ribellione, sdraiato, abbandonato a una mortale spossatezza esteriore, mentre dentro gli si sollevava il cuore, egli fumava assai certe stupefacienti sigarette egiziane, che per lo più finivano per stordirlo: ma in quella sera di estate le sigarette gli si sfacevano fra le labbra strette ed egli le buttava via, semispente, a pezzetti. Andò al balcone: era al terzo piano di un gran palazzo di via Gennaro Serra, ed essendo più basse le case innanzi alla sua, pel livello della via, vedeva un po’ di mare e un grande arco di cielo stellato. La notte era bellissima, con un gran palpito luminoso della Via Lattea; ma la brezza non veniva e l’aria opprimeva. Sentendosi avvampare la testa, solo, stanco e pure non potendo restar fermo, prese la penna e volle scrivere: ma improvvisamente, innanzi alla carta bianca, si fece in volto più bianco della carta stessa, quasi che avesse veduto apparire non so quale visione, fra le penembre della stanza. Dalla via Gennaro Serra, un continuo rumore di carrozze si udiva: tutti uscivano dalle loro case, tutti se ne andavano per le strade, a respirar meglio, a guardare le stelle, a godere la notte napoletana bella, fresca nelle ore alte. Egli si fece di nuovo al balcone, soffocando: ritornò alla scrivania, si rimise a scrivere, ma non vi riuscì. E perchè avrebbe dunque scritto? A che servono le negre parole scritte sulla candida carta, nella effervescenza della solitudine, quando il parente, o l’amico, o l’amante che le riceve, le legge forse dinanzi a estranei, freddamente, ridendone? Troppo tempo e troppe cose passano fra il momento che si scrive e quello che si legge, fra chi scrive e chi legge, perchè una lettera serva a qualche cosa. Un organetto si fermò in piazza Monte di Dio, a suonare, con un metro largo, con un tempo largo, una canzonetta assai allegra, la quale così diventava bizzarramente triste; Massimo s’impazientì contro quel sentimentale o stanco suonatore di organino, che mutava una tarantella in marcia funebre. Forse il suonatore era vecchio; forse aveva fatto una magra giornata; forse era un infelice, perciò usciva dalla sua mano quella nenia così stravagante. Massimo si abbassò sulla ringhiera del balcone, e da quell’altezza buttò a caso una moneta da due lire al suonatore. La musica, dopo un poco, tacque: e Massimo se ne dolse; ora si sentiva più solitario, più annoiato, più insofferente che mai della sua dimora in Napoli. Che fare, dove andare, dove portare il suo corpo e il suo spirito, con quali sciocchi? con quali indifferenti, con quali esseri detestabili andare? Come passare quella notte di estate? Non avrebbe avuto riposo, lo sentiva: e sentiva che non vi era rimedio alla sua agitazione. Andava e veniva dalla scrivania al balcone, macchinalmente, quando un, sottile canto vicino lo colpì. Si fermò, ascoltando. Il canto veniva da un balcone poco discosto dal suo, anch’esso al terzo piano: aguzzò gli occhi, vide un’ombra bianca, era una donna che cantava una vecchia romanza del Tosti, poco nota, che è piuttosto un recitativo e che comincia così: /* Il gallo canta; e i sogni lieti o tristi Fuggon nel grande oblìo. Torna al mondo dei sogni, onde venisti, Larva dell’amor mio...... */ La voce era tenue e un po’ tremula, ma le parole si udivano distintamente. Massimo tese l’orecchio, guardò acutamente, e si accorse che la donna si dondolava sopra una sedia, cantando, come se si cullasse; aspettò che ella avesse finito, poi, piegandosi sulla ringhiera, chiamò: — Luisa, Luisa? — Che volete? — rispose una fresca e lieta voce femminile. — Buona sera: vi sto ascoltando, ma la vostra canzone è troppo triste. Perchè non ridete un poco? — Così, per ordine vostro? — Ve ne prego: ridete. — A che servirebbe? — Per rallegrare la mia infinita malinconia. — Voi, malinconico? — e diede in uno scroscio di risa fresco e limpido. — Brava, brava! — egli esclamò, applaudendo. Lei, per parlare con lui, si era alzata dalla sedia, si era messa all’angolo del balcone, curvandosi per veder meglio, e non li divideva che lo spazio di una stanza; le due case erano vicine. — Vi basta? — chiese Luisa ridendo ancora. — Mai abbastanza. Sono un uomo morto, Luisa. Ma quando sarò da quattro giorni nella tomba come Lazzaro, veniteci voi e ridete; io risusciterò, ve lo prometto. — Ci vedremo allora, non mancherò — diss’ella ridendo. Poi tacque improvvisamente. Massimo, per ringraziarla, si mise a cogliere dei gelsomini bianchi, odorosissimi, li raccolse in pugno, tentò due volte di buttarglieli sul balcone: ma erano così leggieri che caddero in istrada, candidi, roteanti. — Peccato, peccato! — gridò lei, che aveva indovinato il grazioso pensiero. E restò a guardare, giù, come se potesse ancora scorgere quella pioggerella di gelsomini odorosi. A un tratto, ella diede un piccolo grido: — Che è? — Ne ho trovato uno, per terra. Grazie! Sul balcone di Luisa un’ala di ventaglio si agitava ed egli ne vedeva luccicare le stelline: — Siete voi, che avete quel ventaglio? — Sì; perchè? — Perchè pare un pezzo di firmamento. — Non mi burlate — disse lei un po’ seria. Parlavano così tranquillamente, come se stessero in un salotto di conversazione: ma le notti estive sono così belle a Napoli, ed è così naturale stare al balcone, o sulla terrazza o nelle vie, è così naturale la chiacchiera all’aria aperta! Certo l’elegante addetto non avrebbe fatto così a Bruxelles, o a Copenaghen, dove le notti sono gelide, e i balconi hanno triplici imposte: nè con le dame della società sua, si sarebbe permesso una simile famigliarità. Appunto per questo egli trovava gusto in questa conversazioncella borghese con una semplice ragazza, da un balcone all’altro, dimenticando la profonda noia e il disgusto che lo avevano assalito mezz’ora prima. Adesso, sorgendo da quel poco di mare che si vedeva dai balconi, un globo rossastro si levava nel cielo, e ascendendo, impallidiva, diventava roseo... — ... ecco la luna, signor Massimo — mormorò lei, piano. Eppure egli udì. — È una bellissima luna, Luisa — le rispose, con convinzione. — Fra poco si nasconderà dietro quelle case, e non la vedrò più — disse la fanciulla, sempre piano. Egli udiva benissimo. A un tratto, chiamò: — Luisa? — Che volete? — Volete uscire, a veder la luna? — Sola? — Con me. — ... nossignore — disse lei, dopo aver esitato. — Perchè nossignore? — Per questo — replicò Luisa, enigmaticamente. — Venite, via. Torniamo presto. — No, non posso. — Siete cattiva, sapete. Luisa non rispose. — Se non vi decidete, vado via solo. La notte sarà magnifica e voi non la vedrete. Peggio per voi! Sono abbastanza vecchio, per non compromettervi. Volete venire? -... non posso. — Buona sera. — Buona sera — mormorò ella, lentamente. In verità, rientrando nella sua stanza, per prendere il cappello e i guanti, Massimo era indispettito. Aveva trovato un diversivo alle tristezze supreme di quella serata; la compagnia di Luisa come quella di un buon camerata, di un buon amico, lo avrebbe distratto. Ed ecco che quella sciocchina faceva la ritrosa, mentre era libera, indipendente, mentre egli non si era mai sognato di farle una linea di corte, da un anno che si conoscevano. Nervoso, abituato a superare facilmente tutte le difficoltà, il più piccolo inciampo lo inquietava: non andò di nuovo al balcone, spense tutti i lumi, e battè fortemente la porta, uscendo sul pianerottolo; anche Luisa era una sciocca! Ma passando innanzi a un’altra porta che dava sullo stesso pianerottolo, la vide schiudersi un poco e il profilo bruno di Luisa apparve: — Signor Massimo? — fece ella, guardandolo coi neri e dolci occhi, chiedendogli scusa col tono della voce, con lo sguardo. — Andate là, che non capite niente! — esclamò lui, nascondendo un sorriso, fingendo di essere ancora in collera. — Io... capisco — disse lei, schiudendo addirittura la porta. Ora si vedeva tutta la sua snella e alta figura, rivestita di un abito bianco di semplice mussola, con un nastro di velluto nero alla cintura: si vedeva il delicato volto ovale e bruno, dove la piccola bocca rosea si schiudeva come un fior di granato; e le sottili sopracciglia nere e arcuate davano agli occhi neri, per sè buoni e soavi, un’aria d’infantile meraviglia. — Perchè avete detto di no, Luisa? Avete così poco spirito? Vi ho forse mai fatto la corte, io, perche dobbiate temere la mia compagnia? — È vero, non me l’avete mai fatta — rispose Luisa, senza sorridere, abbassando gli occhi. — O dunque? Andiamo, prendete un cappello e una mantellina, fate una collezione di risate, e venite con me. Sarà un’opera di misericordia spirituale: sono così infelice! — Sì? Tanto? — interrogò lei, ansiosa. — Infelicissimo — confermò lui, fra il tragico e il burlesco. — Per amore, eh? — chiese ella, arrossendo della domanda. — Nossignora, ragazza curiosa. Naturalmente, nessuna donna mi ama e io, naturalmente, non ne amo nessuna. Andate a vestirvi e fuggiamo... Ella voltò le spalle, ubbidendo. Massimo restò appoggiato allo stipite della porta aperta, col cappello in mano, rigirando il suo bastoncino di ebano fra le dita, tranquillo adesso, abbandonandosi al minuto che passava, senza pensare ad altro. Dopo un poco, brevi passi discreti si riudirono e Luisa apparve, infilando i morbidi guanti lunghi di camoscio: aveva messo una mantellina di merletto nero a perline nere sul suo vestito bianco e un gran cappello di velo nero, una di quelle scuffie ampie e caratteristiche che stanno divinamente solo a un volto giovanile. Sorrideva, con le labbra, con gli occhi, guardando Massimo, così fresca, così luminosa di gioventù e di spirito, che egli espresse immediatamente la sua opinione. — Siete una creatura incantevole — disse, con un tono fra la galanteria e la verità, tanto che ella non seppe nè adontarsene, nè rallegrarsene. Per nascondere il proprio imbarazzo, Luisa si voltò a chiudere la porta di casa sua, mettendosene la chiave in tasca. Si avviarono, accanto, per le scale, senza che Massimo le offrisse il braccio: ella aveva un modo di camminare leggiero e spedito che le veniva dalla estrema giovinezza. — Sentite — le diceva lui, scendendo — ognuno di noi si secca... — Io non mi secco mai. — ... non mi contraddite, voi vi seccate, come me, della solitudine. Quando state sola, che fate? — Penso... — E non vi viene voglia di uccidervi? — Neppur per sogno. I miei pensieri sono dolci. — A che pensate? Ella fu lì lì per rispondere, con sincerità: ma fortunatamente si rattenne. — Che v’importa? — mormorò invece, con una certa malinconia. — Ma insomma, se deviate sempre il discorso, non lo finirò mai. E vi assicuro che è grazioso, che vale la pena di udirlo, Dunque, che voi vi possiate seccare o no nella solitudine, questo non preme, ma nella solitudine mi secco io, e voi siete allegra, voi cantate, voi suonate l’arpa, voi ridete così bene. Uniamoci insieme, fraternamente, così io non mi seccherò più, e voi, credo, vi divertirete meglio. È deciso, eh? Come fratello e sorella, naturalmente. Un giorno o l’altro, poi, vi mariterei a un amico che amassi molto. È deciso? Ella rideva, rideva, sommessamente, mentre attraversavano l’ampio portone. Una risata, però, che aveva qualche soverchio trillo nervoso. — Non volete saperne? — disse lui, seriamente, fermandosi, sul marciapiede. — Non è mica una cattiva offerta. Sono vecchio, io, ma sono sempre un buon figliuolo: ho viaggiato, vi posso raccontare delle storielle interessanti... pensateci bene... — Sì... sì... combineremo, un giorno o l’altro — e la fanciulla voltò la faccia in là, per non farsi scorgere. Massimo e Luisa scendevano per via Gennaro Serra incontrando una quantità di gente che saliva e scendeva, ondeggiando, a coppie, a gruppi, a crocchi, a file, con la mollezza estiva della folla napoletana. Malgrado che fossero le dieci, molte botteghe erano ancora aperte e illuminate: non vi si lavorava; delle donne in giacchettina bianca prendevano il fresco sulla porta, chiacchierando, e dall’Egiziaca veniva un suono di chitarre e di mandolini. La birreria Dreher, sotto i marmorei portici di San Francesco di Paola, aveva messo fuori tutti i suoi tavolini di marmo, e le tazze di birra, dalla cima schiumosa e nevosa, apparivano alte sui vassoi, portati dai camerieri, mentre i pesanti piattini di cristallo si accumulavano innanzi agli avventori. Adesso, sorgendo pallida e mancante sul lato sinistro, elevandosi sopra l’arsenale di marina, la luna illuminava tutta piazza Plebiscito. La facciata della Prefettura, tutta chiara sotto il raggio lunare, aveva delle persone che si muovevano sui suoi grandi veroni: il Gran Caffè e i suoi tavolini, allargantisi sulla via, e i molti avventori erano avvolti in un chiarore fantastico, e le donne recavano con lentezza il cucchiaino del sorbetto alle labbra, o agitavano il ventaglio pian piano, con gli occhi sgranati, quasi sognassero. Nella piazza Plebiscito, andando lentamente nella morbida luce lunare, la gente passeggiava, sulla striscia di pietra bianca, innanzi alla fontana: e il grande getto d’acqua, alto, sottile, pareva una piuma bianca, immobile, tutta penetrata dalla luminosità della luna. — Che bella notte! — susurrò Luisa, affrettando il passo. — Vi è troppa gente — disse lui, buttando la sigaretta, diventato a un tratto pallido e pensoso. Luisa se ne accorse. Affettuosamente gli toccò la mano con la sua mano guantata, interrogandolo con lo sguardo; egli non rispose, ma le fece un cenno che non chiedesse, che non voleva parlare. Per temperare questo silenzio, graziosamente le prese la manina guantata e se la passo sotto il braccio, e camminarono più presto, andando verso Santa Lucia. Qualcuno si voltava a guardare la fanciulla biancovestita, i cui occhi brillavano soavemente sotto la nera e trasparente aureola del cappello; ma ella non vedeva nulla, si piegava ogni tanto a guardare il suo compagno, per osservare se l’umor torvo si fosse allontanato. — Ma che avete? — chiese, alla fine, agitata. — Vorrei... vorrei non essere qui — proruppe lui, esprimendole tutta la sua nostalgia inguaribile. — Ah! — -disse ella, senz’altro, chiudendo gli occhi, mentre le labbra le tremavano. E Massimo non seppe, o gli mancò la forza di spiegare, di modificare la sua scortesia. Alta già sopra Capri, la luna imbiancava tutta la via marina di Santa Lucia, dove mille lumicini si agitavano, dove i trams, carichi di gente che andava verso Posillipo, passavano, ogni cinque minuti a suono di cornetta, dove le venditrici ambulanti di acqua sulfurea davano il loro richiamo, dove i pescatori accovacciati nelle nasse, fumavano la pipetta corta che aveva lo stesso colore della loro pelle. Appoggiati al largo parapetto che dà sulla via inferiore di Santa Lucia e sul mare, uomini e donne godevano la prima brezza notturna che si era messa al sorgere della luna; si udiva suonare il pianoforte nel salone all’Hotel de Rome, il salone che dà sul mare; laggiù, laggiù, verso il Wermouth di Torino, dei cantori ambulanti cantavano. Negli equipaggi signorili, passavano le donne in abiti chiari, coi diamanti che scintillavano alle orecchie; Dovunque gente, dovunque suoni e canti, dovunque la vitalità di un popolo che lentamente sorbisce la felicità di una notte estiva lunare. Senza dirle nulla, invece di andare verso il Chiatamone, portandosi la fanciulla a braccetto, egli le fece discendere la scala che porta alla via inferiore di Santa Lucia, donde si va ai bagni la mattina; dove i vaporini approdano, dove approdano i barcaiuoli, con le barchette, dove sono le sorgenti dell’acqua sulfurea: ivi, su quella lingua di terra, brulica una folla di marinai, di pescatori, di donnette popolane, e una trattoria ha le sue tavole, quasi quasi sino all’acqua nera della riva; i bevitori di acqua sulfurea vi mettono le loro sedie di paglia, e i bimbi vi vendono le ciambellette brusche. Pure, in quella notte, quel brulichio bruno si rallentava, quasi che il placido lume della luna quietasse tutti i movimenti, rammutolisse tutte le voci, e desse tutta la sua dolcezza alla vivace scena. Quando furono sull’ultimo scalino dell’ampia gradinata, Massimo e Luisa si arrestarono un minuto. — Andiamo a cena? — domandò lui, distratto. — Oh no! — È vero, sono una bestia. Eppure dobbiamo far qualche cosa... andiamo per mare, allora? — Sì — rispose lei, pensosa — andiamo. — Ma vi piace di andarvi? non lo dite per compiacenza? Io vi annoio terribilmente, lo so... Ma, non è colpa mia. E poi, voi siete buona e perdonate. Se non volete andare in barchetta, rinunziamoci. — Andiamoci subito. Ed egli intese, in quelle parole, una preghiera così spontanea, che chiamò subito un barcaiuolo. Entrò prima Massimo e invece di dar la mano a Luisa, per farla discendere, mentre ella esitava, vedendo quel baratro nero, le stese le braccia, la sollevò leggermente e la depositò sul cuscino di cotonina, accanto a sè. Il barcaiuolo che aveva avuto ordine di andare verso Mergellina, vogava tacitamente. Massimo fumava: ma ogni tanto, dando uno sguardo a Luisa, la vedeva così tranquilla, così serena, così intimamente felice; ella era così bella in quell’abito bianco, sotto la trasparente ala del suo cappello, con le mani abbandonate in grembo, che egli non osava dire una parola, non volendo turbare quel soave spettacolo. La barchetta si allontanava in linea retta, per poi girare intorno al forte Ovo: e le case di Santa Lucia, e la collina di Pizzofalcone parea che crescessero verso il cielo, verso la luna, come attirate da quel morbido chiarore. Massimo e Luisa non scambiavano una parola, solo egli la guardava con insistenza; tutto il delicato volto e la persona candidamente vestita, avevano in quell’ora e in quel paesaggio un effluvio di poesia che avrebbe inebriato il cuore più freddo. Ella gli sorrideva, così, naturalmente, quasi che il suo destino, nella vita, fosse di sorridergli sempre; e l’ingenuo, giovanile fascino del sorriso rammentava a lui altri tempi, altre cose, vagamente, dandogli un infinito e indefinito sentimento di tenerezza. Allora, sottovoce, egli provò il bisogno di chiamarla: — Luisa. — Che dite? — rispose ella, piegandosi per udir meglio. — Niente. Ma ancora, più tardi, mentre si allontanavano sempre più verso l’alto mare, nel candore immacolato della luna, verso l’orizzonte; che si era fatto chiarissimo, egli la chiamò per nome, assai piano, come se pronunciasse quel nome per sè stesso, evocandolo, invocandolo, emblema di dolcezza nelle sue sillabe, nelle sue lettere, nel musical suono, in quello che era, in quello che rappresentava. Quando quel lieve soffio l’animava, come una carezza, Luisa s’inchinava, attratta, vincolata dalla voce e dalla musica; e Massimo vedea che il viso le si tramutava, onde di sangue le fiottavano alle guancie, onde di pallore le salivano alla fronte. E non so quale acuta, spirituale voluttà lo teneva, di vedere scolorare, al suono della sua voce, quel purissimo volto giovanile: e tutta la tenerezza ch’egli poneva nella parola Luisa, si facea più profonda, sgorgava più larga, per circondare, avvolgere, abbracciare quella persona di donna. Ma fu un punto, e la emozione di Luisa era così intensa, egli vide tale smarrimento negli occhi della fanciulla, che si fermò, e riaccendendo una sigaretta: — Perchè non cantate? — le disse. — Voi dovete cantare, me lo avete promesso. Scherzava con quella ironia cortese che serviva a nascondere il proprio pensiero. Luisa crollò il capo, tristemente: l’incanto si dileguava; ella udiva un’altra volta, mentre Massimo parlava, quella velatura di sogghigno che guastava quante affettuose cose egli dicesse. Tentò di riafferrare un minuto di dolcezza: — Chiamatemi ancora — gli disse pregandolo. — Oh Luisa, Luisa, Luisella, piccola fanciulla cara, se non cantate, io vi riporto a terra. A lei gli occhi si riempirono di lacrime; il sangue ascese impetuosamente dal cuore agli occhi; nonostante schiuse la bocca e con la sottile voce tremula, diede alle fragranti aure marine una vecchia canzone. Con le mani congiunte in grembo, con la testa un po’ levata, guardando il gran cielo intorno, ella cantava; la fine bocca rosea si schiudeva ad arco, mostrando i denti bianchi, scintillanti, e ogni tanto i soavi occhi seguivano quasi il movimento molle della musica, aprendosi più grandi sul paesaggio. Massimo si era voltato verso lei, appoggiando il braccio sul bordo della barchetta, seguendo il ritmo della canzone che pareva si cullasse nel ritmo del mare. A un tratto, la voce le si velò; ella tacque. — Che avete? — Nulla, nulla. — Perchè siete così triste, Luisa? — V’ingannate, non sono triste... sono anzi così contenta di esser qui... credetelo... Una emozione era in tutto quello che diceva, così sincera! — Vi credo, Luisa. Dite un’altra canzone... — Sono tutte cose vecchie! — Non importa... — E non tutte sono liete. — Non importa... Mi basta che le cantiate voi. — Non volevate che io ridessi? — insistè lei. — Raccontatemi una delle vostre storielle interessanti e riderò! — Se vi racconto una storiella, io, vi faccio piangere — e buttò la sigaretta in mare. — Allora tacete. È così dolce questa notte. Mentre il barcaiuolo vogava verso Mergellina, con un cenno largo Luisa indicò a Massimo le carezzose linee delle colline che vanno da San Martino al capo di Posillipo, tutte bagnate dalla luce lunare, con le loro case chiarissime dalle mille finestre aperte e illuminate, coi lumi che cingono l’arco della marina napoletana come una linea di fuoco, con uno scintillio dovunque, per le vie e sulle colline. Essi attraversavano, tagliandola, la grande striscia fredda, lucente come metallo, che la luna alta metteva sul mare, dall’orizzonte alla riva, lunghissima, occhieggiante, come mille specchietti moventisi nel raggio lunare. Massimo guardò intorno, ma i suoi occhi tornavano al purissimo viso di Luisa, come se da esso partisse quel fascio di dolcezza. Ella sostenne un minuto lo sguardo di Massimo, poi le palpebre le batterono, ammaliate, non reggenti a quel fascino: — Siete voi che siete dolce — le disse lui, all’orecchio. Adesso avevano voltato l’angolo di Mergellina, costeggiavano, lungo la via di Posillipo, tutta piena di ville, di osterie, di trams che passano continuamente, in tutte le ore della sera, specialmente in estate. Talvolta, tendendo l’orecchio, si udivano dei canti venire dalla terra, affievoliti; e le ville, piene di gente sulle terrazze, sembravano quei castelletti di carta, dai cento bucherelli, che i bambini illuminano con un solo cerino interno, giocattoli frastagliati o trasparenti dai personaggi minuscoli. Passando rasente una di esse dal giardino pensile tutto fiorito arrivarono delle risate, degli allegri strilli femminili. — Abbiamo un pubblico cortese — disse Massimo — ci prendono, per due amanti. — Ah! — rispose lei, niente altro. Il palazzo di Donn’Anna si delineava, nero, avanzandosi sul mare: sul suo lato destro e sul sinistro, delle trattorie popolari erano piene di banchettatori e di bevitori, ma la facciata che dà sul mare serbava il suo carattere di rovina disabitata, col mare che entrava chetamente nei suoi portoni, ormai trasformati in grotte, come quelle di Sorrento e di Capri. La luna batteva sulla facciata del palazzo, che la ricchezza e la superbia di donn’Anna di Medina Coeli non aveva potuto finire, prima di ritornare alla Spagna natìa: e i finestroni e le finestre prendevano il chiaror lunare, fantasticamente; la rovina pareva meno aspra, meno tetra, sotto il placido raggio. Il barcaiuolo che remava più lentamente, per riposarsi, chiese a Massimo se voleva entrare in una di quelle grotte, con la barca. — Avete forse paura? — chiese lui a Luisa, prendendone distrattamente la mano appoggiata al bordo della barchetta. — No, non ho paura — ella rispose: eppure la voce era velata di emozione. L’apertura della grotta era tutta bianca e l’acqua vi fiottava sordamente, gorgogliando: ma quando la barca s’internò in quel chiuso laghetto di acqua marina, la oscurità si fece profonda. La barca stava immobile, in un gorgoglio fresco di onda che batte alle pareti di pietra, in una gran tenebra. La mano di Luisa era restata in quella di Massimo: egli la sentiva molle, abbandonata, nella sua, quasi che non vi fosse miglior sorte, miglior destino per essa. Involontariamente, egli la strinse, e intese che la mano rispondeva alla sua stretta, fiaccamente, ma dicendo sempre: sì. Allora egli si piegò; in quell’ombra, per distinguere la faccia di Luisa; il barcaiuolo remava, per uscire dalla grotta e quando furono di nuovo sull’aperto mare, al lume della luna, egli vide due lunghe lacrime scendere da quei belli occhi e disfarsi sulle guancie. Ah! egli non poteva veder piangere nè un bimbo, nè una donna, foss’anche di gioia: e fu più turbato di lei. — Che avete? Avete avuto paura, avete freddo? — chiese precipitosamente, tenendole le mani, che erano gelide, invero, nei guanti. — No, no... — Sì, sì, sbarchiamo, questo viaggio in mare, alla luna, vi ha gelato. Sbarchiamo, cammineremo a piedi, per riscaldarci. Presso il palazzo Donn’Anna vi è spiaggia. Sbarcarono, in fretta, egli pagò il barcaiuolo e lo licenziò: quello gli disse delle parole di augurio; anche lui li prendeva per due amanti. Per salire alla strada dovettero passare presso una di quelle trattorie, fra le tavolate dei mangiatori e dei bevitori, senza guardare nè a dritta nè a sinistra, egli sempre un po’ agitato, ella che lo seguiva senza badare a nulla, quasi che il suo fato fosse quello di seguirlo sempre, dovunque, senza sapere dove si andasse. I bevitori e i mangiatori ridevano e gridavano: la bianca figura di donna non ne fece voltare nessuno, tutti erano ebbri del vino, della notte, o delle chiacchiere dette, con la tanto bella e felice esaltazione meridionale. Massimo e Luisa scesero per la stretta scaletta, uno presso l’altro, e quando si trovarono sulla via di Posillipo stettero, esitanti. — È forse tardi per voi? Volete rientrare? — Non so... Voi rientrate? — Vi accompagnerei, sì, ma senza rientrare. Non dormirò, io, stanotte... — e voltò la faccia in là. — Allora... allora rimarrò ancora un poco — disse fievolmente lei. — Grazie, siete buona — e le strinse la mano. Così, camminarono, senza darsi braccio, verso Posillipo, sul piccolo marciapiede rasentato dai trams che vanno e vengono: imbattendosi in gente che tornava a piedi, in piccole comitive schiamazzanti, in coppie solitarie appoggiate al parapetto, guardanti il mare. Massimo e Luisa, avanzando lentamente, non parlavano, divisi sempre da coloro che transitavano. Le ville a mezza costa, e quelle giù, al mare, avevano innanzi ai portoni delle carrozze che aspettavano: i balconi lasciavano udire la musica che vi si faceva, il sottile e immemore concerto delle notti estive napoletane: degli equipaggi, di ritorno, passavano; le donne erano avvolte in lievi scialli bianchi. Senz’accorgersi della via, Massimo e Luisa andavano innanzi, innanzi: la linea dei trams finì; si fecero rare, poi sparvero, le osterie; la gente s’era diradata, a poco a poco, e quando ebbero voltato l’angolo della villa Dini, la solitudine fu perfetta. Solitudine bianca, senza terrori di ombre, senza la tetraggine che ispirano la campagna e il mare, di notte. Solo un alto, lontanissimo cielo; solitudine mite, piena di giardini in fiore tutti candidamente frastagliati dalla luce lunare, piena di parchi dai grandi alberi immersi nel chiarore, piena di vigne folte che l’autunno aspettava, per la vendemmia, piena di orti dove ancora, come un po’ dappertutto, si udiva l’odore del gelsomino notturno. La via era deserta, l’ora era tarda, ormai: e solo, ogni tanto, qualche rara carrozza ritornava da villa Postiglione: tutto Posillipo, con le sue campagne, col suo mare, coi suoi rotondi piccoli golfi che sembrano, in fondo alla riva, un grande occhio azzurro divino, coi suoi profumi, pareva che appartenesse a Massimo e Luisa, Egli camminando con la testa bassa, con gli occhi bassi, giuocava con la mazzettina di ebano, urtando le pietruzze della via; Luisa andava accanto a lui, fissando gli occhi sul mare: ma i suoi occhi avevano un velo innanzi, il suo sguardo aveva la fissità di chi non vede. Ogni tanto levava una mano alla fronte, per respingere da parte una ciocca dei suoi neri capelli che ricadeva sempre: e quel movimento aveva qualche cosa di assai leggiadro. Quanto tempo camminarono, così, senza scambiare un detto? Nessuno di loro avrebbe potuto dirlo: presi dal loro mondo interiore, presi dall’ambiente che li aveva vinti, mancava oramai a loro la nozione del tempo e dello spazio, erano in quell’oblìo quieto, addormentatore, che vince tutti i cuori, dopo le emoziani che dà il sentimento, o che danno le cose. Massimo si riscosse pel primo: — Che cattivo compagno son io! — esclamò. — Saranno due ore che non vi dico una parola. — ... Forse non avevate nulla da dirmi — azzardò lei, con un timido sorriso. — V’ingannate: se vi dicessi tutto quello che dovrei dirvi, sarebbe un opera in-folio, in ventiquattro volumi! — Dite, allora... — Ci vorrebbero alquanti anni della vostra vita, per udirmi, cara: e... credo che sia meglio non farne niente. — Ditene qualcuna, di queste cose... — insistè lei, con un tremito nella voce. — No, no — replicò Massimo, recisamente. Ella lo guardò, così triste, che egli non potette celare un moto di dispetto. — Ma Luisa! Ma che siete una sensitiva? State ridendo, il che è una cosa graziosa per tutti, graziosissima per me, e basta guardarvi perchè la risata vi si spenga sulle labbra! Sorridete, e basta che vi si dica una parola perchè sparisca il vostro sorriso! Figliuola mia! Vi avverto che di questo passo, ci vuol poco a essere la donna più infelice di questa terra. — Non importa, la felicità — ella rispose, con un sorriso estatico. — Bugia, bugia! Bisogna esser felici, bisogna avere il cuore di bronzo! Di bronzo, cara mìa bella! — Non importa, meglio averlo aperto a ogni tenerezza — replicò con la forza del suo innocente animo. — Vi preparate un brutto avvenire, Luisa, — disse lui, glacialmente. — Non importa — ella ribattè, per la terza volta, con il supremo coraggio dei cuori buoni. Ed era così bella della sua gioventù, del suo candore, della sua abnegazione, così bella per sè, e per quello che confusamente ma fortemente sentiva, tanto nobile abbandono, tanto alto sacrificio da lei traspariva, che egli si arrestò, un po’ smarrito, ammirando quella creatura semplice e sana, che si gittava nel precipizio a occhi chiusi, sorridendo. I. — Povera Luisa — mormorò soltanto lui, carezzandole la manina inguantata che si appoggiava fidente al suo braccio. — Non mi compatite — ella rispose, crollando il capo, sorridendo a una idea — io sono più felice di voi, — Forse — disse lui, con voce breve. Adesso, dopo avere oltrepassato il ponte di Posillipo, quel largo poggiuolo che da una parte si affaccia alla collina folta di vigneti, e dall’altra sopra, una valle che discende al mare, mollemente, lasciato il lastricato del ponte che suonava sotto i loro passi, nella notte, erano entrati in un sentiero oscuro, fra una siepe alta di more spinose, e una muraglia alta, tappezzata di edera, che serra le due ville ultime sul mare di Posillipo, la villa Postiglione e la villa Sans souci. Era sparita la luna dietro la muraglia, e sullo stretto sentiero che discendeva, essi non vedevano che un’altissima striscia di cielo, tutta chiara, dove le pie stelle avevano un tremolìo bianco e languido. Dagli orti, di nuovo, un confuso olezzo di fiori e di erbe odoranti arrivava, dove più acuto signoreggiava il profumo del gelsomino: ed essi andavano in quell’ombra, in quel fresco notturno, ignari della loro strada, sul molle terreno umido di brina che si faceva elastico sotto i loro passi. A un tratto, levando gli occhi, un’immensa linea di paesaggio si schiuse loro innanzi, tutta candida sotto la luce lunare. Erano al Capo, in quel posto che la fantasia popolare ha chiamato il Paradisiello: e il gran golfo di Napoli era come una immensa conca chiarissima, cinta da lumi vividi, scintillante fin nelle borgate, scintillante fino laggiù, laggiù all’estrema punta di Massalubrense, dove l’abbraccio si chiude; e da qui tutto il gran mare che bagna i Campi Flegrei e Pozzuoli e Cuma, in una curva nobilissima e poetica, in un silenzio di cose e di uomini, quasi che niuno più, dopo i greci e i romani, fosse venuto ad albergare in quel bellissimo e felice paese. Lo scoglio del Capo si avanzava fra i due golfi, bagnato di luce da una parte, oscuro dall’altra, ma tutto il mare, dovunque, qui sotto lambente la pianura vasta dei Bagnoli, laggiù, sotto l’isola di Nisida, e lontano lontano, era un chiarore immenso, immobile e quieto. — Dio, quanto è bello! — ella disse, con la voce velata dalla emozione. Là innanzi, creata dalla natura, è una piattaforma quasi rotonda, una terrazza messavi dal Signore, a cui gli uomini hanno aggiunto un muretto rotondo per appoggiarvisi, per sedervisi; di là tutto si vede. Di giorno su quella terrazza vi sono tre o quattro mendicanti, vecchie e piccine, che chiedono fastidiosamente l’elemosina agli stranieri estatici; ma di notte non un’anima, non un passo. Sulla terrazza, lungo il muretto e dietro ad esso, pei greppi, cresce l’erba selvatica odorosa e qualche piccolo fiore agreste. Essi si fermarono colà silenziosi, appoggiati al muretto, senza lasciarsi, penetrati dalla poesia ineffabile di quell’ora, in quel paesaggio: poesia intima e profonda che misticamente li avvolgeva. — È tutta dolcezza — disse la fanciulla, la cui voce si era velata, affievolita. — Infinita dolcezza — rispose lui come un’eco. — Chi abita in quell’isola, lassù? — chiese ella, levando la mano, indicando Nisida. — Una gente trista... — e pareva non volesse continuare. — Che gente? — insistè lei, piegando il suo bel viso chiaro verso di lui. — I galeotti: lì v’è il bagno penale. — Una gente infelice — ella corresse, umilmente. — Ma le belle notti estive, le belle notti lunari, si levano anche per essa. — Cara Luisa... — ripetè lui, vagamente. Ella lo guardava pronunziare il suo nome, non solo assaporandone la musicalità, ma sentendone acutamente tutto il tono, tutta la intenzione. Ogni volta che questo nome usciva dalle sue labbra, ella aveva un piccolo tremito interno: quando già il nome era stato portato via dalle onde dell’aria, ancora in lei, nel suo cuore si allargavano più grandi, più grandi i cerchi di quel tremore.. — Guardate quelle casette, laggiù? — continuò ella, per sfuggire alla sua crescente commozione, accennando alle casette dei Bagnoli. — Son tutte chiuse, non un lume. Tutti riposano felici, senz’aver bisogno di ammirare la notte e la luna.... — Gli abitanti di quelle casette videro un giorno un orribile spettacolo — rispose lui, macchinalmente — è qui che hanno fucilato Misdea. — Qui? — Laggiù, in quella pianura. — In una notte come questa? — No, in un’alba freddissima. — Perchè lo hanno ucciso? — Perchè aveva ucciso. — Voi mi dite sempre delle cose tristi — ella osservò malinconicamente, con un lagno infantile. — Ho torto — confessò lui — anche questa bell’ora dev’essere guastata. Scusate, cara. Vi assicurò che sono molto infelice. — E perchè? — ella chiese, curvandosi a interrogare il suo volto. Ma gli aveva sfiorato con la guancia la spalla. — Ho scherzato — rispose Massimo, con la voce un po’ alterata. — Volete sedervi? E le lasciò il braccio, si sedette sul parapetto e accese una sigaretta. Ella, in piedi, un po’ triste di essere stata abbandonata, con le braccia pendenti lungo la persona, lo guardava. — Volete fumare? — No — ella disse. — Peccato! una sigaretta è deliziosa, qui, a quest’ora. — Se vi piace, la fumerò. Egli le offerse il portasigarette russo, di argento, aperto: ella ne prese una, di sigarette, con le dita sottili: ma mentre gli chiedeva del fuoco, Massimo, preso da un subitaneo moto di collera, le strappò la sigaretta e la buttò giù, pei greppi. — Non fumate, è una brutta cosa, somigliereste a tante donne che fumano... tante donne... — Come volete — disse ella, rassegnatamente. Ma avendolo visto restar torvo, seccato, cogli occhi bassi, battendo col tacco contro il muretto, ella voltò le spalle e si allontanò un poco, girovagando, discendendo verso i Bagnoli, risalendo, affacciandosi alla vallata. Egli la seguiva con lo sguardo, ombra bianca attraverso il chiaror bianco della luna, camminare senza rumore, con appena un fruscio del vestito fra le erbe; e quando ella ritornò a lui, portava dei ramoscelli fioriti di menta selvatica. Picciolissimi fiorellini lilla sopra minutissime foglioline verdi; ella ne odorò un ramoscello e glielo porse. Il viso di Massimo parve si rischiarasse: egli prese il ramoscello, l’odorò lungamente e poi, invece di metterlo all’occhiello, lo nascose nell’apertura del soprabito, dentro, dentro, in modo che non si vedesse più, deposto e serrato sul petto. Allora ella fece un passo e con un salto leggiero gli si sedette accanto sul parapetto. Tacevano. Adesso voltavano un po’ le spalle al paesaggio marino e avevano innanzi solo la via donde erano venuti e le campagne basse di Fuorigrotta. Ma guardavano, forse, senza vedere. Erano seduti proprio accanto, le spalle e le braccia si sfioravano, ad ogni lieve movimento. Sempre fumando la sua sigaretta, egli le sollevò la mano guantata e ne arrovesciò lentamente il morbido guanto di camoscio. Pallida e sottile apparve la manina della fanciulla, col braccio rotondo e bianco. — Avete una bella mano, Luisa — disse. Le sue labbra, delicatamente si posarono sulle dita piegate della bella mano: un bacio che era un soffio. E restò a giocherellare con le dita, senza poter lasciare quella mano. Ella non poteva parlare. — Perchè non portate tutti quei cerchiolini di oro, di argento, di platino, quei braccialettini che tintinnano, salgono e scendono, continuamente, quando la donna si muove? Sono carini, è vero? Ella lo fissò, trasognata, come se non avesse udito che l’armonia della sua voce, senza intendere il senso delle parole. — Sono carini... — egli ripetè — ve li donerò io, se li volete da me; mi piacciono tanto. Ancora scherzava con la mano, quasi attirando a sè la persona e l’anima della fanciulla: e la bella persona e la povera e cara anima, non sapeano che piegarsi a lui. La testolina si appoggiò con la guancia alla spalla di lui, socchiudendo gli occhi; e pian piano, delicatamente, quasi a sorreggerla, Massimo le passò un braccio dietro alla cintura, abbracciandola, reggendola. — State bene così? — le domandò, con voce roca. Ella accennò di sì, con le palpebre, non potendo parlare. — Non vi addormentate alla luna, almeno, Luisa. La luna fa impazzire chi si addormenta al suo chiarore. Ella ebbe un sorriso così profondo, così enigmatico che lo scosse. Poi, tacquero. Passò del tempo, così. Confusamente, ogni tanto, nella mite e intima delizia di quella solitudine, di quella vicinanza, ella sentiva tremare, talvolta, nella sua, la mano di Massimo; e talvolta, sentiva il respiro di lui affannarsi. Allora levava le palpebre a guardarlo: lo trovava intento a fissare il suo volto, intensamente, con tale un ardore concentrato di visione e di attenzione, che non aveva ella mai scorto. Il tempo passava, sulle loro teste vicine, sulle mani dalle dita intrecciate, immobilizzati in quell’atteggiamento. E ad essa sembrava d’immergersi in un sogno lungo, senza fine, che ricominciava sempre dal principio, dove passavano sulle sue mani dei baci leggieri come un soffio, dove carezzava i suoi capelli una mano molle e lenta, dove un acuto profumo di fiori che si appassivano, le saliva al cervello, dove una voce ripeteva il suo nome, sempre, con la profondità dell’amore: un sogno tutto chiaro di luce lunare, in un divino paesaggio, un sogno ammorbidito dalla rugiada, dai fremiti della campagna, dal palpitare del mare sotto la luna. Invero, Massimo, reggendo la bella persona, tenendone la manina nella sua, sentendo tutta la seduzione di Luisa e delle cose, dell’ora e del tempo, restava immobile, con gli occhi socchiusi, cercando di riunire tutti i suoi pensieri, per essere forte, per vincere il fascino immortale che ha la beltà della donna e la beltà delle cose, la innocenza della gioventù e la solenne purità della notte, nella campagna, innanzi al mare. Non lui sognava, che era uomo, che aveva vissuto, che sapeva; ma quasi vedeva, dietro le tenui palpebre abbassate di Luisa, negli occhi pronti di dolcezza che si schiudevano levandosi a lui, vedeva il sogno d’amore, il sogno di quella notte d’estate distender la sua sottile e salda rete d’argento sull’anima della fanciulla. E ogni tanto, come il fascino di tanto muliebre candore, di tanta fede, di tanta giovinezza fragrante si faceva più alto, pareva anche a lui di smarrir la testa, partito per sempre, per la siderale, per la selenica regione del sogno. Cercò di riaversi, di riaccapezzarsi, parlando: — Dormite? — volle dire, scherzando, a Luisa. Ma egli stesso non riconobbe la propria voce. Chi aveva pronunziato quella parola? Ella scosse il capo, con un sorriso così dolce, che egli non vi potette reggere: — Vogliamo andar via? — le susurrò all’orecchio. La luna fa impazzire, Luisa, Luisa... — Ancora un poco — ebbe la forza di dir lei, nella innocenza della sua passione. Ancora un poco. Egli abbassava il capo, soffocando le parole che gli sgorgavano dalle labbra, interdicendosi persino di carezzare più le fredde dita della fanciulla, non volendo udire il profumo di gelsomino, che veniva da lei, di quell’unico gelsomino che ella aveva raccolto sul balcone e messo in petto, non volendo cedere alla voce di tenerezza infinita che emanava da lei e da tutte le umane cose, intorno. Sì, Massimo vedeva bene che ella sognava, oramai, il suo grande sogno, l’unico e ultimo sogno, sotto la gelida e allettatrice luce della luna, simile a Elena, la bionda: sentiva che vincendo la ragione dell’età, del pericolo, dell’esperienza, che vincendo finanche il profondo segreto del suo cuore, egli stesso, per la ignota forza di sentimento che rinasce dalle sue ceneri anche nei cuori inceneriti dalla passione, egli stesso sarebbe stato trascinato dolcemente in quel sogno, perduto anche lui, come una volta, come sempre. E facendo, in quell’atto, una delle più dolorose rinunzie della sua vita, il braccio che sosteneva Luisa si rallentò, un poco: pian piano le lasciò la mano. Ella trasalì, comprese: si levò, col volto così pallido che pareva vi si fosse infiltrato il raggio lunare, a raffreddarne per sempre il sangue e le fibre, si levò con le palpebre battenti, gli occhi smorti, come coperti da una nebbia torbida. — Andiamo — ella disse, voltandosi ancora a salutare il mare, la campagna e il cielo. Camminarono presto, vicino, senza darsi braccio; Massimo pareva oramai colto dal freddo, con un desiderio di rientrare in casa. La via era assai lunga, mentre, al venire, non se ne erano neppure accorti: a ogni nuovo gomito che faceva la via, egli si piegava, con una certa ansietà, per vedere se erano vicini; ella lo guardava di sottecchi, camminando presto anche lei, non osando dirgli nulla. Alla fine gli espresse il suo pensiero. — Speriamo di trovare una carrozza. — Speriamo — ripetè ella. Ma per un pezzo non ne trovarono; la notte era altissima, tutte le ville erano chiuse e silenziose, la strada di Posillipo era deserta, la luna, salita già allo zenit sul cielo, vi batteva a picco, dandole oramai un aspetto un po’ spettrale. Egli osservò che la fanciulla si stringeva nella mantellina, trasalendo. — Avete freddo, è vero? — Un poco. — Siamo stati troppo tempo... laggiù... Luisa non rispose: camminava a occhi bassi, senza voltarsi nè a destra, nè a sinistra. — Forse avete paura, cara? — Un poco. — E di che? — Di tutto... la via è così deserta... gli alberi sembrano fantasmi... — Abbiate paura degli uomini e non dei fantasmi, cara. — È vero — ella soggiunse, umilmente. Forse egli stesso, in quell’ora così tarda, in quella deserta campagna, dove sboccavano tante grotte di tufo dalle immani bocche nere aperte, aveva come un leggiero brivido di confuso sgomento. Erano presi dal malessere di chi ha vegliato una notte intera, in preda a una sovraeccitazione spirituale e fisica, e che ne esce stanco e infelice, malcontente di sè e del tempo che è trascorso. Ma durò questo sino a che furono arrivati alla dogana di Posillipo; ivi una carrozza da nolo, di quelle sgangherate con un vecchio ronzino sciancato, una carrozza di notte, infine, stazionava. Dormivano il cocchiere e il cavallo; non si risvegliarono che a metà, quando Massimo e Luisa vi salirono. — Portaci a Monte di Dio — disse Massimo al cocchiere. Costui, sempre sonnecchiando, domandò se doveva alzare il soffietto. — Sì: fa freddo — rispose secco secco Massimo. Il viaggio in carrozza si compì pure lentamente, poichè il cavallo si riaddormentava, ogni tanto: e quando era sveglio, andava con un trotterello affannoso di sciancato, facendo dei passetti corti corti. Nella carrozza Massimo e Luisa non scambiavano una parola: ma ella sentiva che l’ora precipitava e ogni tanto i suoi occhi si rivolgevano a quelli di Massimo, interrogando. Essa voleva sapere da lui una cosa, voleva sentirgli dare risposta alla domanda che le ferveva nell’anima, da quando erano andati soli, per le vie di Napoli, per mare, sotto la luna. E tacitamente, nell’ombra, con gli occhi, lo pregava di dirgliela, la parola; e lui intendeva la interrogazione continua, supplichevole, di quei cari occhi amorosi che volevano essere amati, niente altro, e si voltava in là, come distratto, cercando di sfuggire a quella muta domanda. Una amarezza, un’inquietudine lo teneva agitato, non potendo neppure più fumare le sue eterne sigarette: ed ella sentiva che il suo sogno non era completo, se Massimo non parlava. Passava l’ora, fuggiva l’ora, essi ritornavano con la carrozza per la via fatta, e lui non voleva, non voleva dire... — Che avete? — finì per domandare lei. — Sono stanco. — Vi siete annoiato? — chiese timidamente Luisa. — Sapete bene di no: non domandate, dunque — disse recisamente. Ella si scosse al tono un po’ duro: e con quanta tenerezza di amore poteva esservi in lei, dopo qualche minuto di silenzio, non seppe fare altro che chiamarlo: — Massimo. Che fu l’effetto di quella voce, di quella parola? Che gli mise innanzi, che gli ricordò? È certo che egli quasi quasi si levò, parendo volendo buttarsi dalla carrozza, fuggendo alle prese di uno spettro: poi ricadde e con una voce fievole le disse: — Luisa, non mi chiamate più così, non pronunziate il mio nome, ve ne prego, se mi volete bene... Ella tremò, non intese che l’ultima frase, sorrise, con le lagrime della gioia agli occhi. Erano giunti. Salirono presto, l’uno dietro all’altro: si fermarono sul pianerottolo, prima di dividersi. Appoggiata al muro, come esausta, ella lo interrogava ancora con gli occhi, perchè le rispondesse. Ma egli, turbatissimo, la salutò: ognuno entrò nella propria casa, lentamente, le porte si richiusero con un rumor sordo. Faceva un po’ di freddo. Albeggiava. La notte di estate era finita. II. Per un mese di seguito Massimo e Luisa si erano riveduti spesso, ma per pochi minuti, sempre. Quando egli si affacciava al balcone, alla mattina, la trovava lavorando dietro alla persiana, e vedeva, al brillare di quegli occhi, che essa lo aspettava: quando egli rientrava alla sera, trovava la porta di Luisa socchiusa, ella dietro la porta, sorridendo, e si scambiavano qualche parola. Due volte, attirato da quell’irresistibile fascino di giovinezza, da quella irradiazione simpatica che mette attorno a sè l’amore, egli era andato a farle visita e contando di restar poco, era poi restato molto, tanto l’ingenuo e profondo amore della fanciulla lo commoveva. Egli la trattava con una tenera cortesia, con un’affettuosità repressa, e vedeva scintillare nei begli occhi tanta gratitudine, che la sua cortese tenerezza cresceva. Ma come i primi temporali di settembre ebbero spezzata, l’aria calda, egli sparve per qualche giorno, e invano, ansiosa, impaziente, infelicissima, ella lo aveva atteso sera e mattina. Infine, una sera, a metà settembre, ella lo vide rientrare; dalla porta socchiusa ella spiava: non osò chiamarlo, tanto le sembrò tetro il suo volto. Ma dopo un’ora, ella non ebbe più ritegno, e andò pian piano a bussare all’appartamento di Massimo. Il servitore, senza domandare nulla, la introdusse nel salotto: ivi, dietro la scrivania, sotto il gran paralume di seta rossa trasparente con merletti bianchi, Massimo scriveva. Era grave, pensoso, e si fermava ogni tanto a riflettere, con la penna appoggiata alle labbra: in una di queste pause, vide Luisa. — Oh cara, cara — disse, levandosi e stringendole le mani — giusto... vi scrivevo. — A me? Si era seduta dall’altra parte della scrivania e lo fissava, pallidissima. — Mi scrivevate? perchè? — Per... nulla — disse vigliaccamente lui. Poi, vergognandosi, soggiunse presto: — Per salutarvi. Parto. — Partite? — esclamò lei, alzandosi a metà sulla sedia. — Sì. Parto. — Per poco? — Per molto, invece. — Quanto tempo? — Quattro, sei anni. — Ah! — disse ella, chiudendo gli occhi, come se svenisse. Anche lui era smorto; ma aveva una nervosità che lo ringiovaniva. — Dove andate? — soggiunse ella, pigliando fiato a stento. — A Pietroburgo. — Tanto lontano, tanto... — mormorò ella, con voce di pianto. — Già — fece lui, con indifferenza — lontano assai. — E... non vi fa pena... non vi dispiace andarvene? — No — disse lui, brutalmente, sperando guarirla con la crudeltà. Ella appoggiava la testa a una mano, col gomito sulla scrivania: si nascose gli occhi coll’altra mano e si mise a piangere zitto zitto, a lagrime lunghe che le piovevano sulle guancie, sul collo, continuamente. — Perchè piangete? — domandò lui, nervosissimo. Essa gli fece cenno di non domandare; seguitava a piangere, tacitamente. — Non è mica morto qualcuno... — -tentò di scherzare lui. — Sì, sì, è morto qualcuno — -rispos’ella, a bassa voce — veramente, veramente, è morto qualcuno. E, levando il capo, con la santa audacia della passione, gli disse: — Non ve ne andate: io vi voglio bene. — Io non merito il vostro bene, cara; fate male a volermene. — Non posso fare diversamente; vi voglio bene, non ve ne andate. — Io sono stanco e vecchio, e laggiù il dovere mi chiama. — Non m’importa: se non potete restare, verrò con voi. — Cara Luisa, voi perdete la testa, figliuola mia... — Sì, sì, è da quella notte che l’ho perduta — ella rispose con aria smarrita. — Da quale notte? — chiese lui, inconsciamente. Ma si pentì subito. Presa da un impeto di disperazione, essa scoppiò in singhiozzi, torcendosi le mani, battendo la testa sulla scrivania, gridando fra il pianto: — Oh Dio... egli ha tutto dimenticato... Signore, Signore, egli ha potuto dimenticare... Oh Dio mio, ha dimenticato, ha dimenticato... Sgomento innanzi all’opera che egli aveva fatta, non trovava parole per consolarla, come il malvagio monaco medievale del poeta, che evocato il demone, non aveva poi più il motto magico per rimandarlo all’inferno. La lasciava farneticare, impaurito e dolente, pentito e amareggiato, sentendo tutta la verità di quel dolore, sentendo ancora una volta la fatalità dell’amore aggravarsi nella sua vita. Poi, non reggendoci più, si levò, le andò vicino, le prese le mani, la chiamò per nome e allora un novello fiotto di tenerezza invase l’anima dell’infelice; ella si mise a domandargli, con una desolazione, con uno strazio di far pietà: — Oh Massimo, Massimo mio... perchè mi lasci, perchè te ne vai?... come posso stare, senza di te, come posso restare sola, se ti voglio bene... Massimo, Massimo, non andartene, non essere senza cuore... — Luisa, ti prego, non piangere, non dirmi queste cose... E le tenne le mani, la guardò negli occhi, ipnotizzandola, tenendola sotto la sua volontà. — Massimo... Massimo... — ripeteva lei, calmandosi dolcemente, come se una speranza le rinascesse nel cuore. — Se è vero che mi vuoi bene, devi farmi una promessa... — Prometto. — ... Di esser buona, di non piangere, di ascoltare con pazienza, con rassegnazione. — Prometto — mormorò lei. — Senti, senti — riprese lui, tenendole le mani, guardandola, sempre negli occhi — te lo debbo ripetere, tu fai male ad amarmi: io non merito questo tesoro così prezioso, della tua giovinezza, del tuo cuore, io sono un uomo senza gioventù, senz’entusiasmo e senza illusioni. Io so tutto, io ho conosciuto tutto, io ho cento anni come Faust e non vi è più Margherita che possa farmi ringiovanire. Io sono un uomo morto, Luisa. Perchè ti sei innamorata di me? — Così — diss’ella, con la voce monotona della disperazione. — Senza una ragione? — Così. — Non basta, Luisa... — Credevo..., sì, credevo che tu mi amassi... — Ti sei ingannata — le disse. — Io non ti ho mai amata. — Mai amata! — fu l’eco desolata della infelice. — Perchè hai tu creduto questo, Luisa! Non sai tu dunque che cosa sia l’amore? — Ho creduto... ho creduto... che vuoi, ho creduto! — disse ella, aprendo le braccia, con un gesto desolatissimo. — Tu non sai nulla, cara. — Forse non so nulla, hai ragione — replicò ella, con la umiltà dei vinti, dei perduti. E chinando il capo, volendo almeno trovare una scusa alla sua follia, cercando ancora un barlume di speranza nei ricordi, riandò tutto quel sogno di una notte di estate per cui ella aveva fissata la sua vita. E a ogni dolce particolare, a ogni piccolo e pur grande fatto che le si presentava alla memoria, ella trasaliva, ella ricadeva nella sua illusione e alla fine, rendendo tutto il suo pensiero: — Eppure tu mi hai amata, quella notte, Massimo. — Si ama sempre un poco la donna che abbiamo accanto — mormorò lui, con un’ombra di sorriso. — Qualunque sia? — Qualunque sia. — E dopo? — Dopo, si dimentica subito. — Ed essa? — Se è savia, gode del fugace momento e... non lo rimpiange. — E se ama, se ama? — Luisa, tu mi hai promesso di esser calma... Ella si era alzata e gli parlava concitatamente: — Ma che ne so, io, di questa vostra ipocrisia sociale, di questa vostra galanteria mondana; la chiamate galanteria, non è vero? Io sono una fanciulla semplice, una sciocca, una illusa, io ti amavo già, quando, quella sera mi hai detto di venir teco. Ma quando si porta via, di notte, una donna, con le dolci parole che tu mi dicesti, costei deve credere che tu l’ami! Ma tu, nella barchetta, te ne ricordi? hai passato un’ora a chiamarmi sottovoce, come se solo le sillabe del mio nome esistessero! Te ne rammenti? E dopo, dopo, tu non devi averlo dimenticato, hai preso le mie mani, nell’oscurità della grotta di donn’Anna, tu le hai strette, domandandomi così qualche cosa, io ho risposto sì, stringendoti le mani, questo, certo, neppure lo puoi avere obliato, io l’ho nell’anima, quella stretta di mani... e laggiù, laggiù, ti rammenti, ti ho dato il fiore di menta, lo hai baciato perchè aveva toccato le mie labbra, lo hai conservato gelosamente, lo hai chiuso sul tuo petto, come se volessi che appassisse colà, al calore del tuo cuore: io ho il tuo gelsomino, dove è dunque andato il fiore di menta? Ma tu hai baciato la mano, questa qui, in questo punto, lentamente, dolcemente, con una lentezza e una dolcezza che mi parve mi facessero morire: ma tu hai tenuto la mia testa sulla tua spalla, ma tu mi hai abbracciata te ne ricordi, certamente, te ne ricordi, chi può avere scordato queste cose? ma insieme, insieme a me tu hai sognato, abbiamo sognato laggiù, nel paradiso, il nostro paradiso. Oh angeli santi, voi stessi avete dovuto sorridere, poichè quello era l’amore buono, l’amore bello, l’amore santo, poichè io amava e tu mi amavi, Massimo, non mentire, non mentire, non togliermi questa fede... — Vi sono una quantità di cose che somigliano all’amore e che l’amore non sono — disse lui, glacialmente. — La sera è chiara, vi è una buona e bella fanciulla, vi è il mare, vi è la gran poesia di questo paese nostro, la notte è lunga, il cuore è malinconico — e allora un nome, chi non lo pronunzia, un fiore chi non lo chiude sul petto, un bacio chi non lo dà? Sciocco colui che lascia sfuggire questi purissimi brevi piaceri dell’anima e dei sensi, puri piaceri che non hanno la macchia del peccato, che non debbono portare alle lacrime, alla tragedia e che vi fanno egualmente cara una notte, un giorno! Tutto questo non è affatto l’amore nel suo immenso turbamento, con le sue lotte quotidiane, con la sua gelosia feroce, con la sua insaziabilità crudele e con la sua sazietà scorante! È invece un’altra cosa che all’amore rassomiglia, una cosa carina, graziosa, che resta dolce nella memoria, che non lascia ferita e che imbalsama poi, col suo profumo, le ore della vecchiaia. Amore no: tenerezza, simpatia, fascino, eterna attrazione del femminile, una cosa mite e tanto cara, senza dolori, senza singhiozzi... Luisa, Luisa, l’amore è un’altra cosa, è una vampa, è una vertigine, è uno sconquasso, Dio vi salvi... — Io sono perduta — ella disse, brevemente, — perchè vi amo e non mi amate. Come egli parlava, pianamente, con quella velatura d’ironia che rendeva triste la sua voce, con quel senso di disdegno che rivelava l’uomo esperto delle tempeste, come egli le veniva dolorosamente dimostrando la inanità delle sue illusioni, ella aveva inteso a poco a poco mettersi fra loro due una grande distanza, quasi che Massimo fosse già partito, già in viaggio per il gelido paese nordico. Ogni parola che infrangeva le sue speranze, le s’imprimeva nella mente, col lieve sogghigno che l’avea accompagnato, con la intonazione sprezzante che era stata pronunziata: e un lavoro di distruzione si operava in lei, la parola di lui spegneva tutta la cieca fiducia che ella aveva avuto nel suo sogno. Illusione, illusione, il bacio, il fiore, il nome, la voce tremante, la carezza, l’abbraccio, illusione tutto, morto tutto, finito tutto, finito. Una luce fredda le si era fatta dinanzi agli occhi della mente: egli aveva ragione, tutto quel sogno di una notte di estate, sotto il pallido, morbido raggio lunare, era una cosa graziosa, carina, niente altro, da dimenticare immediatamente, da ricordare poi più tardi, molto più tardi, con una certa soavità, anche con un po’ di gratitudine. Ella vedeva, vedeva bene, adesso. La scienza della vita le arrivava di un colpo solo, netto e preciso come quello di una mannaia che recide una mano: tutto sanguinava, ma, ella vedeva la verità. E si sentiva, perduta. Egli taceva. Era tornato al suo posto e giocherellava con la sua penna di avorio bianco: ma era scomposto nel volto. Affettava una calma che non aveva: capiva che la crisi non finiva lì e soffriva per sè e per lei, immensamente. Ma le sue burrasche passate gli davano la forza di combattere ancora. La fanciulla taceva e pensava, quasi che nulla più le restasse da dire: anzi si alzò, come per andarsene. Ma arrivò sino al balcone chiuso e appoggiò ai vetri la fronte febbricitante. Stette qualche tempo così. Poi, ritornò. Pareva tranquillizzata. Ma si passava ogni tanto la mano sulla fronte, con un gesto che faceva pena. Si sedette di nuovo. Massimo la guardava, con una certa ansietà. No, tutto non era ancora finito... — E... ve ne andate? — chiese ella, cercando di rafforzare la propria voce. — Sì. — Quando? — Domani mattina: o anche stasera... meglio stasera. — Infatti... meglio stasera — rispose lei, monotonamente. — E... non mi avreste salutata? — Vi scrivevo... — Lasciatemi vedere — diss’ella, pregando. Egli obbedì, dandole la carta, dove erano scritte soltanto queste poche linee. «Cara, cara Luisa — io debbo lasciare, per forza, questo caldo e bel paese, per un paese freddo e brutto. Me ne vado, pieno di ricordi della vostra bontà, me ne vado, addio, pregandovi di volermi un po’ di bene, da lontano, per quanto bene vi voglio io...» — Come potete mentire così? — diss’ella, fieramente, levando la testa. — Non mento: vi voglio bene: vi ho una gratitudine immensa, mi siete carissima... — E partite, partite? — Parto. — Ah io non so più nulla, non so più nulla, io ho perduta la testa. Da quella notte... — mormorò ella, nascondendosi il viso fra le mani. Ma dopo qualche minuto, ella si levò, andò vicino a Massimo, si sedette accanto a lui, con una espressione di ansietà, di angoscia sulla faccia che avrebbe impietosito il cuore più duro. — Sentite, sentite, voi non avete nessuna colpa, è vero, io non posso dire nulla contro di voi, voi non mi avete ingannata, sono io che ho voluto ingannarmi, lo confesso. Ma pure... io vi amo, io non posso levarmi dal cuore questo amore, io non resisto al pensiero di restare sola, qui, mentre voi ve ne andate, così lontano; morirei; sentite, non ho mai mentito, morirei. Bisogna pur concedere qualche cosa agli illusi, agli esseri semplici. Il mio destino è di amarvi, Massimo, non vi è altro, per me. Che volete, il mio sogno continua, io non mi sveglierò che per entrare nella tomba. Sentite. Lasciatemi venir con voi: andate solo, andate triste, laggiù, in un paese ove non avete nè amici nè parenti. Io, qui, non lascio nessuno. Posso disporre della mia persona, della mia vita. Direte che vi sono sorella, nipote, governante, direte che sono la vostra serva, mi contento. Purchè io possa seguirvi, vi servirò, laggiù. Non mi vedrà nessuno; non uscirò, non andrò in chiesa, rinunzierò al mondo, a Dio, a tutto, pure di vivere accanto a voi. Non importa, se non mi amate: portatemi via, vi amo, non posso restare qui. Laggiù, non importa se mi tratterete male, non importa se mi dimostrerete, che vi secco: io avrò pazienza, rassegnazione, come voi mi comanderete di avere. Forse, vedete, non vi nascondo la mia speranza, mi amerete un giorno; lontano, ma può giungere, il gran giorno! Lasciatemi aspettarlo al vostro fianco, segretamente, umilmente, piamente, con la fede degli antichi cristiani; lasciate che io possa spendere la vita mia per voi, non posso farne altro, della mia vita. Voi siete spesso triste, una volta le mie risate vi piacevano; vi piacevano le mie canzoni, io riderò, e canterò per voi, tacerò a una vostra parola, aspettando. Voi non mi amerete mai, forse, ma io vi amerò, sempre. Ah non mi respingete, non mi lasciate; se incontrate di notte, un povero cane senza padrone che vi segue, malinconicamente, voi non lo cacciate via, è vero? Perchè caccereste me? Siete uomo, siete cristiano, avete cuore, avete pietà, non mi riducete alla disperazione, portatemi con voi, voglio morire accanto a voi, non qui, sola, non sola, per carità, portatemi con voi. E la disgraziata scivolò dalla sedia a terra, cadendogli ginocchioni davanti, con la testa convulsa fra le mani. — Luisa, Luisa, che fate? — gridò lui, vivamente, cercando di sollevarla. — No, no, resterò qui, sino a che mi avrete fatto questa grazia — diss’ella, resistendo. — Luisa, ve ne scongiuro, voi mi fate disperare... — E la sollevò sorreggendola, aiutandola a risedersi: ella lo guardò supplichevole. — Ditemi la parola — mormorò abbattuta. Egli capì che l’ora era giunta. — Non posso, Luisa. — Perchè non potete? — Non posso tenervi nè come moglie, nè come amante. — A me non importa della mia riputazione: vi voglio bene, voglio venir con voi. — Non posso. — Ma perchè? — Perchè non vi amo di amore... — Non importa, vi amerò io. Egli la guardò, smarrito: l’ora era giunta, l’ora incalzava. — Io amo un’altra donna! — proclamò lui, a voce chiara. — Oh! — ella disse, come soffocando. Egli si alzò a metà, come se volesse aiutarla. Fredda, muta, Luisa lo fermò con un gesto. E solo nel guardarla in viso con gli occhi dove il cerchio nero, intorno, era diventato così largo, con le labbra bianche e con due pieghe alle labbra, dove prima si disegnava la curva del sorriso, con dieci anni di più, infine, con quella gioventù che pareva sfiorita per sempre, egli si sentiva torturare dai rimorsi. Ah, che egli non avrebbe mai voluto pronunziarla, la fatale parola, il segreto profondo del suo cuore, la nascosta angoscia di tutta la sua esistenza! Aveva esitato un’ora, arretrandosi davanti agli intimi recessi dove il suo amore viveva, non sapendo violare quel mistero impenetrabile, non sapendo ferire così mortalmente quel giovane cuore sì amoroso e disperato. Giammai, giammai, egli avrebbe confessato ad alcuno che amava, se quella desolazione di anima buona appassionata, non lo avesse spinto a tentarne così una disperata salvezza: il suo segreto sarebbe rimasto chiuso nel cuore, noto solo a Dio e a colei che aveva ispirato quell’amore, bocca umana non lo avrebbe ripetuto, orecchio umano non lo avrebbe udito, morto con lui, il segreto. Ma innanzi a quelle lacrime, a quei singhiozzi, innanzi a quella esistenza perduta, egli aveva finito per chiedersi se non era un poco colpevole, se non doveva espiare, tentando di togliere al naufragio quell’anima, con un rimedio estremo. E aveva dischiuso il tempio dove il suo idolo si ergeva, fiero e implacabile, aveva mostrato alla disgraziata fanciulla che l’altare aveva la sua dea, invitta, immortale. Egli, il più mistico fra i sacerdoti dell’amore, che stava a guardia, silenzioso, immoto, del tabernacolo che niun occhio d’uomo doveva rimirare, aveva adesso sollevato i veli sacri e mostrato all’occhio di Luisa la immagine divina. Si sentiva adesso fiacco, senza coraggio, senza forza, come se quella parola di rivelazione, avesse vuotato a un tratto le sue vene. Aveva detto. Luisa non piangeva, non singhiozzava, non sospirava: era seduta al suo posto, con la faccia nascosta fra le mani sovrapposte, non dando segno di vita: anche le mani che avevano tremato sempre, ora erano ferme, bianche come quelle di una statua. Quando le abbassò, quando rialzò il capo e Massimo potette vedere la sua faccia, egli sentì il danno fatto. Oramai la luce di quegli occhi dolci e amorosi si era intorbidata per sempre, e li opprimeva la inguaribile mestizia delle speranze infrante: oramai le traccie del riso erano cancellate da quella delicata e giovanile fisonomia, mentre fra le sopracciglia si creavano quelle due rughe dolorose delle lunghe cogitazioni malinconiche; oramai il sangue era fuggito da quelle fresche, fragranti labbra e il pallore della viola, fiore esangue, fiore dolente, vi si era impresso, per sempre. La disgraziata aveva parlato, nella sua ansia, nel suo abbandono, di risa, di canzoni: ma bastava guardare la serietà oramai incancellabile del suo viso, per intendere che eran finite, per sempre, le canzoni e le risate. Ah veramente, veramente, come l’antico audace che tentò disollevare la cortina del tempio, come a Salammbo, figlia di Amilcare, che pose sul suo capo il velo di Tani, cosparso di stelle e commise il sacrilegio, così la povera umile fanciulla era stata fulminata perchè aveva tentato di schiudere un cuore, perchè aveva voluto entrare nel sacrario della dea. Invero, egli aveva in sè una pietà immensa e sterile, una pietà fiacca e triste, per quella creatura fulminata: non sapeva dirle più nulla, la fatalità sfugge alla discussione, e non ha conforti che l’attenuino. Infatti, fu essa la prima a parlare. Era una voce senza dolcezza, senza tristezza, non velata, non roca, ma veramente spezzata: nessun sentimento vi vibrava più: infranta. Adesso le domande che faceva, stanche, lente, sembravano l’appagamento di una mesta curiosità, un riandare sulla sventura, così, per sapere: senza che la conoscenza novella potesse mai più cangiare nulla di quello che era stato. — Voi l’amate... molto? — L’amo: quando si ama, si ama. — Lo so — replicò ella, sempre senza fremito nella voce, sempre senza luce negli occhi. — Lo so: domandavo... così... per sapere. Il braccio di Luisa era disteso sulla scrivania e la mano sottile aperta sul panno scuro. E pareva così abbandonata, così bianca, che a lui sembrò vedere, veramente, una mano di persona morta. Ma salvo ad averne una infinita compassione, che cosa ci poteva fare, lui? Ambedue soffrivano, e malgrado tutto, l’uno non poteva aiutare l’altro nella propria disgrazia; essa lo amava, egli, aveva di lei una pietà grande, ma l’uno non poteva tergere neppure una lacrima dell’altro. Così è, l’amore. La divina armonia di due cuori che si scelgano e che si amino, non risuona che assai raramente, nelle anime umane. E non è, invece, che una catena, l’amore, di cui gli anelli sono di metalli diversi, male appaiati, di forme diverse, che si corrodono e si contorcono, senza potersi spezzare. Che ci poteva fare, lui? Tutto era inutile, tutto. — Voi l’amate da molto tempo? — ricominciò lei, con quella intonazione d’indifferenza, che faceva più male di uno straziante singhiozzo. — Da molto tempo. — Da quando? — Da... sempre. — Non avete mai amata alcun’altra? — No: mai. Vi è un amore che altri non ne ammette. — È vero: lo so — ella disse, chinando gli occhi. Poi, tacque, pensando. Sembrava che riflettesse a un’altra domanda da fare, e che temesse di farla, di cui non potesse ritrovare la forma. Difatti, due o tre volte fu lì lì per parlare, quasi che la parola volesse fuggirle irresistibilmente dalle labbra; ma si rattenne. Egli aspettava, oramai deciso a dir tutto, sempre più debole, sempre più esausto di forze morali. Invero erano due infelici creature: ma non vi era nessun rimedio. Alla fine, ella, si decise e disse: — Voi l’amerete... sempre? Prima di rispondere egli si raccolse e nei brevi minuti del silenzio, ritornò su quello che era stato, su quello che era la sua passione, provò a misurare il valore e la durata di quel vincolo che gli anni, la morale e material consuetudine avevano reso profondo e non risolvibile che dalla vecchiaia o dalla morte. — Credo... credo — egli mormorò, esaurito — che l’amerò sempre. Sono vecchio, Luisa: e la vita non si ricomincia. Voi siete giovane... e potete obbliare... — Voi non avete diritto di parlarmi così — ella disse, con un amaro sorriso. — Non vi accuso, non mi lagno; ma non cercate di consolarmi con queste vaghe parole. Io valgo meglio di questi banali conforti. — Scusatemi — egli soggiunse, inchinandosi a quell’altero dolore, che non soffriva di essere turbato da nessuna voce, fosse pur quella della persona amata. — Era un augurio che vi facevo: vi auguro di dimenticare... con tutto il cuore, ve lo auguro. Ella scorse il capo, senza rispondere. — Voi la raggiungete, colà? — Sì — egli disse, a bassa voce. — Vi aspetta? — No, non mi aspetta: ma mi ha chiamato — soggiunse lui amaramente. — E voi obbedite? — Obbedisco sempre. Ella mi ha detto di venir qui, nell’estate, lasciandomi senza notizie, senza lettere, senza neppure farmi sapere dove viaggiava: e sono stato qui, tre mesi per obbedirla. — Ah, va bene, ho inteso — ella disse, senz’altro. — Adesso mi scrive due parole, dicendomi di raggiungerla, dandomi il suo indirizzo: e io parto, io attraverso l’Europa, vado dove ella è, poichè questo, capite, è il mio destino. — Essa vi ama? — No. — Non vi ama? — No, niente. — Non vi ha amato? — Mai. — Nè avete speranza? — Nessuna. — Ma perchè non vi ama? — Perchè vie della gente che non ama mai, Luisa — gridò lui, subitamente esaltato. — È vero, è vero — ella rispose, vagamente. — Vi è molta gente che non ama ed è forse felice. — Forse. — Ma perchè vi chiama? — Perchè le fa piacere di avere un servo. Un lugubre silenzio si fece intorno: le due vittime si guardarono, smorte dello stesso pallore, esauste dallo stesso morbo morale; e fu lei che per la prima, con una infinita dolcezza, gli disse: — Voi siete come me. — Come voi — mormorò l’uomo forte, l’uomo scettico, umilmente, dolentemente. Niente altro. Ella si sollevò dalla sedia, rimase ritta davanti alla scrivania. — Adesso me ne vado; buona sera. — Ve ne andate? — chiese lui, un po’ affannoso. — Sì, sì, me ne vado; buona sera, Massimo. — Restate ancora un poco — balbettò lui. — Ditemi... — Noi ci siamo detto tutto: non vi è nulla nel vostro cuore che io non sappia: voi sapete tutto del mio, non vi è più nulla, più nulla; buona sera. — Ma che farete? — egli disse. — Voglio sapere che farete! — Niente — disse lei, voltandosi, facendo un gesto largo con le braccia. — Niente. — Non ci possiamo lasciare così — disse lui, tutto agitato. — Restate... — Sarebbe inutile. Non dovete voi andare? — Sì. — E io debbo restare. Addio, Massimo. — Addio, Luisa. Ella se ne andò senza voltarsi, un po’ curva, ombra tacita e dolente. Egli la vide sparire: udì aprire e chiudere due porte. E pensando che in quel minuto, rientrata nella sua casa deserta, sola col suo dolore, ella piangeva come tutte le misere creature umane, lui, misera umana creatura piegò il capo, nel silenzio, nella solitudine, nel dolore e pianse, di pietà, di rimpianto, su Luisa, su Massimo. FINE