Emilio Salgari LE DUE TIGRI Capitolo I. LA «MARIANNA» La mattina del 20 aprile del 1857, il guardiano del semaforo di Diamond-Harbour, segnalava la presenza d’un piccolo legno che doveva essere entrato nell’Hugly durante la notte, senza aver fatto richiesta di alcun pilota. Sembrava un veliero malese, dalle dimensioni straordinarie delle sue vele, la cui superficie era immensa, però lo scafo non era precisamente simile a quello dei prahos, non essendo provvisto di bilancieri per appoggiarsi meglio sulle onde quando le raffiche aumentano di violenza, né avendo al centro quella tettoia che chiamasi attap. Anzi era costruito, a quanto pareva, con lamine di ferro anziché di legno, non aveva la poppa bassa, la tolda era sgombra e poi stazzava tre volte di piú dei prahos ordinari, i quali di rado hanno una portata di cinquanta tonnellate. Comunque fosse, era un bellissimo veliero, lungo, affilato, che a vento largo, o, meglio ancora, con vento di poppa doveva filare meglio di tutte le navi a vapore che allora possedeva il governo anglo-indiano. Era insomma una vera nave da corsa che rammentava, salvo la velatura, i famosi legni dei violatori di blocco della guerra fra il sud e il nord degli Stati Uniti d’America. Ma quello che piú doveva stupire il guardiano del semaforo, era l’equipaggio di quel veliero, troppo numeroso per una nave cosí piccola ed anche assai singolare. Pareva che tutte le razze piú bellicose della Malesia vi avessero uno o piú rappresentanti. Vi erano malesi dalla tinta fosca e gli sguardi cupi; bughisi, macassaresi, battiassi, dayachi, i famosi e terribili tagliatori di teste delle foreste bornesi; si vedevano perfino dei negriti del Mindanao e qualche papuaso dall’immensa capigliatura raggruppata intorno a un pettine non meno gigantesco. Nessuno però indossava il costume nazionale: tutti portavano il sarong, quel pezzo di stoffa bianca che scende fino alle ginocchia ed il kabay, specie di giacca assai larga, a tinte svariate, che non impedisce alcun movimento. Solamente due, che forse erano i comandanti del veliero, indossavano costumi differenti e d’una ricchezza inaudita. L’uno, che nel momento in cui il legno passava dinanzi a Diamond-Harbour stava seduto su un largo cuscino di seta rossa, collocato presso la ribolla del timone era uno splendido tipo d’orientale. Era un uomo di statura alta, stupendamente sviluppato, con una testa bellissima quantunque la pelle fosse assai abbronzata, con una capigliatura folta, ricciuta, nera come l’ala d’un corvo, che cadevagli sulle spalle e due occhi che pareva avessero dentro il fuoco. Vestiva all’orientale, con casacca di seta azzurra a ricami d’oro, ampie maniche e bottoni di rubini, calzoni larghi e lunghi stivali di pelle gialla a punta rialzata. In testa portava un turbantino di seta bianca, con pennacchio fermato da un diamante grosso quasi quanto una noce e certo d’un valore inestimabile. Il suo compagno invece, che stava appoggiato, spiegazzando nervosamente una lettera, era invece un europeo di statura pure alta, dai lineamenti fini, aristocratici, con occhi azzurri e dolci e i baffi neri che cominciavano a brizzolarsi, quantunque sembrasse piú giovane dell’altro. Vestiva con molta eleganza, ma non all’orientale: giacca di velluto marrone, con bottoni d’oro, stretta ai fianchi da un’alta fascia di seta rossa, calzoni di broccatello e uose di pelle gialla con fibbie d’oro. Sul capo, invece del turbante, portava un ampio cappello di paglia di Manilla, con alcune nappine di seta rossa appese al nastro. Già il veliero stava per passare dinanzi alla casetta bianca e all’albero dei segnali, presso cui stavano i due guardiani del faro e due piloti, in attesa di una richiesta, quando l’europeo che fino ad allora pareva che non si fosse accorto della vicinanza della stazione, si volse verso il compagno che sembrava immerso in profondi pensieri. — Sandokan, — gli chiese: — Siamo entro il fiume e quella è la stazione dei piloti. Ne prenderemo uno? — Non amo alcun curioso a bordo del mio legno, Yanez, — rispose l’interrogato, alzandosi e volgendo uno sguardo distratto verso la stazione. — Sapremo trovar noi Calcutta anche senza piloti. — Sí, — disse Yanez, dopo un momento di riflessione. — Meglio conservar l’incognito. Non si sa mai: una indiscrezione può mettere in sospetto quel brigante di Suyodhana. — Quando giungeremo a Calcutta, tu che l’hai altre volte visitata? — Prima del tramonto di certo, — rispose Yanez. — La marea monta e la brezza è sempre favorevole. — Sono impaziente di rivedere Tremal-Naik. Povero amico! Perdere la sua donna prima ed ora la figlia! — La strapperemo a Suyodhana: vedremo se vincerà la Tigre dell’India o quella della Malesia. — Sí, — disse Sandokan, mentre un lampo gli balenava negli sguardi e la sua fronte si aggrottava burrascosamente. — Gliela strapperemo, dovessi sconvolgere l’India intera e annegare tutti quei cani di Thugs nelle loro misteriose caverne. Che il nostro dispaccio sia pervenuto a Tremal-Naik? — Un telegramma va sempre a destinazione; non temere Sandokan — Dunque ci aspetterà? — Penso però che sarebbe meglio avvertirlo che siamo già entrati nell’Hugly e stasera saremo a Calcutta. Ci manderà incontro Kammamuri per risparmiarci la noia di cercare la sua abitazione. — Vi è qualche ufficio telegrafico lungo il fiume? — Quello di Diamond-Harbour. — La stazione dei piloti che abbiamo or ora oltrepassato? — Sí, Sandokan. — Giacché siamo ancora in vista, mettiamoci in panna, fa’ staccare un canotto e mandiamo qualcuno. Un ritardo di mezz’ora non sarà una gran perdita. E poi penso che forse la casa di Tremal-Naik può essere spiata dai Thugs. — Ammiro la tua prudenza, Sandokan. — Scrivi dunque, amico mio. Yanez staccò un foglietto dal suo libriccino, levò da una tasca una matita e scrisse: Da bordo della Marianna Signor Tremal-Naik Via Durumtolah Siamo entrati stamane nell’Hugly e giungeremo questa sera. Inviateci incontro Kammamuri. La nostra nave inalbera la bandiera di Mompracem. Yanez de Gomera. — Ecco fatto, — disse, mostrando il foglietto a Sandokan. — Va bene, — rispose questi. — Meglio la tua firma che la mia. Gli inglesi possono ancora rammentarsi di me e delle mie scorrerie. Un canotto montato da cinque uomini era stato già calato in acqua, mentre il veliero si era messo in panna a mezzo miglio da Diamond-Harbour. Yanez chiamò il timoniere della piccola scialuppa e gli consegnò il biglietto, unitamente a una sterlina, dicendogli: — Non una parola su noi e parla portoghese. Il capitano sono io pel momento. Il timoniere, un bel tipo di dayaco, alto e robustissimo, raggiunse rapidamente il canotto il quale prese immediatamente il largo, dirigendosi verso la stazione dei piloti. Mezz’ora dopo era di ritorno annunciando che il dispaccio era stato già spedito a destinazione. — Non ti hanno rivolto alcuna domanda i guardiani del semaforo? — chiese Yanez. — Sí, capitano Yanez, ma io sono rimasto muto come un pesce. — Benissimo. Il canotto fu rapidamente issato e sospeso alle gru, poi la Marianna riprese la sua corsa, tenendosi quasi in mezzo al fiume. Sandokan si era ricoricato sul suo cuscino di seta, immergendosi in profondi pensieri, mentre Yanez, accesa una sigaretta, si era appoggiato nuovamente alla murata poppiera, guardando distrattamente le due rive. Immense jungle formate da bambú alti quindici e piú metri, si estendevano a destra e a sinistra dell’imponente fiume, coprendo quelle terre basse e fangose che chiamansi le Sunderbunds del Gange, rifugio favorito delle tigri, dei rinoceronti, dei serpenti e dei coccodrilli. Un numero infinito di uccelli acquatici volteggiavano sopra le rizophore che coprivano le rive, ma nessun abitante si vedeva. Aironi giganti, le grandi cicogne nere, ibis brune, e bruttissimi e colossali arghilah, allineati come soldati sui rami curvi dei paletuvieri, facevano la loro toletta mattutina, spennacchiandosi a vicenda; mentre in alto stormi di anitre braminiche, di marangoni e di folaghe s’inseguivano e folleggiavano giocondamente, per precipitarsi poi tutti in acqua allorquando qualche banda di manghi, quei deliziosi pesci rossi del Gange, commetteva l’imprudenza di mostrarsi. — Bei posti per la caccia, ma brutto paese, — mormorava Yanez, che a poco a poco s’interessava di quelle rive. — Non valgono queste jungle le maestose foreste del Borneo e nemmeno quelle di Mompracem. — Se questi sono i luoghi abitati dai Thugs di Suyodhana, non li invidierei certo. Canne, spine e pantani: spine, pantani e canne. Ecco il delta del sacro fiume degli indi. E nulla è ancora cambiato da quando io ho visitato l’India. Decisamente gli inglesi non si preoccupano che di tosare meglio che possono i poveri indiani. La Marianna continuava ad avanzare sempre rapidamente, nondimeno le due rive non accennavano a cambiare, almeno a destra. Sull’opposta invece cominciava ad apparire qualche gruppetto di meschine capanne con le pareti di fango disseccato e i tetti di foglie, ombreggiate da qualche gruppo di cocchi semi intristiti e da qualche colossale nim dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto. Yanez stava appunto osservando uno di quei miserabili villaggi, difesi verso il fiume da uno steccato per salvaguardate gli abitanti dagli attacchi dei coccodrilli, quando Sandokan gli si appressò, dicendogli: — Sono questi i pantani abitati dai Thugs? — Sí, fratellino mio, — rispose Yanez. — Che quello sia uno dei loro covi o qualche posto di osservazione? Non vedi laggiú, fra le canne, ergersi una specie di torre che sembra di legno? — È uno degli asili per i naufraghi, — rispose Yanez. — Eretto da chi? — Dal governo anglo-indiano. Il fiume è piú pericoloso di quello che tu creda, fratellino mio, in causa degli enormi banchi di sabbia che la forza della corrente sposta continuamente, sicché i naufragi sono piú frequenti qui che in mare. Siccome le rive sono popolate da animali feroci, cosí si sono erette in vari luoghi delle torri di rifugio pei naufraghi alle quali si accede mediante una scala a mano che si può ritirare. — E che cosa contengono quelle torri? — Dei viveri che vengono rinnovati ogni mese da appositi vaporini. — Cosí pericolose sono dunque queste rive? — chiese Sandokan. — Sono infestate da belve e nulla possono offrire al disgraziato che vi approda. Credi tu che dietro quei paletuvieri non vi siano delle tigri che stanno spiandoci? Sono piú audaci di quelle che abitano le nostre foreste, perché sovente osano cacciarsi in acqua e assalire i piccoli velieri all’improvviso, portando via qualche marinaio. — E non pensano a distruggerle? — Gli ufficiali inglesi fanno sovente delle battute; sono però cosí numerose quelle fiere, che finora non accennano a diminuire. — Mi viene un’idea, Yanez, — disse Sandokan. — Quale? — Te la comunicherò questa sera, quando avremo veduto quel povero Tremal-Naik. Il praho passava in quel momento dinanzi alla torre segnalata, la quale sorgeva sul margine d’un isolotto pantanoso, diviso dalla vera jungla da un canaletto. Era una costruzione robusta quantunque formata con panconi e con bambú, alta quasi sei metri e di forme tozze. L’entrata s’apriva verso la cima e non già a pianterreno e vi si giungeva con una scala a mano. Una iscrizione, ripetuta in quattro lingue, in francese, tedesco, inglese e indostano raccomandava ai naufraghi di fare economia dei viveri contenuti nella torre, avvertendo che il battello rifornitore non giungeva che una sola volta al mese. Naufraghi non ve n’erano in quel momento. Solamente alcune coppie di marabú sonnecchiavano sulla cima, colla testa affondata nelle spalle e l’enorme becco semi-nascosto fra le piume del petto. Certo stavano digerendo qualche cadavere d’indiano, arenatosi su quelle rive. Fu solamente dopo mezzodí che le due rive cominciarono a mostrarsi un po’ popolate, quantunque la jungla si estendesse sempre su una superficie immensa, colle sue erbe gigantesche dalla tinta giallastra, e le sue pianure monotone, interrotte da fanghiglia e da pozzanghere sulla cui smorta uniformità spiccavano invece vivacemente i fiori di loto. Degli abitanti apparivano di quando in quando su quelle rive, impregnate di febbre e di cholera, intenti a raccogliere il sale nelle naturali efflorescenze di quei terreni pantanosi e nei quadrati a truogolo ed a fondo d’argilla nei quali si conduce l’acqua a mezzo di chiuse. Erano dei poveri molanghi, nudi, scarni, anzi quasi ischeletriti, tremanti di febbre e che rassomigliavano a ragazzi malaticci piuttosto che a uomini, tanto erano bassi di statura e poco sviluppati. Di miglio in miglio che il praho guadagnava, anche sul fiume la vita diventava piú attiva. Gli uccelli diventavano rari e soli i martini pescatori, appollaiati sulla cima delle canne facevano udire il loro monotono kri... kri... kri... Si succedevano invece le barche le quali indicavano la vicinanza dell’opulenta capitale del Bengala. Bangle, mur-punky, pinasse e anche delle grab di buon tonnellaggio, attraversavano o scendevano il fiume, ben cariche di derrate e qualche vapore filava lungo le rive, manovrando con precauzione. Verso le sei, Yanez e Sandokan che si erano collocati a prora, scorsero fra una nuvola di fumo, le alte cime delle pagode della città nera ossia della città indiana di Calcutta e i bastioni imponenti del forte William. Sulla riva destra bengalows e palazzine graziose, d’architettura inglese mista all’indiana, cominciavano ad apparire in gran numero, allineate dietro a graziosi giardinetti ombreggiati da gruppi di banani e di cocchi. Sandokan aveva fatto spiegare sull’alberetto maestro la bandiera di Mompracem, tutta rossa con in mezzo una testa di tigre dalle fauci aperte, ritirare buona parte dell’equipaggio e coprire le due grosse spingarde di poppa e le due di prora. — Che Kammamuri non venga? — stava chiedendo a Yanez che gli stava a fianco coll’eterna sigaretta in bocca, guardando le barche che s’incrociavano in tutti i sensi, quando l’europeo tese la destra verso la riva destra, esclamando: — Ecco il fedele e coraggioso servo di Tremal-Naik. Vedi Sandokan quella scialuppa che porta a poppa la bandiera di Mompracem? Sandokan aveva seguito cogli sguardi la direzione indicata dal compagno e vide infatti un piccolo ma elegantissimo fylt’ sciarra, di forme snelle, colla prora adorna d’una testa d’elefante dorata, montato da sei rematori e da un timoniere e sulla cui poppa ondeggiava la bandiera rossa colla testa d’una tigre. S’avanzava rapidissimo, fra le grab veleggianti e le pinasse che ingombravano il fiume, puntando sul praho il quale si era subito messo in panna. — Lo vedi? — disse Yanez con voce giuliva. — Gli occhi della Tigre della Malesia non si sono ancora indeboliti, — rispose Sandokan. — È lui che siede al timone. Fa’ gettare la scala, mio caro portoghese. Finalmente sapremo come quel cane di Suyodhana è riuscito a rapire la figlia di quel povero Tremal-Naik. Il fylt’ sciarra in pochi minuti superò la distanza e abbordò il praho a babordo, sotto la scala che in quel frattempo era stata abbassata. Mentre i remiganti ritiravano i remi e legavano la scialuppa, il timoniere salí, lesto come una scimmia, la scala e balzò sulla tolda, esclamando con voce commossa: — Signor Sandokan! Signor Yanez! Ah! Quanto sono felice di rivedervi! Quell’uomo era un bel tipo d’indiano di trenta o trentadue anni, piuttosto alto di statura, dai lineamenti belli, fini ad un tempo ed energici, col corpo piú vigoroso dei bengalesi i quali ordinariamente sono magri. Il suo viso abbronzato aveva dei riflessi dell’ottone e spiccava vivamente sul vestito bianco, mentre i pendenti che portava agli orecchi gli davano un non so che di grazioso e strano. Sandokan respinse la mano che l’indiano gli porgeva e se lo attirò fra le braccia, dicendogli: — Qui sul mio petto, valoroso maharatto. — Ah! mio signore! — esclamò l’indiano con voce rotta, mentre impallidiva per l’emozione. Yanez, piú calmo e meno espansivo, gli diede una vigorosa stretta di mano, dicendo: — Questa vale quanto un abbraccio. — E Tremal-Naik? — chiese Sandokan, con ansietà. — Ah! mio signore! — disse il maharatto, mentre un singhiozzo gli faceva nodo alla gola. — Temo che il mio padrone impazzisca! I maledetti si sono vendicati! — Racconterai tutto fra poco, — disse Yanez. — Dove dobbiamo ancorarci? — Non gettate l’ancora davanti alla spianata del forte, signor Yanez, — disse il maharatto. — Noi siamo vigilati dai Thugs e quei miserabili devono ignorare il vostro arrivi. — Saliremo il fiume fino dove tu vuoi. — Al di là dal forte William, dinanzi lo Strand. I miei battellieri s’incaricheranno di guidarvi. — Ma quando potremo rivedere Tremal-Naik? — chiese Sandokan con impazienza. — Dopo la mezzanotte, quando la città sarà addormentata. Dobbiamo essere prudenti. — Posso fidarmi dei tuoi uomini? — Sono tutti abili marinai. — Falli salire a bordo e affida loro la direzione del praho, poi vieni nella mia cabina. Voglio sapere tutto. Il maharatto con un fischio fece accorrere i suoi uomini, scambiò con loro alcune parole, poi seguí Sandokan e Yanez nel salotto di poppa. Capitolo II. IL RAPIMENTO DI DARMA Se quel praho si presentava splendido al di fuori, nel quadro di poppa lo era ancora di piú e si capiva subito che il suo proprietario non aveva certo lesinate le spese nella costruzione e negli addobbi. La saletta entro cui i tre uomini erano entrati, occupava buona parte del quadro. Le sue pareti erano tappezzate di seta rossa cinese con fiori trapunti in filo d’oro e ornate di gruppi d’armi disposte artisticamente: kriss malesi dalla lama serpeggiante e colla punta probabilmente avvelenata col terribile succo dell’upas; kampilang e parang dayachi, dalla lama larga e pesante soprattutto verso la punta; pistole e pistoloni con le canne arabescate ed i calci d’ebano con intarsi di madreperla; carabine indiane con incrostazioni meravigliose e non mancavano nemmeno i vecchi tromboni dalla bocca larghissima usati un tempo dalle bellicose tribú dei bughisi e dei mindanesi. Tutto all’intorno correvano dei divani bassi, di seta bianca a fiorami: nel mezzo una tavola di ebano con intarsi di madreperla, in alto una gran lampada di Venezia, con un globo color rosa e già accesa, spandeva una luce dolcissima. Yanez prese da una mensola una bottiglia e tre bicchieri, che riempí d’un liquore color del topazio, poi disse al maharatto, che si era seduto presso Sandokan: — Ora puoi parlare, senza timore che alcuno oda i nostri discorsi. I Thugs non sono già pesci per sorgere dal fondo del fiume. — Se non sono pesci sono diavoli di certo, — rispose il maharatto, con un sospiro. — Bevi e sciogli la lingua, mio bravo Kammamuri, — disse Sandokan — la Tigre della Malesia ha lasciato Mompracem per dichiarare la guerra alla Tigre dell’India, ma prima desidero conoscere tutti i particolari del rapimento. — Sono ventiquattro giorni signore, che la piccola Darma è stata rapita da emissari mandati da Suyodhana e sono ventiquattro giorni che il mio padrone la piange senza un momento di tregua. Se non fosse giunto il vostro dispaccio che annunciava la vostra partenza da Mompracem, a quest’ora sarebbe certamente impazzito. — Temeva che noi non giungessimo in suo aiuto? — chiese Yanez. — Sí, per un momento lo ha creduto, supponendovi impegnati in qualche impresa. — I pirati della Malesia da qualche tempo dormono e non vi è piú nulla da fare ormai laggiú. I tempi sono mutati e i bei giorni di Labuan e di Sarawak sono ormai lontani. — Narra, Kammamuri, — disse Sandokan. — Come fu rapita la piccola Darma? — Con un colpo di mano veramente diabolico, che dimostra quale genio infernale abbia Suyodhana. Il mio disgraziato padrone, dacché Ada era morta, dando alla luce la piccola Darma, aveva concentrato sulla bambina tutta l’affezione che nutriva verso la moglie e vegliava rigorosamente onde i Thugs non tentassero qualche cosa contro la debole creatura. Vaghe voci giunte ai nostri orecchi ci avevano messo in guardia sulle mire dei settari di Kalí. Si diceva che i Thugs, dopo essersi per qualche tempo dispersi onde sfuggire alle giuste rappresaglie dei cipayes del capitano Macpherson, erano tornati ad abitare le immense caverne che si estendono sotto l’isola di Rajmangal e che Suyodhana pensava a procurarsi un’altra «Vergine della pagoda». Quelle voci avevano gettato un vivo turbamento nel cuore del mio padrone. Egli temeva che quei miserabili, che già per tanti anni avevano tenuto prigioniera sua moglie, adorandola come la rappresentante della dea Kalí sulla terra, tramassero per rapirgli la figlia. I suoi timori, pur troppo, dovevano avere una terribile e dolorosa conferma. Conoscendo le astuzie e l’audacia dei Thugs, avevamo prese grandi precauzioni onde non potessero giungere nella stanza della piccina. Avevamo fatto mettere delle sbarre di ferro alle sue finestre, corazzare la porta, visitare minutamente le pareti per timore che esistesse qualche passaggio segreto, come ve ne sono tanti negli antichi palazzi indiani. Per di piú io dormivo nel corridoio che conduceva alla stanza, assieme alla tigre addomesticata ed a Punthy, il feroce cane nero, animali che come sapete, i Thugs conoscevano. Passammo sei mesi fra continue ansie e continue vigilanze, senza però che i Thugs dessero segno di vita. Un mattino Tremal-Naik ricevette un dispaccio da Chandernagor firmato da un suo amico, un piccolo rajah spodestato, compromesso nell’ultima insurrezione che aveva trovato sicuro asilo nella piccola colonia francese. — Che cosa diceva quel dispaccio?— chiesero ad una voce Yanez e Sandokan, che non perdevano una sola parola del maharatto. — Non conteneva che quattro sole parole: «Vieni, urgemi parlarti. Mucdar.» Il mio padrone, che si era stretto di profonda amicizia con quell’ex principotto da cui aveva ricevuto non pochi favori quando noi tornammo in India, credendolo minacciato dalle autorità inglesi, partí senza indugio dopo avermi raccomandato di vigilare sulla piccola Darma. Durante il giorno nulla accadde che potesse mettermi in sospetto, sul colpo che forse dal lungo meditavano i settari di Kalí, per avere la figlia della loro «ex-Vergine della pagoda». Era già giunta la sera, quando ricevetti anch’io un telegramma da Chandernagor e che portava la firma del mio padrone. Mi rammento ancora parola per parola ciò che diceva: «Parti immediatamente con Darma, la quale corre un grave pericolo da parte dei nostri nemici.» Spaventato assai, mi recai alla stazione senza perdere un solo minuto assieme alla piccola Darma e alla sua nutrice. Il dispaccio mi era giunto alle 6 e 34, e un treno partiva per Chandernagor e Houghy alle 7 e 28. Salii in uno scompartimento che era vuoto, ma alcuni istanti prima che il treno partisse, due bramini salirono pure, sedendosi di fronte a me. Erano due personaggi dalle lunghe barbe bianche, dall’aspetto grave ed imponente, che avrebbe rassicurato l’uomo piú sospettoso. Partimmo senza che alcun che di straordinario fosse accaduto, quando un’ora dopo, appena oltrepassata la stazione di Sirampur, accadde un fatto semplicissimo in apparenza e che doveva avere invece terribili conseguenze. La valigia d’uno dei due bramini era caduta e nell’aprirsi era sfuggito un globo di sottilissimo cristallo che nell’interno conteneva dei fiori. Dall’urto fu spezzato e quei fiori si sparsero per lo scompartimento senza che i due bramini si curassero di raccoglierli. Vidi però che entrambi avevano subito estratto un fazzoletto, accostandoselo alla bocca e al naso come se il profumo di quei fiori, che era acutissimo, avesse dato loro noia. — Ah! — esclamò Sandokan, che s’interessava assai di quello strano racconto. — Continua, Kammamuri. — Che cosa successe poi? — disse il maharatto la cui voce era diventata tremante. — Io non ve lo saprei dire. Mi ricordo solo d’aver sentito la mia testa diventare a poco a poco pesante... poi piú nulla. Quando mi svegliai un profondo silenzio regnava attorno a me ed ero al buio. Il treno non correva piú, in lontananza udii invece un fischio prolungato. Balzai in piedi chiamando la nutrice e Darma e nessuno mi rispose. Credetti per un momento di essere diventato pazzo o di essere in preda a uno spaventevole sogno. Mi precipitai verso lo sportello: era chiuso. Completamente fuori di me, con un pugno sfondai il vetro tagliandomi la mano, aprii lo sportello e mi slanciai fuori. Il treno era fermo su un binario morto e non vi erano piú né macchinisti, né frenatori. In lontananza vidi però dei fanali che pareva illuminassero una stazione. Mi misi a correre gridando sempre: «Darma! Ketty! Aiuto! Le hanno rapite! I Thugs! I Thugs!» Venni fermato da alcuni policeman e da alcuni impiegati della stazione. Dapprima mi credettero pazzo tanta era la mia esaltazione e mi ci volle non meno di un’ora per persuaderli che il mio cervello era sano e narrare loro quanto mi era toccato. Io mi trovavo non già nella stazione di Chandernagor bensí in quella di Houghy, che è situata a una ventina di miglia piú al nord. Nessuno del personale si era accorto della mia presenza, quando il treno fu fermato nel binario morto, sicché ero rimasto nello scompartimento fino al mio risveglio. Dal policeman della stazione furono fatte pronte ricerche, che lí per lí non dettero risultato. Al mattino partii per Chandernagor per avvertire Tremal-Naik della scomparsa di Darma e della nutrice. Non era piú là e appresi dal suo amico che non aveva spedito al mio padrone alcun telegramma. Nemmeno quello da me ricevuto era stato mandato da Tremal-Naik. — Quanto sono astuti quei Thugs! — esclamò Yanez. — Chi avrebbe potuto architettare un piano cosí infernale? — Prosegui, Kammamuri, — disse Sandokan. Il maharatto si asciugò due lagrime, poi riprese con voce rotta: — Non riuscirei mai a descrivere il dolore del mio padrone, quando apprese la scomparsa della piccola Darma e della nutrice. Fu un vero miracolo se non impazzí. La polizia intanto continuava le sue indagini, unitamente a quella francese di Chandernagor, per scoprire i rapitori della bambina e di Ketty. Fu cosí constatato che quei due dispacci erano stati spediti da un indiano, che prima di allora non era mai stato veduto dagli impiegati dell’ufficio telegrafico di Chandernagor e che parlava malissimo il francese. Poi che i due bramini che erano saliti con me, eran scesi alla stazione ferroviaria di quella città sorreggendo una donna che pareva fosse stata colpita da un grave malore e portando in braccio una bambina bionda. Il giorno seguente la nutrice era stata trovata morta in mezzo a un bosco di banani, con un fazzoletto di seta nera stretto al collo. I Thugs l’avevano strangolata! — Miserabili! — esclamò Yanez, stringendo i pugni. — Ciò però non prova che siano stati i Thugs di Suyodhana a rapire la piccola Darma, — osservò Sandokan. — Possono essere stati dei banditi volgari che... — No, signore, — disse il maharatto, interrompendolo. — Sono i Thugs di Suyodhana che hanno fatto il colpo perché una settimana dopo il mio padrone trovò nella sua stanza una freccia, che doveva essere stata scagliata dalla strada, la cui punta era formata da un piccolo serpente colla testa di donna, l’emblema dei settari della mostruosa Kalí. — Ah! — esclamò Sandokan, aggrottando la fronte. — E non è tutto, — prosegui Kammamuri. — Un mattino trovammo sulla porta della nostra abitazione un foglietto di carta con sopra dipinto l’emblema dei Thugs, sormontato da due pugnali incrociati fra un S. — La firma di Suyodhana? — chiese Yanez. — Sí, — rispose il maharatto. — La polizia inglese non ha scoperto nulla? — Ha proseguite le indagini per qualche settimana ancora, poi lasciò morire la cosa. Sembra che non desideri troppo imbarazzarsi coi Thugs. — Non ha fatto ricerche nelle Sunderbunds? — chiese Sandokan. — Si è rifiutata, col pretesto che non poteva disporre di uomini per organizzare una spedizione abbastanza forte per assicurare un buon successo. — Non ha piú soldati dunque il governo del Bengala? — chiese Sandokan. — Il governo anglo-indiano in questo momento è troppo occupato per pensare ai Thugs. L’insurrezione si allarga sempre piú, e minaccia di travolgere tutti i possedimenti inglesi dell’India. — Ah! Vi è stata un’insurrezione in India? — chiese Yanez. — E diventa di giorno in giorno piú terribile, signore. I reggimenti dei cipayes si sono rivoltati in piú luoghi, a Merut, a Delhi, a Lucknow, a Cawnpore e dopo d’aver fucilato i loro ufficiali accorrono sotto le bandiere di Tantia Topi e della bella e coraggiosa Rani. — Ebbene, — disse Sandokan, alzandosi e facendo un giro attorno alla tavola con una certa agitazione, — giacché né la polizia, né il governo del Bengala possono occuparsi dei Thugs in questo momento, ci penseremo noi, è vero, Yanez? Abbiamo cinquanta uomini, cinquanta pirati, scelti fra i piú valorosi di Mompracem, che non temono né i Thugs, né Kalí, armi di buona portata, una nave che può sfidare anche le cannoniere inglesi e dei milioni da gettar via. Con tuttociò si può sfidare la potenza dei Thugs e dare a quel mostro di Suyodhana un colpo mortale. La Tigre dell’India alle prese con la Tigre della Malesia! Ci sarà da divertirsi. Vuotò il bicchiere colmo di quel delizioso liquore, stette un momento immobile cogli occhi fissi sul fondo della tazza, poi, girando bruscamente su se stesso e guardando il maharatto, chiese: — Tremal-Naik crede che i Thugs siano tornati nei loro misteriosi sotterranei di Rajmangal? — Ne ha la convinzione, — rispose Kammamuri. — Dunque la piccola Darma deve essere stata condotta là? — Certo, signor Sandokan. — Tu conosci Rajmangal? — E anche i sotterranei. Vi dissi già che rimasi per sei mesi prigioniero dei Thugs. — Sí, me ne ricordo. Sono vasti quei sotterranei? — Immensi, signore, e si estendono sotto tutta l’isola. — Sotto mi hai detto! Ecco una bella occasione per affogare là dentro tutte quelle canaglie. — E la piccola Darma? — Li affogheremo piú tardi, quando saremo riusciti a strappare a loro la piccola, mio bravo Kammamuri. — Da quale parte si discende in quei sotterranei?. — Da un foro aperto nel tronco principale d’un immenso banian. — Ebbene, andremo a visitare le Sunderbunds, — disse Sandokan. — Mio caro Suyodhana, avrai ben presto notizie di Tremal-Naik e della Tigre della Malesia. In quel momento si udirono un fragor di catene e un tonfo, poi dei comandi, quindi si sentí una scossa piuttosto brusca. — Hanno gettato le ancore, — disse Yanez, alzandosi. — Saliamo, Sandokan. Vuotarono le tazze e rimontarono sulla tolda. La notte era scesa già da un paio d’ore, avvolgendo le pagode della città nera e i campanili, le cupole ed i grandiosi palazzi della città bianca, ma miriadi di fanali e di lumi scintillavano lungo le ampie gettate, nello Strand e nei superbi squares che sono annoverati tra i piú belli del mondo. Sul fiume, che in quel luogo era largo piú d’un chilometro, un numero infinito di navi a vapore ed a vela, provenienti da tutte le parti del mondo, ondulavano sulle loro ancore, coi fanali regolamentari accesi. La Marianna si era ancorata verso gli ultimi bastioni del forte William, la cui massa imponente giganteggiava fra le tenebre. Sandokan si assicurò se le ancore avevano preso buon fondo, fece abbassare le immense vele che sfioravano le grab vicine poi ordinò di calare la bandiera. — È quasi mezzanotte, — disse a Kammamuri. — Possiamo recarci dal tuo padrone? — Sí, ma vi consiglierei di indossare un costume meno vistoso per non allarmare le spie dei Thugs. Io ed il mio padrone abbiamo la certezza di essere sorvegliati dai banditi di Suyodhana. — Ci vestiremo da indiani, — rispose Sandokan. — E meglio ancora da sudra — disse Kammamuri. — Che cosa sono questi? — Servi, signore. — L’idea è buona. Le vesti non mancano a bordo; vieni ad acconciarci in modo da poter ingannare le spie e cominciamo la nostra campagna. — Se la Tigre dell’India è furba, quella della Malesia non lo sarà meno. Vieni, Yanez. Capitolo III. TREMAL-NAIK Mezz’ora dopo la baleniera della Marianna scendeva il fiume, montata da Sandokan, Yanez, Kammamuri e da sei robusti malesi dell’equipaggio. I due comandanti del praho si erano camuffati da servi indiani, annodandosi intorno ai fianchi un largo pezzo di tela, il dootée, e coprendosi le spalle con una specie di mantello di tela grossolana, di color marrone, il dubgah. Entro la fascia però avevano nascoste un paio di pistole dalla canna lunga e il kriss malese, quel terribile pugnale a lama serpeggiante lungo piú d’un piede, che produce delle ferite orribili che di rado guariscono perfettamente. La città era ormai immersa nelle tenebre, essendo stati spenti tutti i fanali delle gettate e degli squares; solamente i fanali delle navi rispecchiavano le loro luci bianche, verdi e rosse nelle oscure acque del fiume. La baleniera filò fra i velieri, le grab, i pariah, le pinasse ed i piroscafi che ingombravano le due rive, poi si diresse verso i bastioni meridionali del forte William, approdando dinanzi alla spianata che in quel momento era buia e deserta. — Ci siamo, — disse Kammamuri. — La via Durumtolah è a pochi passi. — Abita un bengalow? — chiese Yanez. — No, un vecchio palazzo indiano che un tempo era abitato dal defunto capitano Macpherson e che ereditò dopo la morte di Ada. — Guidaci, — disse Sandokan. Scese a terra, poi volgendosi verso i malesi, disse: — Voi rimarrete qui ad aspettarci. — Sí capitano, — rispose il timoniere, che aveva guidata la baleniera. Kammamuri si era messo in marcia inoltrandosi attraverso la vasta spianata. Sandokan e Yanez lo avevano seguito tenendo una mano sotto il dubgah per essere piú pronti a estrarre le armi nel caso che fosse stato bisogno di servirsene. La spianata però era deserta o almeno appariva tale, poiché in quell’oscurità non era facile poter distinguere un uomo. Dopo pochi minuti imboccarono la via Durumtolah, fermandosi dinanzi ad un vecchio palazzo di stile indiano, di forma quadrata, sormontato da tre piccole cupole e da terrazze. Kammamuri trasse una chiave e la introdusse nella toppa. Stava per aprire la porta, quando Sandokan, la cui vista era piú acuta di quella dei compagni, scorse un’ombra umana staccarsi da una delle colonne che reggevano una piccola veranda e allontanarsi rapidamente, scomparendo fra le tenebre. Per un momento ebbe l’idea di precipitarsi sulle tracce del fuggitivo; però si trattenne temendo di cadere in qualche agguato. — L’avete scorto quell’uomo? — chiese a Kammamuri e a Yanez. — Chi? — domandarono a una voce il portoghese e il maharatto. — Un uomo che si teneva celato dietro a una di quelle colonne. Avevi ragione Kammamuri di sospettare che i Thugs sorveglino la casa. Ne abbiamo avuto or ora la prova. Poco importa; quello spione non ha potuto vederci in viso con questa oscurità, e poi non mi conosce. Cercheremo però di sorprenderlo. Kammamuri aprí la porta che poi richiuse senza far rumore e salita una scala di marmo che era ancora illuminata da una specie di lanterna cinese, introdusse i due comandanti del praho in una saletta ammobiliata semplicemente all’inglese, con sedia e tavola di bambú artisticamente lavorate. Un globo di cristallo azzurro, sospeso al soffitto, proiettava una luce dolcissima, facendo scintillare le pietre lucidissime del pavimento, graziosamente intarsiate in nero, in rosso ed in giallo. Erano appena entrati, quando una porta s’apri e un uomo si precipitò fra le braccia di Sandokan prima, poi fra quelle di Yanez, esclamando: — Miei amici! Miei valorosi amici! Quanto vi ringrazio di essere venuti. Voi mi renderete la mia Darma, è vero? L’uomo che cosí parlava era un bellissimo tipo d’indiano bengalino, di trentacinque o trentasei anni, dalla taglia elegante e flessuosa senz’essere magra, dai lineamenti fini ed energici colla pelle lievemente abbronzata e lucentissima e gli occhi nerissimi e pieni di fuoco. Vestiva come i ricchi indiani modernizzati della Young-India, i quali hanno ormai lasciato il dootée e il dubgah pel costume anglo-indiano, piú semplice, ma anche piú comodo: giacca di tela con alamari di seta, fascia, ricamata e altissima, calzoni stretti, pure bianchi e turbantino ricamato. Sandokan e Yanez avevano contraccambiato l’abbraccio dell’indiano, poi il primo gli aveva risposto con voce affettuosa: — Calmati, Tremal-Naik, se noi abbiamo lasciata la nostra selvaggia Mompracem e siamo qui, vuol dire che siamo pronti a impegnare la lotta contro Suyodhana e tutti i suoi sanguinari banditi. — La mia Darma! — gridò l’indiano con un singhiozzo straziante, mentre si comprimeva gli occhi come per impedire alle lacrime di sgorgare. — La ritroveremo, — disse Sandokan. — Tu sai che cosa è stata capace di fare la Tigre della Malesia, quando tu eri prigioniero di James Brooke, il rajah di Sarawak. Se io ho detronizzato quell’uomo che si chiamava lo sterminatore dei pirati e che con una sola parola faceva tremare tutti i sultani e i rajah del Borneo, saprò vincere anche Suyodhana e costringerlo a renderti la figlia. — Sí, — disse Tremal-Naik, — tu e Yanez soli potreste misurarvi contro quei settari maledetti, contro quei sanguinari adoratori di Kalí e vincerli. Ah! Se dovessi perdere anche la figlia, dopo d’aver perduto la mia Ada, la sola donna che io abbia amata al mondo, sento che non sopravviverei e che impazzirei. Aver tanto lottato e sofferto per strappare a quei mostri la donna che doveva diventare un giorno mia moglie e veder ora nelle loro mani mia figlia. È troppo! Sento che il mio cuore scoppia. — Tranquillizzati, Tremal-Naik, — disse Yanez, che era vivamente commosso pel profondo dolore dell’indiano. — Non si tratta ora di piangere, bensí d’agire e di mettersi in campagna senza perdere tempo. Udiamo, mio povero amico: sei tu convinto che i Thugs si siano nuovamente riuniti nei sotterranei di Rajmangal? — Ne ho la certezza, — rispose l’indiano. — E che Suyodhana sia là? — Si dice che sia tornato fra di loro. — Dunque la piccola Darma sarà stata portata a Rajmangal? — disse Sandokan. — Non ne ho la certezza. Essa però deve aver rimpiazzato il posto che occupava un giorno sua madre, mia moglie. — Può correre qualche pericolo? — Nessuno: la «Vergine della pagoda» incarna sulla terra la mostruosa Kalí e la si adora e la si teme come una divinità autentica. — Dunque nessuno ardirebbe farle alcun male. — Nemmeno Suyodhana, — rispose Tremal-Naik. — Quanti anni ha la tua Darma? — Quattro anni. — Che strana idea di fare d’una bambina una divinità! — esclamò Yanez. — Era la figlia della «Vergine della pagoda» che per sette anni rappresentò Kalí nei sotterranei di Rajmangal, — disse Tremal-Naik, con un singhiozzo soffocato. — Fratellino mio, — disse Yanez, volgendosi verso Sandokan, — Tu mi hai parlato d’un progetto. — E l’ho anche maturato, — rispose la Tigre della Malesia. — Solamente vorrei, prima di metterlo in esecuzione, avere la certezza che i Thugs si trovino realmente nei sotterranei di Rajmangal. Ciò è necessario. — Come fare dunque? — Bisogna impadronirci di qualche thug e costringerlo a confessare. Suppongo che a Calcutta ve ne saranno. — E non pochi, — disse Tremal-Naik. — Cercheremo di scovarne qualcuno. — E poi? — chiese Yanez. — Se si sono nuovamente radunati a Rajmangal, andremo a fare una partita di caccia fra quelle jungle. Kammamuri mi ha detto che fra quei pantani le tigri abbondano. Andremo quindi a ucciderne alcune: prima quelle a quattro zampe, piú tardi quelle a due e senza coda. Cosí potremmo sorvegliare Rajmangal e scoprire forse certe cose che potrebbero essere molto preziose per noi. Tu sei sempre un buon cacciatore, è vero Tremal-Naik? — Sono un figlio delle Sunderbunds e delle jungle, — rispose l’indiano. — Ma perché cacciare le tigri prima degli uomini? — Per ingannare l’amico Suyodhana. I cacciatori non sono né cipayes né policeman, e se è vero che quelle jungle sono ricche di selvaggina, i Thugs non si allarmeranno della nostra presenza. Che cosa ne dici, Yanez? — Che la fantasia della Tigre della Malesia è ben lungi dallo spegnersi. — Abbiamo da lottare con un furbo, cerchiamo di essere piú furbi e piú abili di lui. Tu conosci quei pantani, Tremal-Naik? — Tutte le isole e tutti i canali sono noti a me e a Kammamuri. — Vi è un buon fondo dinanzi alle Sunderbunds? — Vi sono dei bracci di mare anche, dove il tuo praho può trovare degli ottimi rifugi contro le onde e i venti. — Dimmene uno. — Quello di Raimatla, per esempio. — Lontano dal covo dei Thugs? — Una ventina di miglia. — Benissimo, — disse Sandokan. — Oltre Kammamuri hai qualche servo fidato? — Sí, anche due se ne vuoi. Sandokan mise una mano nella tasca interna della sua giubba ed estrasse un grosso pacco di venti biglietti di banca. — Incaricherai quel tuo fedele servo di provvederci due elefanti coi rispettivi conduttori senza lesinare sul prezzo. — Ma... io... — chiese l’indiano. — Tu sai che la Tigre della Malesia ha diamanti da vendere a tutti i rajah e i maharajah dell’India, — rispose Sandokan, sorridendo. Poi aggiunse con profonda tristezza e con un sospiro: — Non ho figli io e nemmeno Yanez. Che cosa dovrei farne delle immense ricchezze accumulate in quindici anni di scorrerie? Il destino è stato crudele con me, togliendomi Marianna. Il formidabile pirata si era vivamente alzato. Un dolore intenso, indescrivibile, aveva scomposto i fieri lineamenti dell’antico scorridore dell’arcipelago malese. Fece due o tre volte il giro della stanza, con la fronte aggrottata, le labbra increspate, le mani strette sul cuore, e gli occhi fiammeggianti, fissi nel vuoto. — Sandokan, fratellino mio, — gli disse Yanez con voce dolce, posandogli una mano sulla spalla. Il pirata si era arrestato mentre un rauco singhiozzo gli moriva sulle labbra. — Che non la possa dimenticare mai? — gridò con voce strozzata e asciugandosi, quasi con rabbia, due lagrime che si raccoglievano sotto le folte ciglia. — Mai! Mai! L’ho troppo amata la Perla di Labuan! Maledetto destino. Tremal-Naik si era avvicinato alla Tigre della Malesia. Anche l’indiano piangeva senza cercare di frenare le lagrime. I due uomini si gettarono l’uno nelle braccia dell’altro e rimasero alcuni istanti stretti. — Morta la tua donna e morta anche la mia, — disse l’indiano, il cui dolore non era meno intenso di quello della Tigre della Malesia. Kammamuri, in un angolo, si asciugava gli occhi; anche Yanez sembrava profondamente commosso. Ad un tratto la Tigre della Malesia si separò bruscamente da Tremal-Naik. Il suo viso poco prima cosí alterato, aveva la sua abituale espressione calma e ad un tempo energica. — Quando avremo la certezza che Suyodhana si trova laggiú, — disse, — andremo nelle Sunderbunds. Puoi domani avere gli elefanti? — Lo spero, — disse Tremal-Naik. — Noi rimarremo qui fino a quando potremo avere nelle nostre mani qualche thug poi vedremo che cosa si dovrà fare. Quando verrai a bordo? Sei piú sicuro sul nostro praho che nel tuo palazzo. — Domani sera, a ora tarda onde non mi spiino. Il mio palazzo è sorvegliato dai Thugs, lo so. — T’aspettiamo. Yanez, torniamo a bordo. Sono già le due del mattino. — Perché non vi riposate qui? — chiese Tremal-Naik. — Per non destare alcun sospetto, — rispose Sandokan. — Vedendoci domani uscire, qualche spia potrebbe seguirci fino al praho e ciò non mi garberebbe. Con questa oscurità anche se qualcuno tentasse di tenerci d’occhio, non vi riuscirebbe perché abbiamo la baleniera sul fiume e possiamo ingannarlo sulla nostra direzione. Addio, Tremal-Naik, domani avrai nostre nuove. — Partiremo domani sera, dunque? — E molto tardi, se potrai trovare gli elefanti. Prendi però delle precauzioni per non venire seguito. — Saprò ingannare le spie. Vuoi che Kammamuri ti accompagni? — È inutile, siamo armati e la gettata è vicina. Si abbracciarono nuovamente, poi Sandokan e Yanez scesero lo scalone accompagnati da Kammamuri. — State in guardia, — disse il maharatto mentre apriva la porta. — Non temere, — rispose Sandokan. — Non siamo uomini da lasciarci sorprendere. Appena fuori, i due comandanti del praho levarono le pistole che tenevano nascoste nella larga fascia e le armarono. — Apriamo gli occhi, Yanez, — disse Sandokan. — Li apro, fratellino mio, ma confesso che non ci vedo al di là della punta del mio naso. Mi pare di essere entro un’immensa botte di catrame. Che bella notte per una imboscata! Si fermarono qualche istante in mezzo alla via, tendendo gli orecchi, poi, rassicurati dal profondo silenzio che regnava, si diressero verso la spianata di forte William. Si tenevano però lontani dalle pareti delle case che fiancheggiavano la via, e mentre l’uno guardava a destra l’altro guardava a sinistra. Ogni quindici o venti passi si fermavano per guardarsi alle spalle e per ascoltare. Erano convinti di essere seguiti da qualcuno, forse dall’uomo che Sandokan aveva veduto allontanarsi nel momento in cui Kammamuri stava aprendo la porta del palazzo. Tuttavia giunsero felicemente all’estremità della via, senza che nulla fosse avvenuto e sboccarono sulla spianata dove l’oscurità era meno fitta. — È là il fiume, — disse Sandokan. — L’odo, — rispose Yanez. Affrettarono il passo ma non erano ancora giunti a metà della spianata, quando ad un tratto caddero l’uno sull’altro. — Ah! Canaglie! — gridò Sandokan. — Hanno teso un filo di ferro! Nel medesimo istante alcuni uomini che si tenevano appiattati fra le folte erbe, si precipitarono sui due scorridori del mare facendo fischiare in aria qualche cosa. — Non alzarti, Sandokan! I lacci! — gridò Yanez. Vi risposero due colpi di pistola, sparati l’uno dietro l’altro. Sandokan aveva fatto fuoco precipitosamente, nel momento in cui si sentiva colpire alle spalle da una palla di ferro o di piombo. Uno degli assalitori cadde, mandando un grido che subito si spense. I suoi compagni si gettarono a destra e a sinistra e scomparvero rapidamente fra le tenebre, prendendo diverse direzioni. Sui bastioni del forte William si udí una sentinella a gridare: — Chi va là? Poi piú nulla. Yanez e Sandokan, temendo un ritorno offensivo degli assalitori, non si erano mossi. — Se ne sono andati, — disse finalmente il primo, non vedendo comparire piú nessuno. — Non sono molto coraggiosi questi Thugs, ammesso che fossero veramente gli strangolatori di Suyodhana. Sono scappati come lepri ai primi spari. — L’agguato era stato ben preparato, — rispose Sandokan. — Se tardavo a scaricare le pistole ci strangolavano. È un filo d’acciaio che hanno teso per farci cadere. — Andiamo a vedere se quel briccone è proprio morto. — Non si muove piú. — Può fingersi morto. Si alzarono guardandosi intorno e tenendo in alto un braccio per tema di sentirsi imprigionare il collo da qualche altro laccio, e s’avanzarono verso l’uomo che giaceva disteso fra le erbe, colle mani strette sul capo e le gambe ripiegate. — Ha ricevuto una palla nel cranio, — disse Sandokan, vedendo che aveva il viso imbrattato di sangue. — Che sia un thug? — Kammamuri ci ha detto che quei settari hanno un tatuaggio sul petto. — Portiamolo nella scialuppa. — Taci! Un fischio erasi udito in lontananza, e un altro vi aveva risposto verso la via Durumtolah. — Mio caro Yanez, — disse Sandokan. — Alla baleniera e senza perdere tempo. Avremo altre occasioni per osservare i tatuaggi dei Thugs. Balzarono in piedi, saltarono il filo d’acciaio e si diressero rapidamente verso il fiume, mentre fra le tenebre echeggiava un terzo fischio. La baleniera era ormeggiata al medesimo posto e mezzo equipaggio era sulla gettata armato di fucili. — Padrone, — disse il timoniere scorgendo Sandokan, — siete stato voi a far fuoco? — Sí, Rangary. — L’avevo detto ai miei uomini che quegli spari erano di pistole di Mompracem. Stavo per accorrere in vostro aiuto. — Non c’era bisogno, — rispose Sandokan. — È venuto nessuno a ronzare attorno alla scialuppa? — No, signore. — A bordo, tigrotti miei. È già molto tardi. Fece accendere il fanale collocato a prora e la baleniera si allontanò. Quasi nell’istesso momento un piccolo gonga che era nascosto dietro una pinassa, ancorata presso la gettata e montato da due uomini, nudi come vermi e unti di olio di cocco, si staccava silenziosamente dalla riva filando dietro la baleniera del praho. Capitolo IV. IL «MANTI» L’indomani Yanez e Sandokan, dopo d’aver dormito alcune ore, stavano sorbendo un’eccellente tazza di the; e mentre chiacchierando sugli avvenimenti della notte, videro entrare nel salotto il mastro dell’equipaggio, un superbo malese, tarchiato come un lottatore e dai muscoli enormi. — Che cosa vuoi, Sambigliong? — chiese Sandokan che si era alzato. — È giunto qualche messo di Tremal-Naik? — No, capitano. Vi è un indiano che chiede di salire a bordo. — Chi è? — Un manti, mi ha detto. — Che cos’è questo manti? — È una specie di stregone, — disse Yanez, che avendo soggiornato nella sua gioventú parecchi anni a Goa, ne sapeva qualche cosa. — Ti ha detto che cosa vuole quell’uomo? — chiese Sandokan. — Che viene a compiere un sacrificio a Kalí-Ghât onde i numi dell’India ti siano propizi, scadendo oggi la festa di quella divinità. — Mandalo al diavolo. — Vi osservo, capitano, che egli è stato ricevuto anche a bordo delle grab che ci stanno intorno e che è accompagnato da un policeman indigeno, il quale mi ha detto di non rifiutare la sua visita, se non vogliamo avere dei fastidi. — Facciamolo salire, Sandokan, — disse Yanez. — Rispettiamo i costumi del paese. — Che uomo è? — chiese il pirata. — Un bel vecchio, capitano, dall’aspetto maestoso. — Fa’ abbassare la scala. Quando salirono poco dopo sulla tolda, il manti era già a bordo, mentre invece il policeman indigeno era rimasto nel piccolo gonga in compagnia di parecchi capretti che belavano lamentosamente. Come Sambigliong aveva detto, quel medico e stregone ad un tempo, era un bel vecchio dalla pelle abbronzata, i lineamenti un po’ angolosi, gli occhi nerissimi che avevano uno strano splendore ed una lunga barba bianca. Sulle braccia, sul petto e sul ventre aveva delle righe bianche e cosí pure sulla fronte, distintivi dei seguaci di Siva, i quali adoperano le ceneri di sterco di vacca o ceneri raccolte sui luoghi ove si bruciano i cadaveri. Il suo vestito si limitava a un semplice dootée che gli copriva appena i fianchi. — Che cosa vuoi? — gli chiese Sandokan, in inglese. — Compiere il sacrificio della capra in onore di Kalí-Ghât, di cui oggi scade la festa, — rispose il manti nell’egual lingua. — Noi non siamo indiani. Il vecchio socchiuse gli occhi e fece un gesto di stupore. — Chi siete dunque? — Non occuparti di sapere chi noi siamo. — Venite molto da lungi? — Forse. — Io compirò il sacrificio onde il tuo ritorno possa essere felice. Nessun equipaggio, anche straniero, si rifiuterebbe di lasciar compiere una tale cerimonia a un manti che può gettare dei malefizi. Chiedilo al policeman che m’accompagna. — Allora spicciati, — disse Sandokan. Il vecchio aveva portato con sé una capretta tutta nera ed una bisaccia di pelle dalla quale estrasse dapprima un pentolino che pareva contenesse del burro, quindi due pezzi di legno, uno piatto da una parte, con un buco nel mezzo, l’altro piú sottile e acuminato. — Sono legni sacri, — disse il manti, mostrandoli a Sandokan e a Yanez i quali seguivano con curiosità le mosse del vecchio. Piantò quella specie di punteruolo nel bastone piatto, poi servendosi d’una piccola correggia lo fece girare vertiginosamente. — Pare che accenda il fuoco, — disse Sandokan. — Il fuoco sacro per il sacrificio, — rispose Yanez, sorridendo. — Quante barocche superstizioni e credenze hanno questi indiani! Dopo mezzo minuto una fiamma scaturí dal buco e i due legni presero fuoco ardendo rapidamente. Il manti girò lentamente su se stesso curvandosi verso oriente, poi a occidente, quindi a mezzodí e finalmente a settentrione, dicendo con voce solenne: — Luci d’India, di Sourga e d’Agni, che illuminate la terra e il cielo, rischiarate il sangue dell’olocausto che io offro a Kalí-Ghât, e non quello degli uomini che qui vedono. — Incrociò i due pezzi di legno sacro lasciando che si carbonizzassero, poi li depose su una lastra di rame e versò su di essi un po’ di burro contenuto nel pentolino. Ravvivatasi la fiamma, il vecchio stregone prese il capretto, estrasse un coltello e con un rapido colpo lo decapitò, lasciando che il sangue colasse sui legni sacri. Quando il sangue cessò di uscire e il fuoco fu spento, raccolse le ceneri diventate rosse, si segnò la fronte e il mento, quindi avvicinatosi a Sandokan e a Yanez marcò la loro fronte, dicendo: — Ora potete partire e tornare al vostro lontano paese, senza temere le tempeste, perché lo spirito d’Agni e la forza di Kalí-Ghât sono con voi. — Hai finito? — chiese Sandokan, porgendogli alcune rupie. — Sí, sahib, — rispose il vecchio fissando sulla Tigre della Malesia i suoi occhi nerissimi, nei quali pareva splendesse un raggio soprannaturale. — Quando partirai? — È già la seconda volta che tu mi rivolgi questa domanda, — disse Sandokan. — Perché ti preme saperlo? — È una domanda che io faccio sempre a tutti gli equipaggi delle navi. Addio sahib e che Siva unisca la sua possente protezione a quella di Agni e di Kalí-Ghât. Prese il capretto e discese nel suo gonga, dove il policeman indigeno lo aspettava, seduto sulla panchina di prora, fumando una sigaretta di palma. Il piccolo battello si staccò dalla scala, ma invece di scendere il fiume dove vi erano altri moltissimi velieri, lo risalí passando sotto la poppa del praho. Sandokan e Yanez, che lo avevano seguito collo sguardo, videro con loro sorpresa il manti abbandonare per un istante i remi, volgersi vivamente a fissare gli occhi sul coronamento di poppa, dove in lettere d’oro spiccava il nome della nave, quindi riprenderli e allontanarsi velocemente, scomparendo in mezzo alla moltitudine di velieri che ingombravano il fiume. Sandokan e Yanez si erano guardati l’un l’altro, come se un medesimo pensiero fosse balenato nel loro cervello. — Che cosa ne pensi tu di quel vecchio? — chieso Sandokan. — Penso che quella barocca cerimonia è stata una scusa per salire a bordo e sapere chi noi siamo, — rispose il portoghese che appariva turbato. — Il tuo sospetto è identico al mio. — Sandokan, che siamo stati giuocati? — Non è possibile supporre che i Thugs sappiano già che noi siamo amici di Tremal-Naik e che siamo venuti qui per aiutarlo a ritrovare la piccola Darma. Che siano demoni quegli uomini, o stregoni?. — Non so che cosa dire, — rispose Yanez, che era diventato pensieroso. — Aspettiamo Kammamuri. — Mi sembri inquieto, Yanez. — E ne ho il motivo. Se i Thugs sanno ormai quali sono le nostre intenzioni e lo scopo del nostro viaggio, temo che avremo da fare con degli avversari formidabili. — Forse ci siamo ingannati, Yanez, — disso Sandokan. — Quel manti può essere invece un povero diavolo che cerca di guadagnarsi qualche rupia coi suoi sacrifici piú o meno sciocchi. — Pure, quella domanda ripetuta e quello sguardo dato al nome della nostra nave, mi hanno profondamente impressionato. — Che abbia corbellato anche quel policeman? — Trovo anzi strana la presenza di quel poliziotto nel gonga del ciarlatano. Sandokan rimase alcuni istanti silenzioso, passeggiando sul cassero, poi avvicinandosi rapidamente al portoghese e prendendolo per un braccio, gli disse: — Yanez, ho un altro sospetto. — E quale? — Che fosse un thug truccato da poliziotto, per meglio ingannarci. Il portoghese guardò Sandokan con sgomento. — Lo credi? — chiese. — E scommetterei il mio narghilé contro una delle tue sigarette che sei anche tu convinto che quell’uomo non era un vero policeman, — disse Sandokan. — Sí, fratellino mio: noi dobbiamo essere stati mistificati da gente piú furba di noi. Mio caro Sandokan, la Tigre dell’India dà prova di essere, almeno finora, piú astuta di quella malese. — Sí, piú civilizzata questa indiana, mentre quella malese è ancora selvaggia, — disse Sandokan, sforzandosi a sorridere. — Bah! Prenderemo presto la nostra rivincita. D’altrondo quel briccone di manti, ammesso che fosse veramente una spia di Suyodhana, nulla ha appreso dalle nostre labbra e ignora ancora chi noi siamo, per quale motivo noi ci troviamo qui e... Si era bruscamente interrotto, accostandosi alle murate di tribordo. Pareva che seguisse qualche imbarcazione che scivolava fra le navi ancorate in mezzo al fiume. — Mi sembra d’aver veduto la scialuppa colla testa d’elefante che ieri ci venne incontro con Kammamuri, — disse. — È scomparsa dietro quel gruppo di pinasse e di grab, ma non tarderà a mostrarsi. — Dovrebbe essere già qui, — disse Yanez estraendo un magnifico cronometro d’oro. Salirono sul capo di banda tenendosi aggrappati alle griselle dell’albero maestro e scorsero infatti un fylt’ sciarra, somigliante a quello che la sera innanzi aveva condotto il maharatto a bordo, manovrare abilmente e anche velocemente fra le navi. Era montato da quattro remiganti e guidato da un uomo che pareva un mussulmano dell’India settentrionale, dal costume che indossava. — Che Kammamuri si sia camuffato? — chiese Sandokan. — Quella scialuppa si dirige verso di noi. Infatti il fylt’ sciarra uscito da quel caos di navigli, correva verso la Marianna, rimontando velocemento la corrente che in quel luogo si faceva sentire pochissimo, ostacolata da tutti quei galleggianti che ne rompevano la violenza. In pochi minuti giunse sotto il tribordo del praho, arrestandosi presso la scala. Il mussulmano che lo guidava dopo d’aver scambiate alcune parole coi remiganti, salí rapidamente a bordo, inchinandosi dinanzi a Yanez e a Sandokan che erano accorsi e che lo guardavano con sorpresa. — Non mi riconoscete piú, dunque? — chiese il nuovo arrivato, scoppiando in una risata. — Sono ben contento, perché allora potrò ingannare anche quei cani di Thugs. — Ti faccio le mie felicitazioni, mio caro Kammamuri, — disse Yanez. — Se non facevi udire la tua voce stavo per dare l’ordine di rimandarti nella tua scialuppa. — Una truccatura magnifica, — disse Sandokan. — Sei irriconoscibile, mio bravo maharatto. Il fedele servo di Tremal-Naik era diventato veramente irriconoscibile e chiunque lo avrebbe scambiato per un maomettano di Agra o di Delhi. Aveva lasciato il dootée e il dubgah pel kurty, costume che a prima vista rassomiglia a quello dei turchi e dei tartari, sebbene sia un po’ diverso perché la casacca è piú corta e aperta dal lato sinistro invece che dal destro, i calzoni piú ampi e anche il turbante d’altra forma, essendo piú piatto sul davanti e piú rigonfio di dietro. Per meglio completare l’illusione, il brav’uomo aveva fatto sparire le linee che i seguaci di Visnú portano sulla fronte e si era appiccicata una superba barba nera che gli dava un aspetto imponente. — Ammirabile, — ripeté Yanez. — Mi sembri un qualche santone di ritorno dalla Mecca. Non ti mancherebbe che un po’ di verde sul turbante. — Credete che i Thugs mi possano riconoscere? — A menoché non siano diavoli o stregoni, nessuno potrebbe sospettare in te il maharatto di ieri. — Le precauzioni sono necessarie, signore. Anche stamane ho veduto ronzare attorno alla casa del padrone delle figure sospette. — Che ti avranno seguito, — disse Sandokan. — Ho preso le mie precauzioni per far perdere le mie tracce e spero di esserci riuscito. Ho lasciato la casa in un palanchino ben chiuso e mi sono fatto condurre allo Strand, dove vi è sempre una folla straordinaria, scendendo dinanzi a un albergo. La mia trasformazione l’ho compiuta colà e quando sono uscito nessuno mi ha riconosciuto, nemmeno i servi. Il fylt’ sciarra m’aspettava lontano dallo Strand, sul quai della città nera, quindi nessuno può avermi seguito. — Bada! I Thugs sono assai furbi e ne abbiamo avuto la prova. Essi ormai sanno che noi siamo amici del tuo padrone e ci sorvegliano. Il maharatto fece un gesto di spavento e divenne livido. — È impossibile! — esclamò. — Hanno già tentato di assassinarci quando uscimmo dal palazzo di Tremal-Naik, — disse Sandokan. — Voi! — Bah! Un attacco male riuscito che abbiamo ricambiato con due palle, di cui una non andò perduta. Non è però quell’agguato che in questo momento ci preoccupa. È una visita che ci fu fatta poco fa e che ci ha messo indosso dei gravi sospetti. È venuto uno stregone, o qualche cosa di simile, a sacrificare una capra... — Un manti, — disse Yanez. Kammamuri mandò un grido e impallidí maggiormente. — Un manti, avete detto! — gridò. — Lo conosceresti forse? — chiese Sandokan, con inquietudine. Il maharatto era rimasto muto, guardandoli con gli occhi dilatati da un profondo terrore. — Orsú, parla, — disse Yanez. — Che cosa significa lo spavento che leggo nel tuo sguardo? Chi è quell’uomo? L’hai veduto anche tu? — Come era? — chiese Kammamuri con voce strozzata. — Alto, vecchio, con una lunga barba bianca e due occhi nerissimi e splendenti, che pareva avessero entro la pupilla due carboni. — È lui! È lui! — Spiegati. — È lo stesso che è venuto due volte a casa del mio padrone a compiere la cerimonia del putscie e che ho veduto aggirarsi altre due volte nella via, guardando le nostre finestre. Sí, alto, magro, colla barba bianca e gli occhi fiammeggianti. — Putscie! — esclamò Sandokan. — Che cosa vuol dire?... Spiegati meglio, Kammamuri; non siamo indiani. — È una cerimonia che si compie nelle case, in certe epoche, per propiziarsi le divinità, e che consiste nell’aspergere le stanze di orina mista a sterco di mucca(), nel gettare fiori di riso entro un secchio d’acqua, e nel bruciare molto burro messo entro lampade disposte intorno al recipiente. — E il manti l’ha compiuta nella casa del tuo padrone? — chiese Sandokan. — Sí, quindici giorni or sono, — rispose Kammamuri. — È lo stesso che stamane è venuto qui, ne sono sicuro. Quel miserabile è una spia di Suyodhana. — Era accompagnato da un policeman indigeno? — Da un policeman! — esclamò Kammamuri facendo un gesto di stupore. — Da quando in qua la polizia scorta i manti o i bramini nel loro giro? Siete stati doppiamente burlati. Kammamuri s’aspettava da parte della Tigre della Malesia uno scoppio d’ira, invece il formidabile pirata non perdette un atomo della sua calma, anzi parve piú soddisfatto che malcontento. — Benissimo, — disse. — Ecco una burla da cui trarremo dei vantaggi inapprezzabili. Riconosceresti ancora quell’uomo, mio bravo Kammamuri? — Anche fra sei mesi. — E anch’io. Hai portato le vesti che ti avevo raccomandato? — Ne ho quattro casse nel fylt’ sciarra. — Che cosa vuoi farne Sandokan? — chiese Yanez. — Il manti ci dirà se i Thugs sono tornati nella loro antica sede e se la piccola Darma si trova nascosta nei sotterranei di Rajmangal, — rispose la Tigre della Malesia. — Ci era necessario un thug per farlo cantare: lo abbiamo sottomano e per Allah, canterà ben alto. Si tratta solo di scovarlo e non dispero. — Calcutta è vasta e popolosa, amico. Sarebbe come trovare un granello perduto in un deserto di sabbia. — Forse è meno difficile di quello che credete, — disse ad un tratto Kammamuri. — Vi è una pagoda dedicata alla dea Kalí, nella città nera, dove i Thugs bazzicano e dove da tre giorni si festeggia Darma-Ragia e la sua sposa Drobidè. Non sarei sorpreso se ritrovassimo là il manti. — Sarebbe una grande fortuna, — disse Sandokan. — Quando comincia la festa? — Alla sera. — Devi ritornare dal tuo padrone? — Gli ho detto di non aspettarmi; d’altronde prima di doman mattina egli sarà qui. Ha deciso di rifugiarsi sul vostro praho onde poter meglio agire senza essere spiato. — Volevo proporglielo. Qui è al sicuro meglio che nel suo palazzo e poi la sua presenza può esserci necessaria. Andiamo a pranzare poi faremo la nostra toletta, onde il manti non ci possa riconoscere. Non credevo di aver tanta fortuna in dodici ore. Se il briccone cade nelle nostre mani, daremo il primo scacco all’amico Suyodhana. Ah! E gli elefanti? — I servi del mio padrone sono già partiti per acquistarli, e fra qualche giorno noi li possederemo. — È necessario che i Thugs non ci vedano. Potrebbero sospettare la nostra intenzione di recarci nelle jungle del sud. — Hanno già avuto l’ordine di condurli in un bengalow che appartiene al mio padrone e che si trova nei pressi di Khari, l’ultima borgata delle Sunderbunds. — Andiamo a pranzare, amici la giornata non è stata perduta. Capitolo V. LA FESTA DI DARMA-RAGIA Il sole stava per tramontare dietro le alte cupole delle pagode della città nera, quando la baleniera lasciò il praho, risalendo il fiume sotto la poderosa spinta di otto remi, maneggiati da altrettanti malesi, scelti fra i piú robusti dell’equipaggio. A poppa stavano seduti Kammamuri, Sandokan e Yanez, tutti tre camuffati da mussulmani kolkari, e Sambigliong, il mastro della Marianna o meglio l’aiutante di campo del formidabile pirata. Non avevano nessuna arma in vista, ma da un certo rigonfiamento della casacca, si poteva supporre che fossero invece formidabilmente muniti di bocche da fuoco e anche d’armi bianche. La baleniera, che marciava rapidissima, costeggiò lo Strand della città bianca, ossia inglese, la via piú bella e piú frequentata di Calcutta, che si prolunga fino alla spianata del forte William e che è fiancheggiata da palazzi e da giardini degni di Londra; poi filò dinanzi ai quais dove si seguivano senza posa eleganti palazzine chiamate bengalow, cinte da graziosi giardini, e dopo una buona ora giunse di fronte alla città nera, la black-town. Mentre la città inglese non ha nulla da invidiare alle piú belle capitali europee, questa non è altro che un ammasso immenso di catapecchie, con pochi monumenti degni della grandiosa architettura indiana che sfolgora invece a Delhi, ad Agra, a Benares ed altrove. Dalle splendide palazzine inglesi, dai palazzi immensi, dai negozi sfolgoranti di luce, dalle chiese anglicane ai teatri, agli squares della città bianca si passa senza transizione alle capanne miserabili, alle pagode semi-crollanti, ai bazar oscuri e fetenti, alle viuzze luride e fangose. Tutto è rovina, sporcizia, miseria, nell’antica città indiana. Casupole o capanne, parte di mattoni mal connessi, parte costruite con poche tavole inchiodate alla meglio, che non hanno quasi mai piú d’un piano, si seguono per parecchi chilometri, senza ordine, senza regola alcuna, divise solo da stradicciuole che sono pericolose a percorrersi di sera, nonostante la continua vigilanza dei policeman bianchi e indigeni. Erano le otto di sera, quando Kammamuri, Yanez, Sandokan e Sambigliong sbarcarono sul quai della città nera, ingombro in quel momento di barche di pescatori e di pinasse provenienti dall’alto corso del Gange. Quantunque fosse un po’ tardi, una certa animazione regnava sulle gettate. Dalle pinasse sbarcarono numerosi indiani, accorsi probabilmente dai villaggi vicini per assistere alla festa in onore di Darma-Ragia, la quale doveva già essere cominciata, udendosi in lontananza un frastuono assordante di tam-tam, di tamburi di sitar e di mirdeng. — Arriveremo in tempo per assistere alla danza del fuoco, — disse Kammamuri a Sandokan. — Vi saranno molti piedi scottati questa sera, perché è l’ultima e quindi la piú importante. Si unirono alla folla sbarcata dalle pinasse che si rovesciava attraverso le viuzze fangose della città, a malapena illuminate da mezze noci di cocco sospese alle finestre delle case, quasi ricolme di olio in cui nuotava uno stoppino. Lasciandosi portare da quell’onda di curiosi, dopo venti minuti si trovarono in una vasta piazza, illuminata da un gran numero di aste di ferro piene di cotone imbevuto di materie resinose, e chiusa da un lato da una vecchia pagoda d’antico stile indiano, che s’innalzava in forma di piramide tronca con colonnati, teste d’elefanti, divinità mostruose e animali anneriti dal tempo. La piazza era gremita di bramini, di babú, ossia di borghesi, di sudra, di battellieri e di contadini, però nel mezzo vi era uno spazio tenuto vuoto da alcuni drappelli di cipayes, dove ardevano immensi bracieri che proiettavano intorno un calore piú che torrido. — Che cosa si cucinerà su quei bracieri? — chiese Sandokan, che s’apriva faticosamente il passo fra quella folla di curiosi e di fanatici. — Dei piedi, signore, — rispose Kammamuri. — Quali piedi? Di chi? Di elefanti forse? Ho udito raccontare che sono squisiti. — Umani, capitano, — disse il maharatto. — Vedrete che spettacolo; ma giacché non è ancora cominciato spingiamoci verso la pagoda, se potremo giungervi: Quegli che cerchiamo possiamo trovarlo colà. Facendo forza di gomiti, poterono non senza fatica giungere alla base della gradinata che conduceva alla pagoda, ma colà si videro arrestati da una vera muraglia umana che non era possibile sfondare. Essendo però la terrazza che si estendeva dinanzi al tempio abbastanza elevata, potevano assistere egualmente alla cerimonia che si svolgeva dinanzi alla statua della dea, collocata davanti alla porta. Tutte le pagode indiane hanno due statue che rappresentano la stessa divinità a cui il tempio è stato dedicato: una collocata all’esterno a cui il popolo può presentare le sue offerte; l’altra interna a cui gli adoratori possono egualmente far pervenire i loro doni per mezzo dei sacerdoti, i quali si sono riserbato il diritto di poterla avvicinare da soli. Ad essi spetta il lavarla col latte di vacca, o coll’olio di cocco, l’ornarla di fiori e farle unzioni durante le grandi cerimonie. Il popolo dove accontentarsi di guardare l’idolo interno da lontano, felice di poter avere almeno un petalo dei fiori che l’ornano e che i sacerdoti distribuiscono terminata la festa. Intorno alle due statue di Darma-Ragia e di Drobidé sua moglie, erano state accese un gran numero di fiaccole, mentre bande di suonatori percuotevano con furore tamburi e tamburelli e laceravano gli orecchi coi suoni acutissimi dei gong e molte coppie di bajadere intrecciavano danze, facendo volteggiare in aria, con grazia, i loro veli trapunti in oro o in argento. Kammamuri e i suoi compagni si fermarono alcuni minuti gettando qua e là degli sguardi in mezzo alla folla, colla speranza di scoprire il vecchio manti poi, disperando di poterlo scovare fra quel mare di teste agitantisi burrascosamente, retrocessero verso il centro della piazza. — Cerchiamo un buon posto presso i fuochi, — aveva detto il maharatto a Sandokan. — Sono certo che troveremo il vecchio stregone nel corteo della dea Kalí. Se è veramente un thug, come abbiamo motivo di credere, vi prenderà parte. — Non è la festa di Darma-Ragia? — chiese Yanez. — È vero, ma essendo la pagoda dedicata a Kalí, porteranno in giro anche la mostruosa statua di quella sanguinaria divinità. Spingendo poderosamente a destra e a sinistra, i quattro uomini poterono finalmente raggiungere il centro della piazza, il quale era coperto per un tratto considerevole di tizzoni ardenti, che un nuvolo d’indiani ravvivava servendosi di ventagli di foglie di palma. — Sono per gli adoratori di Darma-Ragia queste brace? — chiese Yanez. — Sí e vedrete come quei fanatici vi correranno sopra. — Bel gusto ad abbrustolirsi le piante dei piedi. — Ma guadagneranno il cailasson. — Ossia? — chiese Sandokan. — Il paradiso, signore. — Lo lascio volentieri a loro, — rispose il pirata, sorridendo — preferisco conservare intatti i miei piedi. Un fracasso indiavolato e un vivo ondeggiamento della folla li avvertí che la processione usciva in quel momento dalla moschea, per condurre alla prova del fuoco i devoti. Un profondo squarcio si era prodotto fra quella massa enorme di curiosi e di adoratori e una nuvola di danzatrici vi si era cacciata dentro seguita da drappelli di suonatori e di portatori di torce. — Tenetevi tutti presso di me, — aveva detto Kammamuri, — soprattutto non perdiamo il posto. Quantunque fossero stati dapprima travolti da quel movimento disordinato, erano riusciti a rimettersi in prima fila, presso il margine dell’immenso braciere. La processione scese la gradinata, e s’avanzò verso il centro della piazza sempre preceduta dalle bajadere e dai suonatori seguita da stormi di bramini salmodianti lodi in onore di Darma-Ragia e di Drobidè. Seguivano le due statue delle divinità, l’una di pietra e l’altra di rame dorato, collocate su una specie di palanchino portato da parecchie dozzine di fedeli; poi l’orribile statua della dea Kalí, la protettrice della pagoda, in pietra azzurra e coperta di fiori. La moglie del feroce Siva, il dio sterminatore, raffigurava come una donna negra con quattro braccia, di cui una brandiva una specie di daga e un’altra reggeva una testa mozza. Una collana di teschi umani le scendeva fino ai piedi e una cintura di mani tagliate le stringeva i fianchi, mentre dalla bocca sporgeva la lingua che gli artisti indiani avevano dipinto in rosso onde ottenere un maggior effetto. Dinanzi le stava un gigante coricato ai suoi piedi ed ai fianchi due figure di donna, smunte e smilze, coperte solo da una lunga capigliatura che scendeva fino alle loro ginocchia. Una reggeva un cranio umano che teneva accostato alle labbra come se vi bevesse dentro, mentre un corvo pareva che attendesse, col becco aperto, qualche goccia di sangue, l’altra mordeva ferocemente un braccio umano e una volpe la guardava come se reclamasse la sua parte. — È quella la dea dei Thugs? — chiese Sandokan, sottovoce. — Sí, capitano, — rispose Kammamuri. — Non potevano inventarne una piú spaventevole. — È la dea delle stragi. — La vedo, una dea che fa paura. — Aprite gli occhi, signore. Se il manti è qui, sarà presso la statua di Kalí. Forse sarà uno dei portatori. — Sono tutti Thugs di Suyodhana, quelli che circondano la dea? — Possono essere tali e questo sospetto mi è confermato da un’osservazione assai importante. — Quale?. — Che la maggior parte hanno il corpo coperto da una camicia, mentre come vedete, quasi tutti gli altri indiani sono semi-nudi e non prendono cura alcuna di nascondersi il petto. — Per non mostrare il tatuaggio, è vero? — Sí, signor Sandokan, e... Eccolo! È lui! Non m’ero ingannato. Il maharatto aveva stretto un braccio del pirata, mentre coll’altro indicava un vecchio che marciava dinanzi alla statua delle divinità, suonando uno strano istrumento formato da due zucche d’ineguale grossezza, troncate ad un quarto della mole e congiunte per mezzo d’un tubo di legno su cui erano tese delle corde: il bin degl’indiani. Sandokan e Yanez avevano frenato un grido di sorpresa. — È quell’uomo che è venuto a bordo del nostro praho, — disse il primo. — Ed è lo stesso che ha compiuto la cerimonia del putscie nella casa del mio padrone, — disse Kammamuri. — Sí è il manti! — esclamò Yanez. — Lo riconosci tu Sambigliong? — È proprio quel vecchio che ha scannato il capretto, — rispose il mastro della Marianna. — È impossibile ingannarsi. — Amici, — disse Sandokan, — giacché la sorte ce lo ha fatto ritrovare, non lasciamocelo sfuggire. — Non lo perderò di vista, capitano, — disse Sambigliong. — Lo seguirò, anche sulla brace se voi lo desiderate. — Gettiamoci in mezzo al corteo. Con una spinta irresistibile sfondarono le prime file degli spettatori e si mescolarono ai devoti di Kalí che circondavano la statua. Il manti non era che a pochi passi dinanzi a loro ed essendo egli di statura molto alta, era facile tenerlo d’occhio. La processione fece il giro dell’immenso braciere fra un frastuono assordante, poi si ammassò dinanzi alla pagoda, formando una specie di quadrilatero. Sandokan ed i suoi amici avevano approfittato della confusione per portarsi dietro al manti, il quale occupava la prima fila, accanto alla statua della dea Kalí che era stata deposta a terra. A un cenno del capo dei bramini che aveva la direzione della cerirnonia, le bajadere sospesero le loro danze, mentre i suonatori posavano i loro strumenti. Tosto una quarantina d’uomini mezzi nudi, per la maggior parte fakiri, che tenevano in mano dei ventagli di foglie di palma, si fecero innanzi avviandosi verso il braciere che, alimentato da centinaia d’altri ventagli maneggiati da robusti garzoni, fiammeggiava lanciando in aria dense volute di fumo soffocante. Quei fanatici che si apprestavano a subire la prova del fuoco per scontare i loro peccati piú o meno immaginari, non sembravano affatto spaventati dal pericolo che stavano per affrontare. Si fermarono un momento, invocando con urla selvagge la protezione di Darma-Ragia e della sua sposa, si stropicciarono la fronte colla cenere calda, poi si precipitarono sui carboni ardenti a piedi nudi, mentre i tam tam, i tamburi e gl’istrumenti a fiato riprendevano la loro musica infernale per coprire probabilmente le urla di dolore di quei disgraziati. Alcuni attraversarono lo strato ardente di corsa; altri invece a passo lento, senza dare prova alcuna di dolore. Eppure dovevano sentire i morsi atroci dei carboni, perché i loro piedi fumavano e per l’aria si espandeva un nauseante odore di carne bruciata. — Sono pazzi, costoro! — non aveva potuto trattenersi dall’esclamare Sandokan. Udendo quella voce, il manti che si trovava proprio dinanzi al pirata, si era rapidamente voltato. I suoi occhi si fissarono per la durata d’un lampo su Sandokan e sui suoi compagni, poi si volsero altrove senza che un grido o un gesto gli fosse sfuggito. Aveva riconosciuto i due comandanti del praho anche sotto le loro vesti di mussulmani indi e anche Kammamuri? Oppure si era voltato per pura combinazione? Sandokan però aveva notato quello sguardo penetrante, acuto come la punta d’un pugnale e aveva stretta una mano a Yanez che gli stava presso, mormorandogli all’orecchio, in lingua malese: — Badiamo! Temo che ci abbia riconosciuti. — Non credo, — rispose il portoghese. — Non sarebbe cosí tranquillo e avrebbe cercato subito di allontanarsi. — Quel vecchio lí deve essere un furbo di prima forza. Se però cerca di fuggire lo agguanto. — Sei pazzo, fratellino mio? Siamo in mezzo a una folla di fanatici e i pochi cipayes che si trovano qui non sarebbero capaci di proteggerci. No, siamo prudenti. Qui non siamo in Malesia. — Sia pure, ma non me lo lascerò scappare ora che lo abbiamo trovato. — Lo seguiremo e vedrai che in qualche luogo lo acciufferemo, ma, prudenza mio caro, molta prudenza o guasteremo tutto. Intanto altre squadre di penitenti attraversavano il braciere, incoraggiati dalle grida entusiastiche degli spettatori e dagli incitamenti dei sacerdoti i quali promettevano a quei fanatici gioie e felicità inenarrabili nel cailasson. Quei poveri diavoli giungevano quasi tutti all’estremità opposta del braciere quasi asfissiati dalle vampate di calore e coi piedi cosí rovinati da non potersi piú reggere. Si guardavano però bene dal tradire i dolori atroci che li martirizzavano. Anzi si sforzavano di mostrarsi ilari, e alcuni, in preda a un’esaltazione incomprensibile, ritornavano sui carboni danzando furiosamente e saltando come belve in furore. Sandokan e Yanez, e anche i loro due compagni non si interessavano che ben poco di quelle pazze corse attraverso i carboni. La loro attenzione era quasi tutta concentrata sul manti, come se avessero avuto paura di vederselo scomparire sotto gli occhi. Il vecchio non si era piú voltato, anzi pareva che s’interessasse assai dei penitenti che si succedevano sempre in squadre piú o meno numerose. Che fosse poi completamente tranquillo vi era da dubitare, perché di quando in quando si tergeva con un gesto nervoso il sudore che gli colava dalla fronte e si agitava come se si trovasse a disagio fra la folla che lo stringeva da tutte le parti. Già la festa stava per finire, quando Sandokan e Yanez che erano i piú vicini, lo videro alzare il bin e, approfittando d’un momento in cui i suonatori si riposavano, fece vibrare le corde adoperando solo quelle d’acciaio, che diedero alcuni suoni stridenti e acutissimi, che si potevano udire benissimo in tutti gli angoli della piazza e che parve producessero una certa emozione fra gli uomini che circondavano la statua di Kalí. Sandokan aveva urtato Yanez. — Che cosa significano queste note? — gli chiese. — Che sia un segnale? — Interroga Kammamuri. Il maharatto, a cui Yanez aveva rivolta la domanda, stava per rispondere, quando verso la pagoda si udirono echeggiare, fra il silenzio che in quel momento regnava fra la folla, prosternata intorno alle divinità, tre squilli poderosi che pareva uscissero da una tromba. Kammamuri aveva mandato un grido soffocato. — Il ramsinga dei Thugs! Suona a morte! Signor Yanez, signor Sandokan, fuggiamo. Sono certo che suona per noi. — Chi fuggire? — chiese Sandokan, con un sorriso superbo. — Noi?... Le tigri di Mompracem non mostrano le spalle. Vogliono battaglia? Ebbene, noi la daremo, è vero Yanez? — Per Giove! — rispose il portoghese, accendendo tranquillamente una sigaretta. — Non siamo già venuti qui per assistere solamente a delle cerimonie religiose. — Capitano, — disse Sambigliong, cacciandosi una mano sotto la casacca. — Volete che vi uccida quel vecchio? — Adagio, tigrotto mio, — rispose Sandokan. — È vivo che mi occorre: della sua pelle non saprei che cosa farne. — Quando me lo direte, lo porterò via. — Sí, ma non qui. La festa è finita: amici, attenti al vecchio e preparate le armi. Avremo da divertirci un po’. Capitolo VI. LA BAJADERA La piazza a poco a poco si vuotava, mentre i sacerdoti riportavano nella pagoda le statue di Kalí, di Darma-Ragia e di Drobidè, accompagnati dai musicisti e dalle bajadere e da coloro che avevano subita la prova del fuoco. Il manti accompagnò la statua fino dinanzi la gradinata, suonando il suo bin, ma giunto colà, invece di salire nella pagoda, con una mossa improvvisa si gettò fra un gruppo di persone, sperando probabilmente di sottrarsi alla vista dei quattro finti mussulmani. Attraversò rapidamente il gruppo, poi imboccò una viuzza che pareva girasse dietro la pagoda e si allontanò a passo di corsa. Quella manovra non era però sfuggita né a Kammamuri, né alle tigri di Mompracem. Con altrettanta rapidità, i quattro uomini avevano girato il gruppo ed erano giunti allo sbocco della via ancora in tempo per scorgere il manti il quale si teneva rasente i muri delle case. — Addosso! — aveva esclamato Sandokan. — Non lasciamocelo scappare di mano. La via, stretta e fangosa era deserta e per di piú oscurissima non essendovi alcuna veranda illuminata. Le tre tigri di Mompracem e Kammamuri affrettavano il passo per non perdere di vista il manti. Non volevano assalirlo subito, essendo ancora troppo vicini alla piazza. Un grido poteva far accorrere delle persone, fors’anche i settari che portavano la statua di Kalí i quali non dovevano ancora essersi allontanati dalla pagoda. Il manti allungava sempre il passo, ma anche gl’inseguitori non perdevano terreno, anzi ne guadagnavano a ogni momento, quantunque non corressero. Erano già lontani due o trecento passi dalla pagoda, quando improvvisamente da una viuzza laterale videro irrompere un drappello di bajadere munite di cimbali e di larghe fasce di seta azzurra, scortate da due ragazzi che portavano due fiaccole. Erano una trentina, tutte belle e giovani, dagli occhi di fuoco, coi lunghi capelli neri ondeggianti sulle spalle, coperte di mussole trasparenti e adorne di braccialetti e di collane d’oro. In una mano tenevano un piccolo tamburello, nell’altra invece una larga fascia di seta leggerissima che facevano ondeggiare in aria con rapidità fantastica. In un baleno tutte quelle belle fanciulle, che parevano in preda a una pazza allegria, avevano circondati i quattro uomini danzando turbinosamente intorno a loro e agitando sempre le fasce ben in alto, come se avessero cercato d’impedire che scorgessero il manti. Sandokan aveva subito gridato: — Largo, fanciulle! Abbiamo fretta! Le bajadere avevano risposto con una risata clamorosa e invece di lasciare il posto si erano maggiormente strette contro le tigri di Mompracem e Kammamuri, avviluppandoli cosí bene da impedire di fare un passo innanzi. — Sgombrate! — tuonò Sandokan, che cominciava a perdere la pazienza e che ormai non vedeva piú il manti attraverso a tutte quelle ciarpe che svolazzavano sempre. — Sfonda le linee o il briccone ci scapperà! — gridò Yanez. — Queste ragazze cercano di salvarlo. Stavano per avventarsi contro le bajadere, quando le videro abbassarsi bruscamente lasciando cadere le ciarpe e scorsero dietro di esse una dozzina d’uomini che facevano volteggiare in aria i lacci ed i fazzoletti di seta nera colla palla di piombo dei Thugs. Le danzatrici, agill come giovani pantere, sgusciarono di sotto le braccia degli uomini, gettandosi a destra ed a sinistra onde non intralciarli nel loro attacco. Sandokan aveva mandato un urlo di furore. — I Thugs! Addosso, per la morte d’Allah!... Con rapidità fulminea aveva estratta una corta scimitarra che teneva celata nell’alta fascia ed una lunga pistola a doppia canna. Tagliò tre o quattro lacci che stavano per piombargli addosso, poi scaricò a brucia-pelo i due colpi della sua pistola contro gli uomini che stavano dinanzi, gettandone a terra due. Nel medesimo istante Yanez, Sambigliong e il maharatto, riavutisi prontamente dallo stupore, caricavano a loro volta colle scimitarre in pugno, scaricando contemporaneamente le loro pistole. I Thugs non opposero resistenza. Dopo d’aver tentato, ma invano, di lanciare i loro fazzoletti, si sbandarono dinanzi a quella carica fulminea, fuggendo a rompicollo, assieme alle bajadere che non erano meno leste degli uomini. Sulla via non erano rimasti che quattro morti e una delle torce gettata da uno dei due fanciulli che accompagnavano le danzatrici. — Saccaroa! — esclamò Sandokan. — Ancora una volta siamo stati giuocati! Ed il manti intanto è scomparso! — Un bell’agguato in fede mia, — disse Yanez, riponendo tranquillamente le armi nella fascia. — Non credevo che quelle belle fanciulle fossero alleate con quei bricconi di strangolatori. Le furbe! Facevano volteggiare le ciarpe per impedire a noi di scorgere i Thugs che s’avanzavano a passi di lupo. L’avventura è comica. — E per poco non finiva tragicamente, mio caro Yanez. Mi hanno percosso il collo due volte colle palle di piombo e credevo di sentirmi da un momento all’altro strangolare. Che cosa ne dici, Kammamuri? — Dico che il manti ha approfittato per scapparci di mano. — Non è un imbecille costui! — Se lo inseguissimo? — disse Sambigliong. — Forse non è molto lontano. — A quest’ora chissà dove si sarà rifugiato. Orsú, la partita è perduta e non ci rimane che tornare al nostro praho, — disse Sandokan. — E andarcene a dormire, — aggiunse Yanez. — Oh! Lo ritroveremo quel vecchio volpone, — disse la Tigre della Malesia, stringendo le pugna. — Quell’uomo ci è necessario, specialmente ora che sappiamo essere un thug. Non lasceremo Calcutta finché non l’avremo preso. — In marcia, Sandokan. Non spira buon’aria per noi e i Thugs possono tornare alla carica o prepararci un altro agguato. Sandokan raccolse la torcia abbandonata da uno dei due fanciulli e che non si era spenta ancora. Stava per mettersi in cammino quando un gemito attrasse la sua attenzione. — Vi è qualcuno da finire, — disse, estraendo la scimitarra. — O da raccogliere invece? — chiese Yanez. — Un prigioniero sarebbe preziosissimo. — È vero, amico mio. Il gemito si era fatto nuovamente udire. Veniva dall’angolo della viuzza laterale, da dove erano sbucate le bajadere. — Rimanete qui a vegliare e ricaricate le pistole, — disse Sandokan, rivolgendosi a Kammamuri e a Sambigliong. Si diresse verso la viuzza seguito da Yanez e vide stesa a terra, contro la parete d’una casa, una bajadera la quale tentava, ma invano, di rialzarsi. Era una bellissima giovane, dalla pelle leggermente abbronzata, i lineamenti dolci e fini, cogli occhi nerissimi e i capelli lunghi, intrecciati con fiori di mussenda e nastrini di seta azzurra. Uno splendido costume copriva il suo corpo sottile come un giunco, pur essendo squisitamente modellato, tutto di seta rosa, con guarnizioni di perle, e che finiva in un paio di calzoncini che scendevano fino alla noce dei piedi. La povera fanciulla doveva aver ricevuto una palla nel petto, poiché una macchia di sangue si allargava sopra il sottile busto di legno dorato che le racchiudeva il corpo. Vedendo apparire le due tigri di Mompracem, la fanciulla si coprí il viso con una mano, mormorando: — Grazia... — Ah! La bella fanciulla! — esclamò Yanoz, colpito dalla graziosa espressione di quel viso. — Sono ben fortunati i Thugs per avere delle danzatrici cosí graziose. — Non temere, — disse Sandokan, curvandosi sulla bajadera e accostando la torcia per meglio osservarla. — Noi non uccidiamo le donne. Dove sei ferita? — Qua... al petto... sahib... Una... palla... — Vediamo: ce ne intendiamo noi di ferite e all’occorrenza sappiamo anche curarle e forse meglio dei vostri medici. Una palla aveva colpito la giovane al fianco sinistro. Fortunatamente invece di penetrare in cavità, era solamente strisciata sopra una costola, producendo come uno strappo piú doloroso che pericoloso. — Fra otto giorni potrai essere guarita, fanciulla mia, — disse Sandokan. — Non si tratta che di arrestare il sangue che fugge in gran copia. Trasse di tasca un fazzoletto di finissima tela e lo legò strettamente al petto della danzatrice, poi le riallacciò il busto, dicendo: — Per ora basterà. Dove vuoi che ti riconduciamo? Non siamo amici dei Thugs e credo che essi non torneranno certo a raccoglierti. La giovane non rispose. Guardava ora Sandokan e ora Yanez, coi suoi begli occhi nerissimi e pieni di splendore, probabilmente stupita che quei due uomini che aveva cercato di perdere, invece di finirla la curassero. — Rispondi, — disse Sandokan. — Avrai una casa, una famiglia, qualcuno infine che si occuperà di te. — Portami con te, sahib, — disse finalmente la bajadera con voce tremula. — Non ricondurmi dai Thugs. Quegli uomini mi fanno paura. — Sandokan, — disse Yanez, che non aveva mai staccato nemmeno per un solo istante, gli occhi dalla danzatrice. — Questa fanciulla può esserci utile e darci delle informazioni preziose. Portiamola a bordo della Marianna. — Hai ragione: Sambigliong!. — Eccomi, capitano, — rispose il malese, accorrendo. — Prendi questa fanciulla e seguici. Bada che è ferita al petto. Il malese prese fra le robuste braccia la danzatrice, facendole posare sul proprio petto la testa. — Andiamo, — disse Sandokan, riprendendo la torcia. — In mano le pistole e aprite bene gli occhi. Attraversarono parecchie vie e viuzze, senza incontrare nessun essere vivente, e verso l’una del mattino giungevano sulla riva del fiume. La baleniera era a pochi passi, guardata dai malesi. Sandokan fece collocare a poppa la bajadera dalle cui labbra non era piú uscito alcun lamento, piantò la torcia sulla prora e diede il segnale della partenza. Yanez si era seduto sull’ultima panca, di fronte alla giovane e la osservava attentamente, ammirando, involontariamente forse, la bellezza di quel viso e la luce profonda di quegli occhi nerissimi, scintillanti come carboncini. — Per Giove! — mormorava fra sé. — Non ho mai veduto una fanciulla cosí bella. Come si trovava fra le mani di quei sanguinari settari? Sandokan quasi avesse indovinato il pensiero del suo amico, si era rivolto alla fanciulla che gli sedeva presso. — Sei anche tu una seguace di Kalí? — le chiese. La bajadera scosse il capo, sorridendo tristemente. — Come mai ti trovavi allora assieme con quei bricconi? — Mi hanno comperata dopo la distruzione della mia famiglia, — rispose la danzatrice. — Per fare di te una bajadera? — Le danzatrici sono necessarie nelle cerimonie religiose. — Dove abitavi? — Nella pagoda, sahib. — Ci stavi volentieri? — No, e come hai veduto ho preferito seguirti piuttosto che tornare nella pagoda dove si compiono dei misteri atroci per soddisfare l’insaziabile sete di sangue della dea. — A quale scopo avevano mandato te e le tue compagne contro di noi? — Per impedirvi di seguire il manti. — Ah! Tu conosci quello stregone? — chiese Sandokan. — Sí, sahib. — È un capo dei Thugs? La fanciulla lo guardò senza rispondere. Una profonda angoscia si era diffusa sul suo bel viso. — Parla, — comandò Sandokan. — I Thugs uccidono chi tradisce i loro segreti, sahib, — rispose la fanciulla con voce tremante. — Sei fra persone che sapranno difenderti contro tutti i Thugs dell’India. Parla: voglio sapere chi è quell’uomo che noi abbiamo invano inseguito e che pur ci è tanto necessario. — Siete nemici degli strangolatori, voi? — Siamo venuti in India per muovere loro guerra, — disse Sandokan, — e punirli dei loro misfatti. — Sono cattivi, è vero, — rispose la fanciulla. — Non sono che degli assassini. — Dimmi dunque chi è quel manti. — L’anima dannata del capo dei Thugs. — Di Suyodhana! — esclamarono ad una voce Yanez e Sandokan. — Voi lo conoscete? — No, speriamo di conoscerlo e molto presto, — disse Sandokan. — Yanez, quell’uomo ci è piú che mai necessario e non andremo nelle Sunderbunds senza averlo prima catturato. Parlerà il vecchio, te lo assicuro, dovessi strappargli le confessioni coi piú atroci tormenti. La bajadera guardava la Tigre della Malesia con spavento, misto a una profonda ammirazione e certo si chiedeva in cuor suo chi poteva essere quell’uomo cosí audace da sfidare la potenza dei formidabili settari di Kalí. — Sí, — disse Yanez. — Quell’uomo ci è necessario. Ma tu, fanciulla, non sai dirci dove hanno il loro covo i Thugs? Si dice che siano tornati nei sotterranei di Rajmangal. È vero? — Lo ignoro sahib bianco, — rispose la bajadera. — Ho udito a parlare del ritorno del «padre delle sacre acque del Gange», ma non so dove egli possa trovarsi, se nella jungla delle Sunderbunds o altrove. — Sei mai stata tu in quei sotterranei? — chiese Sandokan. — Vi ho compiuta là dentro la mia educazione di bajadera, — rispose la giovane, — poi mi hanno destinata alla pagoda di Kalí e di Darma-Ragia. — Non sai dove potremmo trovare il manti? Abita nella pagoda o in qualche altro luogo? — Nella pagoda non l’ho veduto che poche volte... Ah! Sí, voi potreste rivederlo e presto. — Dove? — chiesero Yanez e Sandokan a un tempo. — Fra tre giorni si compirà, sulle rive del Gange, un oni-gomon a cui devono prendere parte le bajadere e le nartachi della pagoda di Kalí ed il manti certo non vi mancherà. — Che cos’è questo oni-gomon? — chiese Sandokan. — Si brucerà la vedova di Rangi-Nin sul cadavere del marito, il quale era uno dei capi dei Thugs. — Viva? — Viva, sahib. — E la polizia anglo-indiana lo permetterà? — Nessuno andrà ad informarla. — Credevo che quegli orribili sacrifici non si compissero piú. — Il numero è ancora assai grande, non ostante la proibizione degli inglesi. Se ne bruciano ancora molte delle vedove, sulle rive del Gange. — Conosci il luogo ove verrà arso il cadavere e la donna? — Si trova all’estremità d’una jungla, presso una vecchia pagoda rovinata, e che era anticamente dedicata a Kalí. — E credi che il manti interverrà alla lugubre cerimonia? — Sí, sahib. — Fra tre giorni tu potrai camminare e ci condurrai colà. Tenderemo al manti un agguato e vedremo se riuscirà ancora a sfuggirci. Mio caro Yanez, decisamente noi siamo fortunati. In quel momento la baleniera giungeva sotto la poppa del praho. — Giú la scala! — gridò Sandokan agli uomini di guardia. Salí rapidamente sulla tolda e cadde fra le braccia d’un uomo che lo attendeva sulla cima della scala. — Tremal-Naik! — esclamò il formidabile capo dei pirati. — Che ti aspettava ansiosamente, — rispose l’indiano. — Buone nuove, amico mio, non abbiamo perduto il nostro tempo. Seguimi nella cabina. Capitolo VII. UN DRAMMA INDIANO La giovane bajadera, che era stata trasportata in una delle cabine del quadro e medicata prontamente da Yanez e da Sandokan, tre giorni dopo era, se non completamente guarita, almeno in grado di condurre i suoi protettori alla vecchia pagoda dove doveva aver luogo l’oni-gomon. Durante quei tre giorni si era mostrata sempre contentissima di trovarsi in quella comoda ed elegante cabina e fra quei nuovi protettori, dei quali aveva subito abbracciata con entusiasmo la causa, fornendoli di preziosi particolari sulla sanguinosa associazione dei Thugs. Non aveva però potuto dire nulla della nuova «Vergine della pagoda», la piccola Darma, della quale fino allora non aveva mai udito parlare. Dimostrava poi una speciale riconoscenza pel sahib bianco, come chiamava il flemmatico Yanez che si era creato suo infermiere e che amava volentieri parlare con lei, la quale si spiegava in un inglese perfetto, ciò che dimostrava una educazione elevata e piuttosto rara fra le bajadere. Quella cosa aveva anzi colpito anche Tremal-Naik, che nella sua qualità d’indiano e soprattutto di bengalese, conosceva meglio d’ogni altro le danzatrici del suo paese. — Questa fanciulla, — aveva detto a Yanez e a Sandokan, — deve avere appartenuto a qualche alta casta. La finezza dei suoi lineamenti, la tinta quasi bianca della sua pelle e la piccolezza delle sue mani e dei suoi piedi, lo indicano. — Cercherò d’interrogarla, — aveva risposto Yanez, — deve esservi lí sotto qualche istoria interessante. Nel pomeriggio, mentre Sandokan e Tremal-Naik sceglievano gli uomini che dovevano prendere parte alla spedizione, Yanez era disceso nel quadro per visitare la ferita. La fanciulla pareva che non provasse piú alcun dolore. Coricata su una comoda e soffice poltrona, sembrava immersa in un dolce sogno, a giudicarla dal sorriso che le coronava le piccole e rosse labbra e dalla dolcezza dei suoi occhi. Vedendo comparire il sahib bianco, si era levata appoggiandosi alla spalliera e fissando su di lui uno sguardo penetrante. — Il sahib bianco mi fa piacere, quando lo vedo, — disse con voce armoniosa. — È prima a lui che al sahib abbronzato che devo la libertà e fors’anche la vita. — Il sahib bronzino, come tu lo chiami, — rispose Yanez sorridendo, — è buono e forse piú di me. Devi l’una e l’altra cosa ad entrambi. Come va la tua ferita, fanciulla? — Non provo piú alcun dolore, dopo che le tue mani, sahib, l’hanno medicata. — Sai che tu non ci hai detto ancora il tuo nome? — disse Yanez. — Lo vuoi sapere, sahib? — chiese la bajadera. — Mi chiamo Surama. — Sei del Bengala? — No, sahib. Sono assamese, del Goalpara. — Mi hai detto che la tua famiglia è stata distrutta. La fronte della fanciulla a quelle parole si era offuscata, mentre i suoi occhi si coprivano d’un velo di profonda tristezza. Stette un momento silenziosa, poi disse con voce tetra: — È vero. — Dai Thugs? — No. — Dagli inglesi? Surama scosse il capo, quindi riprese con voce piú triste: — Mio padre era zio del rajah di Goalpara e capo d’una tribú di kotteri, ossia di guerrieri. — Ciò non mi spiega chi ha sterminata la tua famiglia. — Il rajah, — rispose Surama, — in uno dei suoi momenti di follia. Stette alcuni istanti silenziosa, come se aspettasse qualche altra domanda del sahib bianco, poi disse: — Ero allora una bambina, poiché non avevo che otto anni, eppure l’orribile scena me la vedo ancora dinanzi agli occhi, come fosse avvenuta ieri. Mio padre, al pari di tutti gli altri parenti, era venuto in sospetto al rajah, suo nipote, — il quale si era fisso in capo che tutti congiurassero contro di lui per carpirgli la corona e dividersi le immense ricchezze che possedeva, — perciò amava vivere lontano dalla corte, fra le sue selvagge montagne. Correva allora voce che il rajah dedito a tutti i vizi e in preda ad una continua ubriachezza, commettesse di frequente delle vere atrocità contro i suoi servi e contro i suoi stessi parenti che vivevano a corte. Mi ricordo che mio padre m’aveva un giorno narrato che quel mostro aveva assassinato perfino il suo primo ministro e pel semplice motivo d’aver tentato d’impedirgli di scannare un povero servo che inavvertentamente gli aveva lasciato cadere una goccia di vino sul vestito. — Doveva essere una specie di Nerone, — disse Yanez che l’ascoltava con vivo interesse. — Essendo la carestia piombata sull’Assam, i bramini e i gurus, ossia sacerdoti di Siva, indussero il rajah a dare una grandiosa cerimonia religiosa per cercare di placare la collera delle divinità. Il principe vi annuí di buon grado e volle che vi assistessero tutti i suoi pareri che vivevano disseminati nel suo stato. Mio padre era compreso nel numero degli invitati, e non sospettando menomamente l’orribile disegno che quel mostro maturava nel suo cervello, mi condusse nella capitale assieme a mia madre ed ai miei due fratelli. Fummo ricevuti cogli onori dovuti al nostro grado e alloggiati nel palazzo reale. Compiuta la cerimonia religiosa, il rajah diede a tutti i parenti un banchetto grandioso, durante il quale bevve fuor di misura. Quel miserabile cercava di eccitarsi, prima di compiere la strage meditata forse da lungo tempo. Essendo io troppo piccina, ne ero stata dispensata e m’avevano lasciata a trastullarmi su una delle terrazze del palazzo assieme ad altre fanciulle. Era quasi il tramonto, quando udii improvvisamente un colpo di fucile, seguito poco dopo da un secondo e da un urlo di angoscia e di terrore. Mi precipitai verso una terrazza che prospettava nel cortile d’onore del palazzo e vidi una scena orribile che non scorderò giammai, dovessi vivere mille anni... La giovane si era interrotta, come se la voce le fosse improvvisamente mancata, guardando Yanez con gli occhi dilatati e pieni di terrore. Un tremito convulso agitava il suo corpo, mentre dei singhiozzi soffocati le morivano sulle labbra. — Continua fanciulla, — le disse Yanez dolcemente. — Sono passati cinque anni, — riprese Surama, dopo qualche minuto — eppure, durante le notti insonni, rivedo sempre quella scena terrificante, come fosse avvenuta il giorno innanzi. Il rajah era ritto su un terrazzino, cogli occhi schizzanti dalle orbite, i lineamenti sconvolti, con una carabina in mano ancora fumante, circondato dai suoi ministri che gli porgevano continuamente da bere non so quale bevanda infernale, mentre nel cortile fuggivano all’impazzata uomini, donne e fanciulli gettando clamori orribili: erano i parenti del principe. Il miserabile aveva fatto chiudere tutte le porte del cortile e li fucilava a brucia-pelo, urlando come un pazzo: «Morite tutti! Voglio che scompaiano questi avidi mostri che insidiano il mio trono e che congiurano per impadronirsi delle mie ricchezze! Da bere, datemi da bere o vi faccio decapitare!...». I ministri, atterriti, continuavano a riempirgli la tazza che egli trangugiava d’un fiato, poi ricominciava a sparare su quella massa di disgraziati, che invano supplicavano di risparmiarli. I colpi si succedevano ai colpi, perché quel maniaco furioso si era fatto portare sulla terrazza parecchie carabine che i suoi ufficiali si affrettavano a ricaricare e a porgergli. Ora cadeva un uomo colla testa fracassata, ora una donna col petto attraversato da una palla, ora invece, un fanciullo o una fanciulla, poiché il rajah non risparmiava nessuno. Cosí vidi cadere successivamente mio padre, a cui un proiettile aveva fracassato la colonna vertebrale, poi mia madre colpita in mezzo alla fronte, poi i miei due fratelli, poi molti altri ancora. Trentasette erano i parenti del mostro e dieci minuti dopo trentasei giacevano sparsi per il cortile fra un vero lago di sangue. Solo era sfuggito uno dei fratelli del principe, quantunque fosse stato fatto segno a tre colpi di carabina. Quel disgraziato, che balzava come una giovane tigre per impedire al fratello di prenderlo di mira, gridava disperatamente: «Fammi grazia della vita ed io abbandono il tuo stato. Sono figlio di tuo padre! Tu non hai il diritto di uccidermi!» Il rajah, sordo a quelle grida disperate, gli sparò ancora contro due colpi senza riuscire a coglierlo, poi preso forse da un subitaneo pentimento, abbassò la carabina che un ufficiale gli aveva sporta, gridando al fuggiasco: «Se è vero che tu abbandonerai per sempre i miei stati, ti fo grazia della vita a una condizione». «Sono pronto ad accettare tutto quello che vorrai», rispose il giovane principe. «Io getterò in aria una rupia; se tu la colpirai colla palla di questa carabina, ti lascerò partire pel Bengala senza farti alcun male.» «Accetto», rispose il giovane. Il rajah gli gettò la carabina che il fratello prese al volo. «Ti avverto», gli urlò il pazzo, «che se manchi la moneta subirai la medesima sorte degli altri.» «Gettala!» Il rajah fece volare in aria una rupia. S’udí uno sparo, e non fu bucata la moneta, bensí il petto dell’assassino. Sindhia, tale era il nome del giovane principe, invece di far fuoco sulla moneta aveva voltata rapidamente l’arma contro il pazzo e l’aveva fulminato spaccandogli il cuore. I ministri e gli ufficiali si prosternarono dinanzi al giovane che aveva liberato lo stato da quel mostro e senz’altro lo acclamarono rajah. Quando seppe che anch’io ero sfuggita alla morte, quell’uomo che doveva avere l’animo non meno perverso del fratello, invece di farmi ricondurre fra le tribú devote a mio padre, mi fece segretamente vendere a dei Thugs che percorrevano il paese per procurarsi delle bajadere e s’impadroní, senza vergogna, di tutti i miei beni. Fui condotta nei sotterranei di Rajmangal dove compii la mia educazione di bajadera, poi assegnata alla pagoda di Kalí e di Darma-Ragia. Ecco la mia storia, sahib bianco. So che ero nata presso i gradini d’un trono, ora non sono che una miserabile danzatrice. — Che dramma terribile! — disse una voce. Yanez e Surama si volsero. Sandokan e Tremal-Naik erano entrati silenziosamente nella cabina, e da qualche minuto ascoltavano la giovane danzatrice. — Povera fanciulla! — disse Sandokan, avvicinandosi a lei. — Non eri certo nata sotto una buona stella, ma noi penseremo al tuo avvenire. La Tigre della Malesia non abbandona gli amici. — Voi siete buoni, — rispose Surama, la cui voce ancora tremava. — Tu non tornerai mai piú fra i Thugs, né sarai piú una danzatrice. Ormai sei sotto la nostra protezione. Poi cambiando bruscamente tono: — Che tu sappia, fanciulla, i Thugs posseggono delle navi? — Non lo so, sahib — rispose la fanciulla. — Ho veduto, quand’ero a Rajmangal, delle scialuppe navigare sui canali delle Sunderbunds, ma navi mai. — Perché questa domanda, Sandokan? — chiese Yanez. — Sono giunte or ora due grab e si sono ancorate presso di noi. — Che cosa vi trovi di straordinario? — Quelle due navi sono montate da equipaggi troppo numerosi e mi hanno un’aria sospetta. — Ed a me hanno fatto la stessa impressione, — disse Tremal-Naik. — Quei miriam che portano a poppa non li ho mai veduti né a bordo delle grab, né delle pariah. — Le terremo d’occhio, — rispose Yanez. — Potreste però anche ingannarvi. Sono cariche? — No, — disse Sandokan. — Ammettendo anche che possano appartenere ai Thugs, nulla potrebbero tentare contro di noi, almeno finché siamo sotto le artiglierie del forte William. Accontentiamoci di sorvegliarle e occupiamoci della nostra spedizione. Surama può camminare e condurci alla vecchia pagoda. È vero, fanciulla? — Sí, sahib: io posso condurvi. — Dovremo risalire il fiume per molte ore? — chiese Sandokan. — La pagoda si trova a sette o a otto miglia dagli ultimi sobborghi della città nera. — Sono già le sei; possiamo partire per sceglierci il posto prima che giungano i Thugs. Le due scialuppe sono pronte e i fucili nascosti sotto i banchi. Andiamo. Porse a Surama un largo mantello di seta oscura fornito di cappuccio e salirono tutti in coperta. Le due scialuppe erano già state calate e ventiquattro uomini, scelti fra i malesi e i dayachi, avevano occupato i banchi. — Le vedi? — chiese Sandokan a Yanez, indicandogli le due grab che avevano gettato le ancore a pochi passi dal praho, una a babordo e l’altra a tribordo. Il portoghese le guardò di sfuggita. Erano due solidi velieri, un po’ meno grossi della Marianna, colla prora a punta, tre alberi altissimi, la poppa assai elevata e che portavano grandi vele latine, che non erano state ancora calate sul ponte. I marinai, tutti indiani, che in quel momento erano occupati ad allontanare le catene per meglio assicurare l’ancoraggio, erano infatti troppo numerosi per velieri cosí piccoli e cosí maneggiabili. — Può darsi che abbiano qualche cosa di sospetto quelle navi, — disse Yanez. — Ma per ora non occupiamoci di loro, né preoccupiamoci. Scesero nella scialuppa maggiore e presero rapidamente il largo, seguiti dall’altra che era guidata da Tremal-Naik e da Sambigliong. Passarono rapidi come frecce attraverso ai navigli, poi dinanzi alla città bianca, quindi alla nera e continuarono la loro corsa verso il settentrione, seguendo i serpeggiamenti del sacro fiume. Due ore dopo, Surama additava a Yanez ed a Sandokan una specie di piramide tronca che s’alzava sulla riva destra, in mezzo a un boschetto di cocchi il quale confinava con una jungla formata di bambú giganteschi. Si trovavano in un luogo assolutamente deserto, non essendovi sulle due rive né capanne e nemmeno barche ancorate. Solamente alcune dozzine di marabú passeggiavano gravemente fra i paletuvieri, borbottando e aprendo di quando in quando i loro becchi mostruosi in forma d’imbuto. Dopo essersi ben assicurati che non vi fosse nessuno, i ventiquattro pirati ed i loro capi presero terra, levando le carabine che fino ad allora avevano tenute celate. — Nascondete le scialuppe sotto i paletuvieri, — disse Sandokan, — e che quattro uomini rimangano qui di guardia. Avanti gli altri. — Surama, — disse Yanez, — vuoi che ti faccia portare dai nostri uomini? — Non ne ho bisogno, sahib bianco, — rispose la giovane. — Quando deve aver luogo l’oni-gomon? — Verso la mezzanotte. — Abbiamo un’ora di vantaggio e ci basterà per tendere l’agguato al manti. Si misero in cammino inoltrandosi sotto il boschetto di cocchi e venti minuti dopo giungevano su una spianata su cui sorgeva la vecchia pagoda, già quasi tutta caduta in rovina, ad eccezione della piramide centrale. — Nascondiamoci lí dentro, — disse Sandokan, scorgendo una porta. Stavano per varcarla, quando scorsero verso la jungla dei punti luminosi che pareva si dirigessero precisamente verso la pagoda. — I Thugs! — esclamò Surama. — Dentro, — comandò Sandokan, precipitandosi nell’interno della pagoda. — Un quarto d’ora di ritardo e giungevamo forse a cose finite. Preparate le armi e tenetevi pronti a piombare sul manti. Capitolo VIII. L’ONI-GOMON Il barbaro costume di abbruciare sui cadaveri dei mariti le vedove indiane, se è interamente abolito dagl’indiani che hanno abbracciata la fede mussulmana, sussiste sempre nelle caste dei bramini, dei Thugs ed in quelle militari, non ostante gli sforzi prodigiosi tentati dagl’inglesi in quest’ultimo secolo per sradicarlo. L’impero è cosí vasto, che la polizia anglo-indiana non riesce sempre a intervenire a tempo e non sempre viene a saperlo, giacché i parenti del defunto prendono le piú grandi precauzioni per ingannare le autorità. Oggi quest’uso è abbastanza raro, specialmente nel Bengala, ma nelle provincie settentrionali e nell’alto corso del Gange si rileva ancora un numero considerevole di oni-gomon. Dobbiamo anzi aggiungere che nei primi lustri del secolo scorso, quei sacrifici si erano cosí spaventosamente moltiplicati, non ostante le leggi rigorose emanate dal governo anglo-indiano, che in un solo anno, ossia nel 1817 furono consumati nel solo Bengala ben 700 di quei terribili olocausti. Oggi per evitarli, o almeno per attenuarne il numero, il governo esige che la vedova che abbia il desiderio d’immolarsi, comparisca prima dinanzi ai magistrati e ne ottenga l’autorizzazione, la quale non viene concessa se non quando la sua decisione si mostra irremovibile. La maggior parte però si rifiutano di lasciarsi abbruciare. Lasciarsi è la vera parola, perché i bramini le costringono colla violenza e quando quelle povere creature, alla vista delle fiamme sono colte dal terrore e tentano di fuggire, i parenti del morto le respingono nel fuoco a colpi di bastone o le legano al cadavere del marito. Quante in tal modo ne furono arse nel secolo scorso, violentemente!... Ben poche furono quelle che vennero salvate all’ultimo istante dai paria, che trovandole belle le hanno strappate alle fiamme ancora in tempo per poi sposarle, non temendo quei disgraziati, disprezzati da tutte le caste, di disonorarsi prendendo una vedova. La condizione delle donne indiane che hanno la sventura di perdere il marito è d’altronde tale, che buon numero di esse preferiscono la morte. Se hanno dei figli sono meno stimate di tutte le altre donne; se non ne hanno, diventano in certo modo oggetto d’obbrobrio. Il lutto di quelle sventurate che non hanno avuto il coraggio di bruciarsi sul cadavere del marito, dura fino alla loro morte. Sono costrette a radersi il capo una volta al mese, non portare piú gioielli, non vestire abiti di tela bianca, non ingiallirsi né ungersi piú alcuna parte visibile del corpo; è perfino vietato a loro di tracciarsi sulla fronte i distintivi della casta a cui appartengono, di masticare il betel o di fumare, di assistere alle feste di famiglia. Che piú? Si sfuggono come appestate, perché gli indiani credono che l’incontro d’una vedova porti sfortuna. Eppure bisogna che si rassegnino, giacché per quanto sia disprezzata, essa lo è sempre meno di colei che si rimarita: in questo caso diverrebbe l’oggetto di disprezzo assoluto da parte di tutte le caste, eccettuata da quella dei poveri paria. Il drappello che s’avanzava attraverso la jungla si componeva d’una quarantina di persone fra cui una giovane donna, la moglie del defunto, che era sorretta da due sacerdoti. Precedevano il corteo, quattro suonatori che portavano dei djugo, specie di tamburo di terracotta di forma cilindrica, composti di due parti, ciascuna delle quali è coperta d’una pelle che si può allentare o restringere per mezzo d’una cordicella; seguivano alcuni mussalchi ossia portatori di torce, poi altri uomini che portavano sulle spalle un palanchino su cui si trovava il defunto, abbigliato con vesti ricchissime ricamate in oro ed ultima la disgraziata vedova circondata dai parenti piú prossimi e che portavano recipienti contenenti probabilmente l’olio profumato da versarsi sul rogo. Il vecchio manti era nel numero che precedeva la vedova recitando delle preghiere assieme ai sacerdoti. La vedova era una bella giovane che non doveva avere ancora quindici anni; aveva già i capelli rasi e non portava piú al collo il cordone a cui era appeso un gioiello che tutte le donne maritate usano portare quale indizio della loro qualità. Si reggeva a malapena, e piangeva e gridava disperatamente, maledicendo il suo destino, mentre i sacerdoti che la sostenevano la incoraggiavano a mostrarsi forte, promettendole che il suo nome sarebbe stato celebrato in tutta la terra e cantato in tutti i sacrifici e assicurandola che andava a godere una felicità immensa e che sarebbe diventata la sposa di qualche dio in ricompensa della sua virtú e del suo sacrificio. Non opponeva alcuna resistenza e si lasciava trascinare senza proteste. Certo dovevano averle dato da bere non poco bang() per abbatterla completamente e impedirle di tentare la fuga. Giunto il corteo sulla spianata che stendevasi dinanzi alla pagoda, alcuni uomini che erano armati di coltellacci, abbatterono rapidamente un certo numero di grossi bambú formando una catasta alta mezzo metro che subito annaffiarono abbondantemente d’olio di cocco profumato, poi sopra vi deposero il cadavere del thug. I mussalchi si erano già collocati ai quattro angoli colle torce accese, pronti a dar fuoco alla pira, mentre i suonatori percuotevano con furore i loro tamburi ed i parenti cantavano le lodi del defunto e l’eroismo e le virtú della vedova. Il manti si era accostato alla pira tenendo in mano una torcia, intanto che la disgraziata vedova, con voce rotta dai singhiozzi dava l’ultimo addio ai parenti i quali, colle lagrime agli occhi, si rallegravano invece dell’eterna felicità che essa andava ad incontrare. A un tratto una fiamma guizzò, propagandosi rapidamente a tutta la pira e avvolgendo il cadavere. Il manti aveva dato fuoco ai bambú impregnati d’olio: il momento terribile del barbaro sacrificio era giunto. I sacerdoti avevano afferrata rapidamente la vedova e la spingevano brutalmente verso le fiamme, mentre i tamburi rullavano con fracasso indiavolato ed i parenti gridavano a piena gola per stordire maggiormente la vittima. La disgraziata si era lasciata spingere senza opporre resistenza, ma quando si vide dinanzi a quella cortina di fuoco lo spirito di conservazione si ridestò ad un tratto. Mandò un urlo orribile: — No!... No!... Grazia!... Poi con una forza che non si sarebbe mai supposta in quel giovane corpo, con una scossa disperata atterrò uno dei sacerdoti e si trasse indietro di alcuni passi, dibattendosi furiosamente per liberarsi anche dall’altro. I parenti però accorrevano in aiuto dei sacrificatori. Il manti aveva intanto raccolto un tizzone acceso e stava per scagliarsi contro la vittima per incendiarle le vesti, quando si udí una voce tuonante a gridare: — Fermi o vi fuciliamo come cani!... La Tigre della Malesia era improvvisamente comparsa sulla soglia della pagoda circondata dai suoi pirati e dai suoi amici, i quali avevano già puntate le carabine. Un urlo di spavento si era alzato fra i Thugs, poi, passato il primo istante di sorpresa, tutti si erano sbandati lasciando a terra la vedova. — Addosso al manti! — aveva gridato Sandokan, slanciandosi innanzi. Il vecchio stregone, che forse era il solo che aveva riconosciuto il comandante del praho, era stato il primo a darsi alla fuga, cacciandosi in mezzo alla folta jungla. In pochi salti però Sandokan e Tremal-Naik gli erano piombati addosso, mentre Yanez faceva fare ai pirati una scarica in aria per spaventare maggiormente i parenti del morto ed i loro compagni, i quali fuggivano invece attraverso il bosco di cocchi. — Fermati, vecchio briccone! — gridò Tremal-Naik, puntando la canna della carabina sul petto dello stregone, il quale tentava di estrarre un pugnale che portava nella fascia. Sandokan l’aveva già afferrato per le spalle e l’aveva costretto a cadere in ginocchio. — Chi siete voi e che cosa volete da me? — gridò il manti, tentando, ma inutilmente di sottrarsi alla stretta poderosa della Tigre. — Voi non siete policeman, né cipayes per arrestarmi. — Chi sono? Vecchio stregone, saresti per caso diventato cieco? — chiese Sandokan, lasciandolo rialzare. — Non mi conosci piú dunque? — Io non ti ho mai veduto. — Eppure tre sere or sono hai tentato di farmi strangolare dai tuoi amici, presso la pagoda di Kalí, subito dopo la festa del fuoco. Non te ne ricordi? — Tu menti! — gridò lo stregone con suprema energia. — Dunque non sei tu quello che hai scannato il capretto e acceso il fuoco sacro a bordo del mio praho? — chiese Sandokan ironicamente. — Io non ho mai scannato capre. Tu mi prendi per qualche altro personaggio. — Vieni con noi manti... — Manti hai detto? Io non lo sono mai stato. — Troverai nella pagoda una persona che ti darà una solenne smentita. — Infine che cosa volete da me? — gridò il vecchio, digrignando i denti. — Vederti il petto, innanzi a tutto, — disse Tremal-Naik, rovesciandolo improvvisamente a terra e premendogli il ventre con un ginocchio. — Fa’ portare una torcia, Sandokan. Quella domanda era inutile. Yanez, dopo un simulato inseguimento per allontanare i sacrificatori tornava verso Sandokan assieme a Sambigliong, che si era munito d’una delle torce abbandonate dai mussalchi. — È preso? — gridò il portoghese. — E non ci sfuggirà neanche piú, — rispose Sandokan. — E la vedova? — L’abbiamo salvata a tempo e pare che sia anche assai lieta di essere ancora viva. L’abbiamo portata nella pagoda. — Accosta la torcia, Sambigliong, — disse Tremal-Naik lacerando d’un colpo solo la casacca di tela che copriva il petto del prigioniero. Il manti aveva mandato un urlo di rabbia e aveva tentato di ricoprirsi, ma Sandokan fu lesto ad afferrargli le braccia, dicendogli: — Lascia che vediamo dunque se sei un vero thug, innanzi a tutto. — Lo vedi? — disse Tremal-Naik. Sul petto dell’indiano vi era un tatuaggio di color azzurro, raffigurante un serpente colla testa di donna, circondato da alcuni segni misteriosi. — È l’emblema degli strangolatori, — disse Tremal-Naik. — Tutti gli affigliati a quella setta di assassini l’hanno. — Ebbene, — gridò il manti, — se sono un thug che v’importa? Io non ho ucciso nessuno. — Alzati e seguici, — disse Sandokan. Il vecchio non se lo fece ripetere due volte. Appariva assai abbattuto e preoccupato, pur lanciando sguardi feroci contro gli uomini che lo circondavano. Fu condotto verso la pira su cui terminava d’incenerirsi il cadavere e dove si erano radunati i marinai del praho, dopo d’aver disposte qua e là delle sentinelle. — Surama, — disse Yanez alla giovane bajadera che era uscita dalla pagoda. — Conosci quest’uomo? — Sí, — rispose la fanciulla. — È il manti dei Thugs, il luogotenente del «figlio delle sacre acque del Gange». — Vile danzatrice! — gridò il vecchio, dardeggiando sulla bajadera uno sguardo carico d’odio. — Tu tradisci la nostra setta. — Io non sono mai stata un’adoratrice della dea della morte e delle stragi, — rispose Surama. — Ora che non puoi negare di essere l’anima dannata di Suyodhana, — disse Tremal-Naik, — mi dirai dove si sono raccolti i Thugs che un tempo abitavano i sotterranei di Rajmangal. Il manti guardò il bengalese per alcuni istanti, poi gli disse: — Se tu credi che io ti dica dove hanno nascosta tua figlia, t’inganni. Puoi uccidermi, ma io non parlerò. — È la tua ultima parola?. — Sí. — Sta bene: vedremo se saprai resistere a lungo. Il manti udendo quelle parole era diventato pallidissimo, e la sua fronte si era coperta d’un freddo sudore. — Che cosa vuoi fare di me? — chiese con voce strozzata. — Ora lo saprai. Si volse verso Sandokan e scambiò sotto-voce alcune parole. — Lo credi? — chiese la Tigre della Malesia, facendo un gesto di dubbio. — Vedrai che non resisterà molto. — Proviamo. Capitolo IX. LE CONFESSIONI DEL MANTI A un gesto di Sandokan, il malese Sambigliong che doveva aver già ricevute precedentemente delle istruzioni, si era diretto verso un grosso tamarindo che si innalzava a trenta o quaranta passi dal rogo fra le rovine della cinta della vecchia pagoda. Teneva in mano una lunga corda, un po’ piú grossa dei gherlini e che aveva già annodata a laccio. La gettò destramente attraverso uno dei piú grossi rami e lasciò scorrere il nodo scorsoio fino a terra. Intanto alcuni marinai avevano legate strettamente le braccia al manti e passate sotto le ascelle due corde sottili e resistentissime. Il vecchio non aveva opposta alcuna resistenza, tuttavia si capiva, dall’espressione del suo viso, che un indicibile terrore l’aveva improvvisamente preso. Grosse gocce di sudore gli colavano dalla rugosa fronte e un forte tremito scuoteva il suo magro corpo. Doveva aver già compreso quale atroce supplizio stava per provare. Quando lo vide ben legato, Tremal-Naik gli si accostò, dicendogli: — Vuoi dunque parlare, manti? Il vecchio gli lanciò uno sguardo feroce, poi disse con voce strangolata. — No... no... — Ti dico che non resisterai e che finirai per dirmi quanto noi desideriamo sapere. — Mi lascerò piuttosto morire. — Allora ti faremo dondolare. — Qualcuno vendicherà la mia morte. — I vendicatori sono troppo lontani per occuparsi di te in questo momento. — Un giorno Suyodhana lo saprà e proverai le delizie del laccio. — Noi non temiamo i Thugs, e ce ne ridiamo di Kalí, dei suoi settari e anche dei loro lacci. Per l’ultima volta vuoi confessarci dove si trova ora Suyodhana o dove hanno nascosta mia figlia? — Va’ a chiederlo al «padre delle sacre acque del Gange», — rispose il manti con voce ironica. — Va bene: avanti voialtri. I quattro malesi spinsero il vecchio verso l’albero. Sambigliong gli passò il laccio attraverso il corpo stringendolo un po’ sotto le costole, in modo che la funicella gli comprimesse il ventre e quindi gl’intestini, poi gridò: — Ohe! Issa! I malesi afferrarono l’altra estremità della fune che era passata sopra il ramo e il manti fu sollevato per un paio di metri. Il disgraziato aveva mandato un urlo d’angoscia. Il nodo sotto il peso del corpo, si era subito stretto in modo da penetrargli quasi nelle carni. Tutti si erano radunati intorno all’albero, compresi Yanez e Sandokan, i quali assistevano a quel nuovo genere di martirio senza battere ciglio. Anzi il portoghese, come sempre, aveva acceso la sua ventesima o trentesima sigaretta e fumava placidamente. — Spingete, — comandò freddamente Tremal-Naik ai quattro malesi che avevano legato il manti. — Fatelo dondolare senza preoccuparvi delle sue grida. I pirati si misero due da una parte e due dall’altra e diedero la prima spinta. Il manti strinse i denti per non lasciarsi sfuggire alcun grido, però si vedeva che doveva soffrire atrocemente sotto quella stretta che a causa del dondolamento aumentava sempre. Aveva gli occhi schizzanti dalle orbite e il suo respiro era diventato affannoso come se i polmoni, pure compressi, non potessero quasi piú funzionare. Alla terza spinta che gli fece penetrare la funicella nelle carni, il disgraziato non poté piú frenare un urlo di dolore. — Basta! — gridò con voce rauca. — Basta... miserabili. — Parlerai? — chiese Tremal-Naik, accostandoglisi. — Sí... sí... dirò tutto quello... che vorrai... sapere... ma fammi togliere il laccio... Soffoco... — Potresti pentirti e mi seccherebbe dover ricominciare il supplizio. Fece arrestare il dondolamento, poi riprese: — Dove si trova Suyodhana? Se non me lo dici, non faccio allentare il nodo scorsoio. Il manti ebbe un’ultima esitazione, che non ebbe che la durata di pochi secondi. Ora non si sentiva in caso di resistere piú a lungo a quello spaventevole supplizio inventato dalla diabolica fantasia dei suoi compatriotti. — Te lo dirò, — rispose finalmente, facendo una smorfia orribile. — Dimmelo dunque. — A Rajmangal. — Negli antichi sotterranei! — Sí... sí... basta... m’uccidi... — Una risposta ancora, — disse l’implacabile bengalese. — Dove hanno nascosto mia figlia? — Anche quella... la vergine... a Rajmangal. — Giuramelo sulla tua divinità. — Lo giuro... su Kalí... Basta... non ne posso... piú. — Calatelo, — comandò Tremal-Naik. — Non resisteva piú, — disse Yanez gettando via la sigaretta. — Questi diavoli d’indiani possono dare dei punti all’Inquisizione della vecchia Spagna. Il manti fu subito calato e liberato dal nodo scorsoio e dalle corde. Attorno al ventre aveva un solco profondo, azzurrognolo che in certi punti sanguinava. I malesi furono costretti a farlo sedere, perché il disgraziato non si reggeva piú sulle gambe. Ansava affannosamente e aveva il viso congestionato. Tremal-Naik attese qualche minuto onde riprendesse fiato, poi riprese: — Ti avverto che tu rimarrai nelle nostre mani, finché noi avremo le prove di non essere stati da te ingannati. Se avrai detto la verità, un giorno tu sarai libero e anche largamente ricompensato delle due delazioni; se avrai mentito non risparmieremo la tua vita e ti faremo soffrire torture spaventevoli. Il manti lo guardò senza fare nessun gesto. Vi era però nei suoi occhi un terribile lampo d’odio. — Dov’è l’entrata del sotterraneo? Ancora presso il banian? — chiese Tremal-Naik. — Questo non te lo posso dire, non essendomi piú recato a Rajmangal dopo la dispersione dei settari, — rispose il manti. — Credo però che non sia piú quella. — Dici il vero? — Non ho forse giurato su Kalí? — Se tu non sei piú tornato a Rajmangal, come sai che mia figlia si trova colà? — Me lo hanno detto. — Perché me l’hanno presa? — Per fare di quella bambina la «Vergine della pagoda». Tu hai rapito la prima; Suyodhana ti ha preso la figlia che ha nelle sue vene il sangue di Ada Corishant. — Quanti uomini vi sono a Rajmangal? — Non sono molti di certo, — rispose il manti. — Una parola ancora, — disse Sandokan, intervenendo. — I Thugs posseggono delle navi? Il vecchio lo guardò per qualche istante, come se cercasse d’indovinare il motivo di quella domanda, poi disse: — Quand’io ero a Rajmangal non avevano che dei gonga. Non so quindi se Suyodhana in questi ultimi tempi abbia acquistata qualche nave. — Quest’uomo non confesserà mai tutto, — disse Yanez a Sandokan. — D’altronde ne sappiamo abbastanza e possiamo andarcene prima che i sacrificatori tornino con dei rinforzi. Ah! E della vedova, che cosa ne faremo? — La manderemo a casa mia, — disse Tremal-Naik. — Si troverà meglio che fra i Thugs. — Allora partiamo, — disse Yanez. — Che siano già giunti gli elefanti a Khari? — Fino da ieri, ne sono sicuro. — Saranno belli? — Splendidi animali, senza dubbio, già abituati a cacciare le tigri. Sono stati pagati cari ma meriteranno quella somma. — Andiamo dunque a cacciare nelle Sunderbunds, — concluse Yanez. — Vedremo se le tigri del Bengala valgono quelle delle foreste malesi. Due uomini presero il manti sotto le braccia e la truppa, a un cenno di Sandokan, abbandonò il piazzale, dove finivano di consumarsi, sugli ultimi tizzoni, le ossa del thug. La foresta dei cocchi fu attraversata senza incontrare nessuno e verso le due del mattino la spedizione prendeva posto nelle due scialuppe, aumentata del manti e della vedova. Avendo la corrente in favore, il ritorno fu compiuto in brevissimo tempo. Un’ora dopo infatti tutti erano a bordo del praho. Il manti fu rinchiuso in una delle cabine del quadro e per maggior precauzione gli fu collocata una sentinella dinanzi all’uscio. — Quando partiamo? — chiese Tremal-Naik a Sandokan, prima di rientrare nelle loro cabine. — All’alba, — rispose il pirata. — Ho già dato gli ordini opportuni onde tutto sia pronto prima dello spuntare del sole. Domani sera potremo trovarci a Khari? — Certo, — rispose Tremal-Naik. — Non vi sono che dieci o dodici chilometri dalla riva del fiume a quel villaggio. — Una semplice passeggiata. Buona notte ed a domani. Cominciavano a tramontare le ultime stelle quando l’equipaggio del praho era tutto in coperta per prepararsi alla partenza. Mentre issavano le immense vele, Sambigliong che dirigeva la manovra s’avvide, con una certa inquietudine, che anche le due grab ancoratesi il giorno innanzi, si preparavano a lasciare l’ancoraggio. Le loro tolde eransi rapidamente coperte d’uomini i quali alzavano precipitosamente le vele latine e spiegavano i fiocchi, come se avessero avuto timore che la brezza dovesse da un momento all’altro mancare o che la corrente del fiume cambiasse direzione. Il malese che aveva pure i suoi sospetti su quelle due misteriose navi, le quali portavano equipaggi quattro o cinque volte piú numerosi di quelli che sogliono avere quei velieri, rimase profondamente turbato da quelle manovre precipitose. — Qui gatta ci cova, — mormorò. — Che il padrone abbia ragione di aver diffidato di questi vicini? Non ci vedo chiaro in questo affare. Stava per dirigersi verso poppa, onde scendere nel quadro e avvertire Sandokan, quando questi comparve. — Padrone, — gli disse. — Anche le due grab salpano con noi. — Ah! — si limitò a dire il pirata. Guardò tranquillamente i due velieri che stavano ritirando le ancore, poi disse: — E la partenza improvvisa di quelle due navi t’inquieta, è vero mio bravo tigrotto? — Non mi sembra naturale, padrone. Sono giunte l’altro ieri, non hanno caricata nemmeno una balla di cotone ed ecco che vedendo noi rimetterci alla vela, s’affrettano ad imitarci. E poi guardate quanti uomini hanno a bordo! Mi sembra che siano aumentati. — Fra tutte e due hanno almeno il doppio dei nostri; se sperano però di darci delle noie, s’ingannano. Se vorranno seguirci fino alle Sunderbunds, faremo giuocare le nostre artiglierie e vedremo a chi toccherà la peggio. Alla ribolla, Sambigliong e bada a non urtare qualche nave. Le immense vele erano già state alzate con due mani di terzaruoli per diminuire di qualche po’ la loro superficie e le ancore di prora e di poppa apparivano allora a fior d’acqua. La Marianna, presa dalla corrente e spinta dalla brezza mattutina, cominciava a muoversi. Una delle due grab si era messa già in marcia, scivolando fra le numerose navi che ingombravano il fiume e l’altra si preparava a seguirla. Sandokan, dal cassero, le osservava attentamente, senza dare alcun segno d’inquietudine. Non era uomo da preoccuparsi anche se quelle due navi avevano equipaggi piú numerosi ed erano armate di cannoncini. Si era misurato con altri avversari ben piú poderosi e formidabili per avere qualche timore. Una mano che gli si posò sulla spalla, lo fece volgere. Yanez e Tremal-Naik erano saliti sul ponte, seguiti da Kammamuri. — Che tu abbia ragione? — gli chiese il portoghese. — O che si tratti d’un puro caso? — Un caso molto sospetto, — rispose Sandokan. — Sono certo che ci seguono, per vedere se noi andiamo a gettare le ancore in qualche canale delle Sunderbunds. — Che vogliano assalirci?... — Nel fiume, non credo; in mare forse. Ciò però mi seccherebbe, quantunque abbia piena fiducia in Sambigliong. — Dobbiamo sbarcare prima di giungere alla foce del fiume, — disse Tremal-Naik. — Khari dista dal mare molte leghe. — Se potessi liberarmi di quei due spioni! — mormorò Sandokan. — Passeremo la notte a bordo e non sbarcheremo prima di domani mattina, cosí potremo meglio accertarci delle intenzioni di quei due velieri. Sono risoluto a chiedere ai loro equipaggi delle spiegazioni, se questa sera si ancoreranno ancora presso di noi. Fingiamo per ora di non occuparci di essi onde non metterli in sospetto e andiamo a prendere il thè. Ah! E la vedova? — La lasceremo nel mio bungalow di Khari, — rispose Tremal-Naik. — Farà compagnia a Surama. — La bajadera può esserci necessaria nelle Sunderbunds, — disse Yanez. — Preferisco condurla con noi. Sandokan guardò il portoghese in certo modo, che questi arrossí come una fanciulla. — Oh! Yanez, — disse ridendo. — Il tuo cuore avrebbe perdute le sue corazze? — Invecchio, — rispose il portoghese, con aria imbarazzata. — Eppure io credo che gli occhi di Surama ti faranno ritornare giovane. — Bada, — disse Tremal-Naik. — Le donne indiane sono pericolose piú di quelle bianche. Sai con che cosa sono state create, secondo le nostre leggende? — Io so che sono generalmente bellissime e che hanno degli occhi che bruciano il cuore, — rispose Yanez. — Narrano le vecchie istorie che quando Twashtri creò il mondo, rimase molto perplesso nel creare la donna e dovette pensare a lungo, prima di scegliere gli elementi necessari per formarla. Ti avverto che parlo della donna indiana e non di quella bianca o gialla o malese. — Udiamo, — disse Sandokan. — Prese le rotondità della luna e la flessuosità del serpente, lo slancio della pianta rampicante e il tremolio della zolla erbosa, il fascino del rosaio, il colore vellutato della rosa e la leggerezza delle foglie; lo sguardo del capriuolo e la gaiezza folle del raggio di sole; il pianto delle nuvole, la timidezza della lepre e la vanità del pavone; la dolcezza del miele e la durezza del diamante; la crudeltà della tigre e la freddezza della neve; il cicaleccio della gazza e il tubare della tordella. — Per Giove! — esclamò Yanez. — Che cosa ha preso ancora quel dio indiano? — Mi pare che abbia fuso sufficienti materie ed elementi, — disse Sandokan. — Mio caro Yanez, le donne indiane hanno perfino un po’ della crudeltà delle tigri!... — Noi siamo le tigri di Mompracem, — rispose il portoghese, ridendo. — Perché dovremmo o almeno dovrei io aver paura d’una fanciulla che ha... un po’ di pelle di tigre indiana? Scoppiò in un’allegra risata, poi diventando improvvisamente serio, disse: — Ci seguono sempre, Sandokan. — Le grab? Le scorgo: ma vedremo se domani galleggeranno ancora. — Che cosa vuoi fare? — Lo saprai questa sera, — rispose Sandokan con accento minaccioso. — Lascia che ci seguano per ora. Il praho era uscito dal caos di navi e di barcacce che ingombravano il fiume, e veleggiava con sufficiente rapidità verso il basso corso. Le due grab lo seguivano sempre, a una distanza di tre o quattrocento passi l’una dall’altra, tenendosi verso la riva opposta. Verso il tramonto, dopo esser passata dinanzi alla stazione dei piloti di Diamond-Harbour, la Marianna entrava in un ampio canale formato dalla riva e da un isolotto boscoso lungo qualche miglio. Era il posto scelto da Tremal-Naik per sbarcare, trovandosi di fronte alla via che doveva condurli a Khari. L’equipaggio aveva appena gettato le ancore, quando, verso l’estremità settentrionale del canale, si videro improvvisamente apparire le due grab. Sandokan, che si trovava in coperta, vedendole aveva corrugata la fronte. — Ah! — diss’egli. — Ci seguono anche qui? Ebbene, vi darò il vostro conto. Artiglieri: smascherate i pezzi e gli altri ai posti di combattimento. Offro battaglia! Capitolo X. UNA BATTAGLIA TERRIBILE Al grido della Tigre della Malesia, i marinai che stavano già per dar fondo alle ancore e calare le vele, avevano interrotte bruscamente le manovre ed erano balzati verso il loro comandante, mandando un solo urlo. — Alle armi!... Le terribili tigri di Mompracem, quei formidabili scorridori dei mari della Malesia che un giorno avevano fatto tremare perfino il leopardo inglese, e che avevano distrutta la potenza di James Brooke, il famoso rajah di Sarawak, si risvegliavano. La sete di sangue e di stragi, da alcuni mesi assopita, li riprendeva tutta d’un colpo. In meno che non si dica, quei cinquanta uomini si trovarono ai loro posti di combattimento, pronti per l’abbordaggio. Gli artiglieri dietro le grosse spingarde: gli altri dietro le murate e sul cassero con la carabina in mano, il kriss fra i denti ed i terribili parangs dalla lama larga terminante a doccia a portata di mano. Tremal-Naik e Yanez avevano raggiunto precipitosamente la Tigre della Malesia, che dalla murata poppiera spiava le mosse delle due grab. — Si preparano ad assalirci? — chiese il bengalese. — Ed a prenderci fra due fuochi, — rispose Sandokan. — I bricconi!... Approfittano del luogo deserto per piombarci addosso. Diamond-Harbour è già lontano e sul fiume non ci sono piú navi. Si vede che hanno fretta di sopprimerci. — Lasciamoli venire, — disse Yanez, colla sua solita flemma. — Hanno equipaggi numerosi, ma gli indiani non valgono le tigri di Mompracem. Non te ne offendere, Tremal-Naik. — Conosco il valore dei miei compatriotti, — rispose il bengalese. — Non può competere con quello dei malesi. — Sandokan, che cosa aspettiamo? — Che le grab aprano per le prime il fuoco, — rispose la Tigre della Malesia. — Se fossimo in mare, attaccherei senz’altro, ma qui nel fiume, su acque inglesi non oso. Potremmo avere piú tardi dei fastidi da parte delle autorità e venire trattati come pirati. — I Thugs approfitteranno per prendere posizione. — La Marianna manovra meglio d’una baleniera e al momento opportuno sapremo sfuggire al doppio fuoco. Lasciamole venire: noi siamo pronti a riceverle. — E anche a calarle a picco, — aggiunse Yanez. — Hanno dei cannoni, — disse il bengalese. — Dei miriam che non avranno molta portata e i cui proiettili non faranno gran danno al nostro scafo, — rispose Sandokan. — Noi conosciamo quelle artiglierie, è vero Yanez? — Semplici ninnoli, — rispose il portoghese. — Ah! ah! Vedi una come si avanza? Mirano a prenderci in mezzo. — Fa’ gettare un ancorotto a prora, — disse Sandokan. — Niente catena, un semplice cavo che troncheremo con un colpo solo. Cerchiamo di ingannare quei bricconi. Le due grab avevano già imboccato il canale e si avanzavano lentamente, con parte delle vele ammainate sotto le coffe. L’una radeva la spiaggia dell’isolotto; l’altra invece si teneva verso la terra ferma. Da quella manovra si poteva facilmente capire che miravano a prendere fra due fuochi il praho, il quale si teneva in quel momento in mezzo al canale. Una certa agitazione regnava sulle tolde delle due navi. Si vedevano i marinai affaccendarsi a prora ed a poppa, come se stessero innalzando delle barricate per meglio ripararsi dalle scariche delle artiglierie nemiche e altri a trascinare degli oggetti che parevano pesanti, a giudicarlo dal numero degli uomini che vi erano intorno. Sandokan, tranquillo come se la cosa non lo riguardasse, seguiva però attentamente le mosse dei due velieri, mentre Yanez ispezionava le spingarde e faceva preparare i grappini d’arrembaggio, onde tutto fosse pronto per abbordare le avversarie, nel caso ve ne fosse stato bisogno. Le tenebre erano appena calate e la luna cominciava ad apparire sulle cime dei grandi alberi che coprivano la riva, quando le due grab, con una bordata, giunsero a trecento passi dal praho, prendendolo in mezzo. Quasi subito dalla nave piú prossima si udí una voce a gridare, in lingua inglese: — Arrendetevi o vi coliamo a fondo. Sandokan aveva già in mano il porta-voce. Lo imboccò rapidamente gridando: — Chi siete per farci una simile intimazione? — Navi del governo del Bengala, — rispose la voce di prima. — Allora favorite mostrarci le vostre carte, — rispose Sandokan ironicamente. — Vi rifiutate d’obbedire? — Almeno per ora, sí. — Mi obbligherete a comandare il fuoco. — Fate pure, se cosí vi piace. Quella risposta fu seguita da urla terribili che s’alzarono sulle tolde delle due navi. — Kalí!... Kalí!... Sandokan aveva gettato il porta-voce per sguainare la scimitarra. — Andiamo, tigri di Mompracem! — gridò. — Tagliate la fune e abbordiamo! All’urlo dei Thugs, l’equipaggio della Marianna aveva risposto col suo grido di guerra, piú selvaggio e piú terribile di quello degli indiani. Il canapo dell’ancorotto era stato tagliato d’un colpo solo ed il praho si era rimesso al vento, muovendo risolutamente contro la grab che si trovava a ridosso dell’isoletta. Ad un tratto, un colpo di cannone rimbombò, ripercuotendosi lungamente sotto le foreste che ingombravano la spiaggia opposta. La grab aveva aperto il fuoco col suo piccolo pezzo di prora, credendo i suoi artiglieri di sfondare facilmente i fianchi del praho, ma le piastre metalliche che ricoprivano lo scafo, erano una difesa sufficiente contro quelle piccole palle. — A voi, tigrotti! — gridò Sandokan, che si era messo alla ribolla del timone, per guidare col proprio pugno il piccolo veliero. Una scarica di carabine aveva tenuto dietro a quel comando. I pirati che fino allora si erano tenuti nascosti dietro le murate, erano balzati in piedi, aprendo il fuoco violentissimo sulla tolda della grab, mentre gli artiglieri facevano girare rapidamente sui perni le lunghe e grosse spingarde, per prenderla d’infilata da prora a poppa. Il combattimento era cominciato, con grande slancio, da ambe le parti e di uomini ne erano già caduti sulla grab e sulla Marianna, molti di piú su quella però che su questa. I pirati, gente abituata alla guerra, non sparavano che a colpo sicuro, mentre i Thugs facevano fuoco all’impazzata. Sandokan, impassibile fra quel grandinare di palle, che percuotevano i fianchi della sua piccola, ma bensí robustissima nave, che foravano le vele e maltrattavano le manovre, incitava senza posa i suoi uomini. — Sotto, tigri di Mompracem! Mostriamo anche a questi uomini come combattono i figli della selvaggia Malesia! Non vi era bisogno d’incoraggiare quei temuti predatori dei mari, incanutiti fra il fumo delle artiglierie e agguerriti da cento e cento abbordaggi. Balzavano come tigri, salendo sulle murate e inerpicandosi sulle griselle per meglio mirare i nemici, senza inquietarsi del fuoco della grab, mentre i loro artiglieri, sotto il comando di Yanez, fracassavano con tiri aggiustati l’alberatura ed il fasciame della veliera bengalese. La lotta però si era appena impegnata, quando giunse dietro alla Marianna la seconda grab, scaricandole addosso i suoi quattro miriam. — Orza alla banda! — aveva gridato Yanez. Sandokan con un colpo di barra tentò di virare sul posto, mentre Tremal-Naik e Kammamuri si slanciavano a babordo con un pugno di moschettieri, per tener testa alla nuova avversaria. La Marianna con una fulminea manovra si gettò fuor di linea, sfuggendo al fuoco incrociato delle due navi, poi messasi di traverso fece fronte alle due grab tempestandole colle carabine e colle spingarde. La piccola nave si difendeva meravigliosamente e aveva ferro e piombo per tutte e due. Yanez, che maneggiava una delle spingarde, con un colpo ben aggiustato, aveva già fracassato l’albero di trinchetto della prima grab, facendolo rovinare in coperta, poi aveva scagliato sugli uomini che tentavano di spingerlo in acqua e di tagliare i paterazzi e le sartie, una bordata di mitraglia che aveva causata una vera strage fra i Thugs. Tuttavia la situazione della Marianna era tutt’altro che rosea, poiché le due navi bengalesi, quantunque fossero assai maltrattate, la stringevano da presso per abbordarla d’ambo le parti. Forti del loro numero, i Thugs speravano di espugnarla facilmente, una volta messi i piedi sulla tolda. Sandokan tentava, con manovre ammirabili, di sfuggire alla stretta. Disgraziatamente il canale era poco largo ed il vento troppo debole per tentare delle bordate. Tremal-Naik lo aveva raggiunto per consigliarsi sul da fare. Il coraggioso bengalese aveva compiuto miracoli, infliggendo alla seconda grab perdite considerevoli, e non era riuscito ad arrestarne la marcia. — Ci piombano addosso e fra poco avremo l’abbordaggio, — aveva detto a Sandokan, ricaricando la carabina. — Saremo pronti a riceverli, — aveva risposto la Tigre della Malesia. — Sono quattro volte piú numerosi di noi. — Vedrai i miei uomini come si batteranno. Sambigliong! A me! Il malese che faceva fuoco dall’alto della grisella di babordo, d’un balzo fu sul cassero. — A te la ribolla, — gli disse Sandokan. — Quale delle due, padrone? — Abbordiamo noi prima di loro. Quella di babordo. Poi si slanciò attraverso la tolda, gridando con voce tuonante: — Pronti per l’arrembaggio! A me, tigrotti di Mompracem! Sambigliong, che aveva sotto di sé cinque uomini per la manovra della vela poppiera fece allentare la scotta per raccogliere maggior vento, poi avventò il praho contro la grab che fronteggiava l’isolotto e che era stata la piú maltrattata, mentre Yanez dirigeva il fuoco di tutte le spingarde contro l’altra per cercar di trattenerla. — Fuori i parabordi! — aveva gridato Sandokan. — Pronti pel lancio dei grappini. Mentre alcuni uomini lanciavano sopra i bordi delle grosse palle di canape intrecciato per attenuare l’urto e altri raccoglievano i grappini disposti lungo le murate per gettarli fra le manovre della nave nemica, Sambigliong abbordò la grab a babordo, cacciando il bompresso fra le sartie e le griselle dell’albero maestro. I Thugs che la montavano, sorpresi da quell’audace attacco, mentre avevano sperato di essere essi gli abbordatori, non avevano nemmeno pensato a sfuggire l’urto, manovra d’altronde non facile a eseguirsi con un solo albero e colle manovre gravemente danneggiate. Quando tentarono di sottrarsi al contatto, era troppo tardi. Le tigri di Mompracem, agili come scimmie, piombavano da tutte le parti, slanciandosi dalle griselle, dai paterazzi, perfino dai pennoni e balzando sul bompresso. Sandokan e Tremal-Naik, con la scimitarra nella destra e la pistola nella sinistra, si erano slanciati pei primi sulla tolda della grab, mentre Yanez scaricava bordate addosso all’altra per impedirle di accorrere in aiuto della compagna. L’invasione dei tigrotti era stata cosí fulminea, che s’impadronirono del cassero quasi senza far uso delle armi. I Thugs, quantunque assai piú numerosi, si erano dispersi per la tolda senza opporre resistenza, ma alle grida dei loro capi, volsero ben presto la fronte e dopo essersi radunati dietro il troncone dell’albero di trinchetto, caricarono a loro volta coi tarwar in pugno, urlando come belve feroci. Avevano rinunciato ai loro lacci, che non potevano essere di nessuna utilità in un combattimento corpo a corpo. L’urto fu terribile, ma i pesanti parangs delle tigri di Mompracem non tardarono ad avere il sopravvento sulle piccole e leggere scimitarre dei bengalesi. Respinti dappertutto, stavano per gettarsi in acqua e salvarsi sull’isolotto, quando sul ponte della Marianna echeggiarono le grida di: — Al fuoco! Al fuoco! Sandokan, con un comando breve ed istintivo aveva arrestato lo slancio dei suoi uomini. — Alla Marianna! Balzò sulla murata della grab e si slanciò con un salto da tigre, sulla tolda del praho, mentre Tremal-Naik con un pugno d’uomini copriva la ritirata e respingeva vittoriosamente un contrattacco dei settari della sanguinaria dea. Un denso fumo sfuggiva dal boccaporto maestro della Marianna, avvolgendo le vele e l’alberatura. Qualche pezzo di miccia o qualche lembo di tela, o un pezzo di corda incendiata dai tiri delle spingarde doveva essere caduta nella stiva ed aveva dato fuoco al deposito degli attrezzi di ricambio. Sandokan, senza preoccuparsi dei tiri incessanti della seconda grab, aveva fatto preparare la pompa, poi aveva gridato a Sambigliong che non aveva abbandonata la ribolla del timone: — Al largo! Fila verso l’uscita del canale! Tutti a bordo. Tremal-Naik e Kammamuri, assieme a coloro che avevano coperta la ritirata, balzavano in quel momento in coperta. I grappini d’abbordaggio furono tagliati, le vele orientate e la Marianna si staccò dalla grab passando dinanzi la prora della seconda. La ritirata ormai s’imponeva, non potendo le Tigri di Mompracem far piú fronte alle due navi avversarie col fuoco che avvampava a bordo e che poteva comunicarsi alle polveri della Santa Barbara. Essendo stata la Marianna ben poco danneggiata nelle manovre dai miriam indiani pessimamente diretti da cattivissimi artiglieri, poteva allontanarsi senza temere di venire raggiunta, tanto piú che la grab abbordata, priva del suo trinchetto, non poteva quasi piú virare di bordo e mettersi in caccia. Con un solo colpo d’occhio Sandokan si era reso conto della situazione e aveva lanciato a Sambigliong il comando: — Su Diamond-Harbour! Egli pensava e con ragione che là almeno avrebbe potuto avere dei soccorsi dai piloti della stazione, in caso di estremo pericolo e che i Thugs si sarebbero ben guardati dall’inseguirlo fino a quella stazione. Il comandante della seconda grab, come se avesse indovinato il pensiero di Sandokan, aveva fatto spiegare rapidamente tutte le vele per mettersi in caccia e dargli nuovamente battaglia, prima che la Marianna potesse uscire dal canale. Doveva aver capito che la preda stava per sfuggirgli. Il fuoco dei miriam, per un momento sospeso per non colpire l’altra nave che si trovava sulla linea di tiro, fu ben presto ripreso dai Thugs, fra clamori assordanti e colpi di carabina. Sandokan vedendo tanta ostinazione da parte di quel nemico che aveva già quasi vinto, aveva mandato un urlo di furore. — Ah! — gridò. — Mi dai ancora la caccia? Aspetta un momento. Tremal-Naik! Il bengalese si affaccendava a organizzare una catena di mastelli senza troppo preoccuparsi delle palle che grandinavano sempre in coperta. Alla chiamata della Tigre della Malesia era accorso. — Che cosa vuoi? — Tu e Kammamuri occupatevi dell’incendio. Conduci sul ponte Surama e la vedova che sono rinchiuse nel quadro. Ti lascio venti uomini. A me gli altri. Poi si slanciò verso poppa dove Yanez aveva fatto portare anche le spingarde di prora per contrabbattere poderosamente i miriam bengalesi. — Fammi largo, Yanez, — gli disse. — Smontiamo quella carcassa. — Non sarà cosa né lunga, né difficile, — rispose il portoghese colla sua solita calma. — Ecco qui una batteria che scalderà i dorsi dei Thugs. Palle e chiodi insieme! Tatueremo i Thugs col ferro. — A te le due spingarde di babordo; a me quelle di tribordo, — disse Sandokan. — Voialtri coprite la batteria col fuoco delle vostre carabine. Si chinò su una delle sue due spingarde e mirò attentamente il ponte della grab, la quale continuava ad avanzarsi come se avesse intenzione di tentare l’abbordaggio della Marianna. Due colpi rimbombarono sul cassero. Il portoghese e la Tigre della Malesia avevano fatto fuoco simultaneamente. L’albero di trinchetto della nave indiana, colpito un po’ sotto la coffa, oscillò un momento, poi cadde con gran fracasso attraverso la murata di babordo che si frantumò sotto l’urto, ingombrando la coperta di aste e di cordami e coprendo i due pezzi del castello di prora. — A mitraglia! — gridò Sandokan. — Spazziamo la tolda! Due altri colpi avevano tenuto dietro ai primi. Urla terribili, urla di dolore e non piú di vittoria, si erano alzate fra i thugs. I chiodi facevano buon effetto sui corpi degli strangolatori. Il fuoco era stato sospeso sulla grab, ma non già a bordo della Marianna. Sandokan e Yanez, che erano due artiglieri meravigliosi, sparavano senza tregua, ora mirando lo scafo ed ora mandando una vera tempesta di chiodi sulla tolda che infilavano da prora a poppa. Alternavano palle a mitraglia e con tale rapidità da impedire all’equipaggio avversario di liberarsi dell’albero che immobilizzava la loro nave. Cadevano le murate, precipitavano le manovre e i madieri s’aprivano. L’albero maestro, cinque minuti dopo, schiantato quasi a livello della tolda, seguiva il trinchetto, rovinando pure a babordo e sbandando la nave in modo da esporre completamente il ponte ai tiri dei pirati. La distruzione della grab cominciava. Ormai non era piú che un pontone senz’alberi e senza vele, ingombro di rottami e di morti, tuttavia la Marianna non rallentava il fuoco, anzi! E le palle e gli uragani di mitraglia si succedevano, mentre le carabine dei tigrotti distruggevano l’equipaggio, che invano cercava un rifugio dietro le murate e dietro i tronconi degli alberi. L’altra grab invano faceva sforzi prodigiosi per accorrere in aiuto della compagna. Priva del suo trinchetto, non s’avanzava che assai lentamente e le sue cannonate rimanevano senza effetto, giungendo i suoi proiettili di rado a destinazione. — Orsú, — disse Sandokan. — Un’altra bordata, Yanez e avremo finito. Tira, ed a fior d’acqua a palla. I quattro colpi si successero a brevissima distanza l’uno dall’altro aprendo quattro nuovi fori nella carena. Furono i colpi di grazia. La povera grab, che pareva si mantenesse ancora a galla per un miracolo d’equilibrio, si piegò bruscamente sul babordo, dove gli alberi pesavano e dove l’acqua del fiume già irrompeva attraverso gli squarci, poi si rovesciò colla chiglia in aria. Degli uomini si erano slanciati in acqua e nuotavano disperatamente. Alcuni si dirigevano verso l’isolotto e altri verso la seconda grab, che pareva fosse immobilizzata su qualche bassofondo, perché non s’avanzava piú. — Spazziamoli? — chiese Yanez. — Lascia che vadano a farsi appiccare altrove, — rispose Sandokan. — Credo che ne abbiano abbastanza. Sambigliong, risali sempre il canale! Poi si slanciò verso il boccaporto maestro dove parte dell’equipaggio lavorava con accanimento fra il fumo che continuava a irrompere, rovesciando mastelli d’acqua. — E dunque? — chiese con una certa ansietà. — Ormai non vi è piú alcun pericolo, — disse Tremal-Naik, che lo aveva scorto e che aveva udita la domanda. — Siamo padroni dell’incendio e i nostri uomini, che sono già nella stiva, stanno sgombrando il deposito delle vele e degli attrezzi di ricambio. — Avevo tremato per la mia Marianna. — Dove andiamo ora? — Riguadagneremo il fiume e scenderemo al di là dell’isolotto. È meglio non mostrarci piú a Diamond-Harbour. — I piloti devono aver udito le cannonate. — Se non sono sordi. — Che suonata pei Thugs! — Per un po’ non ci daranno piú noia. — E l’altra grab? — Vedo che non si muove piú. Credo che si sia arenata, e poi è cosí malconcia che non potrà piú seguirci in mare, — rispose Sandokan. — Potremo cosí sbarcare senza essere disturbati e mandare il praho a Raimatla senza avere delle spie alle spalle. Ce la siamo cavata a buon mercato: l’affare non e’ stato troppo cattivo. Sbarcando piú al sud, potremo raggiungere egualmente Khari? — Sí, attraverso la jungla. — Dieci o dodici miglia attraverso i bambú non ci fanno paura, anche se vi saranno delle tigri. Sambigliong! Risali sempre e vira di bordo all’estremità dell’isolotto. Ritorniamo nell’Hugly. Capitolo XI. NELLE JUNGLE La Marianna, quantunque due volte piú piccola delle grab e con un equipaggio di molto inferiore, ma assai piú agguerrito dei bengalesi, se l’era cavata veramente a buon mercato, come aveva detto la Tigre della Malesia. Nonostante il furioso cannoneggiamento dei miriam, aveva subito dei danni facilmente riparabili, senza costringerla a recarsi in qualche cantiere di raddobbo. Tutto si riduceva a poche corde spezzate, a pochi buchi nella velatura e a un pennone smussato. Il blindaggio dello scafo, quantunque di poco spessore, era stato sufficiente ad arrestare le palle d’una libbra dei piccoli cannoni d’ottone e di rame. Sette uomini però erano rimasti uccisi dal fuoco delle carabine, e altri dieci erano stati portati nell’infermeria piú o meno feriti. Perdite piccole in paragone a quelle subíte dagli equipaggi delle grab, che le spingarde, abilmente manovrate da Yanez e dai suoi uomini, avevano piú che decimato. La vittoria d’altronde era stata completa. Una delle due navi, dopo essersi capovolta, erasi affondata: l’altra invece era stata ridotta in tale stato da non poter piú tentare l’inseguimento e per di piú si era arenata. I crudeli settari della sanguinosa divinità non potevano certo essere soddisfatti dell’esito della loro prima battaglia data alle terribili tigri di Mompracem, che credevano di schiacciare cosí facilmente prima che uscissero dalll’Hugly. La Marianna, guidata da Sambigliong, un timoniere che aveva ben pochi rivali, con poche bordate raggiunse l’estremità settentrionale dell’isolotto e rientrò nel fiume, nel momento in cui la seconda grab scompariva sotto le acque del canale. L’incendio era stato ormai completamente spento da Tremal-Naik e dai suoi uomini, e piú nessun pericolo minacciava il praho, il quale poteva scendere tranquillamente il fiume senza temere di venire inseguito. Sospettando però che i Thugs si fossero rifugiati sull’isolotto e che li aspettassero al varco per salutarli con qualche scarica di carabine, Sandokan fece spingere la Marianna verso la riva opposta. Essendo l’Hugly in quel luogo largo oltre due chilometri, non vi era pericolo che le palle dei settari potessero giungere fino al veliero. — Dove prenderemo terra? — chiese Yanez a Sandokan che stava osservando le rive. — Scendiamo il fiume per qualche dozzina di miglia, — rispose la Tigre della Malesia. — Non voglio che i Thugs ci vedano a sbarcare. — È lontano il villaggio? — Pochi chilometri, mi ha detto Tremal-Naik. Saremo però costretti ad attraversare la jungla. — Non sarà cosí difficile come le nostre foreste vergini del Borneo. — Le tigri abbondano fra quei canneti giganteschi. — Bah! Le conosciamo da lunga pezza quelle signore. E poi, non ci rechiamo forse nelle Sunderbunds a fare la loro conoscenza? — È vero, Yanez, — rispose Sandokan, sorridendo. — Credi tu che i Thugs avessero indovinato i nostri progetti? — In parte, forse. Probabilmente sospettavano che noi assalissimo il loro rifugio dalla parte del Mangal. Che tentino la rivincita?. — È possibile, Yanez, ma giungeranno troppo tardi. Ho dato già a Sambigliong le mie istruzioni onde non si faccia sorprendere entro le Sunderbunds. Andrà a nascondere il praho nel canale di Raimatla e smonterà l’alberatura, coprendo lo scafo con canne ed erbe, onde i Thugs non s’accorgano della presenza dei nostri uomini. — E come ci terremo in relazione con loro? Noi possiamo aver bisogno di aiuti. — S’incaricherà Kammamuri di venirci a trovare fra le jungle delle Sunderbunds. — Rimarrà con Sambigliong? — Sí, almeno fino a quando il praho avrà raggiunto Raimatla. Egli conosce quei luoghi e saprà trovare un ottimo nascondiglio per il nostro legno. I Thugs hanno dato prova di essere molto furbi, e noi lo saremo di piú. Spero un giorno di poterli affogare tutti entro i loro sotterranei. — Raccomanda a Sambigliong di non lasciarsi sfuggire il manti. Se quell’uomo riesce a evadere, non potremo piú sorprenderli. — Non temere, Yanez, — disse Sandokan. — Un uomo veglierà giorno e notte dinanzi alla sua cabina. — Prendiamo terra? — chiese in quel momento una voce dietro di loro. — Abbiamo già oltrepassata l’isola e non ci conviene allontanarci troppo dalla via che conduce a Khari. La jungla è pericolosa. Era Tremal-Naik, il quale aveva già dato ordine a Sambigliong di dirigersi verso la riva opposta. — Siamo pronti, — rispose Sandokan. — Fa’ preparare una scialuppa e andiamo ad accamparci a terra. — Abbiamo un ottimo rifugio per passare la notte, — disse Tremal-Naik. — Siamo di fronte a una delle torri dei naufraghi. Ci staremo benissimo là dentro. — Quanti uomini condurremo con noi? — chiese Yanez. — Basteranno i sei che sono già stati scelti, — rispose Sandokan. — Un numero maggiore potrebbe far nascere dei sospetti nei Thugs di Rajmangal! — E Surama? — Ci seguirà: quella fanciulla può renderci preziosi servigi. La Marianna si era messa in panna a duecento passi dalla riva, mentre la baleniera era stata già calata in acqua. Sandokan diede a Kammamuri e a Sambigliong le sue ultime istruzioni, raccomandando loro la massima prudenza, poi scese nella scialuppa dove già si trovavano i sei uomini scelti per accompagnarli, Surama e la vedova del thug, che contavano di lasciare nella possessione di Tremal-Naik. In due minuti attraversarono il fiume e presero terra sul margine delle immense jungle, a pochi passi dalla torre di rifugio, che s’alzava solitaria fra le canne spinose e i folti cespugli che coprivano la riva. Prese le carabine e alcuni viveri, rimandarono la scialuppa, dirigendosi poscia verso il rifugio la cui scala mobile era appoggiata contro la parete. Era una torre simile a quelle che già Sandokan e Yanez avevano osservate presso l’imboccatura del fiume, costruita in legno, alta una mezza dozzina di metri, con quattro iscrizioni in lingua inglese, indiana, francese e tedesca, dipinte in nero a grosse lettere, e che avvertivano i naufraghi di non fare spreco dei viveri contenuti nel piano superiore e di attendervi il battello incaricato del rifornimento. Sandokan appoggiò la scala alla finestra e salí pel primo, seguíto subito da Surama e dalla vedova. Non vi era che una stanza, appena capace di contenere una dozzina di persone, con alcune amache sospese alle travate, un rozzo cassettone, contenente una certa quantità di biscotto e di carne salata ed alcuni vasi di terracotta. Non dovevano certo farla molto grassa i naufraghi, che la mala sorte gettava su quelle rive pericolose e disabitate, tuttavia non potevano correre, almeno per un certo tempo, il pericolo di morire di fame. Quando tutti furono entrati, Tremal-Naik fece ritirare la scala, onde le tigri, che potevano aggirarsi nei dintorni, non ne approfittassero per inerpicarsi fino al rifugio. Le due donne e i capi presero posto nelle amache; i sei malesi si stesero a terra mettendosi a fianco le armi, quantunque nessun pericolo potesse minacciarli. La notte passò tranquilla non essendo stata turbata che dall’urlo lamentevole di qualche sciacallo affamato. Quando si risvegliarono, la Marianna non era piú in vista. A quell’ora doveva aver già raggiunta la foce dell’Hugly e costeggiare già le Teste di Sabbia che si protendono dinanzi ai melmosi terreni delle Sunderbunds e che servono d’argine alle grosse ondate del golfo del Bengala. Una sola barca, munita d’una tettoia, risaliva il fiume radendo la riva, spinta da quattro remiganti semi-nudi. Sulla jungla invece nessun essere umano appariva. Volteggiavano invece un gran numero d’uccelli acquatici, specialmente d’anitre bramine e di martini pescatori. — Siamo in pieno deserto, — disse Sandokan che dall’alto della torre guardava ora il fiume ed ora l’immensa distesa di bambú, sui quali giganteggiava superbamente qualche raro tara e qualche colossale nim dal tronco enorme. — E questo non è che il principio del delta del Gange, — rispose Tremal-Naik. — Piú innanzi vedrai ben altre cose e ti farai un concetto piú esatto di questo immenso pantano che si estende fra i due rami principali del sacro fiume. — Non comprendo come i Thugs abbiano scelto un cosí brutto paese pel loro soggiorno. Qui le febbri devono regnare tutto l’anno. — E anche il cholera, il quale fa di frequente dei grandi vuoti fra i molanghi. Ma qui si sentono piú sicuri che altrove; poiché nessuno oserebbe tentare una spedizione attraverso questi pantani che esalano miasmi mortali. — Che a noi non fanno né freddo, né caldo, — rispose Sandokan. — Le febbri non ci fanno piú paura: ci siamo abituati. — E con chi se la prendono i Thugs di Suyodhana, se queste terre sono quasi spopolate? Kalí non deve avere troppe vittime di olocausto. — Qualche molango che viene sorpreso lontano dal suo villaggio, paga per gli altri. E poi se non si strangola molto nelle Sunderbunds, non credere che a Kalí manchino vittime: i Thugs hanno emissari in quasi tutte le province settentrionali dell’India. Dove vi è un pellegrinaggio, i settari della dea accorrono e un bel numero di persone non tornano piú alle loro case. A Rajmangal io ne ho conosciuto uno che operava appunto sui pellegrini che si recavano alle grandi funzioni religiose di Benares, che aveva strangolato settecento e diciannove persone e quel miserabile, allorché venne arrestato, non manifestò che un solo dispiacere: quello di non aver potuto raggiungere il migliaio()! — Quello era una belva! — esclamò Yanez, che li aveva raggiunti. — Le stragi che quei miserabili commettevano ancora alcuni anni or sono, non si possono immaginare. — Vi basti sapere che alcune regioni dell’India centrale furono quasi spopolate da quei feroci assassini, — disse Tremal-Naik. — Ma che piacere ci trovano a strozzare tante persone? — Quale piacere! Bisogna udire un thug per farsene un’idea. «Voi trovate un grande diletto — disse un giorno uno di quei mostri, da me interrogato — nell’assalire una belva feroce nella sua tana, nel macchinare e ottenere la morte d’una tigre o d’una pantera, senza che in tutto ciò vi siano gravi pericoli da sfidare e coraggio soverchio da spiegare. Pensa adunque quanto questa attrattiva debba aumentare allorché la lotta è impegnata coll’uomo, allorché è un essere umano che bisogna distruggere! In luogo d’una sola facoltà, il coraggio, abbisognano l’astuzia, la prudenza, la diplomazia. Operare con tutte le passioni, far vibrare anche le corde dell’amore e dell’amicizia per indurre la preda nelle reti è una cosa sublime, inebriante, un delirio.» Ecco la risposta che ho avuto da quel miserabile che aveva già offerta alla sua divinità qualche centinaio di vittime umane... Pei Thugs l’assassinio è eretto a legge, l’uccidere per loro è una gioia suprema e un dovere; l’assistere all’agonia di un uomo da essi colpito è una felicità ineffabile. — In conclusione l’uccidere una creatura inoffensiva è un’arte, — disse Yanez. — Credo che sia impossibile sognare una piú perfetta apologia del delitto. — Sono molti anche oggidí i settari di Kalí? — chiese Sandokan. — Si calcolano a centomila, sparsi per la maggior parte nelle jungle del Bundelkund, nell’Aude e nel bacino del Nerbudda. — E obbediscono tutti a Suyodhana? — È il loro capo supremo, da tutti riconosciuto, — rispose Tremal-Naik. — Fortunatamente che gli altri sono lontani, — disse Yanez. — Se si radunassero tutti nelle Sunderbunds non ci rimarrebbe altro che far richiamare la Marianna e tornarcene a Mompracem. — A Rajmangal non ve ne saranno molti, né credo che Suyodhana, anche se minacciato, ne richiamerà dall’altre regioni. Il governo del Bengala tiene gli occhi aperti e quando può mettere le mani sui settari di Kalí, non li risparmia. — Tuttavia non ha nulla tentato per snidare quelli che sono tornati nelle caverne di Rajmangal, — disse Sandokan. — È troppo occupato pel momento. Come vi ho detto, l’India settentrionale minaccia una formidabile insurrezione ed alcuni reggimenti di cipayes hanno fucilati, giorni sono, i loro ufficiali a Merut ed a Cawnpore. Chissà che piú tardi, sedata la rivolta, non dia un colpo mortale anche ai Thugs delle Sunderbunds. — Spero che per allora non ve ne siano piú, — disse Sandokan. — Non siamo già venuti qui per lasciarceli scappare di mano, è vero Yanez? — Vedremo in seguito, — rispose il portoghese. — Partiamo Sandokan: ne ho abbastanza di questa gabbia e sono impaziente di vedere i nostri elefanti. Surama e la vedova avevano preparato il thè, avendone trovato una certa provvista fra i viveri destinati ai naufraghi. Vuotarono qualche tazza, poi ricollocarono a posto la scala e scesero fra le alte erbe che circondavano la torre. Tre uomini armati di parangs si misero alla testa del drappello, per aprire un varco attraverso l’inestricabile caos di bambú, e di piante parassite e la marcia cominciò sotto un sole ardentissimo. Chi non ha veduto le jungle delle Sunderbunds, non può farsi la menoma idea del loro aspetto desolante. Un deserto, sia pure privo del piú piccolo sterpo, è meno triste di quelle pianure fangose, coperte da una vegetazione intensa sí, ma che non ha nulla di gaio, né di pittoresco, una vegetazione che pur essendo lussureggiante ha un’indefinibile tinta come di cosa malaticcia trasudante germi infettivi. Ed infatti tutto quel mare di canne immense e di piante parassite è giallastro. È ben raro vedere qualche macchia d’un verde brillante perché le belle mangifere, i pipal, i nim, i tara, dal cupo fogliame che caratterizzano le pianure del Bengala e dell’India centrale, non sembrano trovarsi a loro agio nei pantani delle Sunderbunds. Tutte le piante sono altissime e si sviluppano con rapidità prodigiosa perché il terreno è fertilissimo, ma come abbiamo detto sono ammalate, e hanno un non so che d’infinitamente triste che colpisce profondamente l’uomo che ha l’audacia d’inoltrarsi fra quel caos di vegetali. È l’umidità o meglio la lotta incessante che si combatte sotto di essi, fra l’acqua che invade continuamente quelle terre e il calore solare che le prosciuga rapidamente; lotta che si rinnova ogni giorno da secoli e secoli senza alcun vantaggio né per l’una né per l’altro; lotta che non fa altro che sviluppare germi infettivi e miasmi mortali e che aiutati dal rapido corrompersi di quella vegetazione d’una ricchezza anormale, sviluppano il cholera asiatico. Il terribile morbo, che quasi ogni anno fa immense stragi fra le popolazioni del mondo, ivi ha la sua sede. I microbi si sviluppano sotto quelle piante con rapidità prodigiosa e altro non attendono che i pellegrini indiani per espandersi in Asia, in Europa e in Africa. Esso regna in permanenza fra i poveri villaggi dei molanghi, soffocati fra quelle canne smisurate; però di rado uccide quei disgraziati. Venga però l’europeo che non è acclimatato e lo fulmina in poche ore. È l’alleato dei Thugs e vale meglio di tutte le fortezze e di tutte le barriere, per tenere lontane le truppe del governo del Bengala. Ma non è solo il cholera che si trova bene fra quei pantani. Anche i serpenti, le tigri, i rinoceronti e i coccodrilli voracissimi ci stanno benissimo e si propagano meravigliosamente, senza sentirne danno alcuno. Se le Sunderbunds sono tristi, sono il paradiso dei cacciatori, perché tutti i piú terribili animali dell’India vi si trovano. Vi vivono però in piena sicurezza a dispetto degli ufficiali inglesi, quegli accaniti cacciatori, i quali non osano inoltrarsi fra quel mare di vegetali, non ignorando che un soggiorno anche brevissimo, può essere loro fatale. L’europeo non può affrontare i miasmi delle Sunderbunds: la morte lo attende, celata sotto l’ombra delle canne e dei calamus. Se può sfuggire agli artigli delle tigri, al morso velenoso del cobra-capello e del serpente del minuto o del bis-cobra e ai denti del gaviale, cade infallantemente sotto i colpi del cholera. Il piccolo, ma animoso drappello, guidato da Tremal-Naik, procedeva lentamente, senza arrestarsi fra l’intricata jungla, aprendosi il passo a colpi di parang e di kampilang, non avendo trovato la menoma traccia di sentiero al di là dalla torre di rifugio. I malesi della scorta, abituati già alla dura manovra dei parangs e dotati d’una resistenza e d’un vigore straordinario, tagliavano senza posa, insensibili ai morsi del sole che faceva fumare la loro pelle e anche ai miasmi che si sprigionavano da quei terreni melmosi. Abbattevano a grandi colpi le mostruose canne, che parevano volessero soffocarli, facendole cadere a destra e a sinistra, per fare largo alle due donne e ai loro capi, i quali non s’occupavano che della sorveglianza, potendo darsi che da un istante all’altro qualche tigre facesse improvvisamente la sua comparsa. Già avevano fiutato per due volte, su cinquecento passi penosamente guadagnati, l’odore caratteristico che esalano quelle pericolose belve, ma nessuna si era fatta vedere, spaventata forse dal numero delle persone e dal brillare delle carabine, armi che ormai quei sanguinari carnivori hanno imparato a temere. Se il drappello fosse stato formato di poveri molanghi, armati d’un semplice coltellaccio o di qualche lancia, forse non avrebbero esitato a tentare un fulmineo assalto per portarne via qualcuno. Di passo in passo che s’inoltravano, la vegetazione invece di scemare, diventava cosí folta, da mettere a dura prova la pazienza e l’abilità dei malesi, quantunque non fossero nuovi alle jungle. Le canne si succedevano alle canne, serrate e altissime, interrotte solo di quando in quando da ammassi di calami, piante parassite d’una resistenza incredibile e che raggiungono spesso lunghezze di cento e perfino centocinquanta metri e da pozzanghere ripiene d’acqua giallastra e corrotta, che costringevano il drappello a fare dei lunghi giri. Un caldo soffocante regnava in mezzo a quei vegetali, facendo sudare prodigiosamente malesi e indiani e soprattutto Yanez che nella sua qualità d’europeo, resisteva meno degli altri agli ardenti raggi del sole. — Preferisco le nostre foreste vergini del Borneo, — diceva il povero portoghese, che pareva uscisse da un vero bagno, tanto le sue vesti erano inzuppate di sudore. — Mi pare di essere dentro un forno. La durerà molto? Comincio ad averne fino ai capelli delle jungle bengalesi. — Non la finiremo prima di dieci o dodici ore, — rispondeva TremalNaik, il quale pareva invece che si trovasse benissimo fra quei vegetali e quei pantani. — Giungerò al tuo bengalow in uno stato miserando. Bei luoghi hanno scelto i Thugs! Che il diavolo se li porti via tutti! Potevano trovarsi un rifugio migliore. — Di questo no certo, mio caro Yanez, perché qui si sentono pienamente sicuri. Belve e cholera; pantani e febbri che ti portano via un uomo in poche ore: ecco i loro guardiani! Sono stati furbi a ricollocare qui le loro tende. — E dovremo girovagare fra queste jungle per delle settimane forse? Bella prospettiva! — Gli elefanti sono alti e quando sarai accomodato sul loro dorso, l’aria non ti mancherà. — Toh! — Che cosa c’è? — chiese Yanez, levandosi dalla spalla la carabina. I malesi dell’avanguardia si erano arrestati e si erano curvati verso il suolo, ascoltando attentamente. Dinanzi a loro si apriva una specie di sentiero abbastanza largo, per lasciare il passo a tre e anche a quattro uomini di fronte e che pareva fosse stato fatto di recente, poiché le canne che giacevano al suolo, avevano le foglie ancora verdi. Sandokan che scortava Surama e la vedova, li raggiunse. — Un passaggio? — chiese. — Aperto or ora da qualche grosso animale che marcia dinanzi a noi, — rispose uno dei malesi. — Deve essersi levato da soli pochi minuti. Tremal-Naik si spinse innanzi e guardò il terreno su cui si scorgevano delle larghe tracce. — Siamo preceduti da un rinoceronte, — disse. — Ha udito i colpi dei parangs e se n’è andato. Doveva essere in uno dei suoi rari momento di buonumore. Diversamente ci avrebbe caricati all’impazzata. — Dove si dirige? — chiese Sandokan. — Verso il nord-est, — rispose uno dei malesi che portava una piccola bussola. — È la nostra direzione, — disse Tremal-Naik. — Giacché ci apre la via seguiamolo: ci risparmierà della fatica. Tenete però pronte le carabine, da un momento all’altro può tornare sui propri passi e piombarci addosso. — E noi saremo pronti a riceverlo, — concluse Sandokan. — Alla retroguardia le donne e noi in testa. Cominceremo la nostra partita di caccia. Capitolo XII. L’ASSALTO DEL RINOCERONTE Il pericoloso pachiderma doveva aver abbandonato quel luogo, dove forse si era fermato, per ripararsi dagli ardenti raggi del sole che sovente gli screpolano la pelle, da soli pochi minuti. Avvertito della vicinanza di quegli uomini dal rumore che producevano i parangs nel troncare le alte canne, si era allontanato senza far rumore, prima che giungessero fino a lui. Come Tremal-Naik aveva giustamente osservato, l’animalaccio doveva essere in uno dei suoi rari momenti di buonumore, poiché di rado quelle enormi bestie, che personificano se è possibile la forza materiale in tutto ciò che può avere di piú violento, di piú brutale e di piú irragionevole, cedono il campo. Consce della loro forza veramente prodigiosa, della loro estrema agilità, nonostante le forme massicce del corpo e sicure della loro arma che sbudella senza alcuna difficoltà perfino un elefante, non rifiutano quasi mai la lotta. Uomini e animali, tutti assalgono con cieco furore e nessuno può arrestare la loro carica irresistibile quando sono lanciati. Lo spessore della loro pelle d’altronde li protegge anche contro le palle e non hanno che il cervello di vulnerabile, ma bisogna giungervi attraverso l’uno o l’altro occhio e, come ben si capisce, la cosa non è facile. Quantunque l’animale potesse da un istante all’altro tornare sui propri passi, per accertarsi da quali avversari era stato disturbato, Sandokan si era cacciato risolutamente sul sentiero seguito da Yanez e da Tremal-Naik. Quello squarcio, aperto attraverso l’immensa jungla, dal corpaccio del pachiderma e che pareva si prolungasse sempre verso il nord-est, ossia in direzione di Khari, risparmiava ai malesi una fatica durissima e faceva guadagnare tempo. I tre cacciatori che formavano l’avanguardia, s’avanzavano però con precauzione, con un dito sul grilletto delle carabine e si fermavano di frequente ad ascoltare. Non si udiva alcun rumore, segno evidente che il rinoceronte aveva già guadagnato molto e che continuava la sua ritirata. — È ben gentile, — disse Yanez. — Ci fa da battistrada e lascia respirare i nostri uomini. Dovrebbe continuare cosí fino alla porta del tuo bengalow, amico Tremal-Naik. — Anzi entrare nelle scuderie, — rispose il bengalese, ridendo. — Non gli negherei una buona provvista di radici e di tenere foglie. — Il fatto è che mantiene sempre la buona direzione. — Vedremo però fino a quando, — disse Sandokan. — Temo che perda la pazienza nel vedersi inseguito e che tenti un ritorno offensivo. Se cambia d’umore, ce lo vedremo rovinare addosso. Continuarono ad avanzarsi, seguiti a cinquanta passi dai malesi che vegliavano su Surama e sulla vedova, e dopo sette od ottocento metri si avvidero che i bambú cominciavano a diradarsi, mentre piú innanzi si udiva un baccano assordante che pareva prodotto da un gran numero di uccelli acquatici guazzanti in qualche stagno. — Che stiamo per sbucare all’aperto? — chiese Sandokan. — Una boccata d’aria la desidererei ardentemente. — Adagio, — disse Tremal-Naik, — attenti al rinoceronte. — Non si ode ancora nulla. — Può essersi fermato. Yanez, fa’ avanzare tre uomini della scorta. I kampilangs e i parangs hanno buon gioco sui tendini di quei bestioni. Il portoghese aveva appena fatto segno a tre malesi di raggiungerli, quando si trovarono improvvisamente dinanzi ad una radura, nel cui mezzo si allargava uno stagno dalle acque giallastre, ingombre di canne palustri e di foglie di loto. Sulla riva opposta vi erano delle rovine, delle colonne, delle arcate, dei pezzi di muraglie screpolate, gli avanzi probabilmente di qualche antichissima pagoda. Sandokan aveva gettato un rapido sguardo intorno al bacino e subito retrocesse, nascondendosi in mezzo ai bambú. — È là, l’animalaccio, — disse, — mi pare che ci aspetti per caricarci. — Vediamo un po’ quel bruto, — disse Yanez. Si gettò a terra e strisciò fra le canne, finché raggiunse il margine della jungla. Il colosso stava fermo sulla riva dello stagno, colle zampacce semiaffondate nel fango e la testa abbassata in modo da mostrare il suo terribile corno teso orizzontalmente. Era uno dei piú grossi della specie, perché misurava almeno quattro metri di lunghezza, e grosso quasi quanto un ippopotamo. Tutto rinchiuso nella sua grossissima pelle, come entro un’armatura, quasi impenetrabile alle palle dei fucili usati in quell’epoca che non avevano la terribile penetrazione delle armi moderne, e la brutta testa, corta e triangolare, affondata nelle spalle deformi e massicce, pareva che non aspettasse che la comparsa dei cacciatori per scattare e mettere in opera il suo aguzzo corno che aveva una lunghezza d’oltre un metro. — È ben brutto in quella posa, — disse Yanez a Tremal-Naik, che lo aveva raggiunto. — Che non voglia lasciarci il passo libero? — Non se ne andrà cosí presto come speri, — rispose il bengalese. — Sono testardi quegli animali. — Possiamo colpirlo da qui? Con sei palle si dovrebbe abbatterlo. — Ehm! Ne dubito. — Eppure io e Sandokan ne abbiamo ucciso piú d’uno nelle foreste del Borneo. È vero però che quelli non erano cosí enormi. — Quando è fermo è difficile colpirlo mortalmente. — E perché? — Perché allora le pieghe che servono come di cerniere alla sua corazza, sono aderenti le une alle altre ed impediscono alle palle di penetrare ben dentro. Quando è in marcia invece si spostano, lasciando scoperto il tessuto sottostante e allora vi sono maggiori probabilità di toccarlo nella carne viva. — Lasciamo che vada a farsi uccidere altrove e cerchiamo di raggiungere le rovine di quella pagoda. Dietro a quelle colonne ed a quelle pareti, saremo al riparo dalle cariche di quell’animalaccio e potremo fucilarlo con nostro comodo. — Purché non s’accorga della nostra manovra. — Finché non ci mostreremo non si muoverà, lo vedrai, — rispose Tremal-Naik. Tornarono verso Sandokan, il quale stava consigliandosi coi suoi malesi sul da farsi, non volendo esporre le due donne ad una carica del pachiderma. La proposta di Tremal-Naik fu subito approvata. Essendo quella parte della riva cosparsa di macerie e di enormi blocchi di pietra, il rinoceronte non poteva spiegare la sua agilità e la sua violenza. Dopo essersi accertati che il mostro non aveva cambiato posizione, si gettarono in mezzo ai canneti, spostandosi senza far rumore e girarono attorno allo stagno. Già non distavano dalle rovine che un centinaio di passi quando udirono un niff! niff! acuto come lo squillo d’una tromba, poi un galoppo pesante che faceva tremare il suolo. Il pachiderma si era slanciato verso la jungla, là dove supponeva che si nascondessero i suoi avversari. Yanez aveva preso per un braccio Surama, gridando: — Di corsa! Ci piomba alle spalle! Il rinoceronte, guidato da quel comando cosí inopportunamente dato, invece di precipitarsi verso il sentiero da lui poco prima aperto, aveva fatto un brusco volta faccia, scagliandosi là dove scorgeva i bambú oscillare. Pareva un treno lanciato a tutto vapore attraverso alla jungla. Le immense canne, spezzate come se fossero fuscelli di paglia, cadevano dinanzi a lui come falciate, mentre col corno sfondava gli ammassi intricati dei calami. Le due donne e i pirati si erano lanciati a corsa disperata. In pochi minuti raggiunsero la rovina, salvandosi dietro le colonne e gli enormi blocchi di granito. Il rinoceronte sbucava in quel momento fra le canne e caricava colla testa rasente al suolo e il corno teso. Yanez e Sandokan, che si erano rifugiiati su un muricciolo che un tempo doveva essere stato un lembo di cinta, vedendoselo dinanzi, fecero fuoco simultaneamente, quasi a bruciapelo. Il colosso, ferito in qualche piega, s’inalberò come un cavallo che riceve una terribile speronata, poi riprese subito la corsa contro il muricciolo, il quale, già screpolato, non resse a quell’urto poderoso. I mattoni si sfasciarono di colpo ed i due pirati rotolarono in mezzo alle macerie a gambe levate. Tremal-Naik che si trovava su un enorme blocco di pietre assieme a Surama e alla vedova, aveva mandato un urlo di terrore, credendoli perduti, a cui aveva fatto subito eco un muggito terribile. Il rinoceronte era stramazzato al suolo agitando disperatamente le massicce zampe deretane, dai cui tendini recisi sfuggivano flotti di sangue. — È nostro! — aveva gridato una voce. Quasi nel medesimo istante uno dei malesi che teneva in pugno un parang gocciolante di sangue, era balzato fra i rottami, accorrendo in aiuto della Tigre della Malesia e del portoghese. Quel coraggioso, vedendo i suoi capi in pericolo, aveva assalito l’animale per di dietro e colla sua pesante sciabola gli aveva troncati di colpo i tendini delle gambe posteriori, producendogli due ferite che dovevano farlo in breve soccombere. Infatti l’animale era subito caduto mandando un urlo spaventevole, ma tosto si rialzò. Quel momento però era stato bastante a Sandokan, a Yanez e anche al malese per mettersi in salvo su un masso colossale. Per di piú i loro compagni avevano a loro volta fatto fuoco. Il colosso, ferito in piú parti, colle gambe rovinate, girò tre o quattro volte su se stesso come se fosse impazzito, mandando clamori assordanti, poi d’un balzo si precipitò nello stagno, lasciando dietro di sé due strisce di sangue. Cercava nell’acqua un sollievo alle ferite. Per parecchi minuti si dibatté sollevando delle vere ondate rossastre, poi tentò di tornare verso la riva, e le forze lo tradirono. Fu veduto sollevarsi un’ultima volta sulle gambe mutilate, poi cadere fra un gruppo di canne, mandando un urlo rauco. Per alcuni istanti il suo corpaccio fu scosso da sussulti, quindi la massa s’irrigidí, affondando a poco a poco nella melma del fondo. — Ha esalato l’ultimo respiro, — disse Yanez. — Bruto! Va’! — Questi animali sono piú temibili delle tigri, — disse Sandokan, che osservava il corpaccio che affondava sempre. — Ha demolito la muraglia come se fosse stata di cartone. Senza quelle due sciabolate non so come ce la saremmo cavata. — Il tuo malese gli ha dato il colpo dell’elefante, è vero? — chiese Tremal-Naik. — Sí, — rispose Sandokan. — Nei nostri paesi i pachidermi si uccidono recidendo loro i tendini delle gambe posteriori. È un metodo piú sicuro e che offre meno pericoli. — Che peccato perdere il corno! — Ci tieni ad averlo? La massa non affonda piú e la testa emerge. — È un superbo trofeo di caccia. — I nostri uomini s’incaricheranno di andarlo a tagliare. Ci accamperemo qui per un paio d’ore e faremo colazione. Fa troppo caldo per riprendere la marcia. Essendovi presso le rovine della pagoda alcuni tamarindi che proiettavano una fresca ombra, si recarono là sotto a fare colazione. I malesi avevano già levato dalle borse i viveri, consistenti in biscotti e carni conservate e banani che avevano raccolti sulla riva del fiume, prima di lasciare la torre dei naufraghi. Il luogo era pittoresco e l’aria era meno soffocante che nella jungla, quantunque il sole versasse sullo stagno una vera pioggia di fuoco, producendo una evaporizzazione fortissima. Un silenzio profondo regnava nella vicina jungla. Perfino gli uccelli acquatici, quegli eterni chiacehioroni, tacevano e parevano assopiti da quell’intenso calore. Solo un gigantesco arghilah, alto quanto un uomo, colla testa calva e rognosa, traforata da due occhietti rotondi e rossi, ed un becco enorme appuntato ad imbuto, passeggiava gravemente sulla riva dello stagno, agitando di quando in quando le sue ali bianche fasciate di nero. Yanez, Sandokan e Tremal-Naik, terminata la colazione, si erano spinti verso la pagoda osservando con viva curiosità le colonne e le muraglie che portavano numerose iscrizioni in sanscrito e che reggevano ancora delle statue semi-spezzate, raffiguranti elefanti, testuggini e animali fantastici. — Che un tempo appartenesse ai Thugs? — chiese Yanez che aveva osservato sulla cima d’una colonna una figura che bene o male rassomigliava alla dea Kalí. — No, — rispose Tremal-Naik. — Doveva essere dedicata a Visnú; vedo su tutte le colonne la figura d’un nano. — Era un nano quel dio? — Lo divenne nella sua quinta incarnazione, per reprimere l’orgoglio del gigante Bely che aveva vinto e cacciato gli dei dal sorgon, ossia dal paradiso. — Un dio famoso il vostro Visnú. — Il piú venerato dopo Brahma. — E come ha fatto un nano a vincere un gigante? — chiese Sandokan, ridendo. — Coll’astuzia. Visnú s’era prefisso di purgare il mondo da tutti gli esseri malvagi e orgogliosi che tormentavano l’umanità. Dopo d’averne vinti moltissimi, pensò di domare anche Bely che spadroneggiava in cielo e in terra e gli si presentò sotto le forme d’un nano bramino. — Il gigante in quel momento stava facendo un sacrificio. Visnú gli si rivolse per chiedergli tre passi di terreno onde potersi fabbricare una capanna. Bely, padrone del mondo intero, rise dell’apparente imbecillità del nano e gli rispose che egli non doveva limitare la domanda a sí lieve cosa. Visnú però insistette nella sua richiesta, dicendo che per un essere cosí piccolo tre passi di terreno erano sufficienti. Il gigante glieli accordò e per assicurarlo del dono, gli versò sulle mani dell’acqua. Ma ecco che Visnú acquista subito una grandezza cosí prodigiosa da riempire col suo corpo l’universo intero: misurò la terra con un solo passo, il cielo con un altro e pel terzo intimò al gigante di mantenere la promessa fattargli di donargli ciò che aveva misurato. Il gigante riconobbe subito Visnú e gli presentò la propria testa, ma il dio, soddisfatto di una tale sommissione lo mandò a governare il Pandalon e gli permise di tornare tutti gli anni sulla terra nel giorno della luna piena di novembre. — Chissà allora quali eroiche imprese avrà compiuto durante le sue altre incarnazioni, — disse Yanez. — Erano ben bravi gli dei indiani in quelle lontane epoche. Si trasformavano a piacere loro, in giganti e in nani. — E anche in animali, — disse Tremal-Naik. — Infatti nella sua prima incarnazione, secondo i nostri libri sacri, si tramutò in un pesce per salvare dal diluvio il re di Sattiaviradem e sua moglie... — Ah! Anche voi ricordate il diluvio. — I nostri libri sacri ne parlano. Nella seconda incarnazione, in una testuggine per riportare a galla dal mar di latte la montagna Mandraguiti onde trarne l’amurdon ossia il liquore dell’immortalità; nella terza, in un cinghiale per squarciare il ventre al gigante Ereniacsciassen che si divertiva a sconquassare il mondo; nella quarta, in un animale mezzo uomo e mezzo leone per abbattere e bere il sangue del gigante Ereniano; nella quinta, sesta, settima, ottava e nona è sempre uomo. — Quindi si è tramutato nove volte quel bravo dio, — disse Sandokan. — Ma nella decima incarnazione, che avverrà alla fine dell’epoca presente, apparirà sotto le forme d’un cavallo con una sciabola in una zampa e uno scudo nell’altra. — E che cosa verrà a fare? — chiese Yanez. — I nostri sacerdoti dicono che scenderà sulla terra a distruggere tutti i malvagi. Allora il sole e la luna si oscureranno, il mondo tremerà, le stelle cadranno, ed il gran serpente Adissescien che ora dorme nel mar di latte, vomiterà tanto fuoco da abbruciare tutti i mondi e tutte le creature che li abitano. — Speriamo di non essere piú vivi, — disse Yanez. — Ci credi tu, alla discesa di quel terribile cavallo? — chiese Sandokan, con accento scherzevole al bengalese. Tremal-Naik sorrise senza rispondere e si diresse verso lo stagno, dove i malesi stavano spaccando il muso del rinoceronte per levarne il corno. Dopo non pochi colpi di parangs erano riusciti a tagliarlo. Misurava un metro e venti e terminava in una punta quasi aguzza, dovuta al continuo sfregamento, servendosene i rinoceronti non solo come arma difensiva, bensí anche per scavare la terra onde mettere allo scoperto certe radici di cui sono ghiotti e che costituiscono il loro principale nutrimento. Quei corni non sono formati veramente da una sostanza ossea come quelli delle renne, delle alci e dei cervi, bensí da fibre aderenti le une alle altre o meglio, da peli agglutinati da materia cornea, suscettibile però a ricevere una bella pulitura e cosí resistenti da sfidare l’avorio. Alle quattro pomeridiane, cessato un po’ il calore, il drappello lasciava lo stagno e rientrava nella jungla, riprendendo la lotta contro i bambú ed i calami. Non ebbe però che una breve durata perché qualche ora dopo giungeva finalmente sul sentiero che da Khari va fino alla riva del Gange. La marcia fu spinta allora con tale rapidità, che poco dopo il tramonto Tremal-Naik giungeva dinanzi al cancello del suo bengalow. Capitolo XIII. LA MANGIATRICE D’UOMINI Khari è uno dei pochi villaggi che ancora sussistono fra le jungle delle Sunderbunds, resistendo tenacemente alle insidie del cholera e delle febbri maligne e alle visite delle tigri e delle pantere, solo per la ricchezza e prodigiosa fertilità delle risaie, le quali producono in abbondanza il benafuli, quel riso finissimo, lunghissimo, molto bianco e che cuocendo spande un odore graditissimo, assai apprezzato dai bengalesi. Non è altro che un’accozzaglia di capanne, colle pareti di fango secco e i tetti coperti di foglie di coccotiero, con tre o quattro bengalow di meschina apparenza che non sono quasi mai abitati dai loro proprietari, troppo paurosi delle febbri. Anche quello di Tremal-Naik non aveva la bella apparenza dei bengalow di Calcutta. Era una vecchia abitazione ad un solo piano, col tetto a punta ed una veranda all’intorno, fatta costruire dal capitano Corishant durante l’aspra guerra mossa ai Thugs di Suyodhana, onde essere piú vicino alle Sunderbunds. Nel recinto, due mostruosi elefanti, guardati dai loro cornac, consumavano la loro razione della sera, interrompendosi di quando in quando per lanciare dei barriti che facevano tremare le vecchie muraglie dell’abitazione. Erano di specie diversa, essendovi due razze ben distinte in India: i coomareah che hanno il corpo piú massiccio, le gambe corte e la tromba larga ma che posseggono una forza muscolare straordinaria; i merghee piú alti invece, piú svelti, colla tromba meno grossa e le gambe meno massicce, e che hanno il passo piú rapido. Sebbene siano inferiori ai primi come robustezza, nondimeno sono i piú apprezzati per la loro velocità. — Che superbi animali! — esclamarono ad una voce Yanez e Sandokan che si erano fermati nel cortile, mentre i due pachidermi, ad un grido dei loro conduttori, salutavano i nuovi venuti, tenendo le trombe in alto. — Sí, bellissimi e robusti, — disse Tremal-Naik che li osservava da conoscitore profondo. — Daranno da fare alle tigri delle Sunderbunds. — Partiremo domani sul dorso di questi giganti? — chiese Yanez. — Sí, se lo desiderate, — rispose il bengalese. — Tutto deve essere pronto per cominciare la caccia. — Vi staremo tutti nelle haudah? — Noi con Surama ne occuperemo una; i malesi l’altra. Darma e Punthy ci seguiranno a piedi. — Darma! — esclamarono Yanez e Sandokan. — È qui la tua tigre? Tremal-Naik invece di rispondere mandò un fischio prolungato. Tosto dalla varanda balzò nel cortile, colla leggerezza d’un gatto, una bellissima tigre reale la quale andò a fregare il suo muso sulle gambe del bengalese. Yanez e Sandokan, quantunque avessero piú volte udito a parlare della docilità di quella belva, si erano tirati precipitosamente indietro, mentre i loro uomini si salvarono dietro gli elefanti, snudando i loro parangs ed i kampilangs. Nel medesimo istante un cane tutto nero, alto quanto una jena, che portava un collare di ferro irto di punte aguzze, uscí correndo da una delle tettoie e si mise a saltare intorno al padrone, abbaiando festosamente. — Ecco i miei amici della jungla nera, — disse Tremal-Naik, accarezzando l’uno e l’altro, — e che diverranno pure anche amici vostri. Non temere Sandokan e nemmeno tu, Yanez. Saluta i prodi di Mompracem, Darma; sono tigri anche loro. La belva guardò il padrone che le additava Yanez e Sandokan, poi si accostò ai due pirati ondeggiando mollemente la sua lunga coda. Girò due o tre volte attorno a loro fiutandoli a piú riprese, poi si lasciò accarezzare, manifestando la sua soddisfazione con un rom-rom prolungato. — È superba, — disse Sandokan. — Non ricordo di averne veduta una di cosí belle e di cosí sviluppate. — E soprattutto affezionata, — rispose Tremal-Naik. — Mi obbedisce come Punthy. — Hai due guardie che terranno lontani i Thugs. — Le conoscono e sanno quanto valgono. Hanno provato nei sotterranei di Rajmangal le unghie dell’una ed i denti d’acciaio del secondo. — Vanno d’accordo fra loro due? — chiese Yanez. — Perfettamente, anzi dormono sempre insieme, — rispose Tremal-Naik. — Orsú, andiamo a cenare. I miei servi hanno preparata la tavola. Li introdusse in un salotto pianterreno, molto modestamente ammobiliato con sedie di bambú e qualche scaffale di acajú ma fornito della punka, ossia d’una tavola coperta di stoffa leggera, attaccata al soffitto e che un ragazzo fa girare per rimuovere l’aria e mantenere una continua ventilazione. Tremal-Naik che aveva già da tempo adottati i consumi inglesi, aveva fatto preparare carne, legumi, birra e frutta. Mangiarono lestamente, poi ognuno raggiunse la propria stanza dopo d’aver ordinato ai cornac di tenersi pronti per le quattro del mattino. Fu Punthy infatti che diede la sveglia il giorno dopo coi suoi latrati assordanti. Vuotate alcune tazze di thè, Sandokan e Yanez scesero nel cortile portando le proprie carabine. Tremal-Naik vi era già colla giovane bajadera che doveva accompagnarli ed i sei malesi. I due giganteschi elefanti erano già bardati e non aspettavano che il segnale dei loro conduttori per partire. — In caccia, — disse allegramente Sandokan, arrampicandosi sulla scala di corda e raggiungendo l’haudah. — Prima di questa sera conto di avere la pelle di qualche belva. — Forse prima, — disse Tremal-Naik che era pure salito, seguito da Yanez e dalla bajadera. — Un uomo del villaggio si è offerto di condurci in un luogo dove da tre settimane si nasconde una admikanevalla. — Che cosa sarebbe! — Una tigre che preferisce la carne umana a quella degli altri animali. Ha già sorprese e divorate due donne del villaggio e l’altro giorno ha tentato il colpo contro un contadino il quale, per una fortuna, poté cavarsela con poche graffiature. È lui che ci guiderà. — Avremo allora da fare con una tigre astuta, — disse Yanez. — Che non si lascierà facilmente scovare, — rispose Tremal-Naik. — Le admikanevalla sono ordinariamente tigri vecchie, che non possedendo piú l’agilità per cacciare gli agili nilgò e per affrontare i bufali della jungla, se la prendono colle donne e coi fanciulli. Giuocherà d’astuzia e tenterà tutti i mezzi per evitare la lotta, sapendo bene che non avrà nulla da guadagnare. Punthy saprà però trovarla. — E Darma come si comporta verso le compagne? — Si limita a guardarle, ma non l’ho mai veduta a prendere parte alla lotta. Non ama la compagnia delle tigri libere, come se non appartenesse piú alla loro razza. Ecco la guida che giunge davanti agli elefanti. Un povero molango, nero quasi quanto un africano, piccolo e bruttissimo, che tremava per la febbre, coperto d’un semplice languti e armato d’una picca, era comparso presso al cancello. — Sali dietro di noi, — gli gridò Tremal-Naik. L’indiano, agile come una scimmia, s’arrampicò su per la scala e si appollaiò sull’enorme dorso dell’elefante. I cornac, che si tenevano a cavalcioni, colle gambe nascoste dietro le immense orecchie dei pachidermi, impugnarono le loro corte picche coll’uncino aguzzo e ricurvo e mandarono un grido. I due colossi vi risposero con un barrito assordante e si misero in marcia, preceduti da Punthy e seguiti da Darma, la quale non pareva amare troppo la vicinanza dei due bestioni. Attraversato il villaggio che era ancora deserto, dopo un quarto d’ora, gli elefanti raggiungevano il margine delle jungle tuffandosi fra le canne e le erbe gigantesche. Avevano preso un buon passo e non esitavano mai sulla direzione. Bastava una leggera pressione dei piedi dei cornac ed un semplice sibilo per piegare a destra ed a sinistra. S’avanzavano però con una certa precauzione, scartando colla tromba le altissime canne e tastando il terreno umido e fangoso che poteva celare qualche fondo pericoloso entro cui potevano sprofondare. La jungla si estendeva a perdita d’occhio, monotona e triste, appena rallegrata da qualche gruppo di palmizi tara, da qualche latania o da qualche gruppetto di maestosi cocchi che stendevano le loro lunghe foglie di un bel verde brillante o da qualcuno di quegli immensi alberi, che da soli formano una piccola foresta, sostenuti sovente da parecchie centinaia di tronchi e chiamansi fichi delle pagode o banian. Un profondo silenzio regnava su quel mare di vegetali, dormendo ancora i trampolieri delle lunghe zampe che abitano a migliaia e migliaia quelle terre umide. Non si udiva che il leggero stormire delle cime dei bambú giganti ed il rauco e poderoso respiro dei due colossi. Non essendo ancora sorto il sole, una nebbia pesante e giallastra, carica di esalazioni pestifere derivanti dall’imputridire di miriadi di vegetali, ondeggiava ancora sull’immensa pianura, nebbia pericolosa perché celava nel suo seno la febbre ed il cholera, gli ospiti abituali delle jungle gangetiche. Il calore, che doveva diventare intenso piú tardi, non doveva tardare ad assorbirla per lasciarla ricadere dopo il tramonto. — Ecco una nebbia che mette indosso il cattivo umore, — disse Yanez che fumava come una vaporiera e che di quando in quando si bagnava le labbra con una sorsata di vecchio cognac. — Deve fare effetto anche sulle tigri. — Può darsi, — rispose Tremal-Naik — perché quelle che abitano le Sunderbunds godono fama di essere piú sanguinarie delle altre. — Devono fare dei grandi vuoti fra i poveri molanghi. — Ogni anno un bel numero di quei disgraziati finisce sotto i denti delle «signore bâg», come le chiamano qui. Si calcola che quattromila indiani scompariscono per opera di quei terribili carnivori ed i tre quarti spettano alle abitatrici delle Sunderbunds. — Ogni anno? — Sí, Yanez. — Ed i molanghi si lasciano divorare pacificamente? — Che cosa vuoi che facciano? — Che le distruggano. — Per affrontare quelle belve ci vuole del coraggio ed i molanghi non ne hanno abbastanza. — Non osano cacciarle? — Preferiscono abbandonare i loro villaggi quando una mangiatrice d’uomini comincia a diventare troppo golosa. — Non sanno preparare delle trappole? — Scavano qua e là, nei luoghi frequentati da quelle belve, delle buche profonde, munite di pali aguzzi e coperte da sottili bambú dissimulati sotto un leggero strato di terra e di erbe, ma di rado riescono a prenderle. Sono troppo astute e poi sono cosí agili che anche cadendo entro la fossa, ottanta volte su cento riescono ancora a uscirne. Ne usano anche altre con maggior profitto, servendosi d’un giovane albero, forte e flessibile, che piegano ad arco legando la cima ad un palo piantato nel suolo. Alla corda uniscono l’esca la quale consiste ordinariamente in un capretto od in un porcellino, disposta in modo che la tigre non possa toccarla senza introdurre prima la testa od una zampa entro un nodo scorsoio. — Che viene stretto dallo scattare dell’albero. — Sí, Yanez, e la tigre rimane prigioniera. — Preferisco ucciderle colla mia carabina. — E anche gli ufficiali inglesi sono del tuo parere. — Vengono qui qualche volta a scovarle? — chiese Sandokan. — Fanno di quando in quando delle battute con ottimi risultati, perché devo confessare che gli ufficiali inglesi sono bravi e coraggiosi cacciatori. Ricordo la caccia organizzata dal capitano Lenox, a cui presi parte anch’io, con molti elefanti ed un vero esercito di scikary ossia di battitori e un centinaio di cani. Anzi per un pelo non vi lasciai la pelle. — In bocca ad una tigre? — E per colpa del mio portatore d’armi che fuggí col mio fucile di ricambio, proprio nel momento in cui ne avevo bisogno, essendomi trovato di fronte a tre tigri d’un colpo solo. — Narra un po’ come te la sei cavata, — disse Sandokan che pareva s’interessasse straordinariamente. — Come vi ho detto, la spedizione era stata organizzata in grande, per dare una dura lezione alle tigri che da molti mesi facevano delle vere stragi fra gli abitanti delle Sunderbunds. Spinte dalla fame o da altri motivi, avevano abbandonate le isole pantanose e pestilenziali del golfo del Bengala, facendo delle audacissime scorrerie fino entro i villaggi dei molanghi, dove osavan mostrarsi anche in pieno giorno. In soli quindici giorni avevano divorato piú di sessanta molanghi, quattro cipayes ed il loro sergente, sorpresi sulla via di Sonapore ed i piloti di Diamond-Harbour sbranati assieme alle loro mogli. Avevano spinta la loro audacia, da mostrarsi perfino nelle vicinanze di Port-Canning e di Ranagal. — Si vede che erano stanche di starsene nelle Sunderbunds e che volevano cambiare paese, — disse Yanez. — Le prime battute diedero buoni risultati, — proseguí Tremal-Naik. — Di giorno gli ufficiali inglesi le scovavano cogli elefanti; di notte le aspettavano presso le fonti, nascosti nelle buche e le fucilavano benissimo. In tre soli giorni quattordici erano cadute sotto il piombo e tre altre erano finite sotto le zampacce degli elefanti. Una sera, poco prima del tramonto, giunsero al campo due poveri molanghi per avvertirci d’aver veduto una tigre aggirarsi presso le rovine d’una pagoda. Tutti gli ufficiali, compreso il capitano Lenox, erano già partiti per raggiungere le fosse d’agguato che avevano fatto scavare durante il giorno. Al campo non ero rimasto che io coi sikary, essendo stato trattenuto da un attacco di febbre. Quantunque le mie braccia non fossero ferme, in causa dei brividi che non mi lasciavano in pace, decisi di recarmi alla pagoda, conducendo con me il mio portatore d’armi, un giovane sikaro su cui, fino allora, avevo avuto gran fiducia avendomi dato prove di coraggio e di sangue freddo. Vi giunsi un’ora dopo il tramonto e m’imboscai fra un gruppo di mindi a breve distanza da un piccolo stagno, sulle cui rive avevo notato numerose tracce d’animali. Era probabile che la tigre presto o tardi comparisse, amando nascondersi presso gli abbeveratoi per sorprendere i cinghiali o le antilopi che vanno a dissetarsi. Mi trovavo colà da due ore e cominciavo a perdere la pazienza, quando vidi avanzarsi sospettoso e guardingo un nilgò, una specie di cervo che ha il capo armato di due corna aguzze, lunghe un buon piede. La preda valeva un colpo di fucile e dimenticando la tigre, gli feci fuoco addosso. L’animale cadde, ma prima che lo avessi raggiunto si rialzò fuggendo verso la jungla. Zoppicava, sicché, convinto di averlo gravemente ferito, mi slanciai dietro di lui ricaricando la carabina. Il mio portatore d’armi, che aveva un grosso rifle di ricambio, mi aveva seguito. Stavo per superare un macchione di kalam quando ad un tratto udii fra le alte erbe dei mugolii poco rassicuranti che m’arrestarono di colpo, titubante fra l’andare innanzi ed il fuggire. Quasi nell’istesso momento udii il mio portatore d’armi a gridare: «Bada sahib! La bâg è là dentro». «Ebbene» gli risposi, «sta’ presso di me e noi avremo le costolette del nilgò e la pelle della tigre.» Avevo preso rapidamente il mio partito. Mi cacciai fra i kalam tenendo la carabina imbracciata e dopo pochi passi mi trovai di fronte... a tre tigri! — Mi fai venire freddo, — disse Yanez. — Deve essere stato un terribile momento quello! — Tira innanzi, Tremal-Naik, — disse Sandokan. — L’avventura m’interessa. — Quelle maledette belve avevano finito il povero nilgò e stavano mangiandoselo. Vedendomi, si erano raccolte su se stesse, pronte a scagliarsi su di me. Senza pensare al tremendo pericolo a cui mi esponevo, feci fuoco sulla piú vicina, fracassandole la spina dorsale, poi mi gettai rapidamente indietro per evitare l’assalto delle altre due. «Il mio rifle», gridai al mio sikaro, tendendo la mano senza voltarmi. Nessuno mi rispose. Il mio portatore d’armi non si trovava, come di solito, dietro di me. Spaventato dall’improvvisa comparsa delle tre tigri, era fuggito portando con sé la grossa carabina, sulla quale molto contavo, senza che quel briccone pensasse che mi lasciava disarmato di fronte a quei terribili mangiatori d’uomini! Non sarebbe necessario che vi dicessi che cosa provai in quel momento: mi sentii bagnare la fronte d’un freddo sudore e mi parve che lo spettro della morte mi si rizzasse dinanzi.. — E le due tigri? — chiesero ansiosamente Yanez, Sandokan e la bajadera. — Si tenevano ritte, a venti passi da me, fissandomi colle pupille dilatate, senza osare muoversi. Passò cosí un minuto, lungo come un secolo, poi mi venne una ispirazione che mi salvò la vita. Puntai risolutamente la carabina, che come vi dissi era ormai scarica, e feci scattare il grilletto. Voi non lo credereste, eppure le due feroci belve, udendo quel lieve rumore, mi volsero le spalle e con un salto immenso scomparvero tra i bambú della jungla. — Ciò si chiama aver fortuna, — disse Sandokan, — e possedere una bella dose di sangue freddo. — Sí, — rispose Tremal-Naik ridendo, — però all’indomani ero a letto con quaranta gradi di febbre. — Ma la pelle ancora indosso, — disse Yanez, — e la propria pelle vale bene un febbrone, lo credi? — Ne sono profondamente convinto. Mentre ascoltavano i particolari di quella caccia emozionante, i due elefanti avevano continuato a inoltrarsi nella jungla, aprendosi il passo fra i bambú immensi che raggiungevano talora i quindici e anche i diciotto metri, e fra le dure erbe chiamate kalam, pure altissime. Il mondo alato si era risvegliato e folleggiava in mezzo alle piante, senza darsi troppo pensiero per la presenza dei due colossi e degli uomini che li montavano. Bande di corvi, di nibbi, di cicogne dal lungo becco, di pavoni dalle superbe penne scintillanti al sole, di tortorelle candidissime e di bozzagri, s’alzavano quasi sotto i piedi degli elefanti, volteggiavano qualche momento sopra le haudah, poi tornavano a calare fra gli alti vegetali. Di quando in quando anche qualche gigantesco arghilah, disturbato nel suo sonno, balzava fuori spiegando le sue immense ali e mostrando la sua orribile testa di uccello decrepito, protestando con alte strida, poi si lasciava ripiombare pesantemente al suolo, piantandosi sulle lunghissime zampe. Il terreno a poco a poco diventava pantanoso rendendo la marcia dei colossi piú faticosa. L’acqua trapelava dappertutto, essendo quelle terre che formano il delta del Gange formate solo da banchi di melma appena prosciugati. Ma erano quelli i terreni buoni, i veri terreni abitati dalle tigri, le quali, a differenza dei gatti, amano i luoghi umidi e la vicinanza dei fiumi. Ed infatti i due elefanti marciavano da appena una mezz’ora attraverso a quei pantani, quando si udí il molango a dire: — Sahib, è qui che bazzica la bâg. Sta’ attento: non deve essere lontana. — Amici, armate le carabine e preparate le picche, — disse Tremal-Naik. — Punthy è già sulla pista della vecchia briccona. Lo udite? Il grosso cane aveva mandato un lungo latrato. Aveva ormai fiutata la mangiatrice d’uomini. Capitolo XIV. LA PRIMA TIGRE I due elefanti, ad un comando dei loro cornac, avevan rallentata la marcia. Dovevano essersi accorti anche essi della vicinanza della pericolosa belva, perché erano improvvisamente diventati estremamente prudenti, specialmente il coomareah che era montato da Sandokan e dai suoi compagni e che s’avanzava pel primo. Essendo meno alto dell’altro, poteva venire sorpreso prima di scorgere la bâg, perciò appena scartate le canne che gl’impedivano la vista, si affrettava a ritirare la proboscide arrotolandola fra le enormi zanne. Quantunque gli elefanti abbiano la pelle grossissima, sono di una sensibilità estrema. Specialmente la tromba è delicatissima, si può quindi immaginare come ci tengano a non abbandonarla fra le unghie di quelle formidabili fiere. Sandokan ed i suoi compagni, in piedi, colle carabine in mano, cercavano di scoprire la bâg, senza però riuscire a vederla. I vegetali erano d’altronde cosí folti in quel luogo, che non era cosa facile scrutarvi dentro. Doveva però essere passata da poco di là. Quell’odore caratteristico, quella puzza di selvatico che si lasciano indietro si sentiva ancora. Disturbata dal latrato di Punthy, doveva essersi allontanata sollecitamente. — Dove si sarà rintanata? — chiese Sandokan, che tormentava il grilletto della carabina. — Che non voglia mostrarsi? — Avrà compreso che non vi è nulla da guadagnare ad impegnare la lotta, e la furba cerca di filare verso il suo covo. — Che ci sfugga? — Se Punthy è sulle sue tracce non la lascerà. — E Darma? — chiese Yanez. — Non la vedo piú. — Ci segue, non temere, ma a distanza. Non ama gli elefanti; fra le due razze vi è un vecchio odio. — Zitto, — disse Sandokam. — Punthy l’ha scoperta! Dei latrati furiosi partivano da una macchia di bambú spinosi. — È alle prese colla tigre? — gridò Yanez. — Non si esporrà il mio bravo cane, — rispose Tremal-Naik. — Sa che malgrado la sua forza e la sua robustezza, non è in grado di competere colle unghie d’acciaio delle bâg. In quel momento il molango che stava in piedi dietro l’haudah, tenendosi aggrappato al bordo della cassa, disse a Tremal-Naik: — Sahib: viene. — L’hai veduta? — Sí: si nasconde laggiú fra i kalam. Non vedi le erbe muoversi? La bâg striscia con precauzione e cerca di sottrarsi alle ricerche del tuo cane. — Cornac! — gridò il bengalese. — Spingi innanzi l’elefante: noi siamo pronti ad aprire il fuoco. Ad un fischio del conduttore il coomareah allungò il passo dirigendosi verso le alte erbe in mezzo a cui echeggiavano ad intervalli i latrati di Punthy. Il merghee che portava i sei malesi l’aveva seguito. L’odore di selvatico lasciato dalla belva non si sentiva piú. Tuttavia il coomareah, non nuovo a quelle pericolose cacce, pareva che avesse fiutata la vicinanza della terribile nemica. Il colosso cominciava a dare segni di viva inquietudine: soffiava rumorosamente, scuoteva l’enorme testa e di quando in quando veniva assalito da un forte brivido che si trasmetteva perfino all’haudah. Non ostante la loro forza immensa e l’eccezionale vigore della loro tromba, che sradica d’un sol colpo anche un grosso albero, è un fatto ormai constatato che quei colossi hanno una vera paura delle tigri, tale anzi che certe volte si rifiutano perfino di avanzare e che rimangono sordi alle carezze dei loro affezionati cornac. Il coomareah che portava i tre capi era un animale coraggioso che da molti anni aveva fatto le sue prime armi, come aveva assicurato il suo conduttore, e che molte tigri aveva schiacciate sotto i propri piedi o scagliate a sfracellarsi contro gli alberi, pure in quel momento, come abbiamo detto, provava delle esitazioni. Anche il suo compagno che lo seguiva a breve distanza, di tratto in tratto titubava ed era necessario talvolta per deciderlo un buon colpo d’arpione. Ad un tratto si udí il molango che era passato dinanzi all’haudah e che s’appoggiava al cornac, a gridare. — Attenzione! Poi due forme giallastre, striate di nero, eransi slanciate al sopra delle alte erbe, a meno di cinquanta passi, per ricadere subito. Erano due enormi tigri che prima d’impegnare la lotta o di battere in ritirata, avevano spiccato un salto in aria per accertarsi delle forze dei loro nemici. — Sono due! — aveva esclamato Tremal-Naik. — La mangiatrice di uomini ha trovata una compagna. Sangue freddo, amici miei, e non fate fuoco che a colpo sicuro. Pare che siano decise a darci battaglia. — Cosí la caccia riuscirà piú interessante, — rispose Sandokan. Yanez guardò Surama: la giovane bajadera era diventata pallidissima, tuttavia conservava ancora una calma ammirabile. — Hai paura? — le chiese. — Accanto al sahib bianco, no, — rispose la fanciulla. — Non temere, siamo uomini vecchi alle grandi cacce e conosciamo le tigri. Le due belve erano tornate a imboscarsi fra le canne e i kalam e pareva che avessero preso, almeno pel momento, il partito di allontanarsi, perché si udivano i latrati di Punthy echeggiare piú fiochi. — Spingi l’elefante, — gridò Tremal-Naik, al cornac. Il coomareah pareva che avesse ripreso coraggio, perché raddoppiò subito il passo. Non si sentiva però interamente sicuro, a giudicarlo dal tremito e dai formidabili barriti che lanciava di quando in quando. Tremal-Naik ed i suoi compagni, curvi sui bordi della cassa, coi fucili montati, osservavano attentamente le alte erbe cercando di scoprire le due belve che si ostinavano a non mostrarsi. Ad un tratto si udirono i latrati di Punthy a echeggiare a pochi passi dall’elefante un po’ a destra. Il molango aveva mandato un grido. — Attenti, sahib! Le bâg stanno per venire. Hanno girato intorno a noi! Nel medesimo istante il coomareah s’arrestò rotolando rapidamente la proboscide che mise in salvo fra le lunghe zanne. Si piantò solidamente sulle robuste zampaccie, inclinando un po’ il capo indietro e mandò una nota formidabile che sembrava un avvertimento per i cacciatori. Passarono alcuni secondi, poi si videro i kalam aprirsi violentemente come sotto una spinta irresistibile ed una tigre enorme, con un salto immenso si scagliò contro l’elefante piombandogli sulla fronte e tentando, con un poderoso colpo d’artiglio, di sventrare il cornac che si era gettato prontamente indietro. Sandokan che era il piú vicino, pronto come il lampo le scaricò la carabina, fracassandole una zampa. Malgrado quella ferita, la terribile belva non cadde. Con un volteggio sfuggí al fuoco di Yanez e di Tremal-Naik, si raccolse un momento su se stessa, poi con un balzo enorme passò sopra la testa dei cacciatori senza toccarli e cadde dietro l’elefante mandando un prolungato hoo-hug! I malesi che montavano il merghee, vedendola piombare fra le erbe, avevano scaricate le loro carabine, col pericolo di ferire le zampe deretane del coomareah, ma la bâg ormai era scomparsa fra i bambú. Per alcuni istanti si videro le alte cime delle canne ad agitarsi, poi piú nulla. — È fuggita! — gridò Sandokan, ricaricando precipitosamente il fucile. — Io dico invece che si prepara ad un nuovo assalto, — disse Tremal-Naik. — Sono certo che si avvicina strisciando. — Che slancio ha quella bestia! — esclamò Yanez. — Credevo che piombasse sulle nostre teste e mi pareva sentirmi già gli artigli penetrare nel cervello. — Cerchiamo di non fallirla, — disse Tremal-Naik. — Non si tira troppo bene sul dorso d’un elefante, — rispose Sandokan. — Non so come sia riuscito a colpirla colle scosse che subiva l’haudah. — Il coomareah aveva la tremarella, — disse Yanez. — D’altronde nemmeno io ero perfettamente calmo. Si può essere coraggiosi ed avere anche una buona dose di sangue freddo, eppure la calma se ne va dinanzi a quelle belve. — Sfido io! Si tratta di non lasciare la pelle fra quelle unghie, — rispose Sandokan. — Badate, sahib! — gridò il molango. — Il coomareah la sente. Infatti l’elefante cominciava a dare nuovi segni d’inquietudine. Sbuffava e tornava a tremare. Ad un tratto girò rapidamente su se stesso e tornò a piantarsi solidamente, colla testa bassa e la tromba strettamente arrotolata fra i denti. Non erano trascorsi dieci secondi che Sandokan ed i suoi compagni distinsero la tigre. Scivolava, strisciando quasi sul ventre, fra le canne, cercando di accostarsi all’elefante di sorpresa, colla speranza forse di piombare d’improvviso sui cacciatori. — La vedi? — chiese Tremal-Naik a Sandokan. — Sí. — Anche tu, Yanez? — Sto prendendola di mira, — rispose il portoghese. In quell’istante parecchi colpi di carabina rimbombarono sull’haudah del secondo elefante. I malesi facevano fuoco, ma in altra direzione. — È l’altra tigre che assale il merghee! — gridò Tremal-Naik. Non perdete di vista la nostra; lasciate a loro la cura di sbrigarsela. Eccola! La tigre che li minacciava era comparsa su un piccolo spazio quasi sgombro di canne. Si fermò un momento sferzandosi colla coda, poi con uno slancio fulmineo ripiombò fra le canne per ricomparire poco dopo a pochi passi dal coomareah. Il cornac aveva mandato un grido: — Va’, figlio mio! L’elefante si slanciò innanzi colla testa abbassata, le zanne tese, pronto a piantarle nel corpo della belva, ma questa con un altro volteggio si sottrasse al pericolo e ritentò l’assalto di prima che per poco non era riuscito fatale al cornac. Mandò una nota breve, gutturale e stridente, poi piombò nuovamente sulla fronte del pachiderma, ma male servita dalla sua zampa fracassata dalla palla di Sandokan, ricadde quasi subito al suolo. Il coomareah fu lesto a metterle un piede sulla coda poi le piantò nel petto una delle sue zanne e la sollevò. Il felino, furioso, mandava urla terribili e s’agitava disperatamente, tentando di dilaniare la testa del colosso. Sandokan e Yanez avevano puntate le carabine quantunque gli scrolli che subiva l’haudah rendessero il tiro molto problematico. Il cornac che li aveva veduti, fece loro segno di abbassare le armi, dicendo poi: — Lasciate fare al coomareah. L’elefante aveva sciolta la formidabile proboscide, che arrotolò attorno al corpo della tigre stringendole le zampe per impedirle di servirsi delle terribili unghie. La staccò dalla zanna, con una stretta irresistibile le fracassò le costole, la sollevò in aria facendola ondeggiare per qualche istante, poi la scaraventò al suolo con tale violenza da tramortirla. Prima che la belva avesse il tempo di riaversi, il coomareah le aveva posata sul corpo una delle sue mostruose zampe. Si udí un crac, poi un barrito formidabile che risuonò come una tromba di guerra. Era il barrito che annunciava la vittoria. — Bravo elefante! — gridò Sandokan. — Questo si chiama un bel colpo! — Scendiamo! — gridò Yanez. — Guai a chi si muove — comandò Tremal-Naik. — Ecco l’altra che giunge! Attenzione!- Infatti la seconda tigre, che era riuscita a sfuggire al fuoco dei malesi, balzava attraverso le canne con agilità straordinaria, spiccando salti di cinque o sei metri. Accorreva in aiuto del compagno, o meglio della compagna, perché a giudicarlo dalla sua grossezza doveva essere un maschio. Fortunatamente pei cacciatori giungeva troppo tardi. Vedendo il coomareah occupato a calpestare e ridurre in poltiglia la compagna, il tigre gli si avventò addosso assalendolo sul fianco destro. S’aggrappò alla gualdrappa e apparve minacciosa sotto l’haudah, a tre passi dal povero molango. — Fuoco! — aveva gridato precipitosamente Tremal-Naik. Tre colpi di fucile partirono nell’istesso momento, seguiti da un quarto sparato da Surama. La bâg si era lasciata cadere, insanguinando la gualdrappa del coomareah. La videro strisciare fra le erbe, poi coricarsi ed allungarsi, come se cercasse di nascondere ai suoi nemici le ferite ricevute. Sandokan e Tremal-Naik che avevano ricaricate le carabine le fecero fuoco addosso, guastandole piú o meno la magnifica pelle. La tigre rispose con un terribile hoo-hug! Si alzò penosamente e si mise a indietreggiare, mostrando i denti e ringhiando come un mastino, quando le forze la tradirono e dopo pochi passi ricadde. — A te, Yanez — disse Tremal-Naik. — Finiscila! La bâg si presenta bene. Il felino non era che a trenta passi, col muso rivolto verso l’elefante ed il petto scoperto. Il portoghese lo mirò per qualche istante, mentre il cornac manteneva fermo l’elefante, poi fece fuoco. La bâg si sollevò un momento, spalancò le mascelle, poi cadde fulminata. La palla le aveva fracassata una spalla e probabilmente attraversato il cuore. — Un colpo da grande cacciatore! — gridò Tremal-Naik. — Cornac, getta la scala e andiamo a raccogliere quella superba pelliccia. Per precauzione ricaricarono le carabine, potendo darsi che vi fosse nei dintorni qualche altra tigre, poi scesero rapidamente slanciandosi fra i kalam. La prima tigre era stata ormai ridotta in un ammasso di carne e di ossa triturate, pestate dalle zampacce del coomareah. La pelle, crepata in piú luoghi, non poteva servire piú a nulla. La seconda non aveva che tre fori. Oltre la ferita alla spalla che aveva determinata la morte, aveva ricevuta una palla nel dorso e un’altra al fianco destro. Era una delle piú superbe che i cacciatori avessero fino allora vedute. — Una vera tigre reale, — disse Tremal-Naik. — Non ne avete certo di simili nelle vostre foreste del Borneo. — No — rispose Sandokan. — Quelle delle isole malesi non sono cosí belle e poi sono piú basse e meno sviluppate. È vero Yanez? — Sí — rispose il portoghese che esaminava la ferita della spalla. — Non sono però meno coraggiose, né meno feroci di queste. — Questa è una vera acto-bâg beursah, come la chiamano i nostri poeti, — disse Tremal-Naik. — Che vorrebbe dire? — chiese Sandokan. — Una signora tigre. — Per Bacco! Quanto rispetto! — Suggerito dalla paura, — disse Tremal-Naik, ridendo. — Possiamo accamparci qui, — disse Sandokan, dopo d’aver dato uno sguardo all’intorno. — Ecco là quello spazio quasi scoperto che fa per noi. Per oggi possiamo essere soddisfatti dall’esito della nostra caccia; e poi sarà meglio avanzarci lentamente verso le Sunderbunds e farci precedere dalla fama di appassionati cacciatori, onde non allarmare i Thugs. — Domani tutti gli abitanti dei villaggi della jungla sapranno che noi siamo venuti qui per distruggere le tigri, — disse Tremal-Naik. — Il molango che abbiamo condotto con noi narrerà meraviglie di noi. — Lo rimandiamo? — Non ci è piú necessario e poi è meglio che non vi siano testimoni. Una parola può sfuggirci ed i Thugs devono tenere delle spie nei villaggi, onde non farsi sorprendere da qualche spedizione di.soldati bengalesi. I malesi rizzarono due vaste tende di tela bianca e scaricarono le casse contenenti i viveri e gli arnesi di cucina, onde allestire la colazione. I cornac si occuparono di preparare quella degli elefanti, consistente in una enorme quantità di foglie di ficus-indica e di erbe palustri larghe come lame di sciabole, in una pagnotta di granturco del peso di dieci chilogrammi e d’una mezza libbra di ghi ossia di burro chiarificato, mescolato quasi ad altrettanto zucchero. Divorato il pasto e disposte due sentinelle sui margini della jungla, i cacciatori si stesero sotto le tende, mentre il sole versava torrenti di fuoco su quell’oceano di vegetali, asciugando rapidamente le pozze e gli stagni formatisi durante la notte. Capitolo XV. NELLE SUNDERBUNDS Fu solo dopo le cinque che i due elefanti si rimisero in viaggio, dirigendosi verso il sud, ossia verso le Sunderbunds per i terreni disabitati. La regione che allora traversavano era ancora qua e là, a grandi distanze però, popolata dai poveri molanghi. Di quando in quando, al disopra delle canne e dei kalam, si scorgeva qualche gruppetto di casupole di fango, difeso da un’alta cinta per mettere al coperto dagli assalti delle belve non solo gli abitanti, bensí anche le loro mucche ed i loro bufali. Intorno si estendeva qualche pezzo di terra coltivata a risaia e qualche gruppo di banani, di cocchi e di manghi, tutte piante che danno frutti eccellenti, assai apprezzate dagli indi. Appena però oltrepassati quei villaggi, la jungla riprendeva il suo impero, insieme agli stagni che diventavano sempre piú numerosi, ingombri di piante in decomposizione, e di paletuvieri, le piante della febbre. Miriadi di trampolieri s’alzavano dalle rive all’apparire dei due giganteschi elefanti, salutati dai cacciatori da qualche colpo di fucile che non andava mai a vuoto. Erano vere nuvole di aironi giganti, di cicogne nere, di ibis, che nell’India sono brune invece di essere bianche, di anitre bramine, di folaghe dalle penne color porpora a riflessi d’indaco e di marangoni che anche fuggendo non abbandonavano i pesci presi allora negli stagni, ordinariamente dei manghi, piccoli, rossi, e assai stimati dai bengalesi per la delicatezza delle loro carni. Fra le canne fuggivano anche dei bellissimi capi di selvaggina e cosí agilmente da cadere di rado sotto i colpi dei cacciatori. Erano dei graziosi axis, somiglianti ai daini comuni, col pelame fulvo picchiettato di bianco; degli eleganti nilgò, dalla testa cornuta, che scomparivano colla rapidità d’una freccia; poi torme di cani selvaggi, dal pelame bruno, e grossi sciacalli, pericolosi se sono spinti dalla fame. Anche qualche tcita, piccole e bellissime pantere, assai sanguinarie, e che si addomesticano facilmente, si mostravano per qualche istante sul margine delle macchie piú folte, per poi rintanarsi quasi subito. — Questo è il vero paradiso dei cacciatori! esclamava Sandokan, che si entusiasmava, vedendo a fuggire tutta quella selvaggina. — Peccato che dobbiamo occuparci piú dei Thugs che delle tigri, dei bufali, e dei rinoceronti. — Questa notte non dormirò, — ripeteva dal canto suo Yanez. — Andrò a cacciare all’agguato. Si dice che sia una caccia non meno emozionante. È vero Tremal-Naik? — E anche piú pericolosa, — rispondeva il bengalese. — Condurremo con noi anche Darma e la lanceremo addosso agli axis ed ai nilgò. M’immagino che l’avrai abituata a cacciare. — Vale quanto una tcita meglio ammaestrata, mio caro Sandokan. — Di quelle piccole pantere che abbiamo vedute a fuggire? — Sí. — Si ammaestrano per la caccia? — E che abili cacciatori diventano! — esclamò Tremal-Naik. – La mia Darma farà però di piú e non esiterà ad assalire anche i bufali. — A proposito, dov’è quella briccona? — chiese Yanez. — Quando siamo sugli elefanti sta sempre lontana. — Non temere, — rispose Tremal-Naik, — ci segue sempre e la vedrai riapparire all’ora della cena, se non ha cacciato per suo conto. — Vedo un canale dinanzi a noi, — disse in quel momento Sankan — Andremo ad accamparci sulla riva opposta. Gli animali abbondano di piú sulle rive dei fiumi. Un fiumicello, largo una decina di metri, dalle acque giallastre e melmose, tagliava la via, scorrendo fra due rive ingombre di paletuvieri, sui cui rami arcuati si tenevano immobili molti marabú, quegli ingordi divoratori di cadaveri e di carogne. — Attento, cornac, — disse Tremal-Naik. — Vi saranno dei gaviali in quel canale. — Il mio elefante non li teme, — rispose il conduttore. I due colossi si erano fermati sulla riva, tastando prudentemente il terreno e fiutando rumorosamente l’acqua, prima d’inoltrarsi. Non parevano troppo convinti della tranquillità che regnava sotto quel liquido fangoso. — Sono certo di non essermi ingannato, — disse Tremal-Naik, alzandosi. — Gli elefanti hanno fiutato qualche gaviale e hanno paura di venire crudelmente morsicati. Il coomareah, che doveva essere piú risoluto del compagno, si decise finalmente ad entrare nell’acqua, la quale era abbastanza profonda, arrivando fino ai fianchi del colosso. Aveva percorsi appena tre o quattro metri, quando s’arrestò di colpo imprimendo all’haudah una scossa cosí brusca, che per poco i cacciatori non furono sbalzati nell’acqua. — Che cosa c’è? — chiese Sandokan, afferrando la carabina. Il coomareah dopo quel soprassalto aveva mandato un barrito formidabile, poi aveva immersa rapidamente la tromba in acqua, retrocedendo lestamente. — L’ha preso! — gridò il cornac. — Che cosa? — chiesero ad una voce Yanez e Sandokan. — Il gaviale che l’aveva morso. La proboscide si era alzata. Stringeva un mostruoso rettile, somigliante ad un coccodrillo, armato di due mascelle formidabili irte di denti aguzzi e giallastri. Il mostro, strappato dal suo elemento, si dibatteva furiosamente, cercando di colpire colla robusta coda, coperta, al pari del dorso, di piastre ossee, l’elefante; ma questi si guardava bene dal lasciarsi cogliere. Lo teneva bene in alto e pareva che provasse un piacere maligno a far crepitare le piastre. — Lo soffocherà? — chiese Yanez. — Mai piú: vedrai come farà pagare al rettile il morso ricevuto. Questi pachidermi sono bravi ed intelligentissimi e sono pure estremamente vendicativi. — Allora lo schiaccerà sotto i piedi. — Nemmeno. — Vediamo dunque quale genere di morte destina a quel povero sauriano, giacché suppongo che non lo risparmierà. — Riderai, — disse Tremal-Naik, — non vorrei però trovarmi al posto del gaviale. Il coomareah, senza curarsi degli sforzi del disgraziato ed incauto sauriano, e tenendolo sempre ben alto per evitare i colpi di coda, indietreggiò fino alla riva che risalí poi lestamente, dirigendosi tosto verso un gigantesco tamarindo che cresceva isolato in mezzo ai bambú, lanciando in tutte le direzioni i suoi rami intricatissimi. Guardò per alcuni istanti l’enorme vegetale, poi trovato ciò che gli conveniva, depose il rettile fra due biforcazioni, cacciandovelo dentro a forza in modo che non potesse piú liberarsene. Ciò fatto mandò un lungo barrito che doveva essere di soddisfazione e ritornò tranquillamente verso il canale sbuffando e dondolando comicamente la tromba, mentre un lampo maligno brillava nei suoi occhietti neri. — Hai veduto? — chiese Tremal-Naik a Yanez. — Sí, ma senza comprendere molto. — Ha dannato il rettile ad un supplizio orribile. — E come? Ah! Comprendo! — esclamò il portoghese scoppiando in una risata. Il sauriano morrà lentamente di fame e di sete in cima all’albero. — Ed il sole lo disseccherà. — Elefante vendicativo! — È questo il supplizio che infliggono ai gaviali ed agli alligatori quando riescono a prenderne qualcuno. — Non si crederebbe che questi colossi, che hanno un carattere cosí dolce, cosí mite, siano capaci di tanta cattiveria. — Anzi sono, come ti dissi poco fa, assai cattivi, come sono assai sensibili alle gentilezze che loro vengono usate. Ti cito alcuni esempi. Un cornac aveva l’abitudine di rompere le noci di cocco sulla testa del proprio elefante. Sembra che quell’operazione non andasse troppo a garbo al colosso, quantunque non dovesse sentire alcun effetto. Accadde che un giorno, passando in mezzo ad una piantagione di cocchi, il cornac ne raccogliesse alcuni per spaccarli, come al solito, sul cranio del colosso. Per un po’ questi lasciò fare, poi a sua volta ne raccolse uno e si provò a romperlo. — Sulla testa del conduttore? — chiese Sandokan. — Precisamente, — rispose Tremal-Naik— Puoi immaginarti in quale stato fu ridotta la zucca di quel povero diavolo. Fu fracassata di colpo. — Ah! Briccone di un elefante! — esclamò Yanez. — Io ne ho conosciuto un altro che diede una volta una tremenda lezione ad un sarto indiano di Calcutta. Quel colosso tutte le volte che veniva condotto al fiume a dissetarsi, aveva l’abitudine d’introdurre la proboscide nelle finestre delle case, i cui abitanti non mancavano mai a regalargli qualche dolce frutto. Il sarto invece tutte le volte che vedeva apparire quel naso colossale, si divertiva a punzecchiarlo coll’ago che aveva in mano. Per un po’ di tempo il pachiderma tollerò lo scherzo, finché un brutto giorno perdette la pazienza. Condotto al fiume assorbí piú che poté acqua e fango, poi quando passò dinanzi la casa del sarto, scaricò entro la finestra tutto quel liquido, mandando a gambe levate il disgraziato indiano e rovinandogli completamente tutte le stoffe e gli abiti che teneva sul banco. — Che tiro birbone, — disse Yanez, che schiattava dal ridere. — Scommetterei che quel povero sarto da quel giorno non ha piú toccato gli elefanti. — Sahib, — disse in quel momento il cornac, rivolgendosi verso Tremal-Naik. — Vuoi accamparti qui? Avremo ombra e buona pastura per gli elefanti. La riva opposta del canale si prestava infatti meglio dell’altra per un buon accampamento, non essendo ingombra né di kalam né di bambú spinosi, sotto i quali potevano celarsi i pericolosi serpenti che popolano in numero straordinario le jungle delle Sunderbunds. Pareva che un incendio avesse distrutti recentemente gli uni e gli altri, essendo il suolo cosparso d’un fango grigiastro, ormai seccato dagli ardenti raggi del sole, ma aveva risparmiate le grosse piante che formavano qua e là dei folti boschetti, sotto la cui ombra gli uomini dovevano trovarsi benissimo. — Abbiamo il fiume da una parte e la jungla dall’altra, — disse Tremal-Naik. — Il posto è buono per una fermata e per la caccia. Fermiamoci qui, cornac. Scesero dagli elefanti portando le loro armi e si cacciarono sotto gli alberi. Trovato il posto acconcio, fecero rizzare le tende, mentre gli elefanti si mettevano senz’altro a saccheggiare il fogliame delle piante vicine, facendo cadere al suolo, ad ogni scossa che imprimevano ai rami, una vera pioggia. — Toh! — esclamò Yanez che nel passare sotto una di quelle piante, aveva ricevuto addosso una doccia tale da inzupparlo. — Che cos’hanno questi alberi, fra i loro rami? Dei serbatoi forse? — Non conosci queste piante? — chiese Tremal-Naik. — Mi pare d’averne vedute altre di simili durante il nostro viaggio; ignoro però a che cosa servono e come si chiamano. — Sono alberi preziosissimi specialmente per le regioni che soffrono la siccità. Si chiamano nim o meglio le piante della pioggia. Questi singolari vegetali, che sono disseminati abbastanza abbondantemente nell’India, posseggono la facoltà di assorbire l’umidità dell’atmosfera ed in modo cosí potente che ogni foglia contiene nei suoi accartocciamenti un buon bicchiere d’acqua. Prova a scuotere fortemente il tronco e vedrai che doccia ti cade addosso. — È buona l’acqua? — Veramente non troppo eccellente, perché le foglie che la contengono le danno un sapore nauseante, per cui a meno di avere una gran sete si stenta a mandarla giú. Tuttavia i contadini se ne servono per innaffiare i loro campi, bastando una sola pianta per darne un paio di barili e anche di piú. — Abbiamo anche, noi, nelle nostre isole, qualche cosa di simile, — disse Sandokan. — Le nostre piante, che non sono da fusto, si chiamano nepentes e portano foglie in forma di coppe che ne contengono piú di quelle di questi alberi; è vero Yanez? — E quante volte l’abbiamo bevuta assieme agl’insetti che conteneva, quando gl’inglesi ci davano la caccia fra le foreste di Labuan! Un latrato ed un ringhio lo interruppero. Punthy e Darma, che avevano attraversato il fiume subito dopo gli elefanti, si erano slanciati fra i gruppi d’alberi di comune accordo, dando segni d’una viva agitazione. S’avanzavano, poi tornavano indietro, cacciandosi in mezzo ai cespugli di mussenda che sorgevano qua e là, poi descrivevano dei capricciosi zig-zag, come se seguissero una traccia. — Che cos’hanno le tue bestie? — chiese Sandokan, un po’ sorpreso da quelle ricerche e dalla loro agitazione. — Non saprei, — rispose Tremal-Naik. — Forse qualche cobra-capelo o qualche pitone è passato poco fa di qui e Punthy e Darma l’hanno fiutato. — O qualche uomo? — chiese Yanez. — Siamo ormai lontani dagli ultimi villaggi e nessun molango oserebbe spingersi fino qui. Hanno troppa paura delle tigri. Bah! Lasciamoli a cercare e andiamo a cenare, poi andremo a scavarci la buca per cacciare all’agguato. Vedo laggiú un bel boschetto di pipal, che è abbastanza lontano dall’accampamento e che congiunge la jungla spinosa col fiume. Sarà certo di là che passeranno gli animali che hanno bisogno di dissetarsi. Mangiarono alla lesta, raccomandarono ai malesi ed ai cornac di fare buona guardia, e munitisi d’una vanga ed una zappa s’avviarono verso il bosco seguiti da Darma. Punthy era stato lasciato all’accampamento onde coi suoi latrati non spaventasse la selvaggina che Tremal-Naik si proponeva di far cacciare dalla tigre. Già avevano perduto di vista le tende e gli elefanti, rimasti nascosti dietro le prime canne della jungla che risorgeva piú fitta che mai al di là dei terreni secchi, quando s’avvidero che la tigre dava nuovi segni d’agitazione. S’arrestava fiutando l’aria, si batteva nervosamente i fianchi colla coda, aguzzava gli orecchi come se cercasse di raccogliere qualche lontano rumore e brontolava sommessamente. — Ma che cos’ha dunque Darma questa sera? — disse Yanez. — È quello che mi domando anch’io, senza riuscire a trovare la spiegazione di questa inesplicabile agitazione, — rispose Tremal-Naik. — Eppure non abbiamo veduto nessuno, né udito alcun rumore, — disse Sandokan. — Nondimeno comincio anch’io a preoccuparmi, — disse Tremal-Naik. — Che cosa possiamo temere? Vi è Darma con noi e siamo in tre bene armati, e non certo paurosi e poi vi sono i malesi ed i cornac ad un solo miglio di distanza. — Hai ragione, Sandokan. — Sospetti la vicinanza di qualche banda di Thugs? Siamo lontani dal Mangal e non credo che a quest’ora siano informati della presenza di stranieri nella jungla. — Andiamo innanzi, — disse Yanez. — Nessuno oserà venirci a disturbare nella fossa. Si cacciarono sotto i pipal, dove già cominciavano ad addensarsi le tenebre, essendo il sole allora tramontato e cercarono uno spiazzo scoperto. Trovatone uno sufficientemente vasto, in poco piú di un’ora scavarono una fossa profonda un metro e mezzo e lunga tre, che mascherarono con alcuni fasci di bambú, disposti in modo da poter uscire dal nascondiglio senza aver bisogno di spostarli e vi si cacciarono dentro con Darma. — Accendiamo le nostre sigarette e armiamoci di pazienza, — disse Tremal-Naik. — Gli animali tarderanno a giungere, ma sono certo che per di qui passeranno, preferendo ordinariamente i luoghi scoperti ove le tigri e le pantere non possono imboscarsi. La colazione non ci mancherà domani mattina. La piccola foresta cominciava a diventare silenziosa, dopo la ritirata dei chiassosi trampolieri, che poco prima coprivano ancora le rive del vicino canale. Si udivano solamente di quando in quando le grida discordi di una banda di ungko, che avevano preso possesso d’un pipal enorme, per dedicarsi ad una ginnastica indiavolata, essendo quelle scimmie le piú agili di tutte, tanto che sembrano volatili, piuttosto che quadrumani, potendo spiccare da ramo a ramo dei salti di dieci e perfino di dodici metri. Di tratto in tratto, si udiva l’urlo lamentevole di un bighana, specie di lupo, piú piccolo però del comune, dal pelame bruno rossiccio o grigiastro che diventa biancastro sotto il ventre, e audacissimo, assalendo perfino le persone isolate quando si trova in compagnia d’altri. I tre cacciatori, sdraiati in fondo alla fossa che avevano coperta d’un denso strato di foglie per evitare l’umidità, fumavano in silenzio, tendendo gli orecchi verso i rumori lontani. Darma, accovacciata presso di loro, si manteneva tranquilla e faceva le fusa con un rom-rom di buon augurio. Era trascorsa qualche ora, quando la videro alzarsi, aguzzare gli orecchi e fissare i margini della fossa. — Ha udito qualche animale avvicinarsi, — disse Tremal-Naik, alzandosi senza far rumore e prendendo la carabina. Yanez e Sandokan l’avevano imitato. Non si scorgeva alcun animale sullo spiazzo, però si udiva un leggero stormire di rami verso il folto della foresta, come se qualcuno cercasse di aprirsi il passo fra i cespugli di mussenda che si stendevano attorno ai tronchi degli alben. — Che animale sarà? — chiesero Sandokan e Yanez guardando Tremal-Naik. — Odo dei rami schiantarsi e da ciò arguisco che debba essere grosso, — rispose il bengalese. — Un nilgò od un axis od un buesbok non farebbero tanto rumore. Aveva appena finito di pronunciare quelle parole, quando un’ombra enorme comparve sul margine di un folto agglomeramento di mussenda e di mindi. Era un bufalo colossale, grosso quasi quanto un bisonte americano, colla testa piú corta e piú larga dei bufali comuni, con due lunghe corna rivoltate all’indietro e assai ravvicinate alla loro base, un animale insomma poderoso e anche oltremodo pericoloso, capace di tener testa anche ad una tigre. Sia che avesse fiutato la presenza dei cacciatori o di Darma, o che volesse prima esplorare il luogo, si era arrestato mandando un breve muggito. — Bell’animale! — mormorò Yanez, sotto voce. — Che non s’abbatte facilmente con un colpo e anche due di carabina, — disse Tremal-Naik. — I nostri bufali sono veramente terribili e non temono i cacciatori. Ma Darma ha buoni artigli. La tigre, che aveva appoggiate le zampe anteriori all’orlo della fossa, lo aveva già scorto e aveva subito rivolti gli sguardi verso il padrone. — Sí, va’, mia brava Darma, — le disse Tremal-Naik accarezzandola e indicandole l’animale. L’intelligente e astuta fiera scivolò senza far rumore fra i bambú e, tenendosi nascosta dietro il cumulo di terra scavata dalla fossa, si mise a strisciare non già verso il bufalo, bensí verso alcuni cespugli entro i quali scomparve colla leggerezza d’un gatto. — Non lo attacca di fronte? — chiese Yanez. — Darma non è cosí sciocca, — rispose Tremal-Naik. — Sa quanto sono pericolose le corna dei bufali. Piomberà sulla preda a tradimento, con un salto solo, come fanno le sue compagne. — Noi d’altronde saremo pronti ad aiutarla, — disse Sandokan, armando cautamente la carabina. Il bufalo, che fiutava l’aria da qualche istante, ad un tratto fece uno scarto improvviso, poi girò bruscamente su se stesso guardando i cespugli che aveva appena allora attraversati e abbassando la testa per presentare le sue formidabili corna. Si era accorto dell’avvicinarsi della tigre o lo scrosciare di qualche foglia secca o la rottura d’un ramo lo aveva allarmato? Stette cosí in ascolto, come raccolto su se stesso, qualche mezzo minuto. Era inquieto perché si batteva i fianchi colla coda e mandava di quando in quando un muggito sommesso. D’improvviso si vide una massa slanciarsi in aria e cadere con un salto immenso, sulla groppa del povero animale. Darma aveva fatto il suo colpo e lavorava già ferocemente di artigli, affondandoli nella carne palpitante. Il bufalo, nonostante il suo vigore straordinario, erasi piegato sotto l’urto. Si rialzò però quasi subito, tentando con uno scrollo furioso di sbarazzarsi dell’avversaria, poi tornò a cadere mandando un lungo muggito di dolore, che risuonò lungamente sotto le volte di verzura. I terribili denti della tigre gli avevano spezzata la colonna vertebrale. Tremal-Naik, Yanez e Sandokan si erano già slanciati fuori dalla fossa e stavano per raggiungere Darma, quando a breve distanza rimbombò improvvisamente un colpo di fucile, seguito quasi subito da una voce umana che gridava in inglese: — Aiuto! Mi strozzano! Capitolo XVI. I THUGS La Tigre della Malesia, udendo quel grido che era echeggiato in direzione del fiumicello, si era slanciato verso quella parte con velocità fulminea, seguito tosto da Yanez e da Tremal-Naik. Un sospetto era balenato nella mente di tutt’e tre: che gli strangolatori di Rajmangal avessero sorpreso uno dei loro uomini, parlando tutti benissimo l’inglese, e lo stessero strozzando. Lo slancio del formidabile pirata era tale da poter gareggiare con quello delle tigri di cui portava il nome, sicché in pochi secondi attraversò gli ultimi gruppi di pipal, che lo dividevano dal canale, distanziando i compagni, assai meno agili, di alcune centinaia di metri. Presso la riva cinque uomini semi-nudi, colla testa coperta da un piccolo turbante giallo, stavano trascinando fra le erbe, mediante una corda, qualche cosa che si dibatteva e che Sandokan sul colpo non poté comprendere che cosa potesse essere, essendo i kalam piuttosto alti. Avendo però poco prima udito quel grido: «Aiuto, mi strozzano!», era piú probabile che si trattasse d’una povera creatura umana che d’un capo di selvaggina preso al laccio. Senza esitare un solo istante, il coraggioso pirata, con un ultimo balzo, si scagliò verso quegli uomini, gridando con voce minacciosa. — Fermi, bricconi, o vi fucilo come cani rabbiosi! I cinque indiani, vedendo piombarsi addosso quello sconosciuto, avevano abbandonata precipitosamente la corda levando dalla fascia che cingeva i loro fianchi dei lunghi coltelli simili a pugnali e colla lama un po’ curva. Senza pronunciare una parola, con una mossa fulminea si erano disposti in semicerchio come se avessero avuto l’intenzione di chiudervi dentro Sandokan, poi uno di loro aveva svolto rapidamente una specie di fazzoletto nero, lungo un buon metro, che pareva avesse ad una delle estremità una palla od un sasso, facendolo volteggiare in aria. Sandokan non era certamente l’uomo da lasciarsi accerchiare, né intimorire. Con un salto si sottrasse a quella pericolosa manovra, puntò la carabina e fece fuoco sull’indiano del fazzoletto, gridando contemporaneamente: — A me,Yanez! Il thug, colpito in pieno petto, allargò le braccia e cadde col viso contro terra senza mandare un grido. Gli altri quattro, punto spaventati da quel colpo maestro, stavano per scagliarsi risolutamente su Sandokan, quando udirono dietro le loro spalle un hu auh spaventevole, che arrestò di colpo il loro slancio. Era la tigre che accorreva in aiuto dell’amico del suo padrone, facendo balzi di dieci metri. In mezzo alle piante, Tremal-Naik gridava: — Prendi, Darma! I thugs vedendo la terribile belva, girarono sui talloni e si precipitarono nel canale che in quel luogo era ingombro di piante acquatiche, scomparendo agli occhi di Sandokan. Darma si era prontamente gettata verso la riva, ma troppo tardi per poter agguantare uno di quei miserabili ai quali la paura doveva aver dato le ali alle gambe e alle braccia. — Sarà per un’altra volta, mia brava Darma, — disse Sandokan. — Le occasioni non mancheranno. I bricconi ormai avranno raggiunta la riva opposta. In quel momento Tremal-Naik e Yanez giungevano di corsa. — Fuggiti? — chiesero entrambi. — Non li vedo piú, — rispose Sandokan, che era sceso verso la riva colla tigre e che cercava invano di scoprirli fra le folte canne e le larghe foglie di loto. — L’oscurità è troppo fitta per poter discernere qualche cosa fra quei vegetali. La comparsa fulminea di Darma è bastata per farli scappare come lepri e rinunciare a vendicare il loro compagno. — Erano Thugs, è vero? — chiese Tremal-Naik. — Lo suppongo perché uno di loro ha tentato di gettarmi intorno al collo il fazzoletto di seta. — Ma l’hai ucciso. — Giace laggiú, in mezzo alle erbe. La mia palla deve avergli spaccato il cuore, perché è stramazzato senza aver avuto nemmeno il tempo di mandare un grido. — Andiamo a vederlo: mi preme sapere se erano veramente dei Thugs o dei banditi. Risalirono lestamente la riva, e s’accostarono al cadavere che giaceva disteso fra le erbe, colle gambe e le braccia allargate ed il viso contro terra. Lo sollevarono guardandogli il petto. — Il serpente colla testa di Kalí! — esclamò Tremal-Naik. — Non mi ero ingannato! — E che bel colpo, Sandokan! — disse Yanez. — La tua palla gli ha attraversato il petto da parte a parte, fracassandogli la colonna vertebrale e probabilmente toccando anche il cuore. — Non era che a cinque passi, — rispose la Tigre della Malesia. Ad un tratto si batté la fronte, esclamando: — E l’uomo che ha gridato? Ho veduto quei bricconi trascinare qualche cosa fra le erbe. Si guardarono intorno e videro a pochi metri un uomo vestito di flanella bianca, che stava seduto fra i kalam e che li guardava con due occhi dilatati ancora dal terrore. Era un giovane di forse venticinque anni, con una folta capigliatura nera ed un paio di baffetti d’egual colore, dai lineamenti belli e regolari e la pelle appena abbronzata. Dal collo gli pendeva ancora una sottile cordicella, senza dubbio uno di quei lacci di seta di cui si servono i Thugs in mancanza del fazzoletto nero. Il giovane li osservava in silenzio, come se non osasse interrogarli, temendo senza dubbio di aver dinanzi nuovi nemici. Sandokan gli mosse incontro, dicendogli: — Non temete, signore: noi siamo amici pronti a proteggervi contro i miserabili che hanno tentato di strangolarvi. Lo sconosciuto s’alzò lentamente e fece qualche passo dicendo in lingua inglese, nella cui pronuncia si sentiva però un accento straniero: — Perdonate signori se non vi ho subito ringraziato del vostro intervento; io ignoravo se avevo da fare con dei salvatori o con altri nemici. — Chi siete? — chiese Sandokan. — Un luogotenente del 5° Reggimento della cavalleria bengalese. — Non vi si direbbe un inglese. — Avete ragione: sono un francese di nascita, ai servigi dell’Inghilterra. — E che cosa facevate qui solo nella jungla? — chiese Yanez. — Un europeo! — esclamò il luogotenente, osservandolo con una certa curiosità. — Portoghese, signore. — Solo! — disse il giovane, dopo essersi leggermente inchinato. — No, non sono solo perché ho due uomini con me o almeno fino a poche ore or sono li avevo nel mio accampamento. — Temete che siano stati strangolati? — chiese Sandokan. — Non ne so nulla, tuttavia dubito che quei rettili che hanno tentato di strangolarmi, li abbiano risparmiati. — Sono dei molanghi i vostri uomini? — No, due cipayes. — Chi ha sparato quel colpo di fucile che ci ha fatti accorrere? — Io signor... — Chiamatemi semplicemente capitano, per ora, se non vi spiace signor... — Remy de Lussac, — disse il giovane. — Ho fatto fuoco contro quei cinque furfanti che mi erano piombati addosso, mentre io stavo coricato fra le erbe spiando le mosse di una axis che desideravo abbattere per la colazione di domani. — E li avete mancati? — Pur troppo, quantunque io sia un buon cacciatore. — Siete dunque venuto qui per cacciare? — Sí, capitano, — rispose de Lussac. — Ho un permesso di tre mesi e da due settimane percorro le jungle fucilando uccelli e quadrupedi. Ad un tratto fece un balzo indietro, gridando: — Fate fuoco! Darma risaliva la riva e s’avvicinava al suo padrone. — È nostra amica, non spaventatevi, signor luogotenente — disse Tremal-Naik. — È essa anzi che ha messo in fuga gli strangolatori, che stavano dare addosso al nostro capitano. — Una bestia prodigiosa. — Che obbedisce meglio d’un cane. — Signor de Lussac, — disse Sandokan. — Dove si trova il vostro accampamento? — Ad un chilometro da qui, sulla riva del canale. — Desiderate che vi conduciamo? La nostra caccia per questa notte è finita. — Siete anche voi cacciatori? — Per ora riteneteci tali. Andiamo a vedere se i Thugs hanno risparmiato i vostri uomini. Il francese frugò qualche po’ fra le erbe, finché ebbe trovata la propria carabina, una bellissima arma a due canne, di fabbrica inglese, a canne brunite, poi disse: — Sono ai vostri ordini. Sandokan fece cenno a Tremal-Naik di mettersi a fianco del luogotenente, dicendo poi: — Io e Yanez rimarremo alla retroguardia con Darma. Tenetevi un po’ discosti dalla riva; i Thugs possono avere dei fucili oltre i lacci. Si misero in marcia, radendo il bosco di pipal il quale non accennava a finire, tenendo le carabine sotto il braccio per essere piú pronti a servirsene in caso d’un attacco. Sembrava però che i Thugs si fossero allontanati, perché Darma non dava alcun segno d’inquietudine. — Che cosa ne pensi di questa avventura? — chiese Sandokan a Yanez, — che ci possa essere d’impiccio o d’utilità quest’ufficiale pei nostri progetti? — Se quell’uomo ha osato spingersi quasi solo nella jungla, deve possedere del coraggio e gli uomini coraggiosi non sono mai troppi nelle spedizioni arrischiate. Se ci facesse la proposta di unirsi a noi? — Lo accetterei, — rispose Yanez. — Andiamo a lottare contro gli uomini che il governo del Bengala sarebbe ben lieto di veder distrutti. — E lo metteremo a parte dei nostri progetti? — Non ci vedo, per mio conto, alcun inconveniente. Io credo anzi che sarebbe ben lieto di unirsi a noi: è un uomo di guerra al par di noi ed un giovane vigoroso che non ci sarà certo d’impiccio quando verremo ai ferri corti con Suyodhana. E poi, nella sua qualità d’ufficiale, potrebbe fornirci dei preziosi appoggi da parte del suo governo. — T’incaricherai tu di metterlo al corrente dei nostri affari, se si deciderà a unirsi a noi. Tutto considerato non mi rincrescerebbe avere un rappresentante dell’esercito anglo-indiano. Non si sa mai quello che può accadere e di chi si può avere bisogno. Ah! Mi viene un sospetto. — Quale, Sandokan? — Che quei Thugs, invece di spiare il francese, seguissero noi. — Anche a me è venuto il medesimo sospetto. Fortunatamente siamo in buon numero e nel canale di Raimatla troveremo la Marianna. — A quest’ora ci sarà già, — disse Sandokan. In quell’istante udí l’ufficiale a mandare un grido. — Che cosa avete signor de Lussac? — chiese Yanez, raggiungendolo. — Nel mio accampamento non ardono piú i fuochi che avevo raccomandato ai miei due cipayes di mantenere accesi. Ciò indica una sciagura, signore. — Dov’è il vostro accampamento? — chiese Sandokan. — Laggiú, sotto quel nim colossale, che s’innalza isolato presso la riva del canale. — Brutto segno se i fuochi non ardono piú, — mormorò Sandokan, aggrottando la fronte. Stette un momento immobile, tenendo gli occhi fissi sull’albero, poi disse con voce risoluta: — Avanti: in testa, Darma! La tigre, ad un cenno di Tremal-Naik, si spinse innanzi, ma percorsi cinquanta passi si fermò guardando il bengalese. — Ha fiutato qualche cosa, — disse Tremal-Naik. — Stiamo in guardia. Continuarono ad avanzarsi cautamente colle dita sul grilletto dei fucili, finché giunsero a cento passi dall’albero, sotto cui si vedevano confusamente alzarsi due piccole tende da campo. Il signor de Lussac si mise a gridare: — Rankar! Nessuno rispose dapprima a quella chiamata, poi fra le tenebre s’alzarono improvvisamente delle urla, e delle ombre balzarono attraverso le erbe fuggendo a tutte gambe. — Sciacalli che fuggono! — esclamò Tremal-Naik. — Signor de Lussac, i vostri uomini sono morti e fors’anche a quest’ora sono stati già spolpati. — Sí, — disse il francese con voce profondamente commossa. — I settari della sanguinosa dea me li hanno assassinati. Si spinsero innanzi rapidamente e giunsero ben presto presso le tende. Un orribile spettacolo s’offerse tosto ai loro sguardi. Due uomini, già quasi interamente divorati, giacevano l’uno presso l’altro, a breve distanza da alcuni tizzoni che fumavano ancora. La testa di uno era scomparsa e quella dell’altro era stata rosicchiata in modo tale da non poter essere piú riconoscibile. — Poveri uomini! — esclamò il francese, con un singhiozzo. — E non poterli vendicare! — Che cosa ne sapete voi? — gli chiese Sandokan, appoggiandogli una mano sulle spalle. — Voi ignorate ancora chi siamo noi e per quale motivo ci troviamo qui. Il francese si era voltato vivamente, guardando con stupore la Tigre della Malesia. — Parleremo di ciò piú tardi, — disse Sandokan, prevenendo la domanda dell’ufficiale. — Seppelliamo per ora gli avanzi di questi disgraziati. — Ma... signor... — A piú tardi, signor de Lussac, — disse Yanez. — Vi piacerebbe vendicare la morte dei vostri uomini? — E me lo chiedete? — Ve ne daremo il mezzo. Avete nulla da portare con voi? — I Thugs hanno vuotato le tende, — disse Tremal-Naik, che le aveva già visitate. — Assassini prima, poi ladri: ecco gli adoratori di Kalí! Scavarono una fossa, adoperando le loro scimitarre e seppellirono quei miseri avanzi, onde sottrarli ai denti degli sciacalli, accumulandovi sopra dei massi. Terminata quella funebre operazione, Sandokan si volse verso il luogotenente che appariva assai triste. — Signor de Lussac, — disse, — che cosa intendete di fare ora? Tornarvene a Calcutta o vendicare i vostri uomini? Noi siamo venuti qui non già per dare la caccia alle tigri ed ai rinoceronti, bensí per compiere una grande vendetta e riavere ciò che ci hanno preso: il nostro nemico è il thug. Il francese era rimasto silenzioso, guardando con un profondo stupore quei tre uomini. — Decidetevi, — disse Sandokan. — Se preferite lasciare la jungla, metterò a vostra disposizione uno dei nostri elefanti onde vi conduca a Diamond-Harbour od a Khari. — Ma che cosa siete venuti a fare qui, voi, signori? — chiese il francese. — Io ed il mio amico Yanez de Gomera, un nobile portoghese, abbiamo lasciata la nostra isola che sta laggiú, in mezzo al mare della Malesia, per compiere una missione terribile che libererà questo disgraziato paese da una setta infame, e che ridarà una famiglia a questo indiano, uno dei piú forti e dei piú fieri uomini che vanti il Bengala e che è parente stretto d’uno dei piú coraggiosi ufficiali dell’esercito anglo-indiano, il capitano Corishant. — Corishant! Lo sterminatore dei Thugs! — esclamò il francese. — Sí, signor de Lussac, — disse Tremal-Naik, facendosi innanzi. — Io ho sposato sua figlia. — Corishant! — ripeté il francese. — Quello che anni or sono fu assassinato nelle Sunderbunds dai settari di Kalí? — L’avete conosciuto? — Era il mio capitano. — E noi lo vendicheremo. — Signori, ignoro ancora chi voi siate, ma potete contare, fino da questo momento, su di me. Ho una licenza straordinaria di tre mesi e i sessanta giorni che ancora mi rimangono li dedico a voi. Disponete. — Signor de Lussac, — disse Yanez, — volete venire nel nostro accampamento?... Là i Thugs non vi strangoleranno piú, ve l’assicuro. — Sono ai vostri ordini, signor Yanez de Gomera. — Partiamo, — disse Sandokan. — I nostri uomini possono inquietarsi di questa lunga assenza. — Darma, in testa! — comandò Tremal-Naik. I quattro uomini si strinsero in gruppo dietro la tigre e si misero in cammino, seguendo nuovamente il margine della foresta. Due ore dopo giungevano all’accampamento. I malesi ed i cornac, seduti intorno ai fuochi, vegliavano ancora fumando e chiacchierando. — Nulla di nuovo? — chiese Sandokan. — Nulla capitano, — rispose uno dei tigrotti. — Avete notato niente di straordinario? Degli uomini non sono venuti a ronzare attorno all’accampamento? — Il cane se ne sarebbe accorto. — Signor de Lussac, — disse Sandokan, volgendosi verso il francese, che guardava con ammirazione i due colossali elefanti che russavano beatamente a poca distanza dai fuochi. — Se non vi spiace, dividerete con Yanez la tenda. È un europeo al pari di voi. — Grazie della vostra ospitalità, capitano. — È già tardi: andiamo a dormire. A domani, signor de Lussac. Fece a Yanez un cenno ed entrò nella sua tenda assieme a Tremal-Naik, mentre i malesi riattivavano i fuochi e sceglievano gli uomini di guardia. — Signor de Lussac, — disse Yanez, con un sorriso. — La mia tenda vi aspetta. Se il sonno non vi tenta discorreremo un po’. — Preferisco qualche spiegazione al dormire, — rispose il luogotenente. — Vi credo, — disse Yanez, offrendogli una sigaretta. Si sedettero dinanzi alla tenda, di fronte ad uno dei fuochi che illuminavano l’accampamento. Yanez fumava senza parlare, ma dalla contrazione della fronte si poteva comprendere che stava cercando degli antichi ricordi. Ad un tratto gettò via la sigaretta, dicendo: — È una istoria un po’ lunga che forse troverete interessante e che vi spiegherà il motivo per cui noi ci troviamo qui ed il perché noi abbiamo dichiarata una guerra mortale ai settari di Kalí, decisi a vincere od a morire nell’impresa. Alcuni anni or sono, fra queste jungle, un indiano che campava la vita cacciando coraggiosamente i serpenti e le tigri, incontrava una fanciulla dalla pelle bianca e dai capelli biondi. Per molti giorni si videro, finché il cuore dell’indiano arse d’affetto per quella misteriosa fanciulla che tutte le sere, all’ora del tramonto, gli appariva. Quel fiore, perduto nelle pantanose jungle, era disgraziatamente la «Vergine» dei Thugs, rappresentante sulla terra la mostruosa Kalí. Abitava allora gli ampi sotterranei di Rajmangal, dove si tenevano celati i settari, per sfuggire alle ricerche del governo del Bengala. Il loro sacerdote l’aveva fatta rapire un giorno a Calcutta, ed era la figlia d’uno dei piú valorosi ufficiali dell’esercito anglo-indiano: il capitano Corishant. — Che ho conosciuto personalmente, — disse il francese, che ascoltava con vivo interesse quella narrazione. — Era noto pel suo odio implacabile verso gli strangolatori. — L’indiano, che è l’uomo che voi avete veduto in nostra compagnia e che doveva un giorno diventare il genero dello sfortunato capitano, dopo incredibili avventure riusciva a penetrare nei sotterranei dei Thugs, per rapire la fanciulla che amava. L’audace disegno non riuscí ed il disgraziato cadde nelle mani degli strangolatori. Nondimeno gli fu risparmiata la vita non solo; ma gli fu anche promessa la mano della fanciulla purché uccidesse il capitano Corishant: la testa del valoroso ufficiale doveva essere il regalo di nozze. — Ah! Miserabili! — esclamò il francese. — E ignorava l’indiano che il capitano era il padre della sua fidanzata? — Sí perché allora il capitano Corishant si faceva chiamare Macpherson. — E lo uccise? — No, — disse Yanez. — Una circostanza fortunata gli svelò a tempo che il capitano era il padre della «Vergine della pagoda». — E che cosa successe allora? — chiese ansiosamente il francese. — Una spedizione era stata, in quel tempo, organizzata dal governo del Bengala contro i Thugs ed il comando era stato affidato al capitano Corishant, loro accanito avversario. I sotterranei furono invasi, i loro abitatori in gran parte massacrati, ma il loro capo Suyodhana era riuscito a sfuggire con molti settari. I cipayes del capitano, sorpresi nelle folte jungle, furono a loro volta distrutti, il loro comandante ucciso, l’indiano e la sua fidanzata ripresi. — Mi rammento questo fatto che produsse una immensa emozione a Calcutta, — disse il francese. — Continuate, signor Yanez de Gomera. — La fanciulla impazzí, il suo fidanzato instupidito da un filtro somministratogli dai Thugs, e accusato come loro complice venne condannato alla deportazione perpetua nell’isola di Norfolk. — Che istoria mi narrate voi, signor Yanez? — Una istoria verissima, signor de Lussac, — rispose il portoghese. — Accadde che per un caso straordinario la nave che doveva condurlo in Australia, dovesse appoggiare su Sarawak, dove allora regnava James Brooke. — Lo sterminatore dei pirati? — Sí, signor de Lussac e nostro implacabile nemico. — Nemico vostro? Per quale motivo? — Ma... — disse Yanez, sorridendo. — Questione di supremazia, forse altri motivi che per ora non voglio spiegarvi, signor de Lussac. Sono cose che riguardano esclusivamente me e il mio amico Sandokan, ex rajah d’uno degli stati del Borneo e... Lasciamo correre, ciò pel momento non vi può interessare ed intralcerebbe la mia istoria. — Rispetto i vostri segreti, signor Yanez. — Quasi nell’istessa epoca, — riprese il portoghese — una nave naufragava sulle spiagge d’un’isola che si chiama Mompracem. A bordo vi erano la figlia del capitano ed un fedele servo del suo fidanzato. Quantunque la fanciulla fosse sempre pazza, era riuscito a farla fuggire e e si era imbarcato onde raggiungere il suo padrone. Una tempesta invece mandò la nave a fracassarsi sulle scogliere di Mompracem ed il servo e la figlia del capitano caddero nelle nostre mani. — Caddero! — esclamò il francese, facendo un gesto di stupore. — Cioè, furono ospitati da noi, — disse Yanez, sorridendo. — Ci interessammo di quell’istoria drammatica e fu deliberato, fra me e Sandokan, di liberare il povero indiano, vittima dell’odio implacabile dei Thugs. L’impresa non era facile perché era prigioniero di James Brooke e in quell’epoca il rajah di Sarawak era il piú potente ed il piú temuto dei sultani del Borneo. Tuttavia, colle nostre navi ed i nostri uomini, non solo riuscimmo a strappargli l’indiano, bensí anche a cacciarlo per sempre dal Borneo e fargli perdere il trono. — Voi! Ma chi siete voi dunque per muovere guerra ad uno stato posto sotto la protezione della possente Inghilterra? — Due uomini che abbiamo forse un buon fegato, molte navi, molti guerrieri, molte ricchezze e... qualche cosa d’altro ancora. — disse Yanez. — Lasciatemi proseguire senza interrompere o l’istoria dell’indiano non la finirò piú. — Sí, sí, continuate, signor Yanez. — La figlia del capitano fu guarita mercé un certo esperimento ideato dalla fantasia del mio amico Sandokan, ed i due fidanzati partivano due mesi dopo per l’India dove si sposavano. La povera figlia del capitano Corishant non era però nata sotto una buona stella. Due anni dopo moriva dando alla luce una bambina: Darma. Quattro anni dopo, la piccina, come sua madre, scompariva, rapita dai Thugs. La figlia della «Vergine della pagoda» prendeva il posto della madre. Voi volete sapere perché noi siamo qui: siamo venuti per strappare agli strangolatori la figlia del nostro amico e distruggere quella setta infame che disonora l’India e che ogni anno sopprime migliaia di vite umane. Ecco la nostra missione, signor de Lussac; volete unire la vostra sorte alla nostra? Noi, oggi combattiamo per l’umanità. — Chi siete voi dunque, che dalla lontana Malesia venite qui a sfidare la potenza dei Thugs, che ha resistito e resiste tuttora ai colpi del governo anglo-indiano? — Chi siamo noi? — disse Yanez, alzandosi. — Degli uomini che un giorno hanno fatto tremare tutti i sultani del Borneo, che hanno strappato il potere a James Brooke, lo sterminatore dei pirati, ed hanno fatto impallidire perfino il leopardo inglese: noi siamo i terribili pirati di Mompracem! Capitolo XVII. SEGNALI MISTERIOSI Una mezz’ora dopo, quando già il signor de Lussac si era placidamente addormentato, Yanez usciva silenziosamente dalla tenda ed entrava in quella di Sandokan che era ancora illuminata. Il formidabile capo dei pirati di Mompracem era ancora sveglio, anzi stava fumando in compagnia di Tremal-Naik, mentre Surama, la bella bajadera, approntava alcune tazze di thè. Pareva che il sonno non pesasse affatto sulle palpebre del fiero pirata, già abituato alle lunghe veglie marittime. Anche il bengalese, quantunque la mezzanotte fosse ormai passata, aveva lo sguardo limpido come quello d’un uomo che si è ben riposato. — È finito il colloquio col francese? — chiese Sandokan, volgendosi verso Yanez. — È stato un po’ lungo, è vero? — disse il portoghese. — Dovevo però dargli molte spiegazioni che erano assolutamente necessarie. — Accetta? — Sí, egli sarà dei nostri. — Sa chi noi siamo? — Non ho creduto di nasconderglielo e sembra, mio caro Sandokan, che le nostre ultime imprese abbiano fatto un chiasso enorme anche in India. Gli antichi pirati di Mompracem sono gli eroi del giorno, dopo la tremenda lezione che abbiamo inflitta a James Brooke e qui siamo conosciuti piú di quello che tu creda. — Ed ha accettato egualmente il luogotenente? — Non siamo già venuti qui per mettere a sacco l’India, — disse Yanez, ridendo, — bensí per liberarla da una setta mostruosa che decima la popolazione. Noi rendiamo all’Inghilterra, la nostra antica nemica, un servizio troppo prezioso perché i suoi ufficiali se ne disinteressino. E chissà, mio caro Sandokan, che un giorno gli antichi capi delle tigri di Mompracem non finiscano rajah o marajah? — Preferirò sempre la mia isola e i miei tigrotti, — rispose Sandokan. — Sarò sempre piú possente e piú libero colà, che qui rajah, sotto gli occhi sospettosi degli inglesi. Ma lasciamo ciò e occupiamoci dei Thugs. Quando sei entrato eravamo parlando appunto di ciò con Tremal-Naik e Surama. Dopo quello che è avvenuto questa notte, mi pare che sia giunto il momento di lasciare in pace le tigri a quattro zampe, per dare addosso e senza porre indugi a quelle a due sole. — I Thugs o hanno indovinato o per lo meno sospettano le nostre intenzioni. Ci spiano, ormai non ho alcun dubbio ed erano noi che sorvegliavano e non già l’ufficiale. — E tali sono anche le mie convinzioni, — aggiunse Tremal-Naik. — Che qualcuno ci abbia traditi? — chiese Yanez. — E chi? — domandò Sandokan. — I Thugs hanno spie dovunque e la loro organizzazione è perfetta, — disse Tremal-Naik. — La nostra partenza è stata notata e segnalata a quelli che abitano queste jungle. È vero Surama che hanno emissari sparsi dappertutto, incaricati di vegliare sulla sicurezza di Suyodhana, che per loro rappresenta una specie di divinità, una nuova incarnazione di Kalí? — Sí, sahib, — rispose la giovane. — Hanno la cosí detta polizia nera, formata d’uomini d’un’astuzia e d’una furberia meravigliosa. — Sapete che cosa dobbiamo fare? — chiese Sandokan. — Parla, — disse Yanez. — Muovere su Rajmangal a marce forzate, cercando di distanziare piú che possiamo le spie che ci seguono e metterci in relazione col praho. Cerchiamo di colpire i Thugs, prima che abbiano il tempo di organizzare la resistenza e di sfuggirci portando con loro la piccola Darma. — Sí! Sí! — esclamò Tremal-Naik. — Sarebbero capaci di condurla altrove, se si accorgono di essere minacciati. — Alle quattro la partenza, — disse Sandokan. — Approfittiamo di queste tre ore per riposarci un po’. Yanez condusse Surama nella tenda che le era stata destinata, poi raggiunse quella dove il luogotenente dormiva. — Dorme ben profondamente il signor de Lussac, — disse ridendo. — La gioventú vuole i suoi diritti. E si coricò sulla propria coperta, chiudendo gli occhi. Alle quattro il corno del primo cornac suonava la sveglia. Gli elefanti erano già stati preparati e anche i sei malesi erano in piedi attorno al merghee. — Si parte per tempo, — disse il signor de Lussac, volgendosi verso Yanez che entrava con due tazze di thè. — Avete scovata qualche tigre? — No, andiamo però a cercarne altre un po’ lontane, nelle Sunderbunds e non saranno meno pericolose. — I Thugs? — Vuotate, signor de Lussac e montiamo il coomareah. Ci staremo egualmente nell’haudah e potremo anche chiacchierare. Abbiamo altre cose da dirvi sui nostri progetti. Un quarto d’ora dopo i due elefanti lasciavano il luogo che aveva servito d’accampamento e prendevano la corsa verso il sud, avendo i cornac ricevuto l’ordine di spingerli colla maggior rapidità possibile onde cercare di distanziare i Thugs. Quantunque gli indiani, che per la maggior parte sono magrissimi e assai agili, godano fama di essere corridori instancabili, non potevano certo gareggiare col lungo passo degli elefanti, né colla loro resistenza. Sandokan ed i suoi compagni però s’ingannavano di poter lasciarsi indietro i bricconi, che forse li seguivano fino dalla loro partenza da Khari. Ed infatti gli elefanti non avevano ancora percorso mezzo miglio, quando in mezzo alle altissime canne che coprivano quei terreni pantanosi si udí uno squillo acuto che pareva prodotto da una di quelle lunghe trombe di rame che gli indiani chiamano ramsinga. Tremal-Naik aveva sussultato, mentre la sua tinta bronzina diventava improvvisamente leggermente grigiastra. — Il maledetto istrumento dei Thugs, — aveva esclamato. — Le spie segnalano la nostra partenza. — A chi? — chiese Sandokan con voce perfettamente calma. — Ad altre spie che devono essere disseminate per la jungla. Odi? Ad una grande distanza, verso il sud si era udito un altro squillo, che giunse fino agli orecchi dei cacciatori come una nota debolissima d’un clarino da ragazzi. — I bricconi corrispondono colle trombe, — disse Yanez, aggrottando la fronte. — Verremo segnalati dovunque finché saremo nelle Sunderbunds. La cosa è grave. Che ve ne pare, signor de Lussac? — Io dico che quei dannati settari sono furbi come serpenti, — rispose l’ufficiale, — e che noi dovremo imitarli. — In quale modo? — chiese Sandokan. — Ingannandoli sulla nostra vera direzione. — Ossia? — Deviare per ora, per riprendere la marcia questa sera e marciare alla notte. — Resisteranno gli elefanti? — Accorderemo loro un lungo riposo nel pomeriggio. — La vostra idea mi pare buona, — disse Sandokan. — Di notte non ci vedono che gli animali a quattro gambe, ed i Thugs non saranno tigri. Che te ne pare Tremal-Naik? — Condivido pienamente il consiglio suggeritoci dal signor de Lussac, — rispose il bengalese. — È necessario che noi giungiamo nelle Sunderbunds senza che i Thugs lo sappiano. — Ebbene, — disse Sandokan, — marceremo fino a mezzodí poi ci accamperemo per riprendere la corsa questa sera, a notte inoltrata. La luna manca e nessuno ci vedrà. Diede ordine al cornac di cambiare direzione, piegando verso oriente, poi accese una sigaretta che Yanez gli porgeva e si mise a fumare colla sua solita calma, senza che un’ombra di preoccupazione apparisse sul suo viso. I due elefanti intanto continuavano la loro corsa indiavolata, imprimendo alla haudah delle scosse abbastanza brusche. Nessun ostacolo li arrestava e nella loro corsa schiantavano come fuscelli di paglia bambú grossissimi e sfondavano cespugli ed ammassi di calamus senza fermarsi un momento. La jungla non accennava a variare: canne, sempre canne, strette le une alle altre da una infinità di piante parassite e pantani coperti di foglie di loto, sulle quali si riposavano placidamente, senza scomporsi nemmeno per la presenza degli elefanti, cicogne, aironi e ibis brune. Truppe di splendidi pavoni, volatili ritenuti sacri dagli indiani perché rappresentavano, secondo le credenze, la dea Sarasvati, di quando in quando s’alzavano e se ne fuggivano via, lanciando note aspre e sgradevoli, facendo scintillare al sole le loro superbe piume sulle quali la porpora e l’oro si fondevano alle tinte scintillanti degli smeraldi. Altre volte invece erano bisonti, o meglio jungli-kudgia come vengono chiamati dagli indiani, che balzavano improvvisamente dinanzi agli elefanti e che, dopo un po’ di esitazione, scappavano con velocità fulminea non senza mandare dei muggiti minacciosi. Rassomigliavano molto ai colossali bisonti delle praterie del Far West americano, essendo del pari forniti d’una gobba robustissima e di taglia non inferiore e, talvolta, superando anche la lunghezza di tre metri. La corsa degli elefanti continuò cosí fino alle undici, poi essendo giunti in uno spazio scoperto dove si vedevano degli avanzi di capanne, Sandokan diede il comando della fermata. — Qui nessuno ardirà sorprenderci. Se qualcuno si avvicina lo scopriremo subito e poi abbiamo Darma e Punthy. — Che non potranno raggiungerci prima di qualche ora, — disse Tremal-Naik. Devono essere rimasti assai indietro, ma il cane non lascerà la tigre e la guiderà al nostro campo. — Ero un po’ inquieto per loro, — disse Yanez. — Non temere, verranno. Gli elefanti, appena liberati delle haudah si erano sdraiati al suolo. I poveri animali ansavano fortemente e apparivano stanchissimi e sudavano prodigiosamente. I due cornac però eransi subito occupati di loro, facendoli sdraiare all’ombra d’un bâr della cui corteccia sono avidissimi e spalmando immediatamente le loro teste, gli orecchi ed i piedi con grasso onde la pelle non si screpolasse. I malesi si erano invece occupati delle tende, essendo il calore diventato cosí intenso da non poter resistere all’aperto. Pareva che una vera pioggia di fuoco si riversasse sulla jungla e che l’aria diventasse rapidamente irrespirabile. — Si direbbe che sta per scatenarsi qualche uragano, — disse Yanez, che si era affrettato a rifugiarsi sotto una delle tende. — C’è pericolo, rimanendo fuori, di prendersi un colpo di sole. Tu Tremal-Naik, che sei cresciuto fra queste canne, ne saprai qualche cosa. — Sta per soffiare l’hot-winds e faremo bene a prendere le nostre precauzioni. Si corre il pericolo di morire asfissiati. — Hot-winds? Che cos’è? — Il simun indiano. — Un vento caldo insomma. — Piú terribile talvolta di quello che soffia nel Sahara, — disse il signor de Lussac, che entrava in quel momento nella tenda. — L’ho provato due volte, quand’ero di guarnigione a Lucknow, e ne so qualche cosa della violenza di quei venti. È vero che colà sono ben piú terribili, e anche piú ardenti, perché giungendo da ponente si riscaldano prima passando sulle sabbie infuocate del Marusthan, della Persia e del Belucistan. Una volta ho avuto quattordici cipayes asfissiati pel motivo che erano stati sorpresi in aperta campagna, senza alcun riparo. — A me però sembra che si prepari piú un ciclone che del vento caldo, — disse Yanez, additando delle nubi di color giallastro, che si alzavano dal nord-ovest, avanzandosi verso la jungla con rapidità incredibile. — Succede sempre cosí, — rispose il luogotenente. — Prima l’uragano poi il vento ardente. — Assicuriamo le tende, — disse Tremal-Naik, — e portiamole dietro agli elefanti i quali, coi loro corpacci, ci serviranno di barriera. I malesi, sotto la direzione dei due cornac e di Tremal-Naik, si misero all’opera, piantando attorno alle tende un gran numero di piuoli e tendendo parecchie corde al disopra delle tele. Le avevano rizzate fra un vecchio muro, avanzo d’un villaggio, e gli elefanti erano stati fatti coricare l’un presso l’altro. Mentre Surama, aiutata da Yanez, preparava la colazione, le nuvole avevano ormai coperto il cielo, stendendosi sopra la jungla e avanzandosi in direzione del golfo del Bengala. Cominciava a soffiare ad intervalli un vento ardentissimo, che essiccava rapidamente i vegetali e le pozze d’acqua, mentre le nuvole si addensavano sempre piú, diventando minacciosissime. Gli elefanti davano segni di viva agitazione. Barrivano di frequente, scuotevano gli orecchi e aspiravano fragorosamente l’aria come se non ne avessero mai a sufficienza per riempire i loro enormi polmoni. — Mangiamo alla lesta, — disse l’ufficiale che stava osservando il cielo sul limitare della tenda, in compagnia di Sandokan. — Il ciclone s’avanza con rapidità spaventevole. — Resisteranno le nostre tende? — chiese la Tigre della Malesia. — Se gli elefanti non si muovono, forse. — Rimarranno tranquilli? — Ecco quello che ignoro. Io ne ho veduti alcuni venire presi da un terrore improvviso e fuggire all’impazzata, senza piú obbedire alle grida dei loro guardiani. Vedrete che strage farà il vento di questi bambú. In quel momento si udí in lontananza un latrato. — Punthy che ritorna, — disse Tremal-Naik, precipitandosi fuori dalla tenda. — Il bravo cane giunge a tempo al rifugio. — Sarà seguito da Darma? — chiese Sandokan. — Eccola laggiú che s’avanza con balzi enormi, — disse il signor de Lussac. — Che bestia intelligente. — Ed ecco il ciclone che si rovescia su di noi, — disse uno dei due cornac. Un lampo abbagliante aveva spaccata in due la massa di vapori densi e gravidi di pioggia, mentre un improvviso colpo di vento, d’una impetuosità straordinaria, spazzava la jungla, facendo curvare fino a terra i giganteschi bambú e torcendo i rami dei tara e dei pipal. Capitolo XVIII. IL CICLONE Gli uragani che scoppiano nella grande penisola indostana non hanno ordinariamente che una durata brevissima, però la loro violenza è tale che noi europei non possiamo farcene un’idea. Occorrono pochi minuti per devastare delle regioni intere e rovesciare perfino delle città. La forza del vento è incalcolabile e soli i grossi edifizi vi possono resistere ed i piú colossali alberi come i pipal ed i fichi delle pagode. Basta ricordare, per farsene una pallida idea, quello scoppiato nel Bengala nel 1866 che uccise ventimila bengalesi a Calcutta e centomila nelle pianure costeggianti l’Hugly. Le persone sorprese nelle vie della città venivano sollevate come piume e sbattute contro le pareti delle case, i palanchini venivano trasportati in aria assieme alle persone che vi si trovavano dentro; le capanne della città nera schiantate di colpo, correvano per le campagne. Il peggio fu quando il ciclone, cambiando direzione, respinse le acque dell’Hugly, che si rovesciarono sulla città seco trascinando duecento e quaranta navi che si trovavano ancorate lungo il fiume e che si fracassarono le une contro le altre. L’enorme massa d’acqua, spinta dal vento, in pochi momenti spazzò via tutti i quartieri poveri della capitale, trascinando ben lontani gli avanzi, ed atterrò portici, palazzi, colonnati e ponti riducendo quella opulenta città in un mucchio spaventevole di rovine. E non è tutto. Quasi sempre dietro ai cicloni si succedono dei venti caldi chiamati dagl’indiani hot-winds, che non sono meno temuti. Il loro calore è tale che gli europei, non abituati, non possono uscire dalle loro case sotto il pericolo di morire asfissiati di colpo. Ai primi soffi del simun, anche gl’indigeni, sono obbligati a prendere delle pronte misure, per impedire che le loro abitazioni diventino dei veri forni ardenti. Turano tutte le aperture, le finestre comprese, con fitti pagliericci che chiamansi tatti e che bagnano senza posa, onde il vento passando attraverso quegli ostacoli umidi, perda buona parte del suo intenso calore e non renda l’aria irrespirabile. Per di piú fanno funzionare disperatamente le punka e certe grandi ruote a vento chiamate thermantidoti per mantenere nelle stanze un po’ di frescura. Nondimeno, malgrado tutte quelle precauzioni, molte persone muoiono asfissiate, specialmente nelle alte regioni dell’India occidentale, essendo colà i venti caldissimi giungendo dai deserti. Il ciclone che stava per rovesciarsi sulla jungla, prometteva di essere non meno terribile degli altri e destava serie apprensioni in Tremal-Naik, che conosceva la furia di quelle trombe, e nei due cornac. In quanto a Sandokan e Yanez, sembrava che non se ne preoccupassero affatto. Se non conoscevano i cicloni indiani, avevano sfidati per lunghi anni quelli che si scatenano sui mari della Malesia, certo non meno formidabili e non meno pericolosi. Quantunque le prime folate di vento cominciassero a scuotere violentemente le tende, il portoghese, improvvisatosi cuoco, aveva allestita la colazione aiutato da Surama. — Andiamo, — gridò. — Un boccone per diventare un po’ piú pesanti, onde il vento non ci sollevi troppo facilmente. Avremo un po’ di musica a base di tuoni, ma bah! I nostri orecchi ci sono abituati e poi... Un rombo spaventevole, paragonabile allo scoppio d’una polveriera, echeggiò sulla jungla, seguito subito da fragori assordanti che si ripercuotevano fra il cielo e la terra con una intensità assordante. — Che orchestra! — esclamò il signor de Lussac, stendendosi presso il tappeto su cui fumavano, entro piatti d’argento, degli intingoli. — Non so se Giove ed Eolo ci lasceranno finire la colazione. — Si direbbe che il cielo sta per crollarci addosso, con tutti i mondi noti ed ignoti che contiene, — disse Yanez. — Che colpi di gran cassa! Adagio, suonatori o ci sfonderete i timpani degli orecchi. I fragori continuavano aumentando d’intensità. Pareva che migliaia e migliaia di furgoni carichi di lastre metalliche, venissero trascinati all’impazzata su dei ponti di ferro. Larghe gocce d’acqua cadevano con un crepitio sinistro sui vegetali che coprivano l’immensa pianura, mentre lampi abbaglianti solcavano le nerissime nubi. Ad un tratto si udirono in lontananza dei sibili acuti che diventavano rapidamente piú distinti e che pareva si dovessero tramutare in veri ruggiti. Tremal-Naik si era alzato. — Ecco le raffiche che giungono, — disse. — Appoggiatevi contro la tela o la tenda verrà portata via. Una tromba d’aria si rovesciava sulla jungla, sradicando i bambú e quanto incontrava nella sua corsa. Rami, canne e cespugli volteggiavano in aria come se fossero fuscelli di paglia. La tromba passò sopra l’accampamento con un fragore assordante, abbattendo le pareti d’argilla che ancora rimanevano dell’antico villaggio, ma la tenda, riparata dai corpi colossali degli elefanti, per un caso prodigioso, resistette. — Che ritorni? — chiese Yanez. — Avrà delle compagne dietro di sé, — rispose Tremal-Naik. — Non sperare di cavartela cosí presto. Il ciclone è appena cominciato. Quantunque la pioggia cadesse a torrenti, Sandokan ed il francese erano usciti per accertarsi se anche la tenda dei malesi aveva resistito. Videro invece i loro uomini correre all’impazzata fra i bambú divelti, dietro la tela che il vento trasportava, simile ad un uccellaccio fantastico, attraverso alla jungla. La tromba d’aria aveva tutto rovesciato nei dintorni dell’accampamento. Solo un enorme pipal, dal tronco immenso, aveva resistito a quella furia di vento, perdendo solamente buona parte dei suoi rami. Frammenti di cespugli, foglie gigantesche strappate ai palmizi volavano in tutte le direzioni, mentre sotto di essi si vedevano a fuggire, travolti e sbattuti dal vento, arghilah, oche bramine, marangoni, folaghe, cicogne e pavoni. Degli animali balzavano per la pianura, in preda ad un terrore pazzo. Si vedevano sfilare, a galoppo sfrenato, bisonti, axis, cervi e daini. Quattro o cinque nilgò, quasi si sentissero piú sicuri presso gli uomini, si erano coricati dietro un muricciolo che si ergeva nei pressi dell’accampamento e se ne stavano rannicchiati gli uni addosso gli altri, colla testa nascosta fra le gambe. — Dovrebbero rimanere lí fino a che sarà cessato l’uragano, per servire domani di colazione, — disse Sandokan, indicandoli, al francese. — Appena il vento non soffierà piú se ne andranno come fulmini, — rispose il luogotenente. — Lasciamoli scomparire; ne troveremo altri. Ecco un’altra tromba, e s’annuncia piú terribile della prima. Signor Sandokan, rientriamo nella tenda. Sibili spaventosi s’udivano in lontananza e si vedevano i palmizi tara, risparmiati dalla raffica precedente, cadere come se fossero abbattuti da una scure gigantesca. Quasi nell’istesso momento, come se Giove fosse stato geloso della possanza di Eolo, raddoppiò i suoi tuoni ed i suoi fulmini. Il fracasso era diventato tale che gli uomini raccolti sotto la tenda non potevano piú udirsi. I due elefanti, spaventati da quei rombi, da quegli scoppi e dai ruggiti del vento, cominciavano ad agitarsi. Non udivano piú le grida dei loro cornac che si erano coricati fuori dalla tenda per calmarli. La tromba d’aria che s’avanzava con velocità straordinaria stava per rovesciarsi sul campo, quando il coomareah si rizzò bruscamente, mandando un barrito formidabile. Stette un momento ritto, colla proboscide tesa, aspirando il vento, poi, preso da un terrore pazzo si scagliò in mezzo alla jungla senza piú badare alle grida del suo cornac. Sandokan ed i compagni erano balzati fuori per prestare mano forte ai due guardiani, ma in quell’istante la tromba piombò loro addosso e si sentirono prima sollevare, poi trascinare fra un nembo di vegetali che roteavano in tutte le direzioni. La tenda, strappata di colpo, fuggiva dietro di loro sbattendo come una vela. Per cinque minuti Sandokan, Yanez, Tremal-Naik ed il francese furono ruzzolati fra i bambú divelti, finché si arrestarono contro il tronco d’un pipal, che per fortuna si trovava sul percorso della tromba e che aveva resistito al tremendo urto. Quando la raffica fu passata e successe una breve calma, si rialzarono, pesti sí, colle vesti a brandelli, ma senza gravi contusioni. Il coomareah ormai era scomparso assieme al suo cornac che gli si era lanciato dietro; l’altro, il merghee, giaceva ancora in mezzo nell’accampamento, colla testa nascosta fra le zampe, in una posa però che non sembrava piú naturale. — E Surama? — esclamò ad un tratto Yanez, mentre si preparavano a raggiungere il campo, dove speravano di trovare ancora un rifugio. — Sarà rimasta presso l’elefante, -rispose Sandokan. — Io non l’ho veduta uscire dalla tenda. — Gambe, signori, — disse il luogotenente. — Non lasciamoci cogliere qui dalle raffiche. Dietro all’elefante ci troveremo meglio riparati. — E l’altro? — Non preoccupartene, Yanez, — disse Tremal-Naik. — Quando l’uragano sarà passato lo vedremo ritornare assieme al suo cornac. — Ed ai nostri uomini, spero, — aggiunse Sandokan. — Dove si saranno rifugiati costoro che non si scorgono piú? — Affrettiamoci, signori, — disse il luogotenente. Stavano per mettersi in corsa, quando fra i sibili del vento e lo scrosciare dei tuoni, udirono una voce umana a gridare: — Aiuto, sahib! Yanez aveva fatto un salto. — Surama! — Chi la minaccia? — urlò Tremal-Naik. — Dove è Darma? Punthy!... Punthy!... Né il cane né la tigre risposero. Forse erano stati travolti anche loro dalla tromba ed avevano trovato qualche altro rifugio. — Avanti! — gridò Sandokan. Tutti si erano slanciati verso l’accampamento, essendosi udito il grido di Surama in quella direzione. Non si poteva distinguere bene ciò che accadeva all’accampamento, in causa dell’oscurità innanzi a tutto, poiché lo spessore enorme delle nubi accumulate in cielo intercettava completamente la luce solare, e poi in causa dei vegetali che volteggiavano in alto ed in basso, spinti, travolti e sbattuti dalle raffiche che si succedevano senza interruzione. Solamente la massa colossale del merghee spiccava fra i muricciuoli diroccati dell’antico villaggio. Sandokan ed i suoi compagni correvano come se avessero le ali ai piedi. Avendo lasciati i loro fucili nelle haudah, avevano impugnati i coltelli da caccia, armi pericolose nelle loro mani, specialmente in quelle dei due pirati, abituati al maneggio del kriss malese. In meno di cinque minuti giunsero all’accampamento. La seconda tromba d’aria aveva dispersi tutti i bagagli, i sacchi delle provviste, le casse delle munizioni, le tende di ricambio ed aveva perfino rovesciate le haudah che giacevano col fondo in aria. Non vi era nessuno: né Surama, né il cornac, né Darma, né Punthy. Solo l’elefante pareva che sonnecchiasse o che fosse per esalare l’ultimo respiro perché lo si udiva rantolare o per lo meno russare. — E dov’è quella fanciulla? — si domandò Yanez, girando lo sguardo in tutte le direzioni. — Io non la scorgo in alcun luogo, eppure è stata lei a mandare quel grido. — Che sia stata sepolta sotto questi ammassi di canne e di foglie? — disse Sandokan. Il portoghese lanciò tre chiamate tuonanti: — Surama! Surama! Surama! Solo i rauchi brontolii dell’elefante risposero. — Che cos’ha il merghee? — chiese ad un tratto il francese. — Si direbbe che sia moribondo. Non udite come la sua respirazione è sibilante? — È vero, — rispose Tremal Naik. — Che sia stato ferito da qualche tronco d’albero portato da quella maledetta tromba? Ne ho veduto piú d’uno volteggiare sulle ali del turbine. — Andiamo a vedere, — disse Sandokan. — Mi pare che qui sia avvenuto qualche cosa di straordinario. Mentre il portoghese percorreva i dintorni dell’accampamento, rimuovendo gli ammassi di canne che il vento aveva accumulati in grande quantità e chiamando per nome la povera fanciulla, gli altri s’accostarono all’elefante. Un grido di furore sfuggí a tutti i petti. Il merghee era realmente moribondo e stava per esalare l’estremo respiro e non già in causa di qualche tronco spintogli addosso dalla tromba, bensí per mano colpevole. Il povero animale aveva ricevuto due orribili ferite nelle gambe posteriori che gli avevano recisi i tendini e dalle quali sfuggiva il sangue in cosí gran copia che tutto il terreno ne era inzuppato. — L’hanno assassinato! — aveva gridato Tremal-Naik. — Ecco il colpo di spada dei cacciatori d’avorio! — E chi? — chiese la Tigre della Malesia con voce sibilante. — Chi? I Thugs, ne sono certo. — E l’elefante sta per morire, — aggiunse il signor de Lussac. — Esso è perduto; non ha che pochi minuti di vita. La Tigre della Malesia aveva mandato un vero ruggito. — Che quei miserabili abbiano approfittato della tromba per piombare sul nostro campo? — chiese. — Questa è la prova, — rispose Tremal-Naik. — E come possono essere scampati alla tromba, mentre noi veniamo portati via come fuscelli di paglia? Tremal-Naik stava per rispondere, quando un grido del francese lo interruppe. Il signor de Lussac si era precipitato dietro un muricciolo di fango, il solo che aveva resistito e mostrava una pelle di nilgò, urlando. — Rettili dannati! E noi li avevamo scambiati per animali autentici. Ah!... È troppo!... Sandokan e Tremal-Naik si erano affrettati a raggiungerlo. Presso l’ufficiale, addossate contro il muricciolo, si scorgevano altre pelli d’animali. — Capitano Sandokan, — disse il francese, — vi ricordate di quei cinque o sei nilgò che avevano cercato rifugio dietro questo muricciolo? — Erano Thugs camuffati da cervi, — disse la Tigre della Malesia. — Sí, signore. Vi rammentate come si avanzavano strisciando sul ventre e tenendo le zampe nascoste fra le erbe? — Sí, signor de Lussac. — Quei bricconi ci hanno giuocati con un’audacia incredibile. — E hanno approfittato della tempesta che ci ha scaraventati fuori dal campo, per mutilare l’elefante. — E rapire Surama, — aggiunse Tremal-Naik. — La fanciulla doveva essere rimasta impigliata fra le corde della tenda. — Yanez!... — gridò Sandokan. — È inutile che tu cerchi Surama. A quest’ora deve essere ben lontana, ma non disperarti. Noi daremo la caccia ai rapitori. Il portoghese che in fondo al cuore, quantunque non lo dimostrasse, doveva nutrire una viva affezione per la disgraziata figlia del piccolo rajah assamese, per la prima volta forse in vita sua, perdette la calma. — Devo ucciderli tutti e guai a loro se torceranno un capello a quella povera fanciulla! Ora sento anch’io di odiare a morte quei mostri. — Se ci hanno ucciso il merghee ci rimane il coomareah, — disse Sandokan. — Daremo la caccia a quei banditi senza accordare a loro un momento di tregua. — Eccolo laggiú anzi che ritorna assieme al suo cornac ed ai vostri malesi, — disse il signor de Lussac. — Pare che si sia calmato. Infatti il colossale elefante s’avvicinava di corsa, portando sulla poderosa groppa non solo il suo guardiano, bensí anche la scorta di Sandokan, la quale dopo un lungo inseguimento era riuscita ad impadronirsi della tenda che il vento doveva aver spinta assai lontana. Mancavano però il cornac del morente merghee, Surama, Darma e anche Punthy. Che i Thugs avessero potuto uccidere il primo e rapire la seconda si poteva ammetterlo; che avessero affrontati e vinti la terribile tigre ed il grosso cane era un po’ difficile a crederlo. — Che cosa ne pensi Tremal-Naik dei tuoi animali? — chiese Sandokan. — Sono certo che torneranno presto, a menoché non abbiano seguiti i Thugs. Tu sai quanto sia intelligente Punthy e quanto odia i settari di Kalí dopo che rimase prigioniero nei sotterranei di Rajmangal, e Darma divide i suoi rancori. — Che la tigre abbia seguito il cane? — Non ne dubito. Sono stati allevati insieme e piú volte, quando io cacciavo nelle Sunderbunds, li ho veduti aiutarsi a vicenda e anche... Un barrito acutissimo, che parve una nota che sfuggisse da un’enorme tromba di bronzo, gli interruppe la frase. Il povero merghee con uno sforzo disperato si era alzato sulle zampe posteriori, tenendo la proboscide tesa quasi orizzontalmente. — Muore, — disse il signor de Lussac, con voce commossa. — Vigliacchi! Prendersela con una cosí brava bestia! L’elefante aspirava affannosamente l’aria ed il suo corpaccio era scosso da tremiti convulsi che gli facevano ballare le immense orecchie. Sandokan ed i suoi compagni stavano per avvicinarglisi, quando il colosso stramazzò pesantemente, rovesciandosi su un fianco e vomitando dalla proboscide un largo getto di sangue misto a bava. Nel medesimo istante si udí una voce lamentevole gridare: — È morto! Siano maledetti quei cani! Era il cornac del merghee che compariva fra gli ammassi di canne e di cespugli strappati dall’uragano, seguito da Darma e da Punthy. Capitolo XIX. LA SCOMPARSA DELLA BAJADERA Il cornac tornava all’accampamento in uno stato deplorevole e pareva che avesse fatta una lunga corsa. Era infangato dai piedi alla testa, le sue vesti erano strappate in dieci parti, aveva perduto il turbantino e la fascia che gli sorreggeva il dubgah e le sue gambe nude sanguinavano fino sopra il ginocchio. Aveva però in mano il suo uncino di cui si serviva per guidare il merghee, arma sufficiente per spaccare il cranio ad un uomo. Vedendolo comparire, tutti gli si erano precipitati incontro, soffocandolo di domande. Il povero diavolo però, che respirava affannosamente, non rispondeva che con gesti disperati, accennando ora l’elefante ed ora la jungla. — Bevi un sorso, — disse Sandokan che teneva ancora a fianco la sua fiaschetta ripiena di cognac. — Prendi lena e narra tutto senza perdere tempo. Che cosa è accaduto qui? Chi ha ucciso il merghee? E la fanciulla? Il cornac bevette avidamente alcune sorsate, poi con voce ancora rotta per l’emozione e per la lunga corsa, disse: — I Thugs... erano là... nascosti dietro quel muricciolo... con indosso delle pelli di nilgò... i miserabili... aspettavano il momento per piombarci addosso. — Adagio, — disse Sandokan. — Spiegati meglio. Per quanto fuggano noi li raggiungeremo col coomareah, quindi abbiamo tempo. — La tremenda raffica che ci ha investiti, mi aveva spinto a due o trecento passi dal mio elefante, scaraventandomi in mezzo ad un cespuglio di mindi che attutí l’urto della mia caduta. Mi ero appena rimesso in piedi e stavo per accorrere in vostro aiuto, quando udii nel campo delle grida di donna che invocavano soccorso. Supponendo che la fanciulla si trovasse in pericolo, non vedendo piú voi, mi diressi da quella parte. Prima che vi potessi giungere vidi cinque animali, cinque nilgò, alzarsi dietro un muricciolo di fango, gettare in aria le pelli... e comparire invece uomini, nudi come vermi, che avevano attorno le reni il laccio degli strangolatori. Due di loro che erano armati di larghe sciabole, si scagliarono contro il mio povero elefante, tagliandogli con due poderosi colpi i tendini delle zampe posteriori; gli altri invece si gettarono fra le haudah che il vento aveva rovesciate e fra le quali si trovava Surama che il corpaccio del merghee aveva protetto contro la furia della tromba. Afferrarla, legarla con due lacci e portarla via fu l’affare d’un solo momento. La disgraziata non aveva avuto che il tempo di gridare: «Aiuto, sahib!». — Lo abbiamo udito quel grido, — disse Yanez. — È me che chiamava. E poi? — Mi sono slanciato sulle tracce dei fuggiaschi, chiamando disperatamente il cane e la tigre che avevo veduto ruzzolare fra le canne ed i rami dalla parte dell’accampamento e cadere insieme. Il primo fu pronto ad accorrere alle mie chiamate, ma ormai i Thugs, che fuggivano come antilopi, erano scomparsi fra il caos di vegetali. Nondimeno continuai ad inseguirli preceduto dal cane e seguito poco dopo dalla tigre. Tutto fu inutile. La terra inzuppata non permetteva piú a Punthy di fiutare le orme dei Thugs. — Quale direzione hanno presa? — chiese Sandokan. — Fuggivano verso il sud. — Credi tu, Tremal-Naik, che abbiano riconosciuto in Surama una delle loro bajadere? — Non ne dubito, — rispose il bengalese. — Diversamente non avrebbero esitato a strangolarla per offrire una vittima di piú alla loro mostruosa divinità. — Allora fra quei Thugs vi doveva essere qualcuno che la conosceva. — Io ritengo che quegli uomini ci seguano dalla sera in cui noi assistemmo alla festa del fuoco. — Eppure noi abbiamo prese tutte le precauzioni per non venire spiati. — Mi viene un sospetto, — disse Yanez. — Quale? — Che qualcuno o piú uomini che facevano parte dell’equipaggio delle grab, abbiano preso terra contemporaneamente a noi e che non ci abbiano piú lasciati. Diversamente come si spiegherebbe questo ostinato inseguimento? — Io credo che tu abbia piú ragione di noi, — disse Sandokan. Stette un momento silenzioso, poi disse: — Il ciclone accenna a calmarsi e le raffiche diminuiscono rapidamente. Organizziamo la caccia ai rapitori. Cornac, può portarci tutti il tuo elefante? — È impossibile, signore. — Vuoi un consiglio, Sandokan? — chiese Tremal-Naik. — Parla. — Dividiamo il nostro drappello. Noi daremo la caccia a quei bricconi col coomareah, mentre i tuoi malesi ci raggiungeranno sulle rive del canale di Raimatla. — E chi li condurrà? — Il cornac del merghee che conosce le Sunderbunds quanto me. — È vero, sahib, — rispose il cornac. — Affideremo anche a loro Darma e Punthy che non potrebbero seguirci. — Sí, — disse Sandokan. — Noi siamo in numero sufficiente per affrontare i rapitori. E poi mi preme mettermi a contatto cogli uomini della Marianna. — Una parola ancora, amico mio. Il canale di Raimatla è lungo ed è necessario che i tuoi uomini ci trovino subito, onde non farci perdere del tempo che può diventare per noi preziosissimo. Cornac, hai udito parlare della vecchia torre di Barrekporre? — Sí, sahib, — rispose il conduttore d’elefanti. — Vi sono stato una volta per tre giorni, per non venire divorato dalle tigri. — È là che noi ti aspetteremo. Si trova quasi di fronte alla punta settentrionale di Raimatla, sul margine estremo della jungla. — Condurrò là i tuoi uomini, in quattro o cinque giorni noi vi giungeremo. — Fa’ mettere l’haudah al coomareah. I due cornac, aiutati dai malesi, bardarono l’elefante che era ridiventato docilissimo, assicurando la cassa con catene e larghe cinghie d’una solidità a tutta prova, poi caricarono i bagagli e le cassette delle munizioni. Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed il francese presero posto nell’haudah ed il coomareah ad un fischio del suo conduttore partí al trotto, dirigendosi verso oriente, ossia nella direzione presa dai rapitori di Surama. Il ciclone dopo quelle tre o quattro raffiche poderose, che avevano sconvolta la jungla, devastandola completamente, si era calmato. Quei perturbamenti atmosferici, se sono d’una violenza inaudita, come abbiamo già detto, hanno una durata brevissima, talvolta di pochi minuti. Le masse di vapore cominciavano a lacerarsi qua e là e fuggivano verso il golfo del Bengala. L’oscurità si diradava e attraverso gli strappi delle nuvole scendevano dei raggi di sole, producendo uno strano effetto. La jungla però si era tramutata in un caos di vegetali ammucchiati qua e là capricciosamente. Vi erano ammassi di bambú alti parecchi metri, che l’elefante era costretto a girare; tronchi atterrati, enormi cumuli di foglie ed anche un gran numero di animali morti, specialmente cervi, axis e nilgò. Il suolo poi si era cosí inzuppato d’acqua da tramutare la jungla in un immenso pantano, entro cui talvolta il coomareah sprofondava fino al ventre, imprimendo all’haudah delle scosse cosí brusche, da obbligare i cacciatori a tenersi bene stretti alle corde per non venire sbalzati fuori. Dei rapitori di Surama non si scorgeva però alcuna traccia, quantunque l’elefante avanzasse con una velocità tale da superare il galoppo d’un buon cavallo. Invano Sandokan, Yanez ed i loro compagni giravano gli sguardi in tutte le direzioni: i Thugs non si scorgevano in alcun luogo, eppure non sarebbe stato difficile scoprirli, ora che i bambú erano stati abbattuti e che i kalam, ossia le alte erbe, giacevano piegate al suolo. — Che ci siamo ingannati sulla direzione che hanno presa? -chiese Yanez dopo un’ora di continuo galoppo. — Dobbiamo già aver percorso almeno dieci miglia a quest’ora. — O che li abbiamo invece sopravvanzati? — disse Tremal-Naik. — In tal caso li avremmo veduti. La jungla è scoperta e da questa altezza si può scorgere facilmente un uomo. — E meglio ancora un elefante, — ribatté il bengalese. — Che cosa vuoi dire, Tremal-Naik? — Che è piú facile che i Thugs abbiano prima scorto il coomareah, che noi. — Vorresti quindi concludere? — chiese Sandokan. — Che potrebbero essersi nascosti per lasciarci passare. — Ed i nascondigli qui non mancano, — disse il luogotenente. — Basta cacciarsi sotto uno di questi ammassi di canne e di foglie per rendersi invisibili. — Udiamo, — disse Sandokan, volgendosi verso Tremal-Naik. — Dove credi che conducano la fanciulla? — A Rajmangal di certo, — rispose il bengalese. — È un’isola, Rajmangal, è vero? — Sí. — Divisa da che cosa dalla jungla? — Da un fiume: il Mangal. — Per raggiungerla dove credi che si imbarchino? — In qualche rada della vasta laguna. — Sicché se noi incrociassimo presso l’isola... — Potremmo sorprenderli, arrivando prima, potendo avere a nostra disposizione una scialuppa. — Avranno buone gambe i Thugs, ma che possano rivaleggiare con un elefante che va di galoppo, non lo ammetterò mai. — No di certo. — Allora concludo, — disse Sandokan che parea seguisse un’idea fissa. — Noi spingeremo l’elefante meglio che potremo, in modo da giungere sulle rive delle Sunderbunds con un notevole vantaggio sui rapitori di Surama. Quando ci saremo messi in comunicazione col mio praho, armeremo la baleniera e andremo ad incrociare sulle coste di Rajmangal. — E li prenderemo prima che sbarchino sulla loro isola, — disse il signor de Lussac. — E li fucileremo come cani, — aggiunse Yanez. — Allora avanti e sempre di galoppo, — disse Sandokan. — Ehi, cornac, cinquanta rupie di regalo se puoi portarci sulle rive delle Sunderbunds prima di mezzanotte. Lo credi possibile, Tremal-Naik? — Sí, se l’elefante non rallenta, — rispose il bengalese. — Siamo ben lontani, tuttavia vi giungeremo. Il coomareah ha le gambe lunghe e vince un buon cavallo nella corsa. Spingi, cornac, spingi sempre. — Sí, sahib, — rispose il conduttore. — Mettete solo a mia disposizione alcuni chilogrammi di zucchero ed il coomareah non smetterà di trottare. L’elefante manteneva un galoppo ammirabile, senza che il suo conduttore avesse bisogno di aizzarlo coll’arpione, quantunque il terreno si prestasse poco per un corridore cosí pesante, essendo sempre pantanoso. In meno di due ore attraversò il tratto spazzato dal ciclone e raggiunse la jungla meridionale, che pareva non avesse sofferto nulla da quelle trombe d’aria. Infatti i bambú giganti, i calamus ed i foltissimi cespugli di mindi e di mussenda riapparivano a macchioni, interrotti di quando in quando da gruppi di splendidi cocchi, di pipal, di mangifere, di palmizi tara e di latanie, che crescevano sulle rive degli stagni. Un’ora piú tardi l’elefante, che non aveva cessato di trottare, si cacciava in mezzo ad una immensa piantagione di bambú spinosi e di bambú tulda, d’altezza straordinaria. — Apriamo gli occhi, — disse Tremal-Naik. — Questo è un vero posto da imboscate e un uomo potrebbe facilmente ammazzarci l’elefante con un colpo di tarwar nelle gambe posteriori. — Nulla però accadde e nessun pericolo minacciò l’elefante. Verso il tramonto Sandokan ordinò la fermata, per concedere un po’ di riposo al bravo animale, il quale cominciava a dare segni di stanchezza e anche per preparare la cena. D’altronde tutti sentivano il bisogno di un po’ di tregua, giacché le incessanti scosse li avevano completamente fiaccati. Il cornac che ci teneva a guadagnare le cinquanta rupie promessegli da Sandokan, fece un’ampia raccolta di foglie di bâr (ficus indica) e di rami di pipal e erbe di typha di cui gli elefanti sono ghiottissimi e raddoppiò la razione di ghi e di zucchero, onde il pachiderma conservasse le sue forze. Alle nove il coomareah ben pasciuto e rinvigorito da una bottiglia di gin tracannata d’un sol fiato come fosse semplice acqua, riprendeva il trotto sfondando impetuosamente l’enorme massa dei vegetali. L’influenza dell’aria marina cominciava a farsi sentire. Una brezza abbastanza fresca ed impregnata di salsedine soffiava dal sud, indicando la vicinanza delle immense lagune che si stendono fra la costa del continente e la moltitudine d’isole e d’isolotti che formano le Sunderbunds. — Fra un paio d’ore e anche prima, giungeremo sulle rive del mare, — disse Tremal-Naik. — Ma noi non abbiamo pensato ad una cosa, — disse ad un tratto Yanez. — Se il praho incrocia nel canale di Raimatla, come lo raggiungeremo mentre non possediamo alcuna scialuppa? — Non vi è alcun villaggio di pescatori sulle rive? — chiese Sandokan. — Una volta ve n’erano, — rispose Tremal-Naik, — ora i Thugs hanno distrutte le capanne e anche gli abitanti. Non vi è che la piccola stazione inglese di Port-Canning, però troppo lontana e perderemmo un tempo troppo prezioso per noi. — Bah! Costruiremo una zattera, — disse Sandokan. — I bambú si prestano benissimo. — E l’elefante? — chiese Yanez. — Il cornac lo condurrà là dove abbiamo dato appuntamento ai tuoi malesi, — rispose Tremal-Naik. — Se poi... Oh! Un urlo acuto in quel momento ruppe improvvisamente il profondo silenzio che regnava nella jungla. — Uno sciacallo? — chiese Sandokan. — Bene imitato, — rispose Tremal-Naik che si era bruscamente alzato, interrompendo la frase. — Come! non credi che sia stato veramente uno sciacallo? — Che cosa dici cornac, di quell’urlo? — chiese Tremal-Naik, volgendosi verso il conduttore del coomareah. — Che qualcuno ha cercato d’imitare il mangiatore di carogne, — rispose l’indiano con accento inquieto. — Vedi nulla tu? — No, sahib. — Che siamo stati seguiti? — chiese il francese. — Tacete! — comandò Tremal-Naik. Una nota metallica echeggiò in mezzo ai folti bambú spinosi, seguita da alcune modulazioni. — Ancora il ramsinga! — esclamò Tremal-Naik. — Ed il suonatore non deve essere lontano piú di tre o quattrocento passi, — disse Yanez afferrando la carabina e armandola precipitosamente. — L’avevo detto io che questo era un vero luogo d’imboscate. — Sono diavoli o spiriti quegli uomini! — esclamò Sandokan. — O uccelli? — disse il signor di Lussac. — Devono avere le ali per seguirci sempre. — Ascoltate! — esclamò Tremal-Naik. — Si risponde! Un altro ramsinga aveva risposto, assai lontano. Tre volte squillò su diversi toni, poi il silenzio tornò. I quattro cacciatori, in preda ad una viva agitazione, si erano alzati colle carabine in pugno, scrutando attentamente le alte canne della jungla. Erano però in quel luogo cosí fitte e l’oscurità cosí profonda, che non era possibile discernere un uomo nascosto fra quel caos di vegetali d’alto fusto. — Che ci tendano una imboscata? — chiese Sandokan, rompendo il silenzio. — Se fermassimo l’elefante e facessimo una battuta? Che te ne pare Yanez? Il portoghese stava per rispondere, quando quattro o cinque lampi balenarono fra i bambú, seguiti da parecchie detonazioni. Il coomareah si era arrestato di colpo, imprimendo all’haudah una tale scossa che per poco gli uomini che la montavano non furono scaraventati in aria, poi fece uno scarto improvviso mandando contemporaneamente un barrito spaventevole. — L’elefante è stato toccato! — si udí a gridare il cornac. Sandokan, Yanez ed i loro compagni avevano fatto fuoco verso il luogo ove avevano veduto balenare i lampi. Parve a loro di udire un grido, ma non ebbero il tempo di accertarsene, poiché l’elefante si era slanciato a corsa disperata, riempiendo la jungla di clamori assordanti. — Sahib! — gridò il cornac, che aveva le lacrime agli occhi. — Il coomareah è ferito! Udite come si lagna? — Lascialo correre finché esalerà l’ultimo respiro, — rispose freddamente Sandokan. — È una fortuna che perderete, sahib! La Tigre della Malesia alzò le spalle, senza rispondere. Il pachiderma, che doveva aver ricevuto piú d’una palla, reso furioso pel dolore, divorava la via colla velocità d’un cavallo arabo, tutto atterrando e fracassando sul suo passaggio. Barriva incessantemente ed imprimeva all’haudah tali scosse che i quattro cacciatori dovevano tenersi ben stretti ai bordi e alle funi per non venire sbalzati fuori. Quella corsa indiavolata durò venti minuti, poi il coomareah s’arrestò. Si trovava sulla riva della laguna: stava per morire a giudicarlo dal tremito che scuoteva il suo corpo e dai suoi barriti che diventavano rapidamente piú deboli, ma la sua missione l’aveva compiuta. I cacciatori si trovavano all’estremità della jungla e le Sunderbunds pantanose si stendevano dinanzi a loro, al di là della laguna. Il cornac aveva mandato un grido: — Scendete: il coomareah sta per cadere! I cacciatori gettarono frettolosamente la scala di corda, presero le loro armi e scesero a precipizio, mentre il cornac si lasciava scivolare lungo il fianco destro del colosso. Si erano appena allontanati di pochi passi quando il povero coomareah cadde pesantemente colla testa in avanti, spezzandosi le due zanne. Era morto sul colpo. — Ecco altre cinquantamila lire perdute, — disse Yanez. — Bah! Non è il denaro che ci fa difetto, ed i Thugs pagheranno anche questa morte! Capitolo XX. LA TORRE DI BARREKPORRE L’elefante era stramazzato a venti passi dalla riva, su un suolo cosí fangoso e cedevole, che pochi minuti dopo metà dell’enorme massa di carne era sprofondata. L’acqua trasudava da tutte le parti come se quell’estremo lembo della immensa jungla fosse spugnoso e traforato come un crivello. Piante acquatiche crescevano dappertutto, con uno sviluppo prodigioso ed un enorme gruppo di paletuvieri esalanti miasmi deleteri, costeggiava la spiaggia, avanzandosi molto innanzi sulle acque della laguna. Un tanfo ammorbante che faceva arricciare il naso a Yanez ed al francese, e che pareva prodotto dall’imputridire di carogne gettate in acqua, regnava dovunque, tanfo pericoloso che doveva produrre febbri e cholera. — Bel luogo! — esclamò Yanez, che si era spinto verso i paletuvieri, mentre Sandokan, il cornac e Tremal-Naik vuotavano l’haudah prima che il fango la inghiottisse. — Ne avete veduto mai uno di piú splendido, signor de Lussac? — Queste sono le nostre Sunderbunds, signor Yanez, — rispose il francese. — Qui non potremo nemmeno accamparci. Il terreno cede sotto i nostri piedi e mi pare che non se ne possa trovare un palmo di resistente. E da che cosa proviene questa puzza orribile? — Guardate dinanzi a voi, signor Yanez: non vedete quei marabú che sonnecchiano alla superficie dell’acqua e che vanno lentamente alla deriva? — Sí, anzi mi chiedevo come quei brutti uccellacci, quei rapaci divoratori di carogne, si tengono cosí a galla, ritti sulle zampe. — Sapete su che cosa s’appoggiano? — Su delle barchette invisibili, formate forse da foglie di loto. — No, signor Yanez. Ogni marabú ha sotto di sé il cadavere d’un indiano, piú o meno intero e che a poco a poco passerà tutto nel suo ventre. I bengalesi che non posseggono tanto da poter pagare le spese della cremazione, quando sono morti, si fanno gettare nel Gange, il fiume sacro che deve condurli nel paradiso di Brahma, di Siva o di Visnú ed a poco a poco, se per via non vengono divorati dai gaviali, passando di canale in canale, finiscono qui. Su questa laguna vi sono dei veri cimiteri galleggianti. — Me ne accorgo da questo delizioso profumo che mi fa rivoltare gli intestini. Potevano scegliere un luogo migliore i signori Thugs. — Sono sicuri qui. — Avete veduto nulla? — chiese Sandokan che aveva finito di vuotare l’haudah. — Sí, degli uccelli che dormono, e dei cadaveri che passeggiano a fior d’acqua. Uno spettacolo superbo pei beccamorti, — rispose Yanez, cercando di sorridere. — Speriamo di andarcene presto. — Non vedo alcuna barca, Sandokan. — Ti ho detto che costruiremo una zattera. Forse la Marianna è piú vicina di quello che tu credi, giacché siamo sulle rive del canale di Raimatla, è vero Tremal-Naik? — E anche vicini alla torre di Barrekporre, — rispose il bengalese. — La vedete ergersi dietro quel gruppo di tara? — È abitabile? — chiese Yanez. — Deve essere ancora in ottimo stato. — Andiamo a rifugiarci colà, amico Tremal-Naik. Qui non possiamo accamparci. — E poi sarebbe pericoloso fermarci su questa riva, coll’elefante cosí vicino. — Non vedo quale fastidio potrebbe darci quel povero pachiderma. — Lui no, bensí quelli che fra poco accorreranno per divorarselo. Tigri, pantere, cani selvaggi e sciacalli non tarderanno ad accorrere per disputarselo, e quei carnivori, messi in appetito potrebbero gettarsi anche su di noi. — Se la prendessero almeno coi Thugs che ci hanno tesa l’imboscata — disse il francese. — Tiravano bene, quelle canaglie! — E come hanno colpito il coomareah, — disse Sandokan. — Hanno forata la pelle in tre luoghi, in direzione dei polmoni. Uno scoppio di urla acutissime miste a latrati rauchi, echeggiò in quel momento fra le immense canne, a non breve distanza dalla spiaggia. — Ecco i bighana che hanno già fiutato l’elefante e che accorrono, — disse Tremal-Naik. — Amici sgombriamo e lasciamoli banchettare. Stavano per mettersi in marcia quando in mezzo ad una macchia di mussenda si udirono dei belati. — Toh! — esclamò Yanez, sorpreso. — Vi sono delle pecore qui? — Sono le tcite che precedono i cani selvaggi ed ai quali disputeranno coraggiosamente la preda. — Che animali sono? — chiese Sandokan. — Dei graziosi leopardi, d’una audacia a tutta prova, sanguinarissimi e che nondimeno si addomesticano facilmente per farne dei cacciatori insuperabili. Eccone uno: lo vedete? Non ha paura nemmeno di noi; ma non temete, non ci assalirà. Un bell’animale snello, sottile, con le gambe un po’ alte, che aveva la testa del gatto ed il corpo di un cane, lungo meno d’un metro e mezzo e alto poco piú di due piedi, coperto da un pelame lungo e ispido, era balzato agilmente fuori da un cespuglio e si era fermato a venti passi dai cinque uomini, fissando su di loro i suoi occhi verdastri e fosforescenti. — Somiglia ad un piccolo leopardo e anche un po’ alla pantera, — disse Sandokan. — E possiede il coraggio dell’uno e lo slancio dell’altra, — rispose Tremal-Naik. — È piú lesto perfino delle tigri e raggiunge alla corsa le antilopi piú veloci, però non resiste oltre i cinquecento passi. — E si addomesticano? — Senza difficoltà e cacciano volentieri pel padrone, purché si lasci loro il sangue delle prede che riescono ad atterrare. — Ne avrà da bere fino da scoppiare quel grazioso animale, — disse Yanez. — L’elefante deve averne parecchi barili nel suo corpaccio. Buona digestione, amica mia! La tcita in quattro slanci era già addosso all’elefante. I due europei, i due indiani e Sandokan, udendo echeggiare piú minacciose ed in luoghi diversi, le urla dei bighana affrettarono il passo, costeggiando la sponda della laguna, dove le piante non erano cosí fitte da permettere ad una tigre d’imboscarsi. Al di là delle immense foglie dei palmizi tara, si vedeva spiccare la torre segnalata dal bengalese, col suo cocuzzolo piramidale. Procedendo cautamente, colle carabine montate, attraversarono quel gruppo di piante che formava un piccolo bosco, e giunsero finalmente su uno spiazzo ingombro solamente di calamus, attortigliati su se stessi, come serpenti smisurati e nel cui mezzo si ergeva la torre coi suoi quattro piani. Era un edificio quadrangolare, adorno di teste di elefanti e di statue rappresentanti dei cateri, ossia de’ giganti dell’antichità, e colle pareti qua e là screpolate. A che cosa avesse potuto servire anticamente quella torre, piantata in mezzo a quei pantani, abitati solamente dalle belve feroci, sarebbe stato un po’ difficile a dirlo a meno che avesse potuto servire di difesa avanzata contro le scorrerie dei pirati arracanesi. La scala che metteva nell’interno era crollata assieme a parte della muraglia prospettante verso la laguna, però ve n’era stata collocata un’altra di legno che metteva al secondo piano. Probabilmente il primo non sussisteva piú. — Si vede che qualche volta degli uomini sono qui venuti a rifugiarsi, — disse Tremal-Naik. — Questa scala a mano non si sarà fabbricata da sé. Già il francese pel primo aveva cominciato a salire, quando un’ombra si slanciò fuori da un gruppo di calamus, cadendo in mezzo ad un folto cespuglio di mindi. — Badate! — gridò il cornac, che pel primo se n’era accorto. — Su fate presto! — Che cos’era? — chiese Sandokan, mentre Tremal-Naik e Yanez seguivano precipitosamente il francese che era quasi sulla cima delle scale. — Non so, sahib... un animale... — Sali... spicciati! Il cornac non se lo fece dire due volte e si slanciò a sua volta su per la scala di bambú che crepitava e s’incurvava sotto il peso di quei quattro uomini. Sandokan aveva fatto invece un rapido voltafaccia, imbracciando la carabina. Aveva veduto vagamente quell’ombra attraversare lo spazio e cadere fra i mindi, quindi non sapeva se si trattasse d’una tcita, o di qualche animale piú pericoloso. Vedendo i rami delle piante rimanere immobili, si gettò sulla scala montandola rapidamente. Era giunto a metà altezza, quando provò un urto che per poco non lo fece cadere abbasso. Qualcuno erasi slanciato sulla scala un po’ piú sotto di lui, ed i bambú avevano provata una scossa cosí violenta da temere che si spezzassero. Nel medesimo istante si udí il signor de Lussac, che si trovava già sulla piccola piattaforma che girava intorno alla torre, a gridare: — Presto, Sandokan! Sta per prendervi! La Tigre della Malesia invece di innalzarsi, si era voltato tenendosi con una mano ben stretto alla scala ed impugnando coll’altra la carabina per la canna. Un grosso animale che sembrava un gigantesco gatto, colla testa grossa e rotonda, il muso sporgente ed il corpo coperto da un pelame giallo rossastro con macchie nerastre in forma di mezza-luna, era piombato sulla scala, un po’ al di sotto del pirata e si sforzava a raggiungerlo, aggrappandosi ai bambú colle unghie. Sandokan non aveva mandato né un grido, né fatto atto di fuggire. Alzò rapidamente la carabina il cui calcio era guernito di una grossa lastra di ottone e vibrò un colpo formidabile sul cranio della belva che risuonò come una campana fessa. L’animale mandò un ringhio sordo, girò attorno alla scala tentando ancora di reggersi colle potenti unghie, poi si lasciò cadere al suolo. Sandokan aveva approfittato per raggiungere i compagni, prima che la belva rinnovasse l’assalto. Il francese che aveva armata la carabina stava per far fuoco, quando Tremal-Naik lo trattenne, dicendogli: — No, signor de Lussac, non segnaliamo con uno sparo la nostra presenza in questo luogo. Non dimentichiamo che abbiamo i Thugs alle calcagna. — Bel colpo, fratellino mio, — disse Yanez, aiutando Sandokan a salire sulla piattaforma. — Devi avergli spaccato il cranio, perché vedo che quell’animalaccio si trascina a stento fra i calamus. Sai che cos’era? — Non ho avuto il tempo di osservarlo. — Una pantera, mio caro. Se ti trovavi due piedi piú sotto ti balzava addosso. — E come era grossa! — aggiunse Tremal-Naik. — Non ne ho mai veduta una di simile. Se la scala invece di essere di bambú fosse stata di altro legno, non avrebbe resistito a quel salto e saremmo caduti tutti l’uno sull’altro. — Sono abituate le pantere a fare questi colpi e lo sanno gli incaricati di rinnovare le provviste delle torri di rifugio disseminate sull’Hugly — disse il francese. — Un giorno ne ho salvati due mentre stavano per venire sbranati sulla scala che metteva nel rifugio. — Per precauzione ritiriamo la scala, — disse Yanez. — Le pantere sono abili arrampicatrici e quella che Sandokan ha cosí ben punita potrebbe cercare di vendicarsi di quella tremenda mazzata. — Ed entriamo se è possibile, — disse Tremal-Naik. Una finestra metteva nell’interno della torre. Il bengalese salí sul davanzale ma ridiscese subito sul terrazzino. — Tutti i piani sono crollati, — disse, — e la torre è vuota come un camino. Passeremo la notte qui: fa piú fresco. — E potremo nel medesimo tempo sorvegliare i dintorni, — disse Sandokan. — Dov’è scappata la pantera che non la vedo piú? — Pare che se ne sia andata, a menoché non sia nascosta fra i calamus per assalirci quando scenderemo, — rispose Yanez. — Non mi sorprenderebbe, — disse de Lussac. — Quantunque siano molto piú piccole e meno robuste delle tigri, sono piú coraggiose e assalgono sempre anche quando la fame non le spinge. È capace di assediarci, come quelle che avevano assalito i due provveditori della torre di Sjawrah. — Quelli che poi avete salvati? — chiese Sandokan. — Sí, capitano. — Signor de Lussac, raccontateci un po’ quell’avventura, — disse Yanez, levandosi da una delle sue dieci tasche un pacco di sigarette e offrendole ai compagni. — Credo che nessuno di noi abbia desiderio di dormire. — Non mi fiderei a chiudere gli occhi, — disse Tremal-Naik. — Qui siamo allo scoperto ed i Thugs che ci hanno tesa l’imboscata avevano delle carabine e non sparavano male. — Sí, raccontate signor de Lussac, — disse Sandokan. — Il tempo passerà piú presto. — L’avventura risale a quattro mesi fa. Avevo un vivissimo desiderio di fare una partita di caccia fra i canneti della jungla costeggiante l’Hugly, ed essendo amico d’un tenente di marina, incaricato di provvedere e rinnovare i viveri alle torri di rifugio, aveva ottenuto il permesso d’imbarcarmi su una di quelle scialuppe a vapore che ogni mese visitano quei posti dei naufraghi. Eravamo in otto a bordo: un master, un vice-master, tre marinai, un macchinista, un fuochista ed io Avevamo già visitate parecchie di quelle torri, rinnovando qua e là i viveri, quando una sera, poco prima del tramonto, giungemmo dinanzi al rifugio di Sjawrah, che s’alzava ad un centinaio di metri dalla riva, essendo il terreno assai fangoso presso il fiume. Avendo scorto molte oche volteggiare al di sopra dei canneti e anche delle antilopi a fuggire, mi unii ai due marinai incaricati di portare i viveri da depositare nella torre. Avevo preso con me un fucile da caccia, per maggior precauzione mi ero anche armato d’una buona rivoltella di grosso calibro, essendo stato avvertito che potevo incontrare delle tigri o delle pantere. Ci eravamo inoltrati sul sentiero che conduceva alla torre, aperto a colpi di scure fra un caos di bambú e di paletuvieri, quando udimmo il master della scialuppa a urlare. Nell’istesso momento vidi la scialuppa allontanarsi precipitosa mente dalla riva, per mettersi fuor di portata dagli assalti di quei feroci carnivori. «Badate, le pantere. Salvatevi nella torre!» Quell’avvertimento era appena giunto ai miei orecchi, quando udii dietro di me un rumore di rami spezzati. «Gettate i viveri e fuggite!» gridai ai due marinai che mi precedevano. Come potete credere, non si fecero ripetere l’ordine due volte Lasciarono cadere i carichi, e fuggirono a tutte gambe verso la torre che era ormai vicinissima. Io mi ero slanciato dietro di loro, ma non ero ancora giunto alla base della scala, quando mi vidi alle spalle due enormi pantere, che spiccavano salti di cinque o sei metri per piombarmi addosso prima che potessi rifugiarmi sulla piattaforma della torre. Il mio fucile era carico a pallini, tuttavia non esitai a servirmene e scaricai contro le due belve i miei due colpi. Sarebbe stata una follia sperare di ucciderle, tuttavia vidi le pantere arrestarsi. Ne approfittai per salire velocemente la scala. Ad onta della rapidità della mia ascensione, fui subito raggiunto dal maschio, il quale con un solo balzo cadde a metà della scala, seguito subito dalla compagna. Il colpo fu cosí violento che per un momento credetti che i bambú cedessero. Fortunatamente non avevo perduta la testa. Comprendendo che la mia pelle correva un pericolo gravissimo, passai il braccio sinistro attorno ad uno dei gradini per non venire trascinato a terra, coll’altro levai la rivoltella e feci fuoco tre volte, quasi a bruciapelo. Il maschio, ferito al muso, cadde trascinando seco la femmina alla quale una palla aveva prodotta una ferita sotto la gola. Erano appena a terra, che quelle terribili belve tornavano alla carica, slanciandosi nuovamente sulla scala. Non avevo però perduto il mio tempo ed in quattro slanci mi ero messo al sicuro sulla piattaforma, dove i due marinai, impotenti a soccorrermi, non avendo alcuna arma, urlavano disperatamente. Le belve facevano sforzi disperati per raggiungerci, aggrappandosi alle traverse colle loro poderose unghie. «Gettiamo la scala!», gridai ai due marinai. Unendo i nostri sforzi la rovesciammo assieme alle due belve, senza pensare che, agendo in quel modo, ci toglievamo la possibilità di poter poi scendere per tornare a bordo della scialuppa. — E rimaneste assediati? — disse Tremal-Naik. — Tutta la notte, — rispose il tenente. — Le maledette bestie, quantunque ferite, non lasciarono i dintorni della torre colla speranza che noi ci decidessimo a scendere. Al mattino il master, avvertito da noi che le pantere si trovavano sempre sotto, fece accostare la scialuppa alla riva e fece tuonare replicatamente il piccolo cannone-revolver di cui era armata l’imbarcazione. Alla seconda scarica le due belve caddero, cosí il master ed i suoi uomini poterono sbarcare e rialzare la scala e liberarci. — Sono peggiori delle tigri, — disse Sandokan. — Piú audaci e anche piú risolute, signore, — rispose il francese. — Oh! — esclamò in quel momento Yanez alzandosi precipitosamente. — Guardate laggiú! Un lume! — Tutti avevano volti gli sguardi verso la direzione che il portoghese indicava colla mano. Sulle tenebrose acque della pestilenziale laguna, si scorgeva infatti un punto luminoso a luce rossa, che pareva si avanzasse verso la torre. Veniva da oriente e descriveva degli angoli, come se la scialuppa o la nave che illuminava corresse lievi bordate. — Che sia il nostro praho? — chiese Tremal-Naik. — O la baleniera? — disse invece Yanez. — A me sembra che non possa essere né l’uno, né l’altra, — disse Sandokan, dopo d’aver osservato attentamente quel punto luminoso che spiccava nettamente sulla nera superficie delle acque. Entra mai nessun veliero in questa laguna, Tremal-Naik? — Qualche barca di pescatori, — rispose il bengalese. — Potrebbero anche essere dei naufraghi. Il ciclone che si è rovesciato sulla jungla avrà sconvolto anche il golfo del Bengala. — Sarei lieto se quella scialuppa approdasse qui. Non avremmo piú bisogno di costruirci una zattera per raggiungere il nostro praho. Deve avere delle vele quella imbarcazione. Non vedi Yanez che bordeggia? — E vedo anche che si dirige a questa volta, — rispose il portoghese. — Se passerà dinanzi alla torre chiameremo l’attenzione del suo equipaggio con qualche colpo di fucile. — Ciò che faremo anzi subito, — disse Sandokan. — Udendo degli spari, verranno qui. Alzò la carabina e fece fuoco. La detonazione si propagò con un rombo prolungato al disopra delle tenebrose acque, perdendosi in lontananza. Non era trascorso un mezzo minuto che si vide il punto luminoso cambiare direzione e muovere direttamente verso la torre. — Quando il sole spunterà quella imbarcazione sarà qui, — disse Sandokan. — Ecco laggiú che l’alba dirada le tenebre. Prepariamoci a lasciare la torre ed imbarcarci. — E se quegli uomini si rifiutassero di prenderci a bordo? — chiese il francese. — O piombo od oro, — rispose Sandokan, freddamente. — Vedremo se esiteranno. Cornac, abbassa la scala: vengono in fretta. Capitolo XXI. IL TRADIMENTO DEI THUGS Spuntava il primo raggio di sole, quando l’imbarcazione approdava dinanzi alla torre. Sandokan non si era ingannato: non era né una scialuppa, né un bastimento. Si trattava d’una pinassa, ossia d’una grossa barca, dai bordi alti, armata di due alberetti sostenenti due grandi vele quadre e fornita di ponte. Questi velieri ordinariamente vengono usati in India nei viaggi su pei grossi fiumi della penisola indostana, tuttavia possono affrontare il mare al pari delle grab essendo forniti di chiglia e bene alberati. Quello che era approdato presso la torre poteva stazzare una sessantina di tonnellate ed era montato da otto indiani, tutti giovani e robusti, vestiti di bianco come i cipayes, e comandati da un vecchio pilota dalla lunga barba bianca, che in quel momento teneva il timone. Vedendo quei cinque uomini, fra cui due bianchi, il vecchio si era levato cortesemente il turbante, poi era sceso a terra, dicendo in buon inglese: — Buon giorno, sahib! Avete bisogno di noi? Abbiamo udito un colpo di fucile e siamo accorsi credendo che qualcuno fosse in pericolo. — Come ti trovi qui, vecchio? — chiese Tremal-Naik. — Questi non sono luoghi per trafficare, né per cercare carichi. — Noi siamo pescatori, — rispose il pilota. — Il pesce abbonda in queste lagune e ogni settimana veniamo qui. — Da dove venite? — Da Diamond-Harbour. — Vuoi guadagnare cento rupie? — chiese Sandokan. L’indiano alzò gli occhi sulla Tigre della Malesia, guardando attentamente, con una certa curiosità, per parecchi istanti. — Volete scherzare, sahib? — chiese poscia. — Cento rupie sono una bella somma e non si guadagnano da noi in una settimana di pesca. — Noi non chiediamo altro che di mettere la tua pinassa a nostra disposizione per ventiquattro ore e le rupie passeranno nelle tue tasche. — Voi siete generoso come un nababbo, sahib, — disse il vecchio. — Accetti? — Nessuno, nel mio caso, rifiuterebbe una simile offerta. — Hai detto che tu vieni da Diamond-Harbour, — disse TremaiNaik. — Sí, sahib. — Sei entrato nelle lagune pel canale di Raimatla? — No, per quello di Jamera. — Allora tu non hai veduto una piccola nave incrociare su queste acque. — Ma... mi parve ieri d’aver scorta una scialuppa lunga e sottile costeggiare la punta settentrionale di Raimatla, — rispose il vecchio. — Era di certo la nostra baleniera che esplorava, — disse Sandokan. — Prima di questa sera noi avremo trovato il praho e avremo compiuta la nostra unione. Imbarchiamoci amici, e domani manderemo qui la nostra scialuppa a raccogliere la nostra scorta. Versò nelle mani del pilota metà del prezzo fissato, poi tutti salirono a bordo, cortesemente salutati dagli indiani che formavano l’equipaggio. Sandokan e Tremal-Naik si sedettero a poppa sotto la tenda che i pescatori avevano innalzata per ripararli dal sole; Yanez, il francese ed il cornac invece passarono sotto coperta per prendere un po’ di riposo nella cabina messa a loro disposizione dal pilota. La pinassa, che pareva fosse una buona veliera, si staccò dalla riva e prese il largo dirigendosi verso alcune isole che s’intravvedevano attraverso la nebbiola che s’alzava sulla laguna. Una puzza orrenda saliva dalle acque dove finivano di sciogliersi un gran numero di cadaveri, trascinati colà dai canali delle Sunderbunds o spinti dal flusso. Si vedevano teste semi-spolpate, dorsi lacerati, gambe e braccia, ballonzolare fra la scia prodotta dalla pinassa e urtarsi. Su molti di quei cadaveri si tenevano ritti, sulle loro lunghe zampe, marabú e bozzagri, i quali di quando in quando davano un colpo di becco, strappando lembi di carne già putrida e che inghiottivano avidamente. — Ecco uno dei cimiteri galleggianti, — disse Tremal-Naik. — Ben poco allegro, — rispose Sandokan. — Il governo del Bengala farebbe meglio a far seppellire tutta questa gente con tre metri di terra sopra. Eviterebbe il cholera che visita quasi ogni anno la sua capitale. — Gli indiani se desiderano andare in paradiso devono giungervi per mezzo del Gange. — Forse che sbocca lassú? — chiese Sandokan, ridendo. — Questo lo ignoro, — rispose Tremal-Naik, — tuttavia non mi pare. Io lo vedo finire nel golfo del Bengala e confondere le sue acque col mare. — E ci andranno poi tutti nel vostro paradiso? — Oh no! Le acque del Gange, per quanto reputate sacre, non purgheranno l’anima d’un uomo che ha ucciso per esempio una mucca. — Pena grave presso di voi? — Che condurrà diritto all’inferno, dove il colpevole sarà senza posa divorato dai serpenti, dalla fame e dalla sete, per passare dopo migliaia e migliaia d’anni nel corpo d’una giovenca. — Un luogo spaventevole il vostro inferno, — disse Sandokan. — I nostri libri sacri dicono che regna laggiú una notte eterna, e che non vi si odono che gemiti e grida spaventevoli; i dolori piú acuti che possono essere prodotti dal ferro e dal fuoco vi si provano senza posa. Vi sono supplizi per qualunque specie di peccato, per ogni senso e per ogni membro del corpo. Fuoco, ferro, serpenti, insetti velenosi, animali feroci, uccelli da preda, fiele, veleno, punture, tutto s’impiega per martirizzare i dannati. Alcuni, secondo i nostri Veda, sono condannati ad avere le narici attraversate da una fune mediante la quale sono trascinati senza posa su scuri affilatissime; altri a passare per la cruna d’un ago; questi stretti fra due rocce piatte, quelli hanno gli occhi divorati continuamente dagli avvoltoi; altri sono costretti a nuotare entro bacini di pece liquida. — E durano per sempre quelle spaventevoli pene? — No, al termine di ogni suga, ossia epoca che comprende migliaia d’anni, i dannati torneranno sulla terra chi sotto le spoglie d’un animale, chi d’un insetto o d’un uccello, per poi tornare finalmente uomini purificati. Ecco le delizie del nostro naraca ossia inferno, dove regna Iama, il dio della morte e delle tenebre. — Avrete anche un paradiso, suppongo? — Piú d’uno, — rispose Tremal-Naik. — Il snarga del dio Indra, soggiorno di tutte le anime virtuose; il veiconta o paradiso di Visnú; il kailassa che appartiene a Siva; il sattia loka di Brahma, riservato esclusivamente ai bramini che da noi sono ritenuti uomini d’una razza superiore e che... Un colpo di fucile sparato a breve distanza, seguito dal ben noto fischio della palla che sibilò ai loro orecchi, li fece balzare rapidamente in piedi. Uno degli otto marinari che si trovava a prora, aveva fatto fuoco contro di loro e stava ancora rannicchiato dietro una cassa, semi-avvolto in una nuvola di fumo, coll’arma ancora in mano. La sorpresa di Sandokan e di Tremal-Naik era stata tale che rimasero entrambi immobili, credendo in buona fede che quel colpo di fucile fosse partito accidentalmente, non potendo credere lí per lí che si trattasse d’un tradimento. Un grido del pilota li avvertí che un terribile pericolo li minacciava e che quella palla era stata destinata a loro. Il furfante aveva abbandonato precipitosamente il timone dove in quel momento si trovava e si era slanciato attraverso la tolda, urlando: — Addosso, ragazzi! Siamo in nove! Fuori i coltelli ed i lacci! Sandokan aveva mandato un vero ruggito. Si guardò intorno per afferrare la carabina, che aveva appoggiata alla murata: era scomparsa e cosí pure erano sparite anche quelle dei compagni. Con una mossa fulminea levò la barra del timone e si scagliò verso prora, dove l’equipaggio si era stretto attorno all’uomo che aveva fatto fuoco, gridando con voce tuonante: — Tradimento! Yanez! Lussac! In coperta! Tremal-Naik l’aveva seguito, armato d’un’ascia che aveva trovata infissa su un barile, fra un gruppo di gomene. Gli indiani della scialuppa avevano estratti i loro coltelli e sciolti i lacci che fino allora avevano tenuti nascosti sotto l’ampia casacca di tela. — Addosso, ragazzi! — aveva ripetuto il pilota, che si era armato d’una di quelle corte scimitarre usate dai maharatti, chiamate tarwar. — Accoppate il padre della piccola vergine, il nemico di Suyodhana. — Ah! cane d’un vecchio! — gridò Tremal-Naik. — M’hai riconosciuto! Morrai! — Gli otto marinai si erano avventati a loro volta collo slancio delle tigri. Erano, come abbiamo detto, robusti garzoni, scelti certamente con cura e tutt’altro che magri come lo sono ordinariamente i bengalesi. Tre si gettarono addosso a Sandokan; gli altri, col pilota, si scagliarono su Tremal-Naik. La Tigre della Malesia tentò con un’abile mossa di coprire l’amico che correva maggior pericolo, ma i Thugs, accortisi a tempo, gli chiusero il passo. — Ripara a poppa, Tremal-Naik! — gridò il pirata. — Tieni testa per un solo momento. Yanez, Lussac, cornac a noi! I tre marinai gli erano addosso. Con un balzo da pantera si sottrasse all’accerchiamento, alzò poi la pesante barra del timone e percosse furiosamente l’avversario piú vicino che tentava di squarciargli il ventre con un colpo di coltello. Il thug, colpito sul cranio stramazzò a terra come un bue percosso dalla mazza del macellaio e la materia cerebrale schizzò fino sulla murata. Nel medesimo tempo però un laccio piombava addosso al capo dei pirati, imprigionandogli la destra. — Sei preso! — gli gridò lo strangolatore. — Gettalo a terra, Fikar! — Ebbene, prendi! — gridò Sandokan. Lasciò cadere la barra, si curvò e colpí l’avversario con un colpo di testa in mezzo al petto, scaraventandolo dall’altra parte della tolda mezzo accoppato, poi girando rapidamente su se stesso si precipitò addosso al terzo che stava per assalirlo alle spalle, afferrandolo strettamente fra le braccia per impedirgli di far uso del coltello. L’indiano però era piú robusto di quanto Sandokan aveva creduto e senza dubbio coraggioso. A sua volta afferrò il capo dei pirati tentando di porgli una mano attorno al collo. Un’onda che scosse bruscamente la pinassa, imprimendole un movimento di rollio, li fece cadere entrambi. Intanto Tremal-Naik, assalito dagli altri cinque e dal pilota, si difendeva disperatamente, avventando furiosi colpi d’ascia ed indietreggiando verso poppa. Aveva evitato due lacci ed era sfuggito ad un colpo di tarwar vibratogli dal vecchio pilota, ma non poteva resistere a lungo a quei sei nemici che tentavano di accerchiarlo e che lo assalivano da tutte le parti. Già uno stava per sorprenderlo alle spalle, quando irruppero sul cassero Yanez, de Lussac ed il conduttore di elefanti. Svegliati di soprassalto dalle grida di Sandokan, allarmati da quella parola «tradimento» si erano gettati precipitosamente giú dalle brande, cercando le loro carabine. Come erano sparite quelle di Tremal-Naik e di Sandokan, anche le loro non si trovavano piú nel luogo ove le avevano deposte. Qualche marinaio, approfittando del loro sonno, le aveva di certo portate via e forse gettate nella laguna onde togliere loro la possibilità di difendersi. De Lussac ed il cornac avevano però i loro coltelli da caccia, armi solide e dalla lama lunga un buon piede, mentre Yanez teneva nella fascia una di quelle formidabili navaje che aperte somigliano a spade. Il portoghese l’aprí con un colpo secco e si slanciò su per la scala, gridando: — Avanti amici! Lassú si scannano. I Thugs che tentavano di sopraffare Tremal-Naik, vedendo irrompere in coperta i due bianchi ed il cornac, si erano prontamente divisi scegliendo ognuno il suo avversario. Il pilota ed un marinaio erano rimasti di fronte a Tremal-Naik che aveva finito per appoggiarsi contro la murata di babordo; due altri si erano gettati contro il francese, gli altri tre addosso a Yanez ed al cornac. — Ah! Canaglie! — gridò il portoghese, balzando verso la tenda di poppa e strappandola d’un colpo solo, per avvolgersela attorno al braccio sinistro. — È cosí che si tradisce qui? A me i due, a te l’altro, cornac, e fora bene la pelle. La lotta era incominciata piú furiosa che mai fra quei dodici uomini, mentre la pinassa, abbandonata a se stessa, rollava e beccheggiava sotto le onde che l’alta marea spingeva attraverso la laguna. I Thugs avevano gettati i lacci, diventati ormai inutili in una lotta corpo a corpo, e lavoravano di coltello, balzando come felini; i due bianchi, Tremal-Naik, ed il cornac tenevano però bravamente testa e non si lasciavano sopraffare. Sandokan invece, sempre avvinghiato al suo avversario, si rotolava pel ponte tentando di finirlo. Era già riuscito a cacciarselo sotto e ad afferrarlo pel collo e stringeva con tutte le sue forze, facendogli uscire mezzo palmo di lingua. L’indiano tuttavia resisteva con una tenacia prodigiosa ed avendo le braccia ed il collo unti d’olio di cocco riusciva di quando in quando a sfuggire. Appena però cercava di alzarsi sulle ginocchia, il pirata che possedeva una forza prodigiosa tornava ad abbatterlo a colpi di pugno. Ad un tratto, mentre l’aveva nuovamente riafferrato pel collo, sentí sotto di sé la barra del timone che una brusca scossa della pinassa aveva fatto rotolare fino a lui. D’un balzo fu in piedi, lasciando libero l’avversario. Raccogliere la barra, alzarla e farla cadere sulla testa dell’indiano che stava pure per levarsi, fu l’affare d’un solo momento. Il thug non mandò nemmeno un grido. Era caduto fulminato. — E due, gridò Sandokan. — Tenete duro amici! Vengo in vostro soccorso! Stava per slanciarsi verso poppa, quando si sentí afferrare per di dietro. L’indiano che aveva abbattuto con quel terribile colpo di testa, quantunque dovesse avere delle costole spezzate, si era rialzato per cercare di portare aiuto al compagno. Disgraziatamente per lui, era giunto troppo tardi e da solo non era piú in grado di lottare colla terribile Tigre della Malesia. — Come! — esclamò il pirata. — Ancora vivo? Andrai a tener compagnia ai pesci. Lo sollevò fra le robuste braccia e lo gettò nella laguna, senza che il disgraziato, che vomitava già sangue, avesse potuto opporre la menoma resistenza. In quel mentre un grido di dolore echeggiò a poppa, seguito da una bestemmia lanciata da Yanez. Il cornac, che lottava a qualche passo dal portoghese, contro uno dei Thugs, era caduto col petto squarciato da una tremenda coltellata. Un grido di trionfo aveva salutata la caduta del povero conduttore di elefanti: — Avanti! Kalí ci protegge! Quell’urlo però si era quasi subito tramutato in un grido di spavento e d’angoscia. Nel momento in cui il cornac stramazzava sulla tolda tenendosi le mani raggrinzate sull’orrenda ferita, dalla quale usciva un vero torrente di sangue, un altro cadeva quattro passi piú lontano, colla testa spaccata fino al mento da un formidabile colpo d’ascia. Era il vecchio pilota. Tremal-Naik, approfittando d’un passo falso dell’avversario, causato da un colpo di rollío, gli aveva assestato quel colpo terribile. Il vecchio aprí le braccia, lasciandosi sfuggire il tarwar e dopo d’aver fatti due o tre passi barcollando, era piombato sulla tolda, mentre dalla spaccatura del cranio usciva sangue misto a cervella. Il bengalese non era però ancora vincitore perché aveva l’altro alle reni, tuttavia poteva avere buon giuoco e ridurlo presto a mal partito: l’ascia aveva non poca supremazia sul coltello del malandrino. Sandokan con un colpo d’occhio aveva abbracciata la situazione e aveva subito capito che quegli che correva maggior pericolo in quel momento era Yanez, che ne aveva tre di fronte. Il tenente aveva anche lui da fare a sbrigarsela con altri due, che gli si stringevano addosso come due mastini rabbiosi, nondimeno non pareva che si trovasse a malpartito. Il bravo giovane giocava mirabilmente di coltello ed ora con attacchi fulminei ed ora con ritirate improvvise, teneva ancora a distanza gli avversari. — A Yanez prima, — si disse Sandokan. In tre slanci piombò alle spalle dei bricconi, gridando: — Vi uccido! Due si volsero e gli si avventarono contro urlando: — È te che uccideremo! Sandokan con un mulinello della pesante barra li separò, poi si scagliò sul piú vicino e d’un colpo lo atterrò, sfondandogli le costole. L’altro, spaventato, stava per volgergli le spalle coll’intenzione di fuggire verso prora, quando la terribile mazza lo colpí fra le due spalle. Cadde sulle ginocchia, nondimeno ebbe ancora la forza d’alzarsi, di varcare d’un salto la murata e di precipitarsi a capo fitto nella laguna. Sandokan stava per attaccare quello che lottava con Yanez, quando lo vide accasciarsi improvvisamente su se stesso, poi distendersi sulla tolda. La navaja del portoghese gli aveva spaccato il cuore. I due Thugs che armeggiavano col signor de Lussac, vedendo che ormai la partita era perduta, fuggirono verso prora e a loro volta si gettarono in acqua scomparendo fra le foglie di loto e le canne palustri che crescevano su un bassofondo comunicante con un’isoletta. A bordo non rimaneva che l’avversario di Tremal-Naik, il piú robusto e forse il piú coraggioso della banda e che lottava ferocemente, sottraendosi con un’agilità da quadrumane ai colpi d’ascia che gli vibrava l’avversario. Sandokan aveva già nuovamente impugnata la barra per finire anche quel malandrino, quando Yanez gli disse precipitosamente: — No, risparmialo: lo faremo parlare. In un lampo gli furono alle spalle assieme al signor de Lussac e lo atterrarono, legandolo collo stesso laccio che aveva gettato poco prima sulla tolda. Capitolo XXII. SIRDAR Il prigioniero, l’unico forse che era sfuggito a quel sanguinoso combattimento, non essendosi piú veduti tornare a galla i tre che si erano gettati nella laguna, era un bel giovane di forme quasi erculee, dai lineamenti piuttosto fini che potevano indicare un discendente delle alte caste, quantunque la sua pelle fosse quasi oscura come quella dei molanghi. Sentendosi legare, aveva detto a Tremal-Naik che lo minacciava ancora coll’ascia bagnata nel sangue del vecchio pilota: — Uccidimi pure: io non ho paura della morte. Abbiamo perduto: è giusto che pigli anch’io la mia parte. Poi, dopo d’aver tentato inutilmente di spezzare i legami che gli stringevano le braccia e le gambe, si era steso sulla tolda senza piú nulla aggiungere, né manifestare alcuna apprensione per la sorte che credeva gli spettasse. — Signor de Lussac, — disse Sandokan. — Sedetevi presso quest’uomo e badate che non fugga. Se lo tentasse, finitelo con un colpo di coltello e noi sbarazziamo la coperta di tutti questi morti. Respira ancora il cornac? — È morto in questo istante, — disse Yanez. — Povero uomo! Il coltello del suo avversario gli è rimasto nella piaga. — Ma io l’ho vendicato, — disse Sandokan. — Miserabili! L’avevano ordito bene il tradimento e possiamo dire che noi siamo vivi perché Allah l’ha voluto. — E ci avevano rubate perfino le carabine per impedirci di difenderci. — Come sapevano che noi eravamo qui? — Ce lo dirà il prigioniero. Sgombriamo la tolda, Sandokan. Aiutati da Tremal-Naik, gettarono in acqua i cadaveri dei Thugs; solo quello del cornac fu deposto nella cabina di poppa e coperto da una tela per dargli onorevole sepoltura piú tardi, onde sottrarlo ai denti dei gaviali. Rovesciarono sulla tolda alcune secchie d’acqua per lavare il sangue che chiazzava qua e là le tavole, orientarono la velatura, essendo il vento girato al nord-ovest, ricollocarono a posto la barra, poi trascinarono a poppa il prigioniero, dovendo sorvegliare il timone. Il thug aveva lasciato fare, però nei suoi occhi si leggeva di già una certa apprensione, che s’accrebbe quando si vide circondato dai suoi nemici. — Giovanotto mio, — gli disse Sandokan, senza preamboli. — Ami meglio vivere o morire fra i piú atroci tormenti? Non hai che da sceglire. Ti avverto solo che noi siamo uomini che non ischerzano e ne hai avuto or ora una prova. — Che cosa volete da me? — chiese il giovane. — Conoscere molte cose che noi ignoriamo e che ci sono necessarie. — I Thugs non possono tradire i segreti della loro setta. — Conosci la youma? — gli chiese bruscamente Tremal-Naik. Il thug sussultò ed un lampo di terrore gli passò negli occhi. — Io conosco il segreto per comporre quella bevanda che scioglie le lingue e che fa parlare anche il piú ostinato muto. Foglie di youma, un po’ di succo di limone ed un granello d’oppio: come vedi io ho la ricetta ed ho anche indosso quanto è necessario per preparare quella bevanda. È quindi inutile che tu ti ostini a non tradire i segreti dei Thugs. Se taci te la faremo bere. Yanez e Sandokan guardavano con sorpresa Tremal-Naik, ignorando di quale misteriosa bevanda intendesse parlare. Il signor de Lussac invece aveva approvate le parole del bengalese con un sorriso molto significante. — Decidi, — disse Tremal-Naik. — Non abbiamo tempo da perdere. L’indiano, invece di rispondere, fissò per alcuni istanti il bengalese, poi chiese: — Tu sei il padre della bambina è vero? Tu sei quel terribile cacciatore di serpenti e di tigri della jungla nera che un tempo ha rapito la «Vergine della pagoda d’Oriente.» — Chi te lo ha detto? — chiese Tremal-Naik. — Il pilota della pinassa. — Da chi lo aveva saputo? Il giovane non rispose. Aveva abbassati gli occhi e sul suo viso si scorgeva in quel momento un’alterazione strana, che non doveva però essere prodotta dalla paura. Pareva che nel suo animo e nel suo cervello si combattesse una terribile battaglia. — Che cosa ti ha detto quel miserabile traditore? — chiese Tremal-Naik. — Siete tutte canaglie vero, adunque? — Canaglie! — esclamò improvvisamente il giovane, mentre con uno scatto improvviso, ad onta delle corde che lo stringevano, si alzava sulle ginocchia. — Sí, canaglie è il loro nome! Sono dei vili! Sono degli assassini ed io ho orrore di essere iscritto nella loro terribile setta. Poi, digrignando i denti, aggiunse con voce strangolata: — Che sia maledetto il mio destino che ha fatto di me, figlio d’un bramino, un complice dei loro delitti. Kalí o Durga, sotto l’uno o l’altro nome, dea del sangue e delle stragi, io ti impreco. Sei una divinità falsa! Tremal-Naik, Sandokan ed i due europei, stupiti da quel linguaggio e dall’ira terribile che avvampava negli sguardi del giovane, erano rimasti muti. Capivano però che un cambiamento improvviso era avvenuto in quell’uomo che fino allora avevano creduto uno dei piú fanatici e dei piú risoluti seguaci della mostruosa divinità. — Tu dunque non sei un thug? — chiese finalmente Tremal-Naik. — Porto sul mio petto l’infame stigmate di quei vili settari, — disse il giovane con voce amara, — ma l’anima è rimasta bramina. — Giuochi qualche commedia? — chiese il signor de Lussac. — Che io perda il sattia loka e che il mio corpo, dopo la mia morte si tramuti nell’insetto piú ributtante, se io mentisco, — disse il giovane. — Come ti trovi allora fra quei malandrini senza aver rinunciato a Brahma tuo dio per Kalí? — chiese Tremal-Naik. Il giovane rimase per qualche istante silenzioso, poi disse, abbassando nuovamente gli sguardi. — Figlio d’un uomo appartenente alle alte caste, d’un bramino ricco e potente, discendente d’una stirpe di rajah, avrei potuto essere degno della posizione che occupava mio padre. Il vizio mi traviò, il giuoco divorò le ricchezze mie, di gradino in gradino precipitai nel fango e divenni piú miserabile d’un paria. Un giorno un uomo, un vecchio che si spacciava per un manti... — Un manti hai detto? — chiese Tremal-Naik. — Lascialo finire, — disse Sandokan. — Mi incontrò in una compagnia di giocolieri, — proseguí il giovane, — alla quale mi ero unito per non morire di fame. Colpito forse dalla mia forza poco comune e dalla mia agilità, mi propose di abbracciare la religione della dea Kalí. Seppi poi che i Thugs cercavano di arruolare degli uomini scelti per formare una specie di polizia segreta, onde sorvegliare le mosse delle autorità del Bengala, che li minacciava d’una totale distruzione. Ero ormai disceso nel fango e la miseria batteva alla porta della mia capanna: accettai per vivere ed il figlio del bramino divenne un miserabile thug. Che cosa abbia fatto poi, poco vi deve importare di saperlo, ma ora odio quegli uomini che mi hanno costretto a uccidere per offrire alla loro dea il sangue delle vittime. Io so che voi andate a portare la guerra nel loro covo: mi volete? Sirdar mette a vostra disposizione la sua forza ed il suo coraggio. — Come sai tu che noi andiamo a Rajmangal? — chiese TremalNaik. — Me lo ha detto il pilota. — Chi era quell’uomo? — Il comandante di una delle due grab, che hanno assalita la vostra nave. — Ci avete seguiti? — Sí, assieme a altri dodici Thugs che facevano parte dell’equipaggio ed io ero del numero. Ci era nato il sospetto che tu sahib, ti dirigessi su Khari perché eravamo stati informati che uno dei tuoi servi aveva acquistato due elefanti. Tutti i tuoi passi erano stati spiati. Cosí sapevamo che tu eri in relazione cogli uomini che montavano quella piccola nave, che avevi inseguito e poi preso il manti, quel dannato vecchio che mi ha fatto abbracciare la religione di Kalí. Ti abbiamo seguito attraverso la jungla, abbiamo assistito, nascosti fra i canneti, alle tue cacce, ti abbiamo rapita la bajadera per paura che tradisse l’asilo dei Thugs... — Surama! — esclamò Yanez. — Sí, si chiamava cosí quella fanciulla, — disse Sirdar. — Era la figlia d’un capo montanaro dell’Assam. — Dove si trova, ora? — A Rajmangal di certo, — rispose il giovane. — Si aveva paura che vi guidasse nei misteriosi sotterranei dell’isola. — Continua, — disse Sandokan. — Poi vi abbiamo tesa l’ultima imboscata per uccidere il vostro secondo elefante, — rispose Sirdar. — Avevamo preparato il nostro progetto per sterminarvi prima che aveste potuto mettere piede su Rajmangal. — E la pinassa? — chiese Tremal-Naik. — Ce l’aveva mandata Suyodhana il quale era stato avvertito da alcuni corrieri delle vostre intenzioni. Noi sapevamo che voi vi eravate rifugiati nella torre di Barrekporre e saremmo venuti egualmente ad offrire i nostri servigi anche senza i vostri segnali. — Che organizzazione meravigliosa hanno dunque quei banditi! — esclamò Yanez. — Hanno una polizia segreta veramente ammirabile, onde sventare tutti i tentativi del governo del Bengala per distruggerli, — disse Sirdar. — Essi temono sempre un colpo di testa da parte delle autorità di Calcutta e la jungla e le Sunderbunds sono infestate da spie dei Thugs. Che un drappello sospetto si inoltri ed i ramsinga lo segnaleranno ed il suono acuto di quelle trombe si propaga, sempre ripetuto, fino sulle rive del Mangal. Come vedete una sorpresa sarebbe impossibile. — Credi tu dunque che non si possa portare la guerra sulla loro isola? — chiese Sandokan. — Forse, agendo con estrema prudenza. — Tu conosci quei sotterranei? — Ci sono stato parecchi mesi là dentro, — rispose Sirdar. — Quando li hai lasciati? — Quattro settimane or sono. — Tu dunque hai veduto mia figlia! — gridò Tremal-Naik con un’emozione impossibile a descriversi. — Sí l’ho veduta una sera nella pagoda, mentre le insegnavano a versare nel bacino dove nuota il mango sacro il sangue d’un povero molango strangolato poche ore prima. — Miserabili! — urlò Tremal-Naik. — Anche a sua madre facevano versare del sangue umano dinanzi a Kalí, quand’era la «Vergine della pagoda d’Oriente». Vili! Vili! — Un singhiozzo aveva lacerato il petto del povero padre. — Calmati, — disse Sandokan con voce affettuosa. — Noi gliela strapperemo. Perché noi siamo venuti qui dalla lontana Mompracem? L’una o l’altra delle due tigri qui morrà, ma sarà quella dell’India che cadrà nella lotta. Prese la navaja di Yanez e tagliò le corde del prigioniero, dicendogli: — Noi ti risparmiamo la vita e ti diamo la libertà, purché tu ci conduca a Rajmangal e ci guidi in quei misteriosi sotterranei. — L’odio mio verso quegli assassini è pari al vostro e Sirdar manterrà la promessa. Che Iama, il dio della morte e degli inferni mi danni per tutta l’eternità se io tradirò la parola data. Rinnego e maledico Kalí per tornare bramino. — Al timone, Yanez, — gridò Sandokan. — Il vento s’alza e la Marianna non sarà lontana. Stringete le scotte, signor de Lussac! Fileremo come uno steamer. Una fresca brezza coininciava a soffiare con una certa regolarità, gonfiando le vele del piccolo naviglio e disperdendo la nebbia causata dalle abbondanti evaporazioni delle acque. Sandokan si era affrettato a mettere la prora verso il sud, dove si apriva un vasto canale che Tremal-Naik gli aveva detto essere quello di Raimatla, formato da due isole assai basse, ingombre di canne giganti e che pareva dovessero avere una estensione considerevole. Altre isole ed isolotti si stendevano verso l’est, anche quelli coperti da una folta vegetazione, composta per la maggior parte di bambú spinosi e da qualche gruppetto di cocchi. Miriadi di uccelli acquatici volteggiavano sopra quelle terre fangose e di mangiatori di carogne, marabú, bozzagri e arghilah, i quali dovevano trovare abbondante pasto a giudicarlo dall’odore nauseante di carne corrotta che giungeva da quelle parti. Le rive dovevano essere coperte da cadaveri d’indiani spinti colà dalla marea e dalle onde. La pinassa, che pareva fosse una buona veliera, come lo sono generalmente quella specie di barche, filava benissimo e obbediva alla menoma pressione del timone. In meno di un’ora raggiunse la punta settentrionale dell’isola che si estendeva verso oriente e si mise a seguire la riva, tenendosi però a rispettosa distanza per non subire un improvviso assalto da parte delle tigri. L’audacia di quelle fiere è tale, che sovente, con un salto, si slanciano sul ponte delle scialuppe e dei piccoli velieri che con mettono l’imprudenza di tenersi troppo vicini a terra, per rapire qualche marinaio sotto gli occhi dell’equipaggio atterrito ed impotente a respingere quell’inatteso attacco. — Aprite gli occhi, — disse Sandokan che aveva surrogato Yanez al posto del timone. — Se Sambigliong e Kammamuri si sono a tenuti alle mie istruzioni, avranno celato il praho entro qualche canalone e smontata l’alberatura. Può quindi sfuggire ai nostri sguardi. — Segnaleremo la nostra presenza con qualche colpo di fucile, — disse Tremal-Naik. — Ho trovato una delle nostre carabine. — Quella che il thug aveva scaricata contro di noi a tradimento? — Deve essere quella, Sandokan. — Sí, — disse Sirdar, che si trovava seduto sulla murata poppiera — E le altre? — chiese Sandokan. — Il pilota le aveva fatte gettare nella laguna onde impedire voi di servirvene. — Vecchio stupido, — disse Yanez. — Poteva usarle contro di noi — Non ve n’era che una carica, sahib, e noi non avevamo né polvere, né palle a bordo, — rispose il giovane. — È vero! — disse Sandokan. — Le altre le avevamo scaricate alla torre per attirare l’attenzione della pinassa. È stata una vera fortuna, altrimenti ci avrebbero fucilati a bruciapelo. — E tale era l’intenzione del pilota — rispose Sirdar. — Le armi vi erano state sottratte a quello scopo. — Capitano Sandokan, — disse in quel momento il signor de Lussac, il quale era salito sull’antenna della vela di prora per abbracciare maggior orizzonte, — vedo un punto nero solcare il canale. La Tigre della Malesia lasciò il timone a Sirdar e si diresse verso prora, seguito da Yanez. — Al sud, signor de Lussac? — chiese. — Sí, capitano e pare che si diriga verso Raimatla. Sandokan, che aveva una potenza visiva straordinaria, guardò nella direzione indicata e scorse infatti non già un punto, bensí una sottile lineetta nera che stava attraversando il canale ad una distanza di sette od otto miglia. — È una scialuppa, — disse. — Non può essere che la baleniera della Mananna, — soggiunse Tremal-Naik. — Nessuno osa spingersi fra i canali delle Sunderbunds, a menoché non vi siano trascinati da qualche tempesta e non mi pare che il golfo del Bengala sia in collera in questo momento. — Si dirige verso l’isola, — disse Yanez, che aveva gli occhi non meno acuti della Tigre. — Mi pare anzi di scorgere laggiú una piccola insenatura. Forse il praho si è rifugiato colà. — Orza alla banda! — gridò Sandokan al thug. — Stringi verso la costa. La pinassa che camminava velocemente, mantenendosi la brezza sempre fresca, poggiò verso Raimatla, mentre la scialuppa scompariva entro l’insenatura segnalata dal portoghese. Tre quarti d’ora dopo il piccolo veliero giungeva dinanzi ad una specie di canale che pareva s’inoltrasse entro l’isola per parecchie centinaia di metri, ingombro qua e là di minuscoli isolotti coperti di bambú altissimi e circondato da paletuvieri. Sandokan che aveva ripreso il timone, cacciò arditamente la pinassa in quel braccio di mare, mentre Tremal-Naik e Sirdar scandagliavano il fondo onde evitare un arenamento. — Spara un colpo di carabina, — disse la Tigre a Yanez. Il portoghese stava per obbedire, quando una scialuppa montata da dodici uomini armati di carabine e di parangs uscí da un canaletto laterale, muovendo rapidamente verso la pinassa. — La baleniera del praho! — gridò Yanez. — Ohè! amici, abbassate le carabine! Quel comando giungeva a tempo, poiché l’equipaggio della scialuppa aveva abbandonati i remi per impugnare le armi da fuoco e stava per mandare una grandine di palle sul piccolo veliero. Un grido aveva risposto, un grido di gioia: — Il signor Yanez! L’aveva mandato Kammamuri, il fedele servo di Tremal-Naik, il quale pareva che avesse assunto il comando della spedizione. — Accosta! — gridò il portoghese, mentre i malesi ed i dayachi salutavano i loro capitani con selvaggi clamori. La baleniera in pochi colpi di remo abbordò la pinassa a babordo, nel momento che de Lussac e Sirdar davano fondo all’ancorotto di prora. Kammamuri con un solo salto scavalcò la murata e cadde sulla tolda. — Finalmente! — esclamò. — Cominciavamo a temere che vi fosse toccata qualche disgrazia. Ah! la bella pinassa! — Quali nuove, mio bravo Kammamuri? — chiese Tremal-Naik. — Poco liete, padrone, — rispose il maharatto. — Che cos’è accaduto dunque durante la nostra assenza? — chiese Sandokan aggrottando la fronte. — Il manti è fuggito. — Il manti! — esclamarono ad una voce, Sandokan e Tremal-Naik, con dolorosa sorpresa. — Sí padrone: è scomparso tre giorni or sono. — Non lo vegliavate dunque? — gridò la Tigre della Malesia. — E strettamente, signor Sandokan, ve ne do la mia parola, anzi gli avevamo messi due marinai nella cabina per paura che riuscisse a prendere il largo. — Ed è fuggito egualmente? — chiese Yanez. — Quell’uomo deve essere uno stregone, un demonio, che ne so io? Il fatto è che non è piú a bordo. — Spiegati, — disse Tremal-Naik. — Come sapete era chiuso nella cabina attigua a quella che occupava il signor Yanez, che aveva una sola finestra, cosí stretta da non potervi passare nemmeno un gatto. Tre giorni or sono, verso l’alba, scesi per visitarla e la trovai deserta ed i due suoi guardiani cosí profondamente addormentati che faticammo assai a svegliarli. — Li farò fucilare, — disse Sandokan con ira. — Non è colpa loro se si sono addormentati, credetelo signor Sandokan, — disse il maharatto. — Essi ci hanno raccontato che la sera prima, verso il tramonto, il manti si era messo a fissarli con uno sguardo che metteva indosso a loro un certo malessere inesplicabile. Pareva che dagli occhi del vecchio si sprigionassero delle scintille. Ad un certo momento egli disse a loro: «Dormite: ve lo comando». E s’addormentarono cosí profondamente che quando io la mattina dopo scesi nella cabina li credetti morti. — Li ha ipnotizzati, — disse il signor de Lussac. — Gl’indiani hanno dei famosi ipnotizzatori ed il manti doveva esser uno di quelli. — E come può essere poi fuggito? — chiese Yanez. — Il brigante avrà aspettata la notte per salire in coperta e scendere sulla riva. La Marianna aveva un pontile a terra. — La fuga di quell’uomo può rovinare i nostri progetti, — disse Sandokan. — Egli si sarà recato da Suyodhana per avvertirlo del pericolo che corre. — Se non è stato divorato prima dalle tigri o stritolato da qualche serpente, — disse Tremal-Naik. — E poi Raimatla è separata da Rajmangal da vasti canali e da isole estremamente pericolose. Ha preso qualche arma il manti, prima di fuggire? — Un parang che ha levato ad uno dei suoi guardiani, — rispose Kammamuri. — Non t’inquietare per l’evasione di quel vecchio, amico Sandokan, — disse Tremal-Naik. — Egli ha novantanove probabilità su cento di venire divorato dalle belve feroci, prima di giungere a Rajmangal. A menoché non sia un vero demonio e trovi degli aiuti, lascerà la pelle fra i pantani ed i bambú spinosi. Andiamo sulla tua Mananna a organizzare la spedizione ed intenderci meglio sui nostri progetti. Capitolo XXIII. L’ISOLA DI RAJMANGAL Ventiquattro ore dopo, la pinassa lasciava la piccola cala entro cui trovavasi nascosta la Marianna, per andare a sorprendere i Thugs nel loro covo e strappare a loro la piccola Darma. La fuga del manti, quantunque vi fosse molto da dubitare che egli fosse riuscito a varcare gli ampi canali delle Sunderbunds infestati da voraci gaviali ed attraversare le isole, pullulanti di tigri, di pantere, di formidabili boa e di velenosissimi cobra-capello, aveva deciso Sandokan ad affrettare la spedizione. Tutto l’equipaggio era stato imbarcato sul piccolo veliero, con grande scorta di armi e di munizioni e con due spingarde di rinforzo. Solo sei uomini, quelli che la baleniera aveva ricondotti dalla torre di Barrekporre assieme al cornac, eran stati lasciati sul praho, il quale d’altronde non poteva correre alcun pericolo da parte dei Thugs, nascosto come era in fondo a quella cala forse a tutti sconosciuta. Il piccolo legno, carico quasi da affondare, invece di scendere verso il mare e costeggiare le Teste di sabbia che servono da argine all’irrompere delle onde del golfo bengalino, ciò che avrebbe fatto risparmiare non poca via, si era diretto verso settentrione per girare la laguna interna. Tenendosi fra le isole, vi erano meno probabilità che il veliero potesse venire segnalato e perciò i tre capi della spedizione avevano data la preferenza alla laguna anziché al mare. Il loro progetto era ormai stato attentamente studiato, affidandone la parte principale a Sirdar, di cui ormai potevano interamente fidarsi. Avevano convenuto di agire dapprima colla massima prudenza e di giuocare d’astuzia per mettere innanzi a tutto in salvo la piccola Darma, riservando a piú tardi il colpo terribile che, se riusciva, avrebbe dovuto distruggere totalmente quella sanguinaria setta e far scomparire per sempre la Tigre dell’India. Il vento, che fino dal mattino era girato al sud, favoriva la corsa della pinassa la quale, quantunque assai carica, si mostrava sempre assai maneggevole. Quattro ore dopo la sua partenza dalla cala, ossia poco prima di mezzodí, il piccolo veliero aveva già raggiunta la punta settentrionale di Raimatla ed entrava a gonfie vele nella grande laguna interna che si estende dalle rive della jungla gangetica alle isole che formano le Sunderbunds. — Se il vento non cessa, — disse Tremal-Naik a Sandokan, che osservava con una certa curiosità quelle terre basse coperte dagli alberi della febbre, — prima di mezzanotte noi saremo nel cimitero galleggiante del Mangal. — Sei certo che troveremo un buon posto per celarvi la pinassa? — Il Mangal lo conosco palmo a palmo, perché era sulle sue rive che io abitavo quand’ero il «cacciatore di tigri e di serpenti della jungla nera». Chissà che non sussista ancora la capanna che mi serví d’asilo per lunghi anni. La rivedrei volentieri, perché fu in quei dintorni che vidi per la prima volta colei che doveva diventare mia moglie. — Ada? — Sí, — disse Tremal-Naik con un profondo sospiro, mentre una profonda commozione alterava il suo volto. Era una bella sera d’estate, il sole calava lentamente dietro le canne giganti fra un oceano di fuoco, quand’ella apparve, bella come una dea, fra un cespuglio di mussenda. Ah! La dolce e cara visione! — Come, i Thugs permettevano alla «Vergine della pagoda» di passeggiare per la jungla? — Che cosa potevano temere? Che fuggisse forse? Sapevano che non avrebbe osato attraversare la immensa jungla e poi ignoravano, credo, la mia presenza in quei luoghi. — E ti appariva tutte le sere? — Sí, verso l’ora del tramonto e ci guardavamo a lungo, senza parlare. Io la credevo una divinità e non osavo interrogarla, poi una sera non ricomparve e la stessa notte i Thugs mi assassinavano un servo che avevo mandato sulle rive del Mangal per tendere un laccio ad una tigre. — E tu andasti a cercarla nella pagoda? — Sí e fu là che la vidi versare del sangue umano dinanzi alla mostruosa statua di Kalí e che la udii a singhiozzare ed imprecare contro i miserabili che l’avevano rapita e contro il destino. — E che i Thugs ti sorpresero e che Suyodhana, il loro capo, ti cacciò un pugnale nel petto. — Sí, Sandokan, — disse Tremal-Naik. — Se la sua mano in quel momento non avesse tremato, io non sarei piú qui a raccontart questa terribile istoria e del «cacciatore di serpenti della jungla nera» piú mai nessuno avrebbe parlato. Ne ho uccisi però prima e molti di quei miserabili e non sono caduto nelle loro mani che dopo una lotta disperata. — Ti eri calato nella pagoda scendendo lungo una fune sostenente una lampada, è vero? — Sí. — Che esista ancora? — Sirdar me l’ha confermato. — Ebbene scenderemo anche noi con quella, — disse Sandokan. — Se Darma si mostrerà noi la rapiremo. — Aspettiamo prima che Sirdar ci avverta. — Hai fiducia in lui? — Assoluta, — rispose Tremal-Naik. — Ora odia i Thugs al pari e forse piú di noi. — Se non ci tradisce sarà un prezioso alleato. Gli ho offerto una fortuna se riesce a farci ricuperare la piccola Darma. — Manterrà la promessa, ne sono sicuro e ci darà nelle mani anche la bajadera. — Che Surama sia già stata condotta nei sotterranei? — Lo suppongo. — Salveremo anche quella. Agiamo però con prudenza onde Suyodhana non ci sfugga. A te Darma; a Yanez Surama, ed a me la pelle della Tigre dell’India, — disse Sandokan con un crudele sorriso. E l’avrò o non tornerò piú a Mompracem. — Rima, — disse in quel momento Sirdar, avvicinandosi a loro e mostrando un’isola che si delineava dinanzi la prora della pinassa, — è la prima delle quattro isole che coprono Rajmangal verso occidente. Rimontiamo al nord, sahib: la nostra rotta è quella. — Evitiamo Port-Canning, — disse Tremal-Naik. — Vi può essere in quella stazione qualche spia di Suyodhana. — Passeremo pel canale interno, — rispose Sirdar. — Nessuno ci vedrà. — Mettiti al timone. — Sí, sahib: guiderò la pinassa. Il piccolo veliero pochi momenti dopo virava di bordo attorno alla punta settentrionale di Rima, imboccando un nuovo canale, anche quello assai ampio e sulle cui acque si vedeva a galleggiare un gran numero di avanzi umani che spandevano un odore cosí asfissiante da far arricciare il naso perfino a Darma ed a Punthy, che si trovavano in coperta, l’una coricata a fianco dell’altro. Alle sei di sera anche quel canale era superato e la pinassa s’impegnava fra una serie di bassifondi e d’isolotti che dovevano formare l’estuario del Mangal. Il cimitero galleggiante, accennato da Tremal-Naik, s’annunciava. Centinaia e centinaia di cadaveri che dovevano provenire dal Gange, essendo il Mangal un braccio di quell’immenso fiume, galleggiavano sulle acque nerastre e untuose, montati ognuno da una e anche due coppie di marabú. Teste, dorsi, femori e braccia si urtavano insieme, sballonzolati dalle onde prodotte dallo scafo della pinassa. Le terre a poco a poco si restringevano. Rajmangal si univa alla jungla del continente. Sandokan aveva fatto chiudere le due grandi vele, non conservando che un fiocco e faceva sondare il fondo ad ogni momento, onde la pinassa non si arenasse. Tremal-Naik si era messo vicino al timoniere per indicargli la via da tenere. Per venti minuti il veliero salí il fiume poi, dietro ordine di Tremal-Naik, s’accostò alla riva sinistra cacciandosi entro una piccola cala che era ombreggiata da immensi alberi, i quali intercettavano quasi completamente la luce. — Ci fermeremo qui, — disse il bengalese a Sandokan. — Ci è facile nascondere la pinassa in mezzo ai paletuvieri dopo d’averla privata della sua alberatura e la jungla foltissima non è che due passi. Nessuno potrà scoprirci. — E la pagoda dei Thugs è lontana? — Si trova a meno di un miglio. — Sorge in mezzo alla jungla? — Sulle rive d’uno stagno. — Sirdar! Il giovane si era affrettato ad avvicinarsi. — È giunto il momento di agire, — disse Sandokan. — Sono pronto, sahib. — Noi abbiamo udito il tuo giuramento. — Sirdar può essere diventato un miserabile, ma non mancherà alle promesse fatte. — Qual è adunque il tuo piano? — Io andrò da Suyodhana e gli narrerò che la pinassa è stata catturata da una banda d’uomini, che tutto l’equipaggio è stato distrutto e che io sono riuscito a salvarmi con infiniti stenti. — Ti crederà? — E perché no? Ha sempre avuto fiducia in me. — E poi? — M’informerò se Darma si trova ancora nei sotterranei e vi farò avvertire la sera in cui la bambina andrà a fare l’offerta del sangue dinanzi alla statua della dea. Siate pronti a piombare nella pagoda, e badate di non farvi scorgere. — Come ci avvertirai? — Se Surama è già giunta, ve la manderò. — La conosci tu? — Sí, sahib. — E se non l’avessero ancora ricondotta a Rajmangal? — Verrò io, sahib. — Ordinariamente a che ora si fa l’offerta del sangue? — Alla mezzanotte. — È vero, — disse Tremal-Naik. — Come potremo entrare inosservati nella pagoda? — chiese Sandokan. — Scalando la cupola e scendendo per la fune che sostiene la grossa lampada, — disse Tremal-Naik. — Sussiste ancora quella fune, è vero, Sirdar? — Sí, sahib. Sarà però cosa prudente che non entriate in troppi nella pagoda, — disse il giovane. — Lasciate il grosso della banda nascosto nella jungla e avvertite i vostri uomini di accorrere solamente quando udranno il suono del ramsinga. — Chi lo darà lo squillo? — Io, signore, perché ci sarò anch’io nella pagoda, quando voi piomberete su Suyodhana. — Sarà lui che condurrà Darma a fare l’offerta del sangue? — chiese Yanez che si era unito a loro. — Sí, è sempre lui che presenzia quell’offerta. — Va’, dunque — disse Sandokan. — Ricordati che se tu riuscirai a darci nelle nostre mani Darma e anche Surama, la tua fortuna è fatta e che se invece ci tradisci, noi non lasceremo le Sunderbunds senza avere la tua testa. — Manterrò il giuramento che ho fatto, — disse Sirdar con voce solenne. — Io non sono piú thug; torno bramino. Prese una carabina che Kammamuri aveva portata, fece un gesto d’addio e balzò agilmente sulla riva, scomparendo ben presto fra le tenebre. — Che riesca a farmi riavere la mia piccola Darma? — chiese Tremal-Naik con ansietà. — Che cosa ne dici Sandokan? — Il giovane mi sembra non solo audace, bensí anche leale e credo che compirà la sua pericolosa missione senza esitare. Armiamoci di pazienza e disponiamo il campo. I suoi uomini si erano già messi all’opera per nascondere la pinassa, levando le antenne, l’alberatura e tutte le sue manovre. Scaricate le armi, parte delle munizioni, le casse dei viveri e le tende, scesero a terra e trascinarono il legno in mezzo ai paletuvieri entro i quali avevano già aperto, a colpi di parangs, un largo solco per cacciarvelo nel mezzo. Ciò fatto, coprirono il ponte con ammassi di canne e di rami, in modo da nasconderlo completamente. Frattanto Sandokan, Yanez e Tremal-Naik con un drappello di dayachi s’inoltrarono fino sul margine della jungla che cominciava subito dietro gli alberi che coprivano la riva, e stabilivano un posto avanzato, mentre Kammamuri e Sambigliong ne piantavano un altro lungo la costa occidentale per sorvegliare coloro che potevano venire dalle isole delle Sunderbunds. Scopo principale però di quest’ultimo posto era d’impedire l’approdo al manti, nel caso che il vecchio fosse riuscito ad attraversare la laguna ed i canali su qualche zattera. Alle due del mattino, disposti parecchi uomini di guardia a varie distanze per evitare qualunque sorpresa, i capi e buona parte dell’equipaggio s’addormentavano non ostante le urla lugubri degli sciacalli. Nessun avvenimento turbò il sonno degli accampati. Si avrebbe detto che l’isola, invece di essere abitata da un numero considerevole di Thugs, fosse deserta. L’indomani, dopo il mezzodí, Tremal-Naik, Sandokan e Yanez che erano divorati da una vivissima impazienza, fecero una esplorazione nella jungla, accompagnati da Darma e da Punthy, spingendosi fino in vista della pagoda dei terribili seguaci di Kalí, ma senza incontrare anima viva. Attesero la sera sperando di veder giungere Surama o Sirdar. Né l’una né l’altro però si fecero vivi, né il manti fu scorto approdare. In quella notte udirono invece, a piú riprese, echeggiare in lontananza un ramsinga. Che cosa significavano quelle note che erano improntate d’una profonda melanconia e che suonavano un’arietta invernale(). Erano segnali trasmessi da uomini che sorvegliavano le jungle del continente od annunciavano qualche cerimonia religiosa? Sandokan ed i suoi compagni, udendo quei suoni, avevano lasciate precipitosamente le tende, colla speranza che annunciassero l’arrivo di Sirdar, invece fu un’altra delusione. Verso la mezzanotte le note acute della tromba cessarono completamente ed il silenzio tornò a piombare sulla tenebrosa jungla. Anche il secondo giorno trascorse senza che nulla di nuovo fosse accaduto. Già Sandokan e Tremal-Naik, all’estremo dell’impazienza, avevano deciso di tentare nella notte una nuova esplorazione e di spingersi fino nell’interno della pagoda, quando verso il tramonto videro giungere a corsa precipitosa una delle sentinelle scaglionate nella jungla. — Capitano, — disse il malese, — qualcuno s’avvicina. Ho scorto i bambú oscillare come se una persona cerchi d’aprirsi il passo. — Sirdar forse? — chiesero ad una voce Sandokan e TremalNaik. — Non ho potuto vederlo. — Guidaci, — disse Yanez. Presero le carabine ed i kriss e seguirono il malese insieme al signor de Lussac e a Darma. Si erano appena inoltrati nella jungla quando scorsero le cime d’un gruppo di bambú altissimi a oscillare. Qualcuno, probabilmente una persona, si sforzava di aprirsi il passo. — Circondiamola, — disse Sandokan sotto voce. Stavano per separarsi, quando una voce armoniosa, a loro ben nota, disse: — Buona sera, sahib! Sirdar mi manda a voi. Capitolo XXIV. LA PAGODA DEI THUGS Surama, la bella bajadera, era comparsa improvvisamente sull’orlo della macchia, tenendo in pugno un tarwar di cui si era servita per aprirsi il passo fra le piante che coprivano il suolo fangoso dell’isola. Aveva nuovamente indossato lo splendido e pittoresco costume delle danzatrici religiose,colla leggera corazza di legno dorato e le gonnelline di seta azzurra trapunte con argento e cosparse di perline di Ceylan. Tutti le si erano precipitati incontro, perfino Darma sembrava lieta di rivedere la fanciulla, perché andò a strofinare la propria testa sulle gonne di seta della danzatrice. — Mia bella ragazza, — disse Yanez, che pareva vivamente commosso. — Ti credevo perduta. — Come vedete, sahib bianco, sono ancora viva, — rispose Surama sorridendo. — Ho avuto però anch’io il dubbio che m’avessero rapita per immolarmi alla loro divinità. — Chi ti manda? — chiese Tremal-Naik. — Sirdar, vi ho detto. Egli m’incarica di avvertirvi che questa sera, verso la mezzanotte, ha luogo l’offerta del sangue, dinanzi alla statua di Kalí. — Chi lo verserà? — chiese angosciosamente il bengalese. — La piccola «Vergine della pagoda». — Miserabili! Hai veduto mia figlia? — È invisibile per tutti fuorché pei sacerdoti e per Suyodhana. — Ti ha detto altro, Sirdar? — Che sarà l’ultimo sacrificio del sangue che si farà, perché i Thugs si preparano a disperdersi nuovamente onde raggiungere ed aiutare gli insorti di Delhi e di Lucknow. — È scoppiata l’insurrezione? — chiese il signor de Lussac. — È terribile, signore, — rispose Surama. — Ho udito a raccontare che i reggimenti dei cipayes fucilano i loro ufficiali; che a Cawnpore ed a Lucknow hanno trucidate tutte le famiglie inglesi e che anche la Rani del Bundelkund ha inalberato lo stendardo della rivolta. Tutto il settentrione dell’India è in fiamme. — E Suyodhana si prepara a raggiungere gl’insorti? — chiesero Sandokan e Tremal-Naik. — Anche perché non si sente piú sicuro qui. Egli ormai sa che il padre della piccina minaccia Rajmangal. — Chi glielo disse? — chiese Yanez. — Le sue spie che vi hanno seguito attraverso la jungla. — Sa che ormai noi siamo qui? — chiese Sandokan. — I Thugs lo ignorano, avendo le loro spie perdute le vostre tracce, dopo che avete lasciato la torre di Barrekporre per imbarcarvi nella pinassa. Sirdar mi ha narrato ogni cosa. — Perché non è venuto lui qui? — chiese Tremal-Naik. — Per non lasciare Suyodhana, temendo che improvvisamente prenda il largo. — Rimarrai qui tu ora? — chiese Yanez. — No, sahib bianco, — rispose. — Sirdar mi attende e credo che per vostro vantaggio sia meglio che io rimanga coi Thugs fino alla loro partenza. — Se non li annegheremo tutti nelle loro caverne, — disse Sandokan. — Hai null’altro da aggiungere? — Che Sirdar seguirà Suyodhana nel caso che il capo fuggisse. Addio sahib bianco, noi ci rivedremo presto, — disse la bella danzatrice stringendo la mano a Yanez. — Ti do un consiglio, prima che tu torni laggiú, — disse Sandokan. — Quando noi assaliremo il covo dei Thugs non trovarti nei sotterranei. Al primo colpo di fucile rifugiati nella pagoda. — Sí, sahib. — Le caverne non comunicano piú col tronco del banjan sacro? — chiese Tremal-Naik. — No, quella galleria è stata chiusa. Sarete costretti ad assalire dalla galleria che mette nella pagoda. Buona sera, sahibs: vi auguro di sterminare quei miserabili e di riavere la piccola Darma. Sorrise a tutti, poi rientrò fra i bambú, allontanandosi velocemente. — Sono le nove, — disse Sandokan, quando furono soli. — Facciamo i nostri preparativi. — Condurremo tutti? — chiese de Lussac. — Non saremo in troppi, — rispose Sandokan. — Che cosa ci consigli di fare tu, Tremal-Naik, che conosci la pagoda? — Lasciare il grosso nascosto fra le macchie che circondano lo stagno, — rispose il bengalese. — Noi scenderemo nella pagoda e daremo il primo attacco. Messa al sicuro Darma, se vuoi, forzeremo i sotterranei e la faremo finita con Suyodhana. — Non tornerò a Mompracem senza portare con me la pelle della Tigre dell’India, — disse Sandokan. — Te l’ho già detto. Tornarono lestamente all’accampamento e mandarono uomini sul canale occidentale a ritirare le sentinelle, volendo avere sottomano tutte le forze disponibili per dare un tremendo colpo ai banditi di Suyodhana. Alle undici Sandokan, Yanez, de Lussac, Tremal-Naik e quattro malesi fra i piú audaci e piú robusti, lasciavano silenziosamente il campo, preceduti da Darma. Erano tutti armati di carabine, di pistole e di parangs e forniti di corde onde aiutarsi nella scalata alla cupola della pagoda. Il grosso, composto di trenta uomini fra malesi e dayachi, agli ordini di Sambigliong, doveva seguirli un quarto d’ora dopo. Anche i marinai del praho erano armati di carabine, di kampilangs e di parangs e per di piú portavano alcune bombe da scagliarsi nei sotterranei o da far scoppiare dinanzi alle porte della pagoda sotterranea e parecchie lampade e torce. Tremal-Naik e Kammamuri, che conoscevano l’isola a menadito, guidavano il primo drappello, avanzandosi con precauzione, temendo qualche sorpresa da parte dei feroci settari della sanguinaria dea. Non era improbabile che gli abitatori dei sotterranei, messi in sospetto od avvertiti da qualche spia dell’approdo di quegli stranieri, dei quali piú o meno conoscevano le intenzioni, avessero preparata qualche imboscata fra gli alti canneti che coprivano l’isola. I loro timori però parevano ingiustificati, poiché Punthy, il fedele cane, non manifestava almeno pel momento alcuna inquietudine, né ringhiava. La jungla sembrava deserta e solo qualche urlo d’uno sciacallo o di qualche bighana affamato rompeva il profondo silenzio che regnava fra quei mostruosi vegetali. Mancava mezz’ora alla mezzanotte, quando il drappello guidato dal bengalese e dal maharatto, giunse sulle rive dello stagno. Sull’opposta estremità, in mezzo ad una spianata che era per la maggior parte ingombra da un colossale banian, formato da un numero immenso di tronchi, s’ergeva la pagoda dei Thugs. Era un edificio colossale, che terminava in una cupola enorme, colle pareti adorne di teste di elefanti e di divinità che si collegavano le une alle altre con una sequela di cornicioni che potevano rendere possibile una scalata. Né sulle rive, né sulla spianata si vedeva alcun essere vivente. Anche le finestre della pagoda erano oscure, segno evidente che l’offerta del sangue non era ancora stata cominciata. — Siamo giunti per tempo, — disse Tremal-Naik, che parve in preda ad una vivissima eccitazione. — Mi sembra strano che i Thugs non abbiano collocate delle sentinelle intorno alla pagoda, sapendo che noi ci aggiriamo nelle lagune, — disse Sandokan, che per istinto diffidava. — E questo silenzio non mi rassicura, — disse Yanez. — E tu Tremal-Naik? — Dico che non sono tranquillo, — rispose il bengalese. — E nemmeno la vostra tigre lo è, — disse in quell’istante il francese. — Guardatela. Infatti Darma, che fino allora aveva preceduto il drappello senza manifestare alcuna inquietudine, si era fermata dinanzi ad una larga zona di bambú altissimi, che si prolungava in direzione della pagoda e che il suo padrone era costretto ad attraversare, essendo la riva opposta dello stagno paludosa e perciò impraticabile. Aguzzava gli orecchi come se cercasse di raccogliere un lontano rumore, agitava nervosamente la coda, battendosi i fianchi e fiutava l’aria brontolando. — Sí, — disse Tremal-Naik. — Darma ha fiutato qualche nemico. Deve esservi qualche thug nascosto lí dietro. — Qualunque cosa accada non fate uso delle armi da fuoco, disse Sandokan. — Lascia che vada a sorprendere quell’uomo, Tremal-Naik. — No, Sandokan, rispose il bengalese. — Quando vi è Darma con me non ho nulla da temere e sarà essa che piomberà sullo strangolatore. Un colpo d’artiglio ben applicato e tutto sarà finito. — Possono essere in due. — Voi mi seguirete a breve distanza. S’accostò a Darma che continuava a dare segni d’inquietudine, le passò una mano sul robusto dorso e guardandola fissa le disse: — Seguimi, Darma. Poi, volgendosi verso Sandokan e gli altri: — Gettatevi a terra e avanzatevi strisciando. Si gettò il fucile a bandoliera, impugnò il parang e si cacciò silenziosamente fra i bambú, tenendosi curvo e allontanando adagio adagio le piante. Darma lo aveva seguito, tenendosi a quattro o cinque passi di distanza. Entro la macchia non si udiva alcun rumore, eppure Tremal-Naik sentiva per istinto che qualcuno vi si teneva nascosto. Aveva percorso cinquanta passi, quando si trovò dinanzi ad un sentieruzzo che pareva si dirigesse verso la pagoda. Si era alzato per osservare se non vi era nessuno, quando udí a breve distanza un fruscio di canne, poi si sentí cadere sulle spalle una corda e stringere alla gola. Alzò il parang per tagliare il laccio, quando una scossa poderosa lo fece subito cadere. — L’ho sorpreso, — disse una voce vicina. Poi un uomo quasi nudo, che portava sul petto il tatuaggio dei Thugs balzò fra le canne e gli si precipitò addosso tenendo in mano un lungo pugnale. Ad un tratto un’ombra si slanciò fuori dai bambú, con un salto immenso gli balzò alla gola, atterrandolo di colpo. Si udí un grido soffocato, poi come uno stritolío di ossa. Darma era piombata addosso allo strangolatore serrandogli le mascelle attorno alla testa, mentre le poderose unghie gli dilaniavano atrocemente il petto. Sandokan che si trovava dieci passi piú indietro, a sua volta si era slanciato brandendo il parang. Quando però giunse, Tremal-Naik era in piedi e si era già sbarazzato del laccio ed il thug aveva esalato l’ultimo respiro. — T’aveva colto? — chiese. — Sí: ma non ha avuto il tempo di strangolarmi né di pugnalarmi, — rispose Tremal-Naik, stropicciandosi il collo. — Aveva un pugno ben solido quel birbante e senza il salto fulmineo di Darma non so se sareste giunti in tempo. Yanez, de Lussac ed i malesi giungevano. — Non fate rumore, — disse Tremal-Naik. — Vi può essere qualche altro thug imboscato. — Darma, lascia! La tigre beveva avidamente il sangue che sgorgava dalle orribili ferite dello strangolatore. — Lascialo, — ripeté Tremal-Naik, afferrandola pel collo. Darma ubbidí ringhiando. — Per Giove! — esclamò Yanez. — Come ha conciato quel povero diavolo! Non si riconosce piú il suo viso. — Taci, — gli disse Sandokan. Si misero tutti in ascolto; nessun rumore pervenne ai loro orecchi fuorché il fruscio dei pennacchi delle canne, leggermente agitati dal venticello notturno. — Avanti, — disse Tremal-Naik. Si misero in marcia sempre nel piú profondo silenzio e cinque minuti dopo sbucavano dinanzi all’enorme pagoda. Si fermarono alcuni istanti, guardando attentamente sotto le ombre proiettate dalle mostruose teste degli elefanti e dalle statue e dagli ampi cornicioni, poi, si fecero rapidamente sotto una enorme statua incastrata nelle pareti, rappresentante Supramanier, uno dei quattro figli di Siva, cui suo padre fece uscire uno dei suoi occhi per ammazzare il gigante Suraparama che desolava l’India. Tremal-Naik, che era il piú agile di tutti, s’aggrappò alle gambe del colosso, raggiunse il petto, salí su un braccio finché poté mettersi a cavalcioni della testa. Legò una fune e la gettò ai compagni, dicendo: — Presto: piú su la scalata sarà facile. Sopra il gigante pendeva la tromba d’un elefante. Tremal-Naik vi si aggrappò, passò sopra la testa del pachiderma infissa in una colonna di dimensioni enormi e raggiunse facilmente il primo cornicione. Sandokan ed i suoi compagni l’avevano seguito da vicino. Anche il francese, quantunque non potesse gareggiare per agilità con quegli uomini, non era rimasto indietro. Sopra il cornicione vi erano altre statue che s’appoggiavano le une alle altre, alcune rappresentanti dei deverkeli ossia semidei venerati dagl’indiani, abitatori del sorgon che è il paradiso di coloro che non hanno sufficienti meriti per andare nel cailasson o paradiso di Siva; altri le diverse incarnazioni di Visnú, testuggini, serpenti, mostri, nilgò, leoni e mezzi uomini, cavalli alati ecc. Passando successivamente dall’uno all’altro, gli otto audaci giunsero finalmente sulla cima della cupola, arrestandosi dinanzi ad un foro circolare che era attraversato da una grossa sbarra di ferro su cui s’appoggiava una enorme palla di metallo dorato. — È per di qua che sei anni or sono discesi, per veder la madre della povera Darma fare l’offerta del sangue dinanzi a Kalí, — disse Tremal-Naik con voce profondamente commossa. — E per farti pugnalare da Suyodhana, — disse Sandokan. — Sí, — rispose il bengalese con accento cupo. — Vedremo se sarà capace di pugnalarci tutti otto. Si era alzato sulle ginocchia e guardava attentamente verso la jungla, dove la tigre, che non aveva potuto seguirli, in quel momento si dirigeva. — Sono là i nostri uomini, — disse. — Ecco Punthy che corre incontro alla tigre. Al primo colpo di fucile accorreranno tutti e non risparmieranno nessuno. — Avranno il tempo di scalare la cupola? — chiese Yanez. — Kammamuri sa dove si trova la porta della pagoda, — rispose Tremal-Naik. — Basterà un petardo per farla saltare. — Spicciamoci dunque, — disse Sandokan. Tremal-Naik aveva afferrata una grossa corda, lucente come la seta, che pareva formata di fibre vegetali, e che pendeva verticalmente da sotto l’asta di ferro. La scosse leggermente e dalla nera apertura salí un leggero tintinnio metallico. — È la lampada, — disse. — Lasciami il posto, — disse Sandokan. — Voglio essere io il primo a scendere. — La statua è sotto la lampada e la sua testa è abbastanza larga per posarvi i piedi senza tema di cadere. — Va bene. Sandokan si assicurò le pistole ed il parang alla fascia, si mise la carabina a bandoliera, poi s’aggrappò alla fune e si mise a scendere lentamente, senza scosse, onde non far oscillare e tintinnare la lampada. L’interno della pagoda era oscuro, non essendovi alcuna torcia accesa e anche vi regnava un profondo silenzio. Sandokan, completamente rassicurato, si lasciò scivolare piú rapidamente, finché sentí sotto di sé i bracci della lampada. Abbandonò la fune aggrappandosi ad una traversa di metallo che aveva sentita sotto le mani e si lasciò penzolare. I suoi piedi non tardarono ad incontrare un corpo duro e ruvido. — Deve essere la testa della dea, — disse. — Non perdiamo l’equilibrio. Quando si trovò bene appoggiato, lasciò la lampada e si lasciò scivolare lungo il corpo della dea che pareva fosse di dimensioni enormi, finché giunse a terra. Guardò intorno senza poter nulla discernere, tanto era fitta l’oscurità; in alto dove scorgeva un lembo di cielo cosparso di stelle vide un’ombra calarsi attraverso il foro. — Sarà Tremal-Naik, — mormorò. Non si era ingannato: era il bengalese che si lasciava scivolare e che ben presto lo raggiunse dinanzi alla statua. — Hai udito nessun rumore? — chiese l’indiano. — Nessuno, — rispose Sandokan. — Si direbbe che i Thugs siano fuggiti. Tremal-Naik si senti bagnare la fronte d’un sudore gelido. — No, — disse. — È impossibile che siamo stati traditi. — Eppure è quasi mezzanotte e credo che... Un rombo assordante, che pareva provenisse di sotto terra, lo interruppe bruscamente. — Che cos’è questo? — chiese. — L’hauk, il grande tamburo delle cerimonie religiose, — rispose Tremal-Naik. — I Thugs non sono fuggiti e stanno raccogliendosi. Presto amici! Scendete! Yanez era già sulla testa della divinità e gli altri udendo quel rimbombo si erano lasciati scivolare l’un dietro l’altro, col pericolo di spezzare la fune. Risuonava un secondo colpo dell’hauk quando gli otto uomini si trovarono riuniti. — Là vi deve essere una nicchia, — disse Tremal-Naik, spingendo i compagni. — Nascondiamoci là dentro. Dei fragori strani si udivano echeggiare sotto terra. Erano grida lontane, rulli di tamburi, squilli di tromba, rintocchi di campane. Pareva che la rivoluzione fosse scoppiata fra gli abitanti di quegli immensi sotterranei. Tremal-Naik, Sandokan ed i loro compagni si erano appena rannicchiati nella nicchia, quando una porta s’aprí con fracasso e una banda di uomini, quasi interamente nudi e spalmati d’olio di cocco, irruppe nella pagoda con un urlío furioso. Erano quaranta o cinquanta, muniti di torce, di lacci e di fazzoletti di seta colla palla di piombo, di pugnali e di tarwar. Un vecchio, magro come un fakiro, con una lunga barba bianca, si era aperto violentemente il passo fra quella turba, gridando: — Eccoli là i profanatori della pagoda! Distruggeteli. Tremal-Naik e Sandokan avevano mandate due grida di stupore e anche di rabbia. — Il manti!... Capitolo XXV. NEL RIFUGIO DEI THUGS Come mai quel terribile vecchio, fuggito quasi inerme fra le isole pantanose delle Sunderbunds, era riuscito a sfuggire al veleno dei serpenti cobra, alle spire dei formidabili pitoni, ai denti dei gaviali e agli artigli delle pantere e delle tigri, attraversare le lagune e giungere ancora nel covo dei settari di Kalí? E come mai invece di veder comparire Suyodhana colla piccola Darma per compiere l’offerta del sangue, si trovavano invece dinanzi a quella turba di fanatici? Erano stati traditi da Sirdar od erano stati veduti a scalare la pagoda? Né Sandokan né gli altri ebbero il tempo di trovare la soluzione a quelle domande. I Thugs piombavano addosso a loro da tutte le parti coi lacci, coi fazzoletti di seta, coi tarwar e coi pugnali, urlando spaventosamente. — A morte i profanatori della pagoda! Kalí... Kalí. Sandokan, pel primo, si era slanciato fuori dalla nicchia, puntando la carabina verso il manti che precedeva gli strangolatori, tenendo nella destra il kampilang che aveva preso ad una delle due sentinelle del praho e nella sinistra una fiaccola. — A te la prima palla, vecchio! — tuonò il formidabile pirata. Un colpo di fucile seguí quelle parole, ripercuotendosi nella immensa cupola come lo scoppio d’un petardo. Il manti si era lasciato sfuggire il kampilang, portando una mano al petto. Stette un momento ritto dardeggiando su Sandokan uno sguardo ripiendo d’odio, poi stramazzò pesantemente quasi ai piedi della colossale statua che sorgeva nel centro della pagoda, urlando con voce strozzata: — Vendicatemi... uccidete... sterminate... Kalí lo vuole!... Gli strangolatori vedendo cadere il vecchio, si erano arrestati, lasciando cosí tempo a Tremal-Naik, a Yanez, al francese e ai quattro malesi di stringersi attorno alla Tigre della Malesia che aveva gettata la carabina per impugnare il parang. L’esitazione dei settari della sanguinaria divinità non ebbe però che una durata di pochi secondi. Forti della superiorità del loro numero, tornarono ben presto a scagliarsi, operando un fulmineo movimento aggirante e facendo volteggiare in aria i lacci ed i fazzoletti di seta. Sandokan, che si era accorto a tempo del pericolo che correva il suo drappello se si lasciava circondare, si gettò verso la parete piú vicina, mentre i suoi compagni con una scarica di carabine gli aprivano il passo gettando a terra quattro o cinque uomini. — Mano ai parangs!... — gridò Sandokan, addossandosi alla parete. — Attenti ai lacci! — Yanez, Tremal-Naik ed i loro compagni approfittando del varco aperto da quella scarica micidiale, lo avevano prontamente raggiunto vibrando colpi di sciabola in tutte le direzioni per troncare i lacci che cadevano a loro addosso, fischiando come serpenti. La mossa della Tigre della Malesia e le perdite subite pareva però che avessero un po’ raffreddato lo slancio degli strangolatori, i quali avevano forse sperato, fino dal primo attacco, di vincere facilmente quel piccolo gruppo di avversari. Un grido del manti, il quale non aveva ancora esalato l’ultimo respiro, quantunque si dibattesse fra una pozza di sangue, li rianimò: — Uccidete... distruggete... il paradiso di Kalí a chi muore... a chi mu... La morte gli aveva troncata l’ultima parola, ma tutti avevano udita la promessa. Il paradiso di Kalí a chi muore! Non ci voleva di piú per infondere coraggio a quei fanatici. Per la seconda volta si erano scagliati, incoraggiandosi con vociferazioni spaventevoli, tuttavia dovettero ripiegarsi ben presto dinanzi al fuoco del drappello. Sandokan ed i suoi compagni avevano messo mano alle pistole, massacrando i piú vicini, a brucia-pelo. Dieci o dodici Thugs erano caduti morti o feriti, formando dinanzi agli assaliti una specie di barriera. Un solo laccio era caduto sul signor de Lussac stringendogli ad un tempo il collo ed un braccio; Yanez con un colpo di parang lo aveva subito troncato. L’effetto di quella seconda scarica, ben piú tremenda della prima, aveva sparso tra gli assalitori un vero panico, tanto piú che il manti non era piú là ad incoraggiarli. Sandokan, vedendoli ripiegarsi confusamente, non lasciò loro il tempo di riordinarsi per ritentare un nuovo attacco. — Carichiamo! — gridò. — Addosso a questi banditi! Il formidabile scorridore del mare si era già scagliato coll’impeto della belva di cui portava il nome, vibrando colpi terribili col pesante parang che maneggiava come fosse un semplice spadino. I suoi compagni lo seguivano, mentre i malesi mandavano urla selvagge e balzavano come antilopi, sciabolando senza misericordia quanti si trovavano a portata dei loro kampilangs. I Thugs, impotenti a far fronte a quella carica furiosa, si erano precipitati verso la statua stringendolesi attorno, ma giunti colà, gettati i lacci e i fazzoletti di seta diventati ormai inutili in una lotta corpo a corpo, ed impugnati i tarwar ed i coltellacci, impegnarono risolutamente la lotta, come se sperassero nella protezione della mostruosa dea. Sandokan, furioso di trovare una resistenza che ormai credeva spezzata, li assaltò con slancio formidabile, tentando di disorganizzare le loro file. La lotta diventava spaventosa. I colpi di parangs e di kampilangs, armi che avevano facilmente buon gioco contro i corti e deboli tarwar ed i coltelli, grandinavano fitti, tagliando braccia e teste e squarciando petti e dorsi; pure gli strangolatori non allargavano le loro file ed opponevano una fiera resistenza. Invano la Tigre della Malesia aveva trascinato tre volte alla carica i suoi uomini. Malgrado la strage che facevano le terribili sciabole bornesi, avevano dovuto retrocedere. Stava per tentarne un altro, quando si udí improvvisamente a rullare in lontananza il grosso tamburo delle cerimonie religiose, l’hauk, seguíto quasi subito da alcune scariche di moschetteria, che rombavano al di fuori della pagoda. Sandokan aveva mandato un grido. — Coraggio amici! Ecco i nostri uomini che giungono in nostro aiuto! Addosso a questi banditi! Non vi era piú bisogno di ritentare la carica, poiché gli strangolatori, appena udito il rullo dell’hauk si erano slanciati a corsa sfrenata verso la porta, dalla quale erano entrati nella pagoda e che probabilmente doveva mettere nelle misteriose gallerie del tempio sotterraneo. Vedendoli fuggire, Sandokan non aveva esitato a slanciarsi dietro di loro, gridando: — Avanti! Seguiamoli nel loro covo! I Thugs, fuggendo, avevan gettato via parecchie torce. Yanez e Tremal-Naik ne raccolsero due e si misero dietro a Sandokan. I Thugs erano già giunti presso la porta e si precipitavano nella galleria, urtandosi gli uni cogli altri per essere i primi a porsi in salvo. Quando Sandokan ed i suoi compagni varcarono la soglia, gli strangolatori, che correvano come lepri, avevano già un notevole vantaggio. Conoscendo i sotterranei, avevano spente le torce per non servire di mira ai colpi degli inseguitori, sicché non si scorgevano piú. Si udivano però a correre all’impazzata, essendo il terreno dotato d’una sonorità straordinaria. Tremal-Naik che temeva un agguato, si era provato a trattenere la Tigre della Malesia, dicendo: — Aspettiamo i tuoi uomini, Sandokan. — Bastiamo noi, — aveva risposto il pirata. — Ci fermeremo piú innanzi. Poi, presa la torcia che portava Yanez, si era inoltrato audacemente nel tenebroso passaggio, senza inquietarsi del continuo rullare dell’hauk che forse chiamava a raccolta tutti gli abitatori dei sotterranei. Un altro motivo poi lo spingeva a dare addosso ai Thugs; il timore che Suyodhana fuggisse colla piccola Darma, perciò si affrettava, senza badare ai pericoli a cui andava incontro. Tutti si erano messi in corsa, vociando per spargere maggior terrore fra i fuggiaschi e farsi credere in numero maggiore, e percuotendo le pareti coi kampilangs e coi parangs. La galleria che metteva negli immensi sotterranei di Rajmangal, scendeva rapidamente. Era una specie di budello, semi-circolare, scavato in qualche banco di rocce, largo appena due metri su altrettanti di altezza, interrotto di quando in quando da corte gradinate viscide. L’umidità trapelava da tutte le parti e dalla volta cadevano dei goccioloni, come se sopra vi passasse qualche fiume o si estendesse qualche stagno. Gli strangolatori fuggivano sempre, senza cercare di opporre la menoma resistenza, ciò che sarebbe stato ben facile tentare, in un passaggio cosí stretto. I pirati di Mompracem, Tremal-Naik ed il francese, li seguivano da vicino, vociferando e sparando anche di quando in quando qualche colpo di pistola. Erano decisi a giungere nella pagoda sotterranea e di attendere colà i loro uomini che supponevano ormai già entrati nel tempio, udendo ancora un lontano fragore di fucilate. Avevano percorso cosí, sempre correndo dietro i settari, un quattro o cinquecento passi, quando si trovarono improvvisamente dinanzi ad una porta che i Thugs non avevano forse avuto il tempo di chiudere, una porta di spessore enorme, di bronzo o di qualche altro metallo e che metteva in una caverna circolare. — Fermiamoci, — disse Tremal-Naik. — No, — rispose Sandokan, che scorgeva vagamente gli ultimi fuggiaschi precipitarsi fuori per una seconda porta. — Non odo giungere i tuoi uomini. — Giungeranno piú tardi. Kammamuri è con loro e li guiderà. Avanti prima che Suyodhana fugga con Darma. — Sí, avanti! — gridarono Yanez e de Lussac. Si precipitarono nella caverna, dirigendosi verso la seconda porta, da cui erano fuggiti i Thugs, ma ad un tratto udirono due rombi assordanti, come se due petardi o due mine fossero scoppiate. Sandokan si era arrestato mandando un grido di furore. — Hanno chiuso le porte dinanzi e dietro di noi! — Per Giove! — esclamò Yanez, che si sentí correre pel corpo un brivido che spense di colpo tutto il suo entusiasmo. — Che siamo caduti in una trappola? -Tutti si erano fermati, guardandosi l’un l’altro con ansietà. Ogni rumore era cessato, dopo la chiusura delle due massicce porte. Non si udivano piú né le fucilate dei tigrotti di Mompracem, né il rullare sonoro dell’hauk, né le grida dei fuggiaschi. — Ci hanno chiusi dentro, — disse finalmente Sandokan. — Avevamo dunque dietro di noi degli altri nemici? Ho commessa una imprudenza trascinandovi dietro quei banditi ed ho avuto torto a non cedere al tuo consiglio, amico Tremal-Naik, ma io speravo di giungere fino nella pagoda e strappare a Suyodhana Darma, prima che potesse fuggire. — I Thugs non ci hanno ancora presi, capitano, — disse de Lussac, che stringeva ancora il parang che era insanguinato fino all’impugnatura. — Penseranno i vostri uomini a sfondare queste porte, giacché hanno dei petardi. — Non si odono piú, — disse Yanez. — Che siano stati sopraffatti dagli strangolatori? — Non lo crederò mai, — rispose Sandokan. — Tu sai quanto sono terribili i nostri tigrotti e una volta lanciati non si arrestano nemmeno dinanzi ai cannoni, né alle piú tremende scariche di mitraglia. Io sono certo che a quest’ora hanno invasa la pagoda e che stanno forzando la porta della galleria. — Nondimeno non sono tranquillo, — disse Tremal-Naik, che fino allora era rimasto silenzioso, — e temo che Suyodhana approfitti della nostra situazione per fuggire colla mia Darma. — Vi sono altre uscite? — chiese Sandokan. — Quella che conduceva al banian sacro. — Sirdar ci aveva detto che era stata turata, — osservò Yanez. — Può essere stata riaperta, — rispose Tremal-Naik. — Gli uomini dalle braccia solide non mancano a Suyodhana. — Kammamuri conosceva l’esistenza di quel passaggio? — chiese Sandokan. — Sí. — Chissà che non abbia mandato alcuni dei miei uomini a guardarlo. — Signore, — disse de Lussac, che aveva fatto il giro della caverna. — Cerchiamo di uscire di qui. — È vero, — disse Sandokan. — Perdiamo il nostro tempo in chiacchiere inutili. Avete esaminate le porte, signor de Lussac? — L’una e anche l’altra, — rispose il francese, — e mi pare che non si debba pensare ad uscire di là se non abbiamo un buon petardo. Sono di bronzo e devono avere uno spessore enorme. Quelle canaglie fuggivano per trarci in questo agguato e sono pienamente riusciti. — Non avete scoperto nessun altro passaggio? — No, signor Sandokan. — Ed i nostri uomini che cosa fanno? — chiese Yanez che cominciava a perdere la sua flemma. — Dovrebbero essere già qui. — Darei metà delle mie ricchezze per sapere qualche cosa di loro, — disse Sandokan. — Questo silenzio mi inquieta. — E me pure, — disse Tremal-Naik. — Sandokan, non perdiamo tempo e cerchiamo di uscire di qui al piú presto prima che i Thugs ci giuochino qualche pessimo tiro. — Si provino a entrare; abbiamo polvere e palle in abbondanza. — Sai che una volta in una di queste caverne dove io e Kammamuri ci eravamo rifugiati dopo d’aver rapito la madre di Darma, per poco non ci hanno cucinati vivi? — Potrebbero ripetere quel supplizio spaventevole per costringerci ad arrenderci. — Spero che i miei uomini non li lasceranno... — Taci! — disse in quel momento Yanez, che si era accostato alla porta che chiudeva la galleria che menava nella pagoda. Odo delle scariche lontane. — Da dove provengono? — Dalla pagoda, mi pare. Tutti si erano precipitati verso la massiccia porta di bronzo appoggiando gli orecchi sul metallo. — Sí, delle scariche, — disse Sandokan. — I miei uomini continuano a combattere. Amici, cerchiamo di raggiungerli. — È impossibile rovesciare questa porta, — disse de Lussac. — Facciamola saltare, -rispose Yanez. — Io ho circa una libbra di polvere nel mio sacchetto, e voi ne dovete avere quasi altrettanto. Possiamo quindi preparare una buona mina. — Purché non saltiamo anche noi, — osservò Tremal-Naik. — La caverna è abbastanza ampia, — disse Sandokan. — Non vi sembra, signor de Lussac? — Non vi è pericolo, — rispose il francese. — Basterà che noi ci corichiamo bocconi all’altra estremità. Vi consiglio però di fare un petardo d’un paio di libbre di polvere, non di piú. Basteranno per scardinare la porta. — Su, dunque, — disse Yanez. — Scaviamo un fornello per collocarvelo. — Mentre io confezionerò la bomba, — disse il francese, — usando la mia cintura di pelle. È larga e resistente. I malesi avevano già impugnati i parangs e si preparavano a scavare un foro sotto la porta, quando si udirono una serie di detonazioni accompagnate da clamori spaventevoli. — Che cosa succede? — gridò Yanez. — Devono essere i nostri che fanno saltare le porte della galleria, — rispose Sandokan. — Pare che si combatta furiosamente verso la pagoda. Ad un tratto si udí Tremal-Naik a mandare un grido di furore, seguito da uno scrosciare d’acqua che pareva precipitasse dall’alto. — Che cosa c’è ancora? — chiese Sandokan. — C’è che i Thugs si preparano ad affogarci, — rispose Tremal-Naik con voce strozzata. — Guardate! All’estremità opposta della caverna precipitava, da una fessura che si era aperta in un angolo della volta, un enorme getto d’acqua. — Siamo perduti! — aveva esclamato Yanez. Sandokan era rimasto muto, però nei suoi occhi, forse per la prima volta, si leggeva una profonda ansietà, mentre il suo viso si era oscurato. — Se fra cinque minuti i vostri uomini non sono qui, per noi sarà finita, — disse de Lussac. — È una tromba d’acqua quella che ci rovesciano addosso quei malandnni. — Che ne dite, signor Yanez? — Che la mina non possiamo piú prepararla, — rispose il portoghese. Poi si levò da una tasca una sigaretta, l’accese e si mise a fumare tranquillamente, calmo ed impassibile come se si trovasse sul ponte del praho. — Che cosa possiamo tentare, Sandokan? — chiese Tremal-Naik. — Ci lasceremo affogare cosí? Anche questa volta il pirata non rispose. Appoggiato alla parete, colle braccia strette sul petto, le labbra contratte, la fronte burrascosamente aggrottata, guardava l’acqua che aveva già invaso tutto il piano della caverna e che montava rapida, gorgogliando cupamente. — Signori, — disse Yanez, — prepariamoci a nuotare. Speriamo però che i Thugs mi lascino finire la sigaretta e che... Una terribile detonazione, che fece traballare perfino la porta di ferro, gli interruppe la frase. Nel medesimo momento l’acqua raggiungeva le loro cinture, montando con furia crescente. Capitolo XXVI. L’ATTACCO DEI PIRATI Mentre Sandokan ed i suoi compagni, ucciso lo strangolatore, che aveva cercato di sorprendere Tremal-Naik, si preparavano a scalare audacemente la pagoda, il grosso della banda, guidato da Kammamuri e da Sambigliong, si era arrestato in mezzo alla jungla a cinque o seicento metri dallo stagno, aspettando il segnale per spingersi innanzi. Durante la traversata dal Mangal a quel luogo non avevano incontrato nessun essere vivente, né Punthy, che li precedeva, aveva mai dato alcun segno d’inquietudine. Kammamuri che conosceva i dintorni della pagoda meglio ancora di Tremal-Naik, essendo stato per sei mesi prigioniero dei Thugs, aveva collocati i suoi uomini di fronte all’entrata della pagoda che scorgeva benissimo, sebbene un po’ lontano, in causa della sua alta gradinata e le sue enormi colonne sostenenti due mostruose statue rappresentanti Kalí danzante sul cadavere d’un gigante. Il ritorno di Darma gli aveva annunciato che ormai il suo padrone doveva aver scalata la cupola della pagoda, perciò aveva dato ordine alla truppa di avanzarsi fino al margine della jungla onde essere piú pronti ad accorrere in aiuto di lui e dei suoi audaci compagni. — Non mancano che pochi minuti a mezzanotte, — disse a Sambigliong che gli si era coricato a fianco. — Il segnale non tarderemo a udirlo. Sono pronti i petardi? — Ne abbiamo dodici, — rispose il mastro della Mananna. — Sanno usarli i tuoi uomini? — Sono tutti famigliarizzati colle bombe. Ne facevamo grande consumo quando abbordavamo le navi degl’inglesi. Non temere: la porta salterà, anche se sarà di ferro. Credi che opporranno resistenza i Thugs? — Non si lasceranno strappare la piccola Darma senza impegnare la lotta, — rispose Kammamuri. — Gli strangolatori sono coraggiosi e affrontano la morte senza tremare. — Ve ne saranno molti? — Quand’io ero loro prigioniero non ve n’erano mai meno di due o trecento nei sotterranei. — Mastro, — disse in quel momento un malese, che gli stava da presso, — vedo le finestre della pagoda illuminarsi. Kammamuri e Sambigliong erano balzati in piedi. — I Thugs devono aver accesa la grande lampada, — disse il maharatto. — Essi si preparano a fare l’offerta del sangue. — E la Tigre della Malesia, che cosa farà? — si chiese Sambigliong. — Pronti! — comandò Kammamuri. I trenta pirati si erano alzati come un solo uomo, armando le carabine. In quel momento un clamore spaventevole s’alzò nella pagoda, accompagnato da un primo colpo di fucile, poi da una scarica. — Assalgono il capitano! — aveva gridato Sambigliong. — Su, tigrotti di Mompracem! — Avanti! — aveva comandato Kammamuri. La banda si era scagliata attraverso le ultime canne a passo di corsa, mentre nella pagoda le detonazioni si succedevano alle detonazioni e le urla raddoppiavano. In cinque minuti i pirati superarono la distanza, ma quando giunsero dinanzi alla porta della pagoda, pareva che il combattimento fosse cessato, poiché non si udivano piú spari e le grida si perdevano in lontananza, affievolendosi rapidamente. — I petardi! Presto! — gridò Kammamuri, dopo aver cercato, ma invano, di scuotere la porta di bronzo della pagoda. Due malesi si erano slanciati sulla gradinata deponendo dinanzi alla porta due bombe che avevano già la miccia accesa, quando dalle macchie lí vicino s’udirono clamori orribili. Due turbe d’uomini, armati di lacci e di tarwar, si erano improvvisamente scagliate sui pirati che si trovavano raggruppati alla base della scala. Erano almeno duecento strangolatori, nudi come vermi e coi corpi unti d’olio di cocco per sfuggire piú facilmente alle strette degli avversari. I malesi ed i dayachi, quantunque sorpresi da quell’improvviso e inaspettato assalto, non si erano perduti d’animo. Con rapidità fulminea si disposero su due fronti e accolsero i piú vicini con due terribili scariche di carabine, gettandone a terra una trentina fra morti e moribondi. — Tenete strette le file! — aveva gridato Sambigliong. Malgrado quelle due scariche, gli strangolatori non si erano arrestati. Urlando come belve feroci, si erano gettati all’impazzata sul piccolo drappello, credendo di schiacciarlo facilmente e di disperderlo, ignorando d’aver di fronte i piú formidabili guerrieri dell’arcipelago malese, cresciuti fra il fumo delle artiglierie ed agguerriti da cento abbordaggi. Le tigri di Mompracem, gettate le carabine, avevano impugnate le loro pesanti sciabole, armi terribili nelle loro mani e meglio adatte a difendersi dai lacci che sibilavano in tutte le direzioni, mentre Darma e Punthy lavoravano di denti sulle carni dei nemici. Addossati dorso contro dorso, i prodi scorridori del mare ricevettero il formidabile urto senza oscillare, grandinando sciabolate sui piú vicini. Una mischia tremenda s’impegnò, mischia però che ebbe la durata di pochi minuti, perché i malesi ad un comando di Sambigliong, a loro volta caricarono gli assalitori, con tale slancio da spazzare il suolo. Come aveva detto Sandokan a de Lussac, una volta lanciati, i suoi uomini non dovevano piú fermarsi. Vedendo i Thugs ripiegarsi confusamente, si erano scagliati fra le due turbe, massacrando quanti se ne trovavano dinanzi, mentre i dayachi di Kammamuri, riprese le carabine, mantenevano un fuoco infernale per appoggiare l’attacco dei loro camerati. Nel momento istesso in cui gli strangolatori volgevano le spalle, i due petardi, collocati sulla cima della gradinata, scoppiavano con orribile frastuono, scardinando e abbattendo la porta di bronzo della pagoda. Una banda di indiani che si era ripiegata verso la gradinata, tentando di riorganizzare la resistenza, udendo i battenti a crollare, salí precipitosamente, invadendo la pagoda. — Lasciate gli altri! — gridò Kammamuri. — Al tempio! Al tempio! La Tigre della Malesia è là! Sambigliong! Proteggici alle spalle! Si slanciò sulla gradinata seguito dai dayachi, mentre i malesi del mastro della Marianna finivano di disperdere i Thugs che avevano cercato di raggrupparsi presso le rive dello stagno, costringendoli a rifugiarsi nella jungla e verso un albero immenso che da solo formava una foresta, un enorme fico baniano sorretto da una moltitudine di tronchi. I Thugs, rifugiatisi nella pagoda, avendo forse compreso che i loro avversari miravano ad invadere i sotterranei fecero però fronte all’attacco dei dayachi, caricandoli a loro volta coi tarwar in pugno. Quattro volte i pirati montarono intrepidamente all’assalto della gradinata ed altrettante volte dovettero ridiscenderla precipitosamente, lasciando qualche morto e qualche ferito. Fortunatamente i malesi di Sambigliong correvano in loro soccorso. Con due scariche di carabine spazzarono la cima della gradinata, poi malesi e dayachi si precipitarono dentro la pagoda. I loro avversari però non li avevano attesi. Scoraggiati dalle enormi perdite subite, impotenti a misurarsi coi loro leggeri tarwar contro le pesanti sciabole delle tigri di Mompracem, si erano rovesciati precipitosamente verso la galleria che conduceva nei sotterranei, chiudendo la porta che era pure di bronzo e non meno robusta di quella della pagoda. — Ed il mio padrone? — gridò Kammamuri, non vedendo piú nessuno nella pagoda. — E la Tigre della Malesia ed il signor Yanez? — Che siano usciti da qualche altra parte? — disse Sambigliong. — O che siano stati fatti prigionieri? — disse il maharatto. — Qui erano pure venuti ed erano essi che facevano fuoco. Guarda quei morti che si trovano intorno alla statua di Kalí. Sono stati uccisi da loro, ne sono certo. Una profonda ansietà si era impadronita di tutti, ignorando quanto era avvenuto fra il drappello di Sandokan ed i Thugs. — Sambigliong, — disse Kammamuri, dopo alcuni istanti d’angoscioso silenzio. — Facciamo saltare la porta ed invadiamo i sotterranei. — Credi che la Tigre si trovi là dentro? — chiese il mastro. — Se qui non vi sono piú e non abbiamo veduto uscire alcuno, significa che sono penetrati nella galleria. Affrettiamoci: forse sono in pericolo. — Collocate due petardi, — comandò Sambigliong, — caricate le carabine e accendete delle torce. I malesi che portavano le bombe stavano per obbedire, quando una porticina simulata dietro una statua rappresentante l’ottava incarnazione di Visnú s’aprí ed una fanciulla munita d’una fiaccola si slanciò nella pagoda, gridando: — Il sahib bianco ed i suoi amici s’annegano! Salvateli! — Surama! — avevano esclamato Kammamuri e Sambigliong, correndo verso la giovane. — Salvateli! — ripeté la bajadera che aveva le lagrime agli occhi. — Dove sono? — chiese Kammamuri — In una delle caverne della galleria. I Thugs hanno tagliato il tubo che li fornisce d’acqua e l’hanno allagata per affogare il sahib bianco, la Tigre e gli altri. — Sapresti condurci fino a loro? — Sí, conosco la galleria. — Giú la porta! — gridò Sambigliong. Due petardi furono accesi e messi a terra, poi i pirati retrocessero precipitosamente fino sulla gradinata della pagoda. Dieci secondi dopo, la porta, sfondata dallo scoppio delle due bombe, rovinava a terra. — Sta’ dietro di noi, Surama, — disse Kammamuri, prendendo una torcia. — Su, di corsa tigri di Mompracem! Si cacciarono nella tenebrosa galleria, spingendosi gli uni con gli altri, tutti volendo essere i primi ad accorrere in aiuto della Tigre della Malesia; poi percorsi cento passi, furono arrestati da un’altra porta. — Ve n’è ancora un’altra piú innanzi, — disse Surama. — Quella che chiude la caverna dove sono prigionieri i vostri capi. — Fortunatamente abbiamo ancora una mezza dozzina di petardi, — rispose Sambigliong. Retrocessero dopo aver accesa la miccia. L’esplosione che avvenne fu cosí formidabile che tutti i pirati caddero l’uno sull’altro sotto la spinta dell’aria, però anche la porta aveva ceduto. — Avanti! — comandarono Kammamuri e Sambigliong. Ripresero la corsa inoltrandosi sotto quelle oscure volte, finché giunsero dinanzi alla terza porta. Al di là si udiva un rombo strano come se una cateratta d’acqua precipitasse da un’altezza considerevole. — Sono lí dentro, — disse Surama. — Capitano! Signor Yanez! — gridò Kammamuri con voce tuonante. — M’intendete voi? Quantunque il fragore continuasse, udí distintamente la voce vibrante di Sandokan a gridare: — Siete i nostri uomini? — Sí, signor Sandokan. — Affrettatevi a sfondare la porta: abbiamo l’acqua fino alla gola. — Allontanatevi tutti; collochiamo il petardo. — Da’ pure fuoco, — rispose Sandokan. La bomba fu posta dietro la porta, poi i pirati si ritrassero rapidamente nel corridoio, portandosi duecento passi piú indietro, entro una galleria laterale che si biforcava. Essendo stata la miccia tagliata onde lo scoppio avvenisse senza ritardi, la detonazione non si fece attendere molto. — Le armi pronte! — gridò Sambigliong slanciandosi avanti. Tutti gli si erano slanciati dietro. Avevano percorsi cinquanta metri quando un torrente d’acqua che si rovesciava attraverso la galleria col fragore del tuono li investí rigettandoli indietro. Era una vera ondata che cessò però quasi subito, sfuggendo nella galleria laterale che aveva una forte pendenza. Un momento dopo videro due torce brillare in direzione della caverna, poi udirono la voce di Sandokan a gridare: — Non fate fuoco!... Siamo noi!... Un urlo di gioia sfuggito da trenta petti salutò la comparsa della Tigre della Malesia e dei suoi compagni. — Salvi!... Salvi!... Evviva il capitano!... Vi era ancora molta acqua nella galleria perché ne usciva sempre dalla caverna, però giungeva a malapena fino alle anche dei pirati. Sandokan e Yanez, scorgendo Surama, non avevano potuto frenare un grido di stupore. — Tu, fanciulla! — avevano esclamato. — Ed è a questa brava bajadera che dovete anche la vostra vita, signori, — aggiunse Kammamuri. — E stata lei ad avvertirci che eravate rinchiusi in una caverna ed in pericolo di affogare. — Chi te lo aveva detto, Surama? — chiese Yanez. — Lo avevo saputo dai Thugs incaricati di tagliare i canali d’acqua. Vi avevano attirati appositamente in quell’antro per annegarvi, — rispose la fanciulla. — E di Sirdar, che cosa è avvenuto? — chiese Sandokan. — Ci ha traditi, è vero? — No, sahib, — rispose Surama. — Egli è dietro a Suyodhana. — Che cosa vuoi dire, fanciulla? — gridò Tremal-Naik, con voce alterata. — Che il capo dei Thugs è fuggito un’ora prima del vostro arrivo, dopo d’aver fatto sgombrare l’antica galleria che metteva nel banian sacro. — E mia figlia? — L’ha portata con sé. Il povero padre mandò un grido straziante, coprendosi il viso colle mani. — Fuggito!... Fuggito!... — Ma Sirdar lo segue, — disse Surama. — E dove è fuggito? — chiesero ad una voce Sandokan, Yanez e de Lussac. — A Delhi, onde mettersi sotto la protezione degli insorti. Sirdar prima di seguirlo mi ha dato questa carta per voi. Sandokan s’impadroní vivamente del foglietto che la giovane si era levata dal corsetto. — Una torcia! — comandò la Tigre. — Venti uomini ai due sbocchi della galleria e che facciano fuoco sul primo che si avvicina. Tremal-Naik, che si asciugava delle lagrime, de Lussac, Yanez e Kammamuri lo avevano circondato in preda ad una profonda ansietà. Sandokan lesse: «Suyodhana è fuggito per la vecchia galleria dopo la improvvisa comparsa del manti. Egli sa tutto ormai e ci teme, ma i suoi uomini sono preparati alla resistenza e decisi a sacrificarsi fino all’ultimo pur di sopprimervi. Fuggiamo verso Port-Canníng per Calcutta dove c’imbarcheremo per Patna e di là raggiungeremo le truppe insorte che si concentrano su Delhi. Checché accada non lo lascerò, e sorveglierò Darma. All’ufficio postale di Calcutta troverete mie nuove. SIRDAR» Dopo la lettura di quella lettera era successo un breve silenzio rotto solamente dai sordi singhiozzi di Tremal-Naik. Tutti guardavano la Tigre della Malesia il cui viso assumeva rapidamente un aspetto terribile. Comprendevano che il formidabile uomo stava meditando qualche spaventevole vendetta. Ad un tratto s’avvicinò a Tremal-Naik e posandogli le mani le spalle gli disse: — Ti ho detto che noi non lasceremo questi luoghi se prima tu non riavrai la tua piccola Darma e noi la pelle della Tigre dell’India e tu sai se io e Yanez siamo uomini capaci di mantenere le nostre promesse. Suyodhana c’è ancora una volta sfuggito; a Delhi noi lo ritroveremo e piú presto forse di quello che credi. — Seguirlo fino là, in questi momenti in cui tutta l’India settentrionale è in fiamme? — disse Tremal-Naik. — Che cosa importa? Forse che noi non siamo uomini di guerra? Signor de Lussac, potreste voi farci ottenere dal governatore del Bengala, in ricompensa del servigio che noi renderemo agl’inglesi, un salvacondotto che ci permetta di attraversare l’alta India senza essere inquietati dalle truppe operanti? — Lo spero, capitano, anzi ne sono certo, trattandosi di prendere un uomo sul cui capo pesa da vent’anni una taglia di diecimila sterline. — Prenderlo! No, signore, ucciderlo, — disse Sandokan freddamente. — Come vorrete. Sandokan rimase un momento silenzioso, poi riprese: — Tu un giorno, Tremal-Naik, mi hai narrato che sopra queste caverne scorre un fiume. — Sí, il Mangal. — Che in un antro si trova una porta di ferro comunicante con quel fiume e che ha un grosso tubo. — Si, l’ho veduta anch’io parecchie volte durante la mia prigionia, — disse Kammamuri. — Serve a fornire d’acqua gli abitanti dei sotterranei. — Sapreste condurci in quella caverna? — Sí, — dissero i due indiani. — È lontana? — Dovremo percorrere quattro lunghi corridoi e attraversare la pagoda sotterranea. — Guidateci a quell’antro, — disse Sandokan, con un crudele sorriso. — Quanti petardi avete ancora? — Sei, — rispose Kammamuri. — Vi è un altro passaggio, senza sfondare la porta della caverna? — La galleria si biforca a duecento passi da qui, — disse Kammamuri. — È per di là che devono essere fuggiti i Thugs che si erano rifugiati nella pagoda. — A me, tigri di Mompracem — gridò Sandokan. — Qui noi combatteremo l’ultima lotta contro le tigri di Rajmangal. In testa, Kammamuri e pianta la tua torcia sulla cima della carabina! Avanti! L’ultima ora sta per suonare per gli strangolatori dell’India! Capitolo XXVII. UN’ECATOMBE Non era trascorso un mezzo minuto che la truppa imboccava la galleria laterale, che Kammamuri assicurava condurre nella pagoda sotterranea e nelle principali caverne che servivano di rifugio ai seguaci di Suyodhana. Una rabbia furiosa di finirla una buona volta con quella setta infame, che mieteva tante vittime umane, per offrire alla loro mostruosa dea il sangue degli uccisi, avvampava nel petto di tutti. Perfino de Lussac non aveva fatta la menoma protesta alla crudele, ma certo meritata punizione che Sandokan si proponeva d’infliggere a quella setta d’assassini. I Thugs non avevano piú dato segno di vita dopo la invasione dei pirati e anche l’hauk aveva cessato di rullare in fondo alle misteriose caverne, però Sandokan ed i suoi compagni non s’illudevano di non trovare resistenza, anzi procedevano con infinite cautele, per non cadere in un agguato e si tenevano molto curvi onde non ricevere qualche improvvisa scarica. Kammamuri, il piú pratico di tutti, essendo stato, come abbiamo detto, parecchi mesi prigioniero degli strangolatori, procedeva innanzi a tutti, tenendo la torcia infissa sulla canna della carabina, per meglio ingannare gli avversari e far sbagliare i loro tiri, ed era fiancheggiato dalla tigre e da Punthy. Seguivano Sandokan, Tremal-Naik e Yanez con un drappello di otto malesi, scelti fra i migliori bersaglieri, poi a venti passi il grosso, con due torce, agli ordini del signor de Lussac e di Sambigliong. Surama era stata collocata in mezzo all’ultimo gruppo. L’acqua che continuava a rimontare, uscendo sempre dalla caverna e che poi si riversava nella galleria laterale attutiva d’altronde i passi degli invasori. Scendeva gorgogliando fra le gambe dei pirati, con rapidità crescente, aumentando ad ogni istante la pendenza della galleria. — Che i Thugs siano fuggiti? — chiese ad un tratto Yanez. — Abbiamo già percorsi centocinquanta passi e non ci hanno ancora assaliti. — Ci aspetteranno in qualche caverna, — disse Tremal-Naik, che lo precedeva, tenendosi dietro a Kammamuri. — Eppure a questo silenzio preferirei un furioso combattimento, — disse Sandokan. — Temo un tradimento. — Quale? — Che cerchino d’affogarci in qualche altra caverna. — Non abbiamo veduta nessun’altra porta, quindi potremo sempre ritirarci al primo indizio che l’acqua s’innalzi. — Io sospetto che concentrino la difesa nella pagoda sotterranea, — rispose Tremal-Naik. — Nessuno ci tratterrà dal penetrarvi, anche se fossero dieci volte piú numerosi. Voglio affogarli tutti e distruggere per sempre questo covo di banditi. — Alto! — disse in quel momento Kammamuri. Erano giunti ad uno svolto della galleria e Kammamuri si era fermato scorgendo in fondo ad essa dei punti luminosi che agitavano con estrema rapidità. Punthy aveva mandato un latrato sonoro e la tigre aveva fatto udire un sordo miagolio. — Le nostre bestie hanno fiutato un pericolo, — disse Tremal-Naik. — Coricatevi tutti al suolo, — comandò Sandokan. — Alzate bene le torce. Tutti si erano fermati ed avevano obbedito. L’acqua che era assai abbassata, precipitava rapidissima, indicando in tal modo una fortissima pendenza del suolo. I lumi continuavano a muoversi ora poggiando e raggruppandosi verso destra ed ora verso sinistra. — Che cosa fanno? — si chiese Sandokan. — Sono segnali o che d’altro? Punthy mandò in quel momento un secondo latrato. Era un avvertimento? — Qualcuno si avvicina, — disse Kammamuri. Aveva appena terminato che una violentissima scarica rimbombò nella galleria e che si videro, alla luce dei lampi, parecchi uomini addossati alle pareti. Avevano mirato però troppo in alto, dove brillavano le torce, non sospettando che fossero infisse sulle canne delle carabine. — Fuoco, e alla carica! — gridò Sandokan balzando precipitosamente in piedi. — In riserva le armi da fuoco del grosso! L’avanguardia, che come abbiamo già detto si componeva di tiratori scelti, a quel comando scaricò le carabine sui Thugs che aveva già scorti raggruppati presso le pareti, poi si scagliò innanzi col parang in pugno, mandando clamori selvaggi, mentre la tigre e Punthy piombavano a loro volta sui piú vicini, dilaniando e mordendo ferocemente quanti si trovavano a loro portata. L’effetto di quella scarica doveva essere stato terribile, poiché i pirati inciampavano di frequente su degli esseri umani stesi al suolo. Sandokan, udendo i Thugs fuggire, non permettendo la luce della torcia portata da Kammamuri di distinguerli, non cercava piú di trattenere i suoi uomini, i quali ormai non formavano che un gruppo compatto, poiché quelli della retroguardia si erano confusi con quelli dell’avanguardia, ansiosi di prendere parte anche essi alla lotta. La galleria si abbassava sempre, allargandosi invece a poco a poco. I lumi che poco prima brillavano alla sua estremità erano scomparsi, tuttavia i pirati potevano vedere dove andavano, perché le torce che ardevano sulle canne delle carabine non si erano spente, malgrado il fracasso enorme prodotto da quelle due scariche. Quella corsa sfrenata, attraverso le misteriose gallerie degli strangolatori, durò due o tre minuti, poi Sandokan e Kammamuri che erano dinanzi a tutti, mandarono un grido tuonante: — Fermi! Dinanzi a loro avevano udito un fragore metallico, come se una porta di ferro o di bronzo fosse stata chiusa e Punthy si era messo a latrare furiosamente. I pirati dopo essersi urtati impetuosamente gli uni contro gli altri, non avendo potuto frenare di colpo lo slancio, si erano arrestati puntando le carabine. — Che cosa c’è adunque? — chiese Yanez, raggiungendo Sandokan. — Pare che i Thugs ci abbiano chiusa la via, — rispose il capo dei pirati di Mompracem. — Vi deve essere una porta dinanzi a noi. — La faremo saltare con un buon petardo, — disse de Lussac. — Va’ a vedere, Kammamuri — disse Tremal-Naik. — Sempre la torcia molto alta, — consigliò Sandokan, — e voi abbassatevi tutti. Il maharatto stava per obbedire, quando alcuni spari rimbombarono non dinanzi ai pirati, bensí alle loro spalle. — Ci prendono fra due fuochi, — disse Sandokan. — Sambigliong, prendi dieci uomini e coprici le spalle. — Sí, capitano, — rispose il mastro. Gli spari si succedevano agli spari, ma i Thugs ingannati dalle torce che venivano tenute sempre molto alte, non colpivano che le volte della galleria. Sambigliong ed i suoi uomini, guidati invece dalla luce dei lampi prodotti dalla polvere, strisciarono silenziosamente verso quei tiratori e piombarono furiosamente addosso a loro, assalendoli coi parangs. Mentre il suo drappello impegnava un furioso combattimento, Kammamuri, Sandokan e Tremal-Naik si erano accostati rapidamente alla porta che impediva loro di avanzare, per sgangherarla con un petardo a cui avevano già accesa la miccia; invece con loro stupore la trovarono socchiusa. — L’hanno riaperta, — disse Tremal-Naik. Stava per spingerla, quando Sandokan l’arrestò. — Vi è forse un agguato lí dentro, — disse. I mugolii della tigre confermavano i suoi sospetti e anche i soffi rumorosi del cane. — Che aspettino che noi apriamo per fucilarci a brucia-pelo? — chiese Tremal-Naik, sottovoce. — Ne sono sicuro. — Eppure non possiamo fermarci qui. — Fate avanzare silenziosamente i nostri uomini, signor de Lussac, e dite loro che si tengano pronti a far fuoco. Dammi il petardo, Kammamuri. Prese la bomba e soffiò sulla miccia per farla consumare piú presto a rischio di vedersela scoppiare fra le mani, poi socchiuse dolcemente la porta e la lanciò, gridando: — Indietro! Un momento dopo si udí una formidabile detonazione, seguita da urla orribili. La porta, strappata dai cardini dalla violenza della esplosione, era caduta. — Avanti! — gridò Sandokan, che era stato atterrato dallo spostamento violentissimo dell ‘aria. Degli uomini fuggivano all’impazzata dinanzi a loro, mentre al suolo si dibattevano, nelle ultime convulsioni della morte, alcuni Thugs colle membra strappate ed i ventri orrendamente squarciati. I pirati si erano trovati in una vasta sala sotterranea che era illuminata da alcune torce infisse nei crepacci delle pareti, e adorna di alcune statue mostruose, rappresentanti forse dei geni indiani. Spararono alcuni colpi dietro ai fuggiaschi onde impedire loro di riorganizzarsi, poi si lanciarono a corsa sfrenata. Sambigliong, che aveva respinti gli assalitori, li aveva già raggiunti portando fra le poderose braccia Surama onde non rimanesse indietro e ricadesse fra le mani dei Thugs. Non incontravano piú nessuna resistenza, né nelle gallerie che attraversavano, né nelle caverne. Gli strangolatori, ormai impotenti a far fronte a quei terribili avversari che nessun ostacolo piú tratteneva, fuggivano da tutte le parti con clamori assordanti, parte rifugiandosi nelle gallerie laterali, parte dirigendosi verso la pagoda sotterranea per tentare forse di guadagnare l’uscita del banian riaperta da Suyodhana. — Avanti! Avanti! — gridavano malesi e dayachi entusiasmati da quella carica che spazzava via tutto. Ad un tratto però, quando meno se l’aspettavano, videro rovinarsi addosso un nuvolo di strangolatori. — Cercano di difendere la pagoda sotterranea! — urlò Kammamuri. — Sta’ dietro di loro! Era forse l’ultima lotta che impegnavano i Thugs. Sandokan, con un comando rapido, aveva disposti i suoi uomini in quadrato, manovra che potevano eseguire senza difficoltà trovandosi in quel momento in una sala sotterranea abbastanza vasta e che pareva avesse numerose comunicazioni. Dalle gallerie laterali uscivano, correndo furiosamente, degli uomini quasi nudi, agitando lacci, scuri, picozze, coltellacci, terwar e anche carabine e pistoloni. Urlavano spaventosamente invocando la loro divinità, ma quelle urla non sgomentavano affatto né i malesi né i dayachi, abituati alle tremende grida di guerra dei loro selvaggi compatrioti. — Fuoco senza misericordia! — aveva gridato Sandokan che si trovava in prima fila con Yanez e Tremal-Naik. — Badate che non si spengano le torce! Una fucilata nutrita, sparata quasi a brucia-pelo, mandò a catafascio i primi giunti addosso al quadrato, gettandone molti a terra; ne seguí subito una seconda; poi s’impegnò una mischia sanguinosa all’arma bianca. Quantunque cinque o sei volte inferiori, i tigrotti di Mompracem, resistevano tenacemente ai furibondi attacchi dei fanatici, senza aprire le loro file. Degli uomini cadevano anche dalla loro parte sotto i colpi di pistola e di carabina dei settari; ma non per questo si sgomentavano e facevano intrepidamente fronte ai nemici, meravigliando de Lussac che credeva di vederli scompaginarsi dopo i primi attacchi. Il terreno si copriva di morti e di moribondi, nondimeno i Thugs quantunque incessantemente ributtati, tornavano alla carica con un’ostinazione ammirabile, tentando di schiacciare quel gruppo che aveva avuto l’audacia di scendere nelle loro caverne. Ciò non poteva durare a lungo. La tenacia ed il coraggio piú che straordinario delle tigri di Mompracem dovevano disorganizzare quelle bande indisciplinate che caricavano all’impazzata. Vedendo i Thugs a esitare, Sandokan ne approfittò per dare loro l’ultimo colpo. A sua volta lanciò i suoi uomini all’assalto, divisi in quattro gruppi. Lo slancio dei pirati fu tale che le colonne dei Thugs furono in brevi istanti tagliate a pezzi a colpi di parangs e di kampilangs. La disfatta era completa. I fanatici, dopo una brevissima resistenza, si erano affollati nella galleria che metteva nella pagoda sotterranea, incalzati dai pirati che non risparmiavano piú nessuno e che sciabolavano spietatamente i meno lesti. Invano gli strangolatori tentarono chiudere la porta di bronzo che metteva nella pagoda. Le tigri di Mompracem non ne lasciarono loro il tempo ed entrarono quasi insieme nell’immenso sotterraneo nel cui centro, sotto una grande lampada illuminata, s’innalzava una mostruosa statua rappresentante la sinistra divinità, con dinanzi un bacino entro cui nuotavano alcuni pesciolini rossi del Gange, probabilmente dei manghi. I pirati, guidati da Kammamuri e da Tremal-Naik l’attraversarono di corsa, continuando a fucilare i Thugs che fuggivano dinanzi a loro urlando disperatamente ed entrarono in una seconda caverna, meno vasta della pagoda, dove regnava una umidità straordinaria. Dalle volte cadevano grossi goccioloni e anche lungo le pareti scendevano dei fili d’acqua che si radunavano in una fossa profonda. Kammamuri additò a Sandokan una gradinata sulla cui cima si scorgeva una massiccia porta di ferro con numerosi tubi che si diramavano in varie direzioni. — Mette sul fiume è vero? — chiese la Tigre della Malesia. — Sí, — rispose il maharatto. — Datemi due petardi. — Che cosa volete fare? — chiese de Lussac. — Inondare i sotterranei: cosí finirà il regno della Tigre dell’India. — Annegherete tutti! — Tanto peggio per loro, — rispose Sandokan freddamente. — Ho giurato di venire qui a distruggerli e manterrò la mia promessa. Preparatevi a fuggire. Prese dalle mani di Yanez due petardi colle micce già accese, e li collocò presso la porta, poi scese rapidamente gridando: — In ritirata! Giunto però sulla porta della pagoda si arrestò, fissando i due piccoli punti luminosi che scoppiettavano sull’ultimo gradino della scala. Certo voleva accertarsi che l’umidità non spegnesse le micce. Passarono alcuni secondi, poi un lampo squarciò le tenebre, cui tenne dietro una detonazione formidabile che si ripercosse con cupo rimbombo attraverso le profonde gallerie, seguito da un muggito assordante. Una enorme colonna d’acqua, anzi una cateratta, si rovesciava nella caverna, spargendosi rapidamente dappertutto. — In ritirata! — ripeté Sandokan slanciandosi nella pagoda. L’acqua invade i sotterranei! Tutti fuggivano a precipizio al vacillante chiarore delle torce, mentre alle loro spalle udivano sempre piú il rombo sinistro delle acque del Mangal, precipitantesi attraverso le gallerie ed i sotterranei. Attraversarono come un lampo la pagoda, mentre in lontananza si udivano le urla spaventevoli dei Thugs che le acque sorprendevano entro i loro tenebrosi rifugi, poi si cacciarono nei corridoi. Sambigliong, la cui forza muscolare era prodigiosa, portava sempre Surama onde le acque non la raggiungessero. Stavano per attraversare l’ultima galleria, quando udirono un fracasso spaventevole, come se le volte sotterranee avessero ceduto e un’onda enorme li raggiunse, coprendoli di spuma. Ma già la pagoda dove avevano sostenuti i primi combattimenti e che non correva alcun pericolo di venire sommersa, non si trovava che a pochi passi. — Annegatevi tutti! — gridò Sandokan varcando l’ultima porta. Il rifugio dei Thugs non servirà piú che ai coccodrilli ed ai pesci del Mangal. Quando si trovarono all’aperto, al sicuro dalle acque, scorsero in direzione del banian degli uomini che fuggivano disordinatamente verso le paludi dell’isola. Alcuni strangolatori piú fortunati dovevano aver raggiunta l’uscita fatta aprire da Suyodhana, ed erano riusciti a salvarsi, ma erano cosí pochi che Sandokan non stimò opportuno inquietarli. — S’incaricheranno le tigri ed i serpenti di distruggerli — disse. Quindi volgendosi verso Tremal-Naík, gli disse battendogli su una spalla: — Ed ora, a Calcutta e poi a Delhi. Qual è la via piú breve? — Port-Canning, — rispose il bengalese. — Andiamo! Avrò la pelle di Suyodhana o non sarò piú la Tigre della Malesia. Capitolo XXVIII. SULLE TRACCE DI SUYODHANA Il sole cominciava a indorare gli alti bambú delle Sunderbunds quando la pinassa, coi superstiti della spedizione, ridotti a venticinque uomini, approdava a Port-Canning, piccola stazione inglese situata ad una ventina di miglia dalle coste occidentali di Rajmangal e collegata a Calcutta da una buona via carrozzabile che attraversa una parte del delta gangetico. Era quella la strada piú breve per raggiungere la capitale del Bengala, mentre per acqua avrebbero dovuto attraversare tutte le lagune occidentali delle Sunderbunds per risalire poi l’Hugly oltre l’isola di Baratala. Prima cosa che fecero Sandokan e il signor de Lussac, fu d’informarsi dell’insurrezione, che da alcune settimane avvampava nell’India settentrionale. Le notizie erano gravissime. Tutti i reggimenti indiani si erano sollevati a Cawnpore, a Lucknow, a Merut, trucidando i loro ufficiali e massacrando tutti gli europei che si trovavano in quelle città e la Rani di Jhansie aveva inalberato il vessillo della rivolta dopo d’aver fatto fucilare la piccola guarnigione inglese. Tutto il Bundelkund era in fiamme e Delhi, la città santa, era già in potere degl’insorti e pronta alla resistenza. L’antica dinastia del Gran Mogol vi era stata ricollocata sul trono, in uno dei suoi ultimi discendenti, e la piú grande costernazione regnava fra le truppe inglesi che si trovavano pel momento impotenti a far fronte a quella improvvisa tempesta che minacciava di estendersi in tutta l’India settentrionale. — Non importa, — disse Sandokan, quando il tenente gli ebbe comunicate quelle gravi notizie che aveva avute dal comandante della piccola guarnigione di Port-Canning. — Noi andremo egualmente a Delhi. — Tutti? — chiese Yanez. — Una truppa troppo numerosa potrebbe incontrare maggiori difficoltà, — rispose Sandokan, — anche avendo un salva-condotto dal governatore del Bengala. Che ve ne pare signor de Lussac? — Avete ragione, capitano, — disse il tenente. — Partiremo solamente noi quattro, con una scorta di sei uomini e rimanderemo gli altri al praho con Sambigliong, Kammamuri e anche Surama. La fanciulla ormai ci sarebbe piú d’impaccio che di utilità. — Ed il signor Yanez costituirebbe un pericolo per voi, — disse il tenente. — E perché? — chiese il portoghese. — Colla vostra pelle bianca non potreste entrare facilmente in Delhi. Gl’insorti non risparmiano alcun europeo. — Mi camufferò da indiano, non temete, signor de Lussac. — E voi potrete seguirci? — chiese Sandokan. — Spero di potervi accompagnare almeno fino agli avamposti. So che il generale Bernard concentra truppe ad Amballah e che gl’inglesi hanno già teso un forte cordone di truppe fra Gwalior, Bartpur e Pattiallah e che il mio reggimento vi fa parte. Certo a Calcutta troverò l’ordine di raggiungere la mia compagnia al piú presto possibile e siccome anche voi viaggerete rapidamente non mi si negherà di accompagnarvi. — Allora partiamo, — concluse Sandokan. Kammamuri aveva già noleggiati sei mail-cart, leggiere vetture con un sedile sul dinanzi, che serve al cocchiere e uno di dietro ove possono prendere parte due persone e che sono tirate da tre cavalli che si cambiano di bengalow in bengalow. È la posta indiana nei luoghi ove manca la ferrovia. Sandokan diede a Sambigliong gli ultimi ordini, incaricandolo di condurre la pinassa ed il praho a Calcutta e di aspettare colà il loro ritorno, poi diede il segnale della partenza. Alle nove del mattino le sei vetture lasciavano Port-Canning, lanciandosi a corsa precipitosa sulla via aperta fra la immensa jungla gangetica. I cocchieri indiani, ai quali Sandokan aveva promessa una vistosa mancia, non risparmiavano i cavalli, i quali correvano come il vento, sollevando immense nubi di polvere. Alle due pomeridiane i viaggiatori giungevano già a Sonapore, stazione situata quasi a metà fra Port-Canning e la capitale del Bengala. I cavalli però erano completamente fiaccati da quella corsa indiavolata, fatta per di piú sotto un sole ardentissimo che li faceva fumare come zolfatare. Sandokan ed i suoi compagni fecero una fermata d’una mezz’ora per mangiare un boccone, poi ripartirono con cavalli freschi somministrati dal servizio postale. — Mancia raddoppiata se noi giungeremo a Calcutta prima della chiusura dell’ufficio postale, — aveva detto Sandokan, salendo sul suo mail-cart. Non ci voleva di piu per eccitare i cocchieri a far largo uso delle loro fruste a manico corto e dalla correggia lunghissima e che sanno adoperare con un’abilità sorprendente. Le sei vetture ripartirono con velocità fulminea, trabalzando orribilmente sui larghi solchi della via, induriti dall’ardente calore solare. Alle cinque i primi edifici dell’opulenta capitale del Bengala si delineavano già all’orizzonte, e alle sei i mail-cart entravano nei sobborghi facendo fuggire i pedoni, tanta era la loro velocità. Mancavano dieci minuti alla chiusura della distribuzione, quando giungevano dinanzi all’imponente ufficio postale della capitale bengalese. Il signor de Lussac, che aveva delle conoscenze fra gl’impiegati superiori, e Sandokan entrarono, per uscirne poco dopo con una lettera indirizzata al comandante della Marianna. In un angolo portava la firma di Sirdar. Fu immediatamente aperta e letta avidamente. Il bramino li avvertiva che Suyodhana era giunto a Calcutta al mattino, che aveva noleggiato il piú rapido fylt’ sciarra trovato nel porto, montato da scelti barcaiuoli, e che si preparava a risalire l’Hugly per raggiungere il Gange e di là toccare Patna per prendere la ferrovia di Delhi. Aggiungeva che vi erano con loro la piccola Darma e quattro dei piú noti capi dei Thugs e che avrebbero trovate sue notizie all’ufficio postale di Monghyr. — Ha dodici o tredici ore di vantaggio su di noi, — disse Sandokan quand’ebbe terminata la lettera. — Credete, signor de Lussac che noi potremo raggiungerlo prima che arrivi a Patna? — Forse, prendendo la ferrovia che va a Hougly-Ranigandsch-Madhepur, ma saremo poi costretti, giunti a Patna, a prendere la linea di Monghyr per ritirare la lettera. — Ossia tornare indietro? — Perdendo sei ore almeno e poi voi non avete pensato che io devo visitare il governatore del Bengala per ottenere il vostro salva-condotto quindi presentarmi al comando, e che ora è troppo tardi per essere ricevuto. — Dovremo quindi perdere ventiquattro ore, — disse Sandokan, facendo un gesto di malumore. — È necessario, capitano. — Quando potremo giungere a Patna? — Posdomani sera. — Vi arriverà prima quel cane di Suyodhana? — Tutto dipende dalla resistenza dei suoi barcaiuoli, — rispose il tenente. — Se noleggiassimo anche noi una rapida scialuppa? — Perdereste maggiore tempo e avreste minori probabilità di riguadagnare le ventiquattro ore che siamo costretti a perdere. Venite a casa mia, signori e riposiamoci fino a domani mattina. Alle nove sarò dal governatore e prima del mezzodí noi saremo in viaggio. Comprendendo che sarebbe stato inutile fare altre obiezioni, Sandokan ed i suoi amici accettarono di buon grado l’ospitalità che veniva loro offerta e si fecero condurre nello Strand, dove si trovava la palazzina del francese. La serata la passarono combinando piani su piani, per cercare il modo di poter raggiungere il fuggitivo prima che potesse unirsi ai ribelli. L’indomani, poco prima delle undici, il tenente che era uscito di buon mattino, rientrava nella sua palazzina col volto ilare. Aveva avuto un lungo colloquio col governatore, sulla impresa fortunata condotta da Sandokan contro i terribili Thugs, e recava un salva-condotto che concedeva ai suoi prodi amici il libero passaggio attraverso le colonne inglesi operanti nell’Oudhe e nel territorio di Delhi, i due centri dell’insurrezione, una lettera di raccomandazione pel generale Bernard, nonché il permesso di accompagnarli fino al gran cordone militare stabilito fra Gwalior, Bartpur e Pattiallah. Fecero rapidamente i preparativi della partenza e al tocco il piccolo drappello lasciava Calcutta prendendo la linea Hougly-Ranigandsch-Bar-Patna, in un comodo carrozzone della North-Indian-Railway. Le compagnie ferroviarie indiane nulla hanno risparmiato onde i viaggiatori possano trovare dovunque le piú grandi comodità, e le loro linee ben poco hanno da invidiare a quelle dell’America del nord. Ogni carrozzone non ha che due soli scompartimenti amplissimi, in ciascuno dei quali trovasi una panchetta la cui spalliera, che è rialzata e attaccata per mezzo di corregge, forma una specie di letto del genere di quelli che si usano a bordo degli steamers. Ai due lati dello scompartimento si trovano i gabinetti per abbigliarsi e lavarsi. Mercé quelle disposizioni, i treni indiani possono percorrere distanze immense senza obbligare i viaggiatori a fare delle fermate. Si aggiunga inoltre che in ogni stazione un impiegato sale nello scompartimento per chiedere ai viaggiatori la distinta del pranzo che desiderano, che viene subito telegrafata dove il treno farà la fermata. In tal modo trovano tutto pronto, senza aver bisogno di scendere dai loro carrozzoni. Il treno, composto d’una macchina potentissima e di pochi carrozzoni, correva rapidissimo con grande soddisfazione di Sandokan, il quale vedeva scemare di minuto in minuto la distanza che lo separava da Patna. Comodamente seduti sui loro sedili, gli audaci avversari della Tigre dell’India fumavano e chiacchieravano per ingannare il tempo. D’altronde si trovavano benissimo, senza troppo soffrire il caldo, essendo i carrozzoni indiani circondati da stuoie di vetiver, mantenute sempre umide da serbatoi speciali per conservare una certa frescura ed evitare i casi di apoplessia e le insolazioni che sono cosí frequenti sotto quei climi ardentissimi. Alle tre avevano già oltrepassata la stazione di Hougly, a mezzanotte anche Ranigandsch era rimasta indietro ed il treno filava verso l’alto Bengala avvicinandosi rapidamente al maestoso Gange. Non fu però che all’indomani, verso le due pomeridiane, che Sandokan ed i suoi amici entrarono in Patna, una delle piú importanti città del Bengala settentrionale che bagna i suoi bastioni nelle acque del sacro fiume. Loro primo pensiero fu di recarsi all’ufficio postale, sperando di trovare qualche lettera di Sirdar, ma non ve n’era nessuna indirizzata al comandante della Marianna. — Andiamo a Monghyr, — disse la Tigre della Malesia. — Si vede che Suyodhana non si è fermato qui e che ha continuato il suo viaggio precipitoso. Vi era un treno in partenza per quella città. Lo presero d’assalto e pochi minuti dopo partivano costeggiando per un lungo tratto il Gange. Tre ore dopo erano all’ufficio postale. Sirdar aveva mantenuta la sua promessa. La lettera datava dalla sera del giorno precedente e li avvertiva che Suyodhana aveva congedato l’equipaggio e che erano saliti sul treno in partenza per Patna, linea di Chupra-Goraklipur-Delhi. — Il birbante ancora una volta ci è sfuggito, — esclamò Sandokan, con rabbia. — Non ci rimane che di andarlo a scovare a Delhi. — Potremo entrare in quella città? — chiese Tremal-Naik, guardando il luogotenente. — Gl’inglesi non hanno ancora cominciato le operazioni d’assedio, — rispose de Lussac. — Credo quindi che potrete facilmente entrarvi assieme agl’insorti che stanno sgombrando Cawnpore e Lucknow. Vi prego però di camuffarvi da indiani e di procurarvi delle armi. Non si sa mai ciò che può succedere. — Torniamo a Patna e poi in viaggio per Delhi, — disse Sandokan. — Sarà là che la Tigre della Malesia ucciderà la Tigre dell’India. — E dove potremo trovare Sirdar? — chiese Yanez. — Il bramino ha pensato anche a questo, — rispose Sandokan. — In un poscritto ci avverte che tutte le sere, fra le nove e le dieci, ci aspetterà dietro il bastione chiamato Cascemir. — Sapremo trovarla quella fortezza? — E la piú solida della città, — disse de Lussac. — Tutti sapranno indicarvela. — Partiamo, — comandò Sandokan. La sera istessa erano di ritorno a Patna. Non essendovi treni fino al mattino, si recarono in albergo e approfittarono di quella sosta per camuffarsi da ricchi maomettani e per procurarsi delle buone carabine indiane e certi pugnali somiglianti agli jatagan. Quando al mattino si recarono alla stazione, si videro costretti a cambiare itinerario, poiché i treni non proseguivano oltre Gorakhpur, in causa delle scorrerie dei ribelli. Rimaneva però libera la linea di Benares-Cawnpore, dopo l’evacuazione dell’insorti da quest’ultima città per concentrare le loro difese in Delhi. Fu senz’altro scelta, quantunque piú lunga e alle 10 partivano a tutto vapore per l’alta India toccando successivamente Benares, Allabad, Fatehpur e l’indomani sera scendevano alla stazione di Cawnpore che portava ancora le tracce delle devastazioni commesse dai cipayes insorti. La città era ingombra di truppe giunte da tutte le principali città del Bengala e del Bundelkund, che si preparavano a partire per Delhi dove l’insurrezione avvampava piú furiosa che mai. Mercé il salva-condotto e sopra tutto la lettera del governatore del Bengala, poterono ottenere dalle autorità militari il permesso di prendere posto in un treno che conduceva due compagnie d’artiglieria fino a Koil, ossia fino alla linea d’osservazione delle avanguardie inglesi. Fu dopo il mezzodí dell’indomani che poterono giungere a quella piccola stazione. — Il nostro viaggio in ferrovia è finito, — disse il luogotenente scendendo dal treno. — La linea piú oltre è tagliata, ma qui i cavalli non mancano ed in dieci ore potrete giungere a Delhi. — È qui che ci lasciate, signor de Lussac? — chiese Sandokan. — Vi è qui una compagnia del mio reggimento, però vi accompagnerò fino presso la città per facilitarvi l’entrata. — È vero che è già assediata? — Si può considerarla come tale, quantunque i ribelli escano sovente a dare battaglia. Vado a procurarvi i cavalli ed a mostrare la lettera del governatore ed il salva-condotto al comandante delle truppe. Non erano ancora scorse due ore che Sandokan, Yanez, Tremal-Naik, il francese e la loro piccola scorta, lasciavano la stazione galoppando verso Delhi. Capitolo XXIX. L’INSURREZIONE INDIANA L’insurrezione indiana del 1857, se ebbe una durata brevissima fu nondimeno sanguinosissima e fece battere il cuore dei conquistatori, tanto piú che nessun inglese l’aveva nemmeno lontanamente prevista. La ribellione di Barrampore, scoppiata alcuni mesi innanzi e repressa in fretta e anche troppo ferocemente dalle autorità militari, non era stata che la prima favilla del grande incendio che doveva devastare gran parte dell’India settentrionale. Già da tempo un profondo malumore, abilmente dissimulato però, regnava fra i reggimenti indiani accantonati a Merut, a Cawnpore ed a Lucknow, feriti nel loro orgoglio di casta dalla nomina di qualche subadhar e jemmadar() di rango inferiore e anche dalle voci sparse ad arte da emissari di Nana-Sahib, il bastardo di Bitor, che gli inglesi davano ai soldati indú cartucce spalmate con grasso di vacca ed a quelli di fede mussulmana con grasso di porco, un’atroce profanazione sia pei primi che pei secondi. L’11 maggio, improvvisamente, quando meno gl’inglesi se lo aspettavano, il 3° Reggimento di cavalleria indiana, accantonato a Merut, città prossima a Delhi, pel primo dà il segnale della rivolta, fucilando tutti i suoi ufficiali inglesi. Le autorità militari, spaventate, tentarono subito di reprimerla, incarcerando i ribelli, ma la sera del 10 due reggimenti di cipayes, l’11° ed il 12°, prendono le armi e obbligano i loro capi a scarcerare i detenuti e altri 1200 rivoltosi. Quell’atto di debolezza fu fatale perché la notte istessa i cipayes ed i cavalleggeri si gettarono furiosamente sui quartieri europei incendiandoli e massacrando senza compassione le mogli ed i figli dei funzionari inglesi e degli ufficiali. Simultaneamente si ribellavano le guarnigioni di Lucknow e di Cawnpore, fucilando i loro superiori e trucidando quanti europei si trovavano in quelle due città, mentre la Rani di Jhansie, una bellissima e coraggiosa principessa, inalberava lo stendardo della rivolta massacrando la guarnigione inglese. Le autorità militari, sorprese da quello scoppio tremendo, si erano trovate lí per lí impotenti a far fronte all’uragano, non disponendo d’altronde di forze sufficienti. Si limitarono a tendere un cordone militare fra Gwalior, Bartpur e Pattiallah, sperando d’opporsi ai ribelli, che si erano concentrati, sotto gli ordini di Tantia Topi, uno dei piú abili ed audaci condottieri indiani, che doveva piú tardi far stupire anche gl’inglesi colla sua ritirata attraverso il Bundelkund. Non riuscirono che in parte al loro scopo, poiché gli insorti, dopo d’aver uccisi tutti gli europei, già alla mattina dell’11, in duecentocinquanta si gettavano su Delhi, trascinando nella rivolta il 34° reggimento dei cipayes che aveva già fucilati i suoi ufficiali. Gli europei, scampati alle stragi di Merut e di Allighur, vi si erano rifugiati. Il luogotenente Willoughby, comprendendo che stavano per venire trucidati, li accolse nella torre dello Stentoredo dove organizzò una disperata resistenza. Vedendosi assalito da tutte le parti, quel valoroso, con un sangue freddo ammirabile, diede fuoco alle polveri, facendo saltare piú di mille e cinquecento assedianti e, approfittando della confusione, riusciva a condurre ancora in salvo le donne, i fanciulli ed i vecchi, dirigendoli parte a Carnal e parte a Amballah ed a Merut che erano state sgombrate degl’insorti. Fu allora che accorse in Delhi il reggimento ribelle d’Allighur, il quale s’affrettò a proclamare un re scelto fra i discendenti della vecchia dinastia del Gran Mogol, proclamazione che fu festeggiata col massacro di cinquanta europei e dei loro figli che si erano barricati nel palazzo reale. Furiosi combattimenti si erano seguiti contro le prime colonne inglesi avanzatesi nel territorio battuto dai ribelli, con varia fortuna e con molte stragi d’ambo le parti. Gl’inglesi però, affidato il comando delle loro forze al generale Bernard, poco soddisfatti delle lentezze e delle esitazioni del generale Arison, a poco a poco avvolgevano Delhi, entro cui gl’insorti si fortificavano febbrilmente, in attesa di venire assediati. Ai primi di giugno la città si poteva considerare come assediata, ma gl’inglesi non ottenevano alcun successo apprezzabile e si vedevano costretti a ritirarsi sovente dinanzi ai furiosi ed incessanti attacchi degl’insorti. Per di piú mancavano di pezzi d’assedio, soffrivano enormemente pel caldo intenso e pel clima micidialissimo. Tuttavia l’ora triste stava per suonare pei ribelli; Delhi era ormai condannata a cadere inesorabilmente in un mare di sangue. Sandokan ed i suoi amici, montati su veloci cavalli, oltrepassate le avanguardie inglesi di Koil, si erano diretti verso Delhi, da cui non distavano che poche ore. Il signor de Lussac, che aveva indossata la splendida divisa degli ufficiali bengalesi e che aveva un lascia-passare del comandante di Koil, faceva largo ai suoi compagni. Bastava la sua presenza per evitare degli interrogatori che avrebbero fatto perdere tempo a Sandokan. Il paese formicolava di soldati, di cavalli e di artiglierie, che muovevano verso l’antica capitale del Gran Mogol. Il parco d’assedio, lungamente atteso, era giunto e veniva diretto verso il nord per diroccare i saldi bastioni della città, che fino allora avevano tenacemente resistito agli assalti della fanteria dei minatori. Le tracce della terribile insurrezione si vedevano dovunque. Villaggi arsi; campagne, che dovevano essere state splendide, completamente distrutte; cadaveri dappertutto che ammorbavano l’aria e che attiravano stormi immensi di marabú, di bozzagri, di arghilah, di nibbi e di gypaeti, quegli insaziabili divoratori di carogne. Quattro ore dopo la loro uscita da Koil, i cavalieri giungevano in vista delle torri e dei bastioni della capitale del Gran Mogol. Lunghe colonne d’inglesi ingombravano le campagne. Al mattino un combattimento furioso era avvenuto fra assediati ed assedianti, colla peggio di questi ultimi e montagne di cadaveri fiancheggiavano la via principale. La linea d’assedio era stata in piú luoghi spezzata dai ribelli, i quali scorazzavano le campagne vicine per predare il bestiame che ancora rimaneva nei dintorni. L’entrata nella città non era quindi difficile per uomini camuffati da indiani e che potevan passare per ribelli giunti da Merut o da Furridabad. Il momento della separazione era giunto. — Signor de Lussac, — disse Sandokan, vedendo il luogotenente scendere da cavallo, dopo aver oltrepassato le ultime avanguardie. — Quando potremo ritrovarci? — Ciò dipende dalla resistenza che opporrano gl’insorti, — rispose il francese. — Io non entrerò che alla testa del mio squadrone. — Credete che le cose andranno molto per le lunghe? — Domani, gli inglesi metteranno in batteria i loro pezzi d’assedio e vedrete che i bastioni di Delhi non resisteranno molto. — Come potrei farvi avere nostre notizie? — Ah sí, pensavo a questo stamane, — disse il francese. — Bisogna che io sappia dove avrete preso alloggio per proteggervi. Quando gli inglesi entreranno in Delhi, faranno indubbiamente delle stragi perché sono esasperatissimi e hanno giurato di vendicare le loro donne ed i loro fanciulli massacrati a Cawnpore, Lucknow, ad Allighur, ecc. Un’idea. — Parlate. Tutte le notti dal bastione di Cascemir gettate al di là del fossato qualche oggetto voluminoso con entro una lettera. M’incaricherò io di farlo rintracciare. Un turbante per esempio, possibilmente bianco. — Sta bene, — disse Sandokan. — Il salvacondotto e la lettera del governatore non sarebbero sufficienti per proteggerci? — chiese Yanez. — Non dico di no, tuttavia non si sa mai quello che può accadere nel furore dell’assalto e sarà molto meglio che vi sia io per proteggervi. Ecco le tenebre che scendono: è il momento di approfittare per voi. Addio miei bravi amici; vi auguro di trovare la piccina e di dare l’ultimo colpo agli adoratori di Kalí. Si abbracciarono un po’ commossi, poi, mentre il francese tornava verso il campo inglese, Sandokan ed i suoi compagni si spinsero arditamente verso la città. Numerosi cavalieri scorazzavano i dintorni, saccheggiando le borgate che gl’inglesi avevano sgombrate al mattino. Vedendo avanzarsi quel gruppo armato, un drappello di saccheggiatori guidato da un subadhar, s’avanzò intimando loro di arrestarsi. Tremal-Nalk che si era messo alla testa, fu pronto a obbedire. — Ove andate? — chiese il subadhar. — A Delhi, — rispose il bengalese, — per difendere la bandiera della libertà indú. — Da dove venite? — Da Merut. — Come avete fatto ad oltrepassare le linee inglesi? — Abbiamo approfittato della sconfitta che avete loro inflitto stamane, per girare il loro accampamento. — È vero che hanno ricevuti molti cannoni? — Un intero parco d’assedio, che metteranno in batteria questa notte. — Maledetti cani! — gridò il subadhar digrignando i denti. — Vogliono prenderci, ma vedremo se riusciranno. Siamo in buon numero entro la città e tutti risoluti a farci uccidere piuttosto che arrenderci. Conosciamo troppo bene la pretesa civiltà degl’inglesi, che si riassume in una sola parola: distruggere. — È vero, — disse Sandokan. — Ci fate entrare in città? Abbiamo fretta di combattere e poi siamo stanchissimi e affamati — Nessuno può varcare la porta di Turcoman senza subire prima un interrogatorio dal comandante delle truppe operanti fuori dei bastioni. Io non dubito che voi siate degli insorti, dei fratelli; nondimeno io devo obbedire agli ordini ricevuti. — Chi è il comandante? -. chiese Tremal-Naik. — Abú-Assam, un mussulmano che ha abbracciata la nostra causa e che ha dato prove non dubbie della sua fedeltà e del suo valore. — Dove si trova? — Nella borgata piú avanzata. — Dormirà a quest’ora, — disse Sandokan. — Mi spiacerebbe passare la notte fuori di Delhi. — Vi offrirò alloggio e vitto: seguitemi. Il tempo è troppo prezioso per noi. Il subadhar fece cenno ai suoi uomini di circondare il piccolo drappello e di armare i moschetti, poi si mise in marcia a piccolo trotto. — Non avevo prevista questa cosa, — mormorò Tremal-Naik volgendosi verso Sandokan che era diventato pensieroso. — Potremo cavarcela bene? — Mi sento prendere da un irresistibile desiderio di caricare a fondo questi saccheggiatori e di disperderli. Non resisterebbero ad un vigoroso attacco, quantunque siano quattro volte piú numerosi di noi. — E dopo? Credi tu che noi potremmo entrare indisturbati nella città santa? Non vedi laggiú altri drappelli di saccheggiatori che scorazzano la campagna? Ai primi colpi di fuoco li avremmo tutti addosso. — È la loro presenza che mi ha trattenuto finora, — rispose Sandokan. — D’altronde che cosa abbiamo noi da temere da un interrogatorio? — Che cosa vuoi, amico Tremal-Naik, oggi sono piú diffidente che mai. Vi possono essere dei Thugs nella borgata, e potrebbero riconoscerti. Il bengalese provò un brivido. — Non sarebbe una bella avventura, né piacevole, — rispose poi. — Bah! Forse esageriamo nei nostri timori. Erano le dieci quando giunsero dinanzi ad una borgatella semi-distrutta, formata da due dozzine di capanne sconquassate. Numerosi fuochi ardevano qua e là, facendo scintillare grossi fasci di fucili; e molti uomini d’aspetto brigantesco, con immen turbanti e le fasce ripiene di pistoloni, di jatagan e di tarwar, s’aggiravano fra una moltitudine di cavalli. — È qui che abita il capo? — chiese Sandokan al subadhar. — Sí, — rispose l’interrogato. Fece far largo alla sua scorta e si arrestò dinanzi ad una piccola capanna col tetto crollante, che era ingombra di insorti coricati su ammassi di foglie secche. — Lasciate il posto, — disse con un tono cosí imperioso da non ammettere replica. Quando i soldati se ne furono andati, pregò Sandokan ed i suoi compagni di entrare, scusandosi di non avere pel momento di meglio, ma promettendo che avrebbe mandato loro la cena. Lasciò la scorta a guardia della casupola e s’allontanò a piedi, strascinando rumorosamente la sua enorme scimitarra. — Bel palazzo che ci hanno offerto, — disse Yanez, che non aveva perduto un atomo del suo solito buon umore. — Scherzi, fratello? — disse Sandokan. — Dovrei piangere perché non ci hanno assegnato un posto migliore? Vi sono delle foglie che surrogheranno i letti e che ci basteranno per fare una buona dormita, dopo d’aver riempito il ventre, se la cena arriverà. Già prevedo che non entreremo in Delhi prima di domani mattina. — Se vi entreremo, — rispose Sandokan, che pareva tormentato da qualche presentimento. Yanez stava per rispondere quando entrò un soldato che indossava ancora la divisa dei cipayes, portando una fiaccola ed un canestro che pareva contenesse la cena. Si era appena inoltrato sotto la casupola, quando mandò un grido di sorpresa e di gioia. — Il signor Tremal-Naik! — Bedar! — esclamò il bengalese, avvicinandoglisi. — Che cosa fai qui? Un cipai che ha combattuto sotto gli ordini del capitano Macpherson fra i ribelli! L’insorto fece un gesto vago, poi disse: — Il padrone non è qui e poi l’ho rotta anch’io completamente cogl’inglesi. I miei camerati hanno disertato ed io li ho seguiti. E voi, signore, perché siete venuto qui? Avreste abbracciata la nostra causa? — Sí e no, — rispose il bengalese. — Ecco una risposta non troppo chiara, signore, — disse il cipai ridendo. — Comunque sia lo scopo che qui vi ha condotto sono ben lieto di vedervi e lo sarò doppiamente se potrò esservi utile. — Vedremo piú tardi e ti spiegherò meglio perché mi trovo dinanzi alla città santa. — Ah! — Cos’hai? — Ci devono essere i Thugs lí sotto? — Taci per ora. Che cosa ci hai recato Bedar? — La cena, signore, un po’ magra a dire il vero, ma i viveri non abbondano mai quando si è in campagna. Un po’ d’antilope arrostita, delle focacce e una bottiglia di vino di palma. — Basterà per noi, — rispose Tremal-Naik. — Deponi e se sei libero cena con noi. — È un onore che non rifiuterò, — disse il cipai. Aprí la cesta e levò la cena, non troppo copiosa; tuttavia poteva bastare. Sandokan e Yanez, che non avevano ancora aperta la bocca e che tuttavia erano lietissimi di quell’incontro, mangiarono con appetito, imitati dalla loro scorta e da Tremal-Naik. — Lasciate che vi presenti un valoroso cipai del defunto capitano Macpherson, uno di quelli che hanno preso parte alla prima spedizione contro i Thugs di Suyodhana. — Dunque hai assistito alla morte dello sventurato capitano? — chiese Sandokan. — Sí, signore, — risponde il cipai, con voce commossa. — È spirato fra le mie braccia. — Conoscerai quindi Suyodhana, — disse Sandokan. — L’ho veduto come vedo voi in questo momento, perché quando fece fuoco sul mio povero capitano non era che a dieci passi da me. — Come sei sfuggito alla morte? — Mi hanno raccontato che i Thugs di Suyodhana avevano distrutti gli uomini che erano assieme al capitano. — Per una fortunata combinazione, sahib, — rispose il cipai. — Avevo ricevuto un colpo di tarwar sul capo, mentre cercavo di rialzare il capitano che aveva ricevuto due palle nel petto. Il dolore che provai fu tale, che caddi svenuto fra le alte erbe della jungla. Quando ritornai in me un profondo silenzio regnava nelle immense pianure delle Sunderbunds. Mi trovavo fra cumuli di cadaveri. I Thugs non avevano risparmiato nessuno dei cipayes che accompagnavano il capitano. Tutti i miei compagni erano caduti, dopo però aver venduta la vita a ben caro prezzo; non vi erano meno di duecento strangolatori distesi fra le erbe. La ferita che aveva ricevuto non era grave. Arrestai il sangue e dopo d’aver cercato, senza riuscire a trovarlo, il cadavere del mio capitano, fuggii verso il fiume sperando di trovarvi ancora la cannoniera che ci aveva condotti nelle Sunderbunds. Non vidi invece che dei rottami e dei cadaveri galleggianti: Suyodhana, dopo d’aver distrutti i cipayes, aveva dato l’assalto anche alla nave e l’aveva fatta saltare mettendo qualche miccia nel deposito delle polveri. — Sí, abbiamo saputo anche questo, è vero Tremal-Naik? — disse Sandokan. Il bengalese che era diventato assai triste, fece col capo un segno affermativo. — Continuate, — disse Yanez, volgendosi verso il cipai. — Questi particolari m’interessano. Non vi era piú nessuno sul Mangal, dei vostri? — Nessuno, signori, perché anche l’equipaggio della cannoniera, che ai primi colpi di fucile era accorso in nostro aiuto, a sua volta era stato sterminato dai Thugs. — Erano molti dunque quei furfanti? — chiese Sandokan. — Quindici o venti volte piú numerosi di noi, — rispose il cipai. — Errai per due settimane fra le jungle, vivendo di frutta selvatiche, correndo venti volte il pericolo di venire fatto a brani dalle tigri o tagliato in due dai gaviali, finché passando d’isola in isola, raggiunsi le rive dell’oceano dove finalmente venni raccolto da una barca montata da pescatori bengalini. — Bedar, — disse Tremal-Naik, dopo un po’ di silenzio. — Hai piú riveduto Suyodhana? — Mai, signore. — Eppure noi sappiamo, da fonte sicurissima, che egli si trova in Delhi. Il cipai fece un soprassalto. — Lui qui! — esclamò. — So che i Thugs hanno abbracciata la nostra causa e che numerosi drappelli sono giunti dal Bengala, dal Bundelkund e anche dall’Orissa, ma non ho udito a parlare dell’arrivo del loro capo. — Noi siamo venuti qui per cercarlo, — disse Tremal-Naik. — Volete regolare il vecchio conto? Se tale fosse la vostra intenzione, potete contare interamente su di me, signor Tremal-Naik, — disse Bedar. — Ho anch’io da vendicare il mio capitano che amavo come fosse mio padre, quantunque io indiano e lui inglese, e tutti i miei camerati caduti cosí miseramente nelle Sunderbunds. — Sí, — disse il bengalese con voce terribile. — Sono venuto qui per ucciderlo e per strappargli mia figlia che mi ha rapita alcuni mesi or sono. — Vostra figlia rapita! — Ti narreremo piú tardi ciò. Mi preme ora sapere da te se noi potremo entrare in Delhi, o meglio se Abú-Assam ce ne darà il permesso. — Io non ne dubito, signori, non avendo alcun motivo per credervi spie degl’inglesi. Chi potrebbe asserire ciò? L’avete veduto il generale? — Non ancora; sappiamo che il subadhar che ci ha condotti qui, lo ha avvertito del nostro arrivo. — È molto che siete qui? — Un’ora. — E non vi ha fatto ancora chiamare. — No. — È strano, — disse il cipai. — Ordinariamente non indugia mai. Lasciate che vada a trovare il subadhar, che deve essere lo stesso che mi ha incaricato di servirvi da cena. Si era appena alzato e si preparava ad uscire, quando lo vide comparire accompagnato da due indiani che tenevano il viso nascosto da una pezzuola che pendeva dai loro enormi turbanti. — Venivo in cerca dite, subadhar, — disse il cipai. — Questi uomini cominciano ad impazientirsi e mi hanno detto che hanno fretta di recarsi a Delhi. — Venivo appunto ad avvertirli di pazientare ancora un quarto d’ora, essendo in questo momento il generale occupatissimo. Tu li condurrai, Bedar. — Va bene, subadhar, — rispose il cipai. Ciò detto il comandante si allontanò facendo cenno ai due uomini che lo accompagnavano di seguirlo. — Chi sono quei due indiani con quegli immensi turbanti? — chiese Sandokan al cipai che li seguiva cogli sguardi. — I suoi aiutanti? — Non saprei, — rispose Bedar che pareva un po’ preoccupato. — Mi parvero due seikki. — E perché avevano il viso nascosto? — Avranno fatto qualche voto. — Ve ne sono altri seikki nel campo? — chiese Tremal-Naik. — Non molti. I piú si sono uniti agl’inglesi, dimenticando che anche essi sono indiani al pari di noi. — Avete speranza di tenere testa agl’inglesi? — Uhm! — fece il cipai, crollando la testa. — Se tutti gli indiani si fossero levati in armi, a quest’ora non vi sarebbe piú un inglese nell’Indostan. Hanno avuto paura e ci hanno lasciati soli e noi pagheremo per tutti, poiché sono certo che quei maledetti europei non ci daranno quartiere. Sia! Mostreremo loro come sanno morire gl’indú. Trascorso il quarto d’ora, Bedar si alzò dicendo: — Seguitemi, signori. Abú-Assam non ama aspettare. Lasciarono la casupola, seguiti da un drappello di cavalieri, che fino allora si era tenuto nascosto dietro una vicina capanna, e si avviarono verso la piazza centrale dove Abú-Assam aveva collocato il suo quartier generale. Tutte le tettoie e perfino le vie erano ingombre di insorti, e nessuno dormiva. Chiacchieravano attorno a dei giganteschi falò, tenendo le armi a portata di mano, pronti a montare in sella al primo squillo di tromba. Vi erano cipayes che indossavano ancora i loro pittoreschi costumi, avanzi di reggimenti di Merut, di Cawnpore, di Allighur e di Lucknow, bundelkani di Tantia Topi e della Rani, seikki barbuti con enormi turbanti e scimitarre pesantissime e fucili lunghissimi; orissani e perfino maharatti di forme stupende che parevano statue di bronzo. Pareva che aspettassero qualche assalto improvviso, avendo tutti i cavalli imbrigliati ed insellati. Il drappello, guidato da Bedar e sempre scortato dai cavalieri, giunse ben presto su una vasta piazza pure ingombra d’insorti ed illuminata da enormi cataste di legna accesa, e s’arrestò dinanzi ad una costruzione in muratura, assai malandata, colle pareti qua e là forate da palle di cannone e da granate e che doveva essere stata prima un elegante bengalow di proprietà di qualche ricco inglese di Delhi. — È qui che dimora il generale, — disse Bedar. Diede alle due sentinelle, che vegliavano dinanzi alla porta, la parola d’ordine ed introdusse i pretesi insorti nella prima stanza, dove trovarono il subadhar il quale stava chiacchierando con parecchi uomini d’alta statura, dei montanari del Bundelkund probabilmente, armati fino ai denti. — Deponete le vostre pistole e le vostre sciabole, — disse, rivolgendosi a Sandokan ed agli altri. I due scorridori del mare, Tremal-Naik ed i loro compagni obbedirono. — Ora seguitemi, — continuò il subadhar. — Il generale vi aspetta. Furono introdotti in un’altra stanza assai vasta, con pochi mobili sgangherati ed alcune sedie di bambú zoppicanti che erano ancora macchiate di sangue, indizio certo che là dentro era avvenuta qualche lotta accanita. Quattro montanari seikki, tutti di forme erculee, custodivano le due porte, tenendo le scimitarre sguainate. Dinanzi ad un tavolo stava invece un uomo piuttosto vecchio, colla barba quasi bianca, il naso adunco come il becco d’un pappagallo e gli occhi nerissimi e scintillanti come carbonchi. Vestiva come i mussulmani dell’India settentrionale, che hanno conservato il costume tartaro-turcomanno e sulle maniche di seta verde aveva dei vistosi galloni d’oro. Vedendo entrare Sandokan e gli altri, aveva alzata la testa, socchiudendo le palpebre come se la luce che proiettava la lampada sospesa al soffitto gli offendesse la vista, osservò in silenzio per qualche minuto, dicendo quindi, con voce nasale: — Siete voi che chiedete il permesso di entrare in Delhi? — Sí, — rispose Tremal-Naik. — Per combattere e morire per la libertà — Contro il nostro secolare oppressore: l’inglese. — Da dove venite? — Dal Bengala. — E come avete fatto a passare attraverso le linee nemiche senza essere stati fermati? — chiese il vecchio generale. — Abbiamo approfittato della notte, che era oscurissima ieri, poi ci siamo nascosti in una capanna diroccata fino a che scorgemmo il subadhar. Il vecchio rimase per alcuni istanti ancora silenzioso, fissando specialmente Sandokan ed i suoi malesi, il cui colore doveva avergli fatto una certa impressione, poi riprese: — Tu sei bengalese? — Sí, — rispose Tremal-Naik senza esitare. — Ma gli altri non mi sembrano indiani. La loro pelle ha un colorito che non ho mai veduto sulle genti del nostro paese. — È vero, generale. Quest’uomo, — disse, indicando Sandokan, — è un principe malese, nemico acerrimo degl’inglesi che ha parecchie volte sconfitti e battuti sanguinosamente sulle coste del Borneo e gli altri sono suoi guerrieri. — Ah! — fece il generale — E perché è venuto qui? — Era venuto a Calcutta a trovarmi, essendo stato io alcuni anni or sono suo ospite ed avendo appreso da me che gl’indiani si preparavano ad insorgere, offerse il suo braccio potente ed il suo sangue alla nostra causa. — È vero? — chiese Abú-Assam, rivolgendosi verso la Tigre. — Sí, il mio amico ha detto la verità, — sono stato per lunghi anni il nemico piú tremendo degl’inglesi sulle spiagge del Borneo. Io li ho sconfitti piú volte a Labuan e sono stato io a rovesciare James Brooke, il potente rajah di Sarawak. — James Brooke! — esclamò il generale, passandosi una mano sulla fronte come per ridestare qualche lontano ricordo. — Sí, deve essere quel tenente della compagnia delle Indie che ho conosciuto nella mia gioventú e che mi avevano detto che era diventato un rajah di una grande isola malese. Già era un inglese anche quello, dunque tuo nemico. E l’altro che ha i lineamenti regolari come quelli d’un europeo, da dove viene? — chiese poi additando Yanez. — È un amico del principe. — E anche quello odia gli inglesi? — Sí. — Gli inglesi soli? — chiese il generale alzandosi e cambiando bruscamente tono. — Che cosa vuoi dire, generale? — chiese Tremal-Naik, con inquietudine. Invece di rispondere il vecchio disse: — Sta bene: fra due o tre ore partirete per Delhi col subadhar onde non vi scambino per nemici e vi fucilino. Seguite la scorta che vi ha qui condotti, ma lasciate qui le armi che non vi verranno restituite se non entro le mura della città. — Dove ci condurrà la scorta? — Al deposito degli arruolamenti, — rispose il generale, facendo loro cenno colla mano di uscire. Tremal-Naik ed i suoi compagni obbedirono e ritrovarono al di fuori la scorta ed il subadhar. — Seguitemi signori, — disse questi, facendoli circondare dai suoi uomini. — Tutto va bene. Bedar si era accostato a Tremal-Naik, sussurrandogli agli orecchi. — Non fidatevi: la va male per voi, ma ci rivedremo presto. La scorta si era appena messa in marcia, quando due uomini che avevano il viso semi-nascosto dagli enormi turbanti, e che erano gli stessi che avevano accompagnato il subadhar alla casupola, entrarono nella sala del generale. — Sono essi? — chiese il vecchio, vedendoli entrare. — Sí, li abbiamo riconosciuti perfettamente, — rispose uno dei due. — Sono essi che hanno invasa la pagoda di Kalí, che hanno inondati i sotterranei e che hanno fatto strage dei nostri. Essi sono alleati degl’inglesi. — L’accusa è grave, figliuoli, — disse il vecchio. — Se sono giunti qui, non devono avere che un solo scopo: quello di sorprendere il nostro capo e trucidarlo. — Che cosa pretendete dunque? — Che tu li tratti come traditori o tutti i Thugs che sono in Delhi e che sono pronti a morire per la libertà dell’India domani lasceranno le bandiere dell’insurrezione. — Gli uomini sono troppo preziosi in questo momento per perderli, — disse il vecchio dopo un istante di riflessione. — Siamo già troppo pochi per difendere una città cosí vasta. Avete la mia parola: andate. Capitolo XXX. I TRADITORI Il drappello invece di dirigersi verso la casupola dove Sandokan ed i suoi compagni avevano lasciati i loro cavalli, prese un’altra via che passava fra bengalow mezzi distrutti dal fuoco e giardini devastati. Tremal-Naik, messo in guardia dall’avvertimento datogli dal cipai, e molto inquieto, temendo qualche sorpresa inaspettata, si provò ad interrogare il subadhar, ma l’ufficiale che era diventato bruscamente burbero, si limitò a fargli cenno di continuare la via. — Tremal-Naik, — disse Yanez, — mi pare che le cose non vadano troppo lisce. — Che cosa è successo dunque? — Non so nemmeno io, — rispose il bengalese. — Mi sembra tuttavia che si abbia ben poca voglia di farci entrare in Delhi. — Che ci credano spie degl’inglesi? — chiese Sandokan. — Un simile sospetto ci metterebbe in grave pericolo, — rispose Tremal-Naik. — Le spie si fucilano da una parte e dall’altra e gli inglesi specialmente non risparmiano gl’indiani. — Eppure non possono accusarci di nulla, — disse Yanez. — Mi viene un sospetto, — disse ad un tratto Sandokan. — Quale? — chiesero ad un tempo Tremal-Naik ed il portoghese. — Che qualcuno ci abbia veduti a parlare col signor de Lussac. — Guai se fosse vero, — disse il bengalese. — Non saprei come potremmo cavarcela. — E non abbiamo piú le nostre armi! — disse Sandokan. — Anche avendole, a che cosa ci potrebbero servire? Vi sono qui almeno un migliaio d’insorti e la maggior parte sono stati soldati. — È vero, Tremal-Naik, — disse Yanez. — Bah! Forse tutto finirà invece bene. — Dove ci hanno condotti? — chiese Sandokan. La scorta si era fermata dinanzi ad una massiccia costruzione che pareva fosse stata un tempo qualche torre pentagonale. La parte superiore era però caduta ed i rottami si vedevano accumulati a breve distanza. — Che sia il deposito degli arruolamenti questo? — chiese Yanez. Il subadhar scambiò alcune parole colle due sentinelle che vegliavano dinanzi alla porta, poi disse a Tremal-Naik ed ai suoi compagni: — Entrate che l’arruolatore vi aspetta per darvi i salva-condotti, senza i quali non potreste entrare nella città santa. — E quando potremo ripartire? — chiese Sandokan. — Tra qualche ora, — rispose l’ufficiale. — Seguitemi, signore. Accese una torcia che aveva portata con sé, fece aprire la massiccia porta che sembrava di bronzo e salí una scala piuttosto stretta, i cui gradini erano in disordine e coperti da uno strato viscido di fango nerastro, depositatovi dall’umidità. — È qui che abita l’arruolatore? — chiese Tremal-Naik. — Sí, al piano superiore, — rispose il subdhar. — Mi sembra piú una prigione che un ufficio. — Non vi sono piú abitazioni disponibili. Avanti signori, ho fretta. Giunti al primo piano spinse un’altra porta pure di bronzo e si ritrasse per lasciar passare Sandokan, Tremal-Naik, Yanez ed i malesi, ma appena furono dentro con una rapida mossa la rinchiuse con fragore, lasciandoli nella piú profonda oscurità. Sandokan aveva mandato un urlo di furore. — Canaglia! Ci ha traditi! Successero alcuni momenti di silenzio. Perfino Yanez, che pareva non si sorprendesse di nulla, sembrava sbalordito. — Sembra che ci abbiano rinchiusi, — disse finalmente, colla sua solita flemma. — Questa brutta sorpresa, parola d’onore, non me l’aspettava, nulla avendo noi fatto in danno degl’insorti. Che cosa ti pare, amico Tremal-Naik? — Dico che quel furfante di generale ci ha ingannati abilmente, — rispose il bengalese. — Tremal-Naik, — disse improvvisamente Sandokan. — Che vi sia qui sotto la zampa di Suyodhana? — È impossibile che egli sia qui, proprio nel momento del nostro arrivo. — Eppure ho questo sospetto, — rispose Sandokan. — O piuttosto che qualche Thugs ci abbia riconosciuti e che abbia detto al generale che noi siamo degli spioni? — disse Yanez. — Potrebbe darsi, — rispose Sandokan. Come dissi, io sono certo che qui sotto vi sia la mano degli strangolatori, — ripeté Sandokan. — Vedremo innanzi a tutto dove siamo e se possiamo farla ai tuoi compatriotti, — disse Yanez. — Siamo in sette e qualche cosa si potrebbe tentare. — Hai l’acciarino e l’esca? — chiese Sandokan. — E anche una corda incatramata, che ci servirà come torcia per una decina di minuti, — rispose il portoghese. — E poi, i nostri malesi ne avranno qualche altra in fondo alle loro tasche. — Accendi, — disse Sandokan. — Siamo tutti ciechi. Yanez batté l’acciarino facendo scaturire alcune scintille, accese l’esca e diede fuoco ad una sagola. Sandokan l’alzò guardandosi intorno. Si trovavano in uno stanzone assai vasto, sprovvisto di mobili, con quattro finestre di forma allungata, che erano difese da grosse sbarre di ferro, le quali non erano certamente facili a smuoversi. — È una vera prigione, — disse, dopo d’aver fatto il giro della sala. — E non hanno scelto male il luogo, — rispose Yanez. — Muraglie che devono avere uno spessore di qualche metro e del ferro, in modo di non lasciarci fuggire. Io sarei curioso di sapere come finirà questa avventura. Che i tuoi compatriotti stiano discutendo la nostra sorte e pensino seriamente a fucilarci? Non sarebbe una cosa troppo allegra, in fede mia. — Aspettiamo che qualcuno venga, — disse Sandokan. — Non ci lasceranno a lungo senza notizie e senza cibo. — Ah! Noi dimenticavamo il cipai del capitano Macpherson, — disse ad un tratto Tremal-Naik. — Quel brav’uomo s’interesserà della nostra sorte, ne sono sicuro, e ci farà sapere qualche cosa. — È vero, — rispose Yanez, — per mio conto m’ero scordato di lui. — Ben poco potrà fare, — disse Sandokan. — Non ha autorità. — Avrà però degli amici, — rispose Tremal-Naik. — Io ho fiducia in lui. — Cerchiamo di passare la notte alla meno peggio, — disse Yanez, gettando a terra la sagola che si era ormai quasi interamente consumata. — Fino a domani nessuno si farà vedere. Non essendovi né letti, né paglia, i sette uomini, si coricarono sul nudo terreno, che non era però umido, e cercarono di addormentarsi. Erano tanto stanchi che, malgrado le loro preoccupazioni, non tardarono molto a russare. Quando l’indomani si svegliarono, il sole cominciava a far capolino attraverso le grosse sbarre di ferro delle finestre. — In piedi, — comandò Sandokan. — Pare che anche senza un letto si possa dormire discretamente bene. — Nulla di nuovo? — chiese Yanez sbadigliando. — Nessun cambiamento finora, — rispose la Tigre. — La sala o meglio la prigione è vuota come ieri sera. Ci trattano come se fossimo dei paria. Non sono gentili questi insorti. — Vediamo dove guardano le finestre, — disse Sandokan. S’accostò ad una e guardò al difuori. Essa prospettava su una cinta semi-diroccata, ingombra di macerie ed in mezzo alla quale s’alzava un enorme tamarindo che spandeva sotto di sé una folta ombra. Al di là della cinta non si scorgevano altre costruzioni, cominciando una boscaglia di borassi e di palmizi dalle immense foglie piumate. Stava per ritirarsi, quando la sua attenzione fu attratta da un ramo del tamarindo che veniva scosso poderosamente. — Che vi siano delle scimmie lassú? — pensò. Guardò meglio, sembrandogli impossibile che dei piccoli quadrumani potessero imprimere ad un ramo cosí grosso degli urti cosí violenti e scorse fra il folto fogliame qualche cosa di bianco e di rosso che si agitava. — Vi è un uomo, — disse. — Che ci sorvegli? Ah! Tremal-Naik! Il bengalese che stava chiacchierando con Yanez fu lesto ad accorrere alla sua chiamata. — Avevi ragione di dire che il cipai non ci avrebbe abbandonati, — gli disse Sandokan. — Lo vedi nascosto su quel tamarindo e che ci fa dei segni, che io non riesco a comprendere? Pare che voglia farci qualche comunicazione. — Per Brahma e Siva! — esclamò Tremal-Naik. — È proprio lui! Se non osa accostarsi, ciò significa che noi siamo strettamente sorvegliati e che teme di compromettersi. — Comprendi i segni che ci fa? — Pare che voglia dirci di aver pazienza. — Veramente non ne ho mai avuta ed avrei preferito qualche cosa di meglio, — rispose Sandokan. — Cerca di fargli capire se potrebbe farci avere invece delle armi. — Troppo tardi; Bedar si è nascosto. Qualcuno s’avvicina di certo.- Guardarono verso la cinta e videro due insorti scalarla e saltare fra i rottami. — Mi pare di aver scorto ancora quei due enormi turbanti, — disse Sandokan. — Sí, ieri sera, dopo la cena, — rispose Tremal-Naik. — Quegli uomini accompagnavano il subadhar, tenendosi nascosto il viso. I due indiani guardarono verso le finestre, osservarono le muraglie della torre, poi rivarcarono la cinta scomparendo dall’altra parte. — Sono venuti ad accertarsi che noi non abbiamo strappate le sbarre o sfondata la muraglia, — disse Sandokan. — Brutto indizio. In quel momento udirono i chiavistelli a stridere, poi la pesante porta di bronzo cigolò sui suoi cardini arrugginiti ed il subadhar comparve, accompagnato da quattro seikki armati di carabine e da due altri che portavano due ceste. — Come avete passata la notte, signori? — chiese, con un sorriso un po’ sardonico che non isfuggí a Sandokan. — Benissimo, — rispose questi, — devo però dirvi che da noi i prigionieri si trattano con meno cortesia, ma con maggiori comodità. Se non si può dare loro un letto, si fanno portare delle foglie secche. Forse che la guerra ha distrutti anche gli alberi? — Avete mille ragioni di lamentarvi, signore, — rispose il subadhar. — Io credevo che non vi dovessero lasciare qui tutta la notte e che vi fucilassero prima dell’alba. — Fucilarci! — esclamarono ad una voce Yanez e Sandokan. — Credevo, — disse l’indiano con aria imbarazzata, quasi pentito di essersi lasciate sfuggire quelle parole. — E con qual diritto si fucilano degli stranieri che non hanno mai avuto nulla in comune con voi indiani? — chiese Sandokan. — Di che avete da lagnarvi voi? — Io non posso rispondervi, signore, — rispose l’indiano. — È il generale Abú-Assam che comanda qui. Pare tuttavia che alcune persone abbiano fatto pressione sul comandante onde vi facesse fucilare ed al piú presto. — Chi sono quelle persone? — chiese Tremal-Naik, facendosi innanzi. — Non lo so. — Te lo dirò io allora: dei miserabili Thugs, quegli infami settari che disonorano l’India e che voi avete avuto il torto di accettare sotto le vostre bandiere. Il subadhar era rimasto silenzioso; però dal suo sguardo si capiva che non osava dare una smentita. — È vero che sono stati dei Thugs a chiedere la nostra morte? — chiese Tremal-Naik. — Non so, — mormorò il subadhar. — E voi vi creerete complici e solidali con quegli assassini? Se noi abbiamo assalito il loro covo, nei pantani di Rajmangal, è perché m’hanno rapito mia figlia e ne abbiamo uccisi quanti ne abbiamo potuto, fidenti di rendere un gran servizio all’India e voi in compenso vorreste farci fucilare. Va’ a dire al tuo generale che egli non è un soldato che combatte per la libertà indiana, bensí un assassino. Il subadhar aggrottò la fronte e fece un gesto d’impazienza. — Basta, — disse poi. — Io non devo occuparmi di ciò; il mio dovere è di obbedire e null’altro. Si volse verso i suoi uomini, fece deporre al suolo i due canestri, poi uscí colla sua scorta senza aggiungere sillaba, richiudendo la porta con gran fragore. — Per Giove! — esclamò Yanez, quando furono soli. — Quel diavolo d’uomo mi ha guastato un po’ l’appetito. Poteva dircelo un po’ piú tardi. Decisamente quell’indiano non è molto educato. — Si parla di fucilarci! — esclamò Tremal-Naik. — Non è una cosa che fa molto piacere, è vero, mio povero amico? — disse il portoghese, che aveva acquistato il suo buon umore. — Che cosa ne dici, Sandokan? — Che quelle canaglie di Thugs sono piú forti di quello che supponevo. — E noi che credevamo di averli distrutti tutti! — Mentre invece ce ne troviamo degli altri fra i piedi, amico Yanez, — rispose Sandokan. — Se non troviamo il modo di filare piú che in fretta non so come finirà questa fermata, che io non avevo prevista. — Sí, cerchiamo il modo di andarcene, — disse Yanez, — dopo la colazione però. A pancia piena mi sembra che le idee dovrebbero scaturire piú facilmente. — Che uomo ammirabile! — esclamò Tremal-Naik. — Nessuna cosa lo scombussola! — Bisogna prendere le cose filosoficamente, — rispose il portoghese, ridendo. — Forse che ci hanno di già fucilati? No... dunque? — È la mia valvola regolatrice. — disse Sandokan. — Quante volte ho dovuto la mia vita alla sua flemma. — Al diavolo le chiacchiere! — esclamò Yanez. — Vediamo invece che cosa ci hanno portato quei bricconi d’insorti. Per Giove! Ecco una brutta idea che mi farà scappare un altro po’ d’appetito. — Quale? — chiesero ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. — Se questi viveri fossero avvelenati? — Che strana idea! — esclamò Sandokan. — Se avessero voluto sopprimerci nessuno avrebbe impedito a loro di fucilarci. — Forse hai ragione, — rispose Yanez. Scoprí i due cesti e vi trovò delle focacce, dell’antilope arrostita, del riso condito con pesce, un fiasco di vino di palma e perfino delle sigarette formate da una piccola foglia di palma che conteneva del tabacco rosso. — Non sono troppo avari, — disse. E dimenticando i suoi timori addentò risolutamente una focaccia, ma subito un grido gli sfuggí. — Canaglie! Ci hanno messi dentro dei sassi e per poco non mi sono spezzato un dente. — Dei sassi! — esclamò Sandokan. — C’è qualche cosa di duro lí dentro. — Vediamo. Prese la focaccia e la ruppe in due pezzi. Con sua sorpresa vide una piccola pallottola di metallo che sporgeva fra la mollica. — Oh! — esclamò. — Che cos’è questo? Yanez se n’era lestamente impadronito, guardandolo con viva curiosità. — Qui dentro vi deve essere qualche cosa, — disse. — Lo suppongo anch’io, — rispose Sandokan. — Che l’abbia messo Bedar? — chiese Tremal-Naik. — Vediamo se possiamo aprirla, — rispose Yanez. Si provò a svitarla e s’accorse che la cosa non era difficile. L’aprí e ne levò una pallottolina di carta. — Buono, — disse. Lo svolse con precauzione, temendo di guastare la carta e vide alcune lettere tracciate con inchiostro azzurro. — Questo è indiano, — disse. — A te, Tremal-Naik, che conosci la lingua meglio di noi. — Non vi sono che tre parole, — rispose il bengalese. — Leggi. — «Aspettate questa sera.» — E null’altro? — chiese Sandokan. — No. — Nemmeno la firma? — Niente, Sandokan. — Chi può averci mandato questo biglietto? — Un uomo solo: Bedar. — Aspettate questa sera, — ripeté Yanez. — Che venga a segare le sbarre di ferro delle nostre finestre? — Suppongo che qualche cosa farà, — rispose Sandokan. — Abbiamo avuto una grande fortuna nell’incontrarlo. Se ci aiuterà sapremo ricompensarlo generosamente. — Purché non ci fucilino prima del tramonto, — disse Yanez. — Ordinariamente le esecuzioni si fanno al mattino, — osservò Tremal-Naik. — Come mai hanno sospesa la nostra? — Non credo, Yanez, che pensino d’altronde a fucilarci, senza prima ascoltare le nostre difese, — disse Sandokan. — Sono ribelli e non si prenderanno la briga di farci subire degli interrogatori, mio caro Sandokan. Che cosa vuoi attenderti da persone che, fino a pochi giorni or sono, hanno scannato ferocemente quanti inglesi hanno potuto acciuffare, senza risparmiare né le donne, né i fanciulli? Che cosa siamo noi per loro? Delle spie, sospettano, gente che si ammazza come cani idrofobi e che nemmeno gli eserciti regolari delle nazioni piú civili risparmiano. Bah! Giacché siamo ancora vivi, approfittiamo per finire la mia riserva di sigarette. — Ed il brav’uomo senz’altro preoccuparsi del domani, accese la sua ventesima sigaretta assaporando l’aroma delizioso del tabacco manillese. Durante la giornata nulla accadde di notevole. Nessuno entrò nella prigione; solamente furono veduti ricomparire entro la cinta i due indiani dall’enorme turbante, i quali eseguirono una minuziosa ispezione come al mattino. Il sole stava per tramontare, quando il subadhar rientrò seguito dalla sua scorta e da due altri indiani che portavano la cena. — Hanno cambiata idea o si sono persuasi finalmente che non siamo delle spie ai servigi degli inglesi? — gli domandò Sandokan, appena l’ebbe veduto. — Temo il contrario, — rispose l’ufficiale facendosi oscuro in viso. — Allora ci fucileranno domani all’alba, — chiese Yanez con voce perfettamente calma. — Non lo so, tuttavia... — Continuate pure. Noi non siamo persone da impressionarci troppo facilmente. — Il subadhar guardò i prigionieri con vivo stupore. Quella calma, in uomini ormai votati alla morte, lo aveva scombussolato. — Credete voi che io abbia voluto semplicemente spaventarvi? — chiese. — Niente affatto, — rispose Yanez. — Siete uomini di ferro? — Non siamo femminucce, ecco tutto. — Se io fossi il generale, ve lo giuro, vi risparmierei, — disse il subadhar. — È un peccato uccidere della gente cosí valorosa. — Ditemi, — disse Sandokan. — Ci fucileranno senza giudicarci? — Sembra. — Quali prove ha il generale per non crederci di essere delle persone oneste, qui venute per combattere al vostro fianco? — Pare che qualcuno gli abbia fornito delle prove. — Che noi siamo delle spie? — Lo ignoro, signori. Riposate meglio che potete e fate onore alla cena che è abbondante e svariata. Troverete anzi un pasticcio che v’invia un cipai che voi conoscete e che mi ha pregato di portarvelo. — Bedar? — chiese Tremal-Naik. — Sí. Bedar. — Lo ringrazierete da parte nostra, — disse Yanez, — e gli direte che non lo metteremo da parte, anzi. Il subadhar fece fare alla sua scorta un dietro fronte, e uscí un po’ rattristato che uomini cosí intrepidi si assassinassero senza nemmeno giudicarli, e senza prima udire le loro discolpe. — Un pasticcio mandatoci da Bedar! — esclamò Yanez, quando la porta fu rinchiusa. — Che contenga qualche cosa che possa esserci utile? Sandokan aprí con precauzione la cesta che i due indiani avevano portata e che era assai alta, anzi piú alta che lunga, e levò un pasticcio superbo in forma di torre, con una splendida crosta d’un bel giallo dorato, ed un contorno di ananassi canditi che rappresentavano la merlatura. — Per Giove! — esclamò Yanez, aspirando il profumo che esalava, con visibile soddisfazione. — Non credevo che gli indiani fossero cosí abili pasticcieri e che qui si trovasse un simile capolavoro. — Deve essere stato comperato in città, — disse Tremal-Naik. — Ben gentile quel Bedar. — O piú furbo che gentile? — disse Sandokan, afferrando una piccola forchetta di stagno e preparandosi a levare la crosta superiore che formava come il terrazzo della torre. — È cosí ampio che mi pare impossibile non debba nascondere qualche cosa nel suo interno. Levò delicatamente gli ananassi, poi sollevò la crosta. Tosto un grido di sorpresa e anche di gioia gli sfuggí. — Ah! Me l’ero immaginato! La torre era vuota internamente, ossia veramente vuota no, poiché si scorgevano in fondo degli oggetti che Sandokan si affrettò a trarre. Vi era un grosso gomitolo di corda di seta, non piú grossa d’un semplice gherlino, ma certo d’una resistenza tale da sostenere facilmente un uomo, senza pericolo che si spezzasse, poi quattro piccole lime e finalmente tre coltelli. Ultimo a uscire fu un pezzo di carta, su cui erano tracciate delle lettere. — Leggi, — disse, passandolo a Tremal-Naik. — È di Bedar, — rispose il bengalese. — Ah! Il brav’uomo! — Che cosa dice? — chiesero ad una voce Yanez e Sandokan. — Che a mezzanotte ci caliamo nella cinta dove ci aspetterà e che tiene pronto un elefante per favorire meglio la nostra fuga. — Come può aver trovato un elefante? — esclamò Yanez. — Lo avrà noleggiato a Delhi, — rispose Tremal-Naik. — La cosa è facile quando si ha qualche centinaio di rupie, una somma abbastanza modesta che anche un cipai può possedere. — E che gli frutteranno bene se riuscirà a salvarci, — disse Sandokan. — Per fortuna il generale non ci ha fatto frugare. — Ne hai molti dei diamanti ancora? — chiese Yanez. — Nel caso io ho la mia riserva. — Lasciala in riposo la tua riserva, — rispose Sandokan. — Quarantamila rupie me le possono pagare a occhi chiusi presentando la mia borsetta. Basta colle chiacchiere. Il sole è tramontato e la faccenda sarà lunga. — Le lime indiane valgono quelle inglesi, — disse Yanez. — Le sbarre cadranno prima di due ore, quantunque siano grosse. S’accostarono ad una finestra e guardarono attentamente se vi era qualche sentinella nascosta fra le macerie. — Nulla, — disse Sandokan. Non sospettano di noi. — Facciamo sparire la cena e poi al lavoro, — disse Yanez. — Facciamo soprattutto onore al pasticcio di quel caro Bedar. A tavola amici e poi daremo dentro alle sbarre di ferro. Capitolo XXXI. LA CACCIA ALLE TIGRI DI MOMPRACEM Un quarto d’ora dopo, assicuratisi nuovamente che nessun ribelle vigilava dalla parte della cinta, i malesi attaccavano febbrilmente le grosse sbarre di una delle finestre, limando con furore. Sandokan, Yanez, e Tremal-Naik, per impedire che si udisse al di fuori lo stridere del ferro, si erano messi a canticchiare ed a parlare ad alta voce, precauzione forse superflua poiché pareva che la torre non fosse abitata da alcun essere vivente. Qualche sentinella doveva certo vegliare dinanzi all’entrata, ma non vi era pericolo alcuno che potesse udire il rumore, d’altronde lieve, prodotto da quei piccoli istrumenti. Bedar non doveva essere lontano. Già tre volte un fischio stridente si era fatto udire fra il silenzio della notte, in direzione del tamarindo. Probabilmente il bravo cipai, come al mattino, si era nascosto fra il folto fogliame della pianta, onde vegliare ed impedire che qualcuno s’accostasse. Alle undici già due sbarre erano strappate e non ne mancava che una per avere uno spazio sufficiente. Sandokan, Yanez, ed il bengalese avevano surrogati i malesi assai stanchi, onde affrettare il lavoro. Mancava un quarto alla mezzanotte allorquando anche l’ultima sbarra, sotto un colpo poderoso di Sandokan, fu strappata. — La via è libera, — disse la Tigre della Malesia, respirando a pieni polmoni l’aria fresca della notte. — Non ci rimane che gettare la corda di seta. — E di armarci di queste sbarre che potrebbero esserci utili in caso d’un attacco, — rispose Yanez. — Con un colpo si può ammazzare un uomo. — Non le avrei lasciate qui, — rispose Sandokan. Prese il gomitolo, lo svolse, lasciando penzolare al di fuori un capo e assicurò l’altro alla quarta sbarra, dopo averne provata la solidità. — A me l’onore di scendere pel primo, — disse. Si cacciò nella fascia uno dei tre coltelli, passò attraverso la finestra e si appese alla cordicella, dicendo ai suoi compagni: — Pensate a proteggere la ritirata, voi. — Nessuno entrerà, fino a che non sarete tutti discesi, — rispose Yanez, impadronendosi d’una traversa e collocandosi dietro la porta di bronzo. — Ed io ti tengo compagnia, — aggiunse Tremal-Naik. — Per Giove! — Che cos’hai? — chiese Sandokan, arrestandosi. — Mi pare che qualcuno salga la scala. — Appoggiatevi alla porta ed impedite l’entrata. — È troppo tardi! Uno spazio di luce era penetrato sotto la fessura inferiore e la voce del subadhar si era fatta udire. — Prepariamoci ad accopparlo, — disse Sandokan, prendendo pur lui una sbarra di ferro. — A me, malesi! I quattro marinai si erano slanciati come un solo uomo verso il loro capo, pronti ad impegnare una lotta suprema. — Sandokan, — disse in quel momento Yanez, che non perdeva mai il suo sangue freddo. — Lascia fare a me. Coricatevi tutti e fingete di dormire. M’incarico io di mandare al diavolo quell’eterno seccatore. Una lotta non potrebbe che perderci. — Sia, — rispose Sandokan, — ci terremo pronti ad impegnarla, se il subadhar avesse qualche sospetto. Si erano appena coricati lungo una parete, nascondendo i coltelli e le sbarre sotto i loro corpi, quando comparve il subadhar con una lanterna accesa in mano, accompagnato da alcuni soldati che avevano le baionette inastate. Yanez si era vivamente alzato, fingendosi di pessimo umore e dicendo: — Che non si possa dormire nemmeno l’ultima notte che si sta sulla terra? È un paese maledetto dunque questo? Che cosa volete ancora, subadhar? Ripeterci che domani mattina ci fucileranno? La notizia è perfino troppo vecchia ed è divenuta noiosa. L’indiano aveva ascoltato quel torrente di parole con una meraviglia facile a comprendersi. — Perdonate, — disse finalmente, — io non vi avevo detto ciò con piena sicurezza. Era una mia supposizione. — E volete concludere? — chiese Yanez, aggrottando la fronte. — Che il generale mi ha incaricato di confermarvela e di chiedervi se desiderate qualche cosa. — Dite a quel noioso che noi abbiamo bisogno di fare una buona dormita. Udite? I miei compagni russano. — Avvertiteli. — Sí, domani e andatevene al diavolo. Ciò detto Yanez si ricoricò, brontolando e bestemmiando. Il subadhar rimase qualche istante perplesso, poi, vedendo che nessuno si curava piú di lui, augurò la buona notte e se ne andò chiudendo la porta con precauzione. — Che ti colga il cholera, — disse Yanez, rialzandosi. — Aspetta di fucilarci, briccone! — La tua prudenza ed il tuo sangue freddo valgono mille volte piú della mia impetuosità, — gli disse Sandokan. — Io per esempio li avrei assaliti ed accoppati a colpi di sbarra e vi avrei forse perduti invece di salvarvi. — Sono il tuo regolatore, — rispose il portoghese, ridendo. — Sbrighiamoci, amici, o Bedar s’impazientirà. Sandokan sali sulla finestra, s’aggrappò alla corda e si lasciò scivolare fino a terra senza fare rumore alcuno. Si guardò intorno, impugnando la sbarra, e non scorse nessuno. Mandò un leggero sibilo per avvertire i compagni che nessun pericolo li minacciava e poco dopo scendeva Yanez, seguito subito da Tremal-Naik. I malesi si calavano a loro volta, uno dietro l’altro. — Dove sarà Bedar? — chiese Sandokan. Si era appena rivolta quella domanda quando vide apparire confusamente, sulla cinta, una forma umana. — Chi sei? — gli chiese sottovoce Tremal-Naik. — Io: Bedar. — C’è nessuno? — No, ma affrettatevi: i due Thugs non tarderanno a giungere. I fuggiaschi scavalcarono rapidamente la cinta e seguirono il cipai che allungava il passo. — Dove ci conduci? — gli chiese Tremal-Naik. — Nel bosco, signore, — rispose il cipai. — È là che si trova l’elefante. — Come hai fatto a procurarti quell’animale? — L’ho preso a nolo da un mio amico di Delhi. È giunto qui appena tre ore fa. — E dove ci condurrai? — Faremo un largo giro onde far perdere le vostre tracce, poi cercherete di entrare in città. La sorveglianza non è ancora molto rigorosa, non essendo l’assedio cominciato. — Tu poco fa mi hai parlato di due Thugs. Spiegati meglio. — Sono quei due indiani che tenevano il viso coperto. Sono stati essi a riconoscervi e ad esigere la vostra morte, minacciando, in caso contrario di far abbandonare da tutti i settari la causa degl’insorti. — E Abú ha ceduto? — Sono ancora potenti i Thugs e si trovano in buon numero a Delhi. Affrettatevi, signori; possiamo essere seguiti. — Da chi? — chiese Sandokan. — Da quei due uomini. So che vi sorvegliavano strettamente e che ogni due o tre ore si recavano alla torre. — Galoppiamo, disse Yanez. — Ora che siamo liberi mi spiacerebbe ricadere nelle mani del vecchio briccone, per quanto sia un generale. Avevano raggiunto il bosco. Bedar si orientò rapidamente, poi si cacciò sotto i borassi ed i palmizi, seguendo un sentieruzzo appena tracciato fra le alte erbe che crescevano intorno ai tronchi degli alberi. Era diventato assai inquieto e si volgeva di frequente indietro, come se temesse di essere seguito dai due Thugs. Camminarono cosi per un quarto d’ora, poi giunsero in una piccola radura in mezzo alla quale si vedeva una massa enorme che si agitava. — Ecco l’elefante, — disse Bedar. Un uomo che si teneva dinanzi al pachiderma gli mosse incontro, dicendogli: — Poco fa sono venuti qui due uomini a chiedermi chi aspettavo. — Che cosa hai risposto, cornac? — disse il cipai con impeto. — Che aspettavo un signore di Delhi che si era recato da Abú Assam. — Hai fatto bene e avrai una rupia di piú, — disse Bedar. — Si sono poi allontanati? — Sí, padrone. — Avevano dei turbanti enormi? — Ed anche il volto coperto. — Erano quei maledetti Thugs, — disse Bedar, volgendosi verso i fuggiaschi. — Presto signori, salite nell’haudah. — Ci accompagni tu? — chiese Tremal-Naik. — Sí per facilitarvi l’entrata in città — rispose il bravo cipai. — Io mi siedo dietro al cornac. Tremal-Naik e le tigri di Mompracem entrarono rapidamente nella cassa che era larga e comoda, e fu con vero piacere che scorsero una decina di carabine appoggiate ai bordi. — Almeno potremo difenderci, — disse Sandokan, prendendone una ed armandola. — E sotto i nostri piedi vi sono le munizioni, — disse Yanez che si era curvato. — Bravo Bedar! Hai pensato a tutto. — Avanti, Djuba, — disse in quel momento il cornac — e trotta bene se vorrai avere doppia razione di zucchero. L’elefante, che doveva portare quel nome, agitò la proboscide da destra a sinistra, aspirò fragorosamente l’aria e partí rapidamente, facendo tremare il suolo sotto la sua massa enorme. Aveva percorso una ventina di passi quando in mezzo ad una macchia balenarono due lampi seguiti da due detonazioni e dalle grida di: — Ferma! Ferma! Una palla fischiò agli orecchi di Sandokan senza colpirlo. — Ah! Canaglie! — esclamò il pirata, esasperato. — Fuoco, amici! Una scarica seguí quel comando, ma nessun grido di dolore partí dalla macchia. Probabilmente i bricconi che avevano fatto fuoco, sospettando che i fuggiaschi fossero pure armati di fucili, dovevano essersi lasciati cadere a terra per evitare di venire colpiti. — Non fermare, cornac! — aveva gridato Bedar. — No, padrone, — rispose il conduttore, vibrando un poderoso colpo d’arpione sul cranio del pachiderma. Una voce stridula echeggiò fra le tenebre. — È Bedar che li ha fatti fuggire! Ti prenderemo presto! L’elefante si era messo in corsa. Col largo petto rovesciava cespugli ed alberi, passando come un uragano attraverso la folta boscaglia. — Non ci raggiungerà nemmeno un cavallo, — disse Yanez, che si aggrappava fortemente all’orlo della cassa per non venire sbalzato fuori. — Se l’elefante non cede, fra un’ora saremo ben lontani. — Che i Thugs organizzino un inseguimento? — chiese Tremal-Naik, rivolgendosi a Bedar. — È probabile, — rispose il cipai. Abbiamo però a quest’ora un notevole vantaggio e l’elefante è un vigoroso corridore. — Vi sono elefanti nell’accampamento? — Sí, parecchi. — Sarà con quelli allora che ci daranno la caccia, — disse Sandokan. — Certo, poiché i cavalli non potrebbero raggiungerci, — rispose il cipai. — È per quello che ho fatto acquisto di un centinaio di palle colla punta di rame. — Per abbattere gli elefanti? — chiese Sandokan. — Sí, sahib. — Ce ne serviremo, se sarà necessario. Il bosco cominciava allora a diradarsi, facilitando la corsa al pachiderma. Quell’animale doveva possedere un vigore straordinario non avendo ancora rallentato, quantunque corresse da piú di un’ora. Finalmente con un ultimo slancio sbucò in una vasta pianura, che era solamente interrotta da enormi mazzi di bambú alti dai dodici ai quindici metri. — Dove siamo? — chiese Sandokan a Bedar. — Al nord di Delhi, — rispose il cipai. — Abbiamo oltrepassato tutto il campo stabilito intorno alla città per garantirla da una sorpresa. — Ed ora dove andiamo? — Ci getteremo fra le jungle che costeggiano la Giumna. Là attenderemo che i nostri inseguitori si stanchino di cercarci. — Avrei preferito entrare subito in città, — disse Sandokan a Tremal-Naik. — Mi preme rivedere Sirdar. — La prudenza ci consiglia di ritardare la nostra entrata, — rispose il bengalese. — Non trovandoci, i due Thugs faranno in Delhi delle minuziose ricerche e, scoperti un’altra volta, non saprei chi potrebbe salvarci. — È vero, — disse Yanez. — Non si trova sempre un Bedar. — Purché ci arriviamo, — disse Sandokan. — Io non ne dubito, — rispose il portoghese. — E se quel cane di Suyodhana è giunto, gli faremo passare un brutto momento. — Qualche cosa di piú, Yanez, — disse Sandokan. — La Tigre della Malesia non accorderà quartiere a quella dell’India. — La Giumna, — disse in quel momento Bedar. Un fiume, abbastanza largo, tagliava la pianura e l’elefante si era fermato cosí bruscamente, che per poco i fuggiaschi non furono scaraventati fuori dalla cassa. — Lo attraversiamo? — chiese Yanez. — Sí, sahib, — rispose il cipai. — Sulla riva opposta comincia la jungla. — Avanti, dunque, se vi è un guado. — L’elefante saprà trovarlo. Djuba allontanò colla proboscide i rami degli alberi, tuffò l’appendice nel fiume e frugò per qualche po’ il fondo come se volesse prima assicurarsi se era formato di fango molle o di ghiaia. Soddisfatto di quell’esame, entrò risolutamente in acqua, sbuffando e soffiando. — Quanto sono bravi e prudenti questi animali, — disse Yanez. — Non finirò mai di lodarli. L’acqua cominciava a diventare profonda e la corrente anche impetuosa, pure nulla poteva scuotere quella massa enorme, salda quanto uno scoglio. Col suo largo petto affrontava i gorghi, spezzandoli, e continuava ad avanzarsi, obbedendo docilmente alle indicazioni che gli dava il cornac. Già stava per toccare la riva opposta, quando i fuggiaschi udirono dietro di loro dei barriti e delle grida, poi dei colpi di fucile rimbombarono, rompendo il silenzio della notte. Sandokan e Tremal-Naik avevano mandato un grido: — Ci sono addosso! — Per Giove! — esclamò Yanez. — Sono diavoli costoro, per averci raggiunti cosí presto? Eppure questo valoroso elefante ha filato come un praho che ha il vento in poppa! — Come possono esser già qui? — si chiese Sandokan. — Eppure devono essere essi se ci hanno salutati con dei colpi di fucile. — Sí, sono essi sahib, — rispose Bedar. — Montano tre elefanti, i migliori di certo di quanti se ne trovavano al campo. — E hanno scoperto subito le nostre tracce, — disse Tremal-Naik. — Non era difficile trovarle, — rispose Bedar. — Un elefante apre un sentiero nelle foreste che attraversa, che non si chiude subito. Ci siamo, cornac? — Sí. Djuba aveva attraversato felicemente il fiume e stava salendo la riva che era ingombra da enormi macchie di bambú alternate a gruppi di tara e di tamarindi. I tre elefanti montati dai ribelli si erano invece fermati sulla sponda opposta, come se cercassero qualche altro guado piú facile. — Prendiamo posizione, — disse Sandokan. — Daremo loro battaglia sul fiume. Bedar, ferma l’elefante, e fallo nascondere entro qualche macchia, onde le palle non lo colpiscano. Il cipai diede al cornac alcuni ordini, mentre Tremal-Naik e le tigri di Mompracem s’impadronivano delle carabine e dei sacchetti contenenti le munizioni. L’elefante s’internò fra un foltissimo macchione di bambú, poi si fermò mentre il cornac gettava la scala. — Giú e lesti, — disse Sandokan. — Impediamo loro di attraversare il fiume o avremo addosso una trentina d’uomini che non ci risparmieranno. Scesero a precipizio, raccomandarono al cornac di non allontanarsi e tornarono verso il fiume imboscandosi in mezzo alle folte erbe. Il cipai si era unito a loro, sicché erano in buon numero per disputare accanitamente il passaggio del fiume. — Che siano in molti gli insorti? — chiese Yanez a Bedar. — Ogni elefante ne avrà certo diedi o dodici, — rispose Bedar. — Che vi sia anche della cavalleria con loro? — domandò Sandokan. — Giungerà forse, ma assai piú tardi. — A cose finite, — disse Tremal-Naik. — Toh! Che cosa fanno che non si decidono a far entrare in acqua gli elefanti? — Attenderanno l’alba, — rispose Bedar. — Ormai sanno che noi siamo qui e sono sicuri di raggiungerci. — Cosí tireremo meglio, — disse Sandokan. — Leva fuori le palle rivestite di rame. Metteremo subito gli elefanti fuori combattimento. Si coricarono fra le erbe, dietro la prima fila d’alberi onde proteggersi meglio dai colpi di fuoco degli avversari, ed attesero l’attacco sicuri di non venire facilmente sloggiati. Yanez aveva accesa la sigaretta e fumava placidamente, guardando verso la riva opposta. Gli indiani accortisi forse che i fuggiaschi si erano arrestati, pareva che non avessero troppa premura di attaccare. Alle quattro gli astri cominciarono ad impallidire e le tenebre a dileguarsi. — Bedar, — disse Sandokan, volgendosi verso il cipai, — erano tre gli elefanti, è vero? — Sí, sahib. — Sei certo di non esserti ingannato? — Ma sí, erano tre. — Dov’è andato dunque il terzo che non lo vedo piú? — Infatti non ne vedo che due soli ora, — disse Yanez. — Che l’abbiano mandato in cerca di rinforzi? — O che lo tengano invece in riserva, nascosto dietro gli alberi? — disse Tremal-Naik. — Ciò m’inquieta, — rispose Sandokan. — Avrei preferito vedere anche quello. — Badate, — disse il cipai. — Si muovono per forzare il passaggio. I due elefanti, due animali mostruosi, scendevano in quel momento la riva, eccitati dalle grida dei loro cornac. Nella cassa vi erano dieci uomini e altri quattro stavano coricati dietro. Erano dunque in trenta, forza rispettabile, eppure non troppo temibile per le tigri di Mompracem, abituate a misurarsi con nemici sempre numerosi. I due pachidermi, dopo una breve esitazione, si cacciarono in acqua, tastando prudentemente il terreno, mentre gli indiani afferravano le carabine. — A te il primo colpo, Sandokan, — disse Yanez. La Tigre della Malesia appoggiò la carabina su una radice che usciva da terra e mirò per qualche istante il primo elefante. Un momento dopo una detonazione scoppiava, seguita subito da un barrito formidabile. Il pachiderma aveva fatto uno scarto improvviso ed aveva alzato vivamente la tromba, soffiando rumorosamente. La palla doveva averlo colpito in qualche parte. Gl’indiani che lo montavano, udendo quello sparo, avevano risposto con un fuoco nutrito. — Facciamoci vivi anche noi, — disse Yanez. — Fuoco, tigrotti di Mompracem! I pirati si alzarono silenziosamente dietro i tronchi degli alberi che li proteggevano e scaricarono le carabine, mirando la cassa. Piú che gli elefanti premeva a loro di mettere fuori di combattimento gli uomini. Tre indiani caddero nel fondo della cassa morti o feriti, ma gli altri non cessarono il fuoco, anzi il cornac continuò ad aizzare l’elefante che cominciava a mostrarsi titubante. Sandokan, ricaricata la carabina, mirò il secondo che era rimasto scoperto e gli strappò un barrito terribile. — Anche quello è toccato, — disse. — Continuiamo finché cadono. Gli indiani, non ostante il formidabile fuoco delle tigri di Mompracem, resistevano tenacemente, sparando in mezzo agli alberi, con nessun successo poiché i fuggiaschi si guardavano bene dal mostrarsi. Scaricata la carabina, si lasciavano cadere fra le erbe, rendendosi invisibili e ricaricata l’arma riprendevano la musica infernale. Il primo elefante, quantunque perdesse sangue da una spalla, aveva raggiunta quasi la metà del fiume, quando una palla di Yanez lo colpí sotto la gola, penetrandogli certo molto addentro. Il povero colosso, già indebolito, indietreggiò vivamente, empiendo l’aria di clamori assordanti. — Ben preso, Yanez, — disse Sandokan. — È fuori di combattimento e fra poco cadrà. — Dagli il colpo di grazia, — disse il portoghese. — Sto mirandolo. Sandokan si scopri un momento e fece fuoco a ottanta metri di distanza. Il pachiderma lanciò un barrito piú spaventevole degli altri, si rizzò bruscamente sulle zampe deretane, poi si rovesciò su un fianco sollevando una ondata spumeggiante e gettando in acqua gli uomini che portava. — È finito! — gridò Yanez, con voce giuliva. — All’altro, Sandokan! Mentre gli indiani si salvavano a nuoto abbandonando le carabine, il pachiderma con uno sforzo disperato si era risollevato per non affogare, poi quasi subito ricadde scomparendo per sempre. L’altro, vedendo cedere il compagno, si era messo a indietreggiare barrendo e scuotendo l’enorme capo sotto i colpi d’arpione che il cornac non gli risparmiava. — Fuoco, Yanez! — gridò Sandokan. — Facciamolo cadere presto. I due pirati scaricarono simultaneamente le carabine, mirando le spalle del colosso, presso le giunture. Fu un colpo maestro. Il pachiderma voltò il dorso fuggendo verso la riva, salutato da una seconda scarica, ma quando si trattò di salirla, le forze gli vennero improvvisamente meno e stramazzò pesantemente, scaraventando fra i cespugli gl’indiani che erano nell’haudah. Un grido di vittoria s’alzò sulla riva opposta. Le tigri di Mompracem erano balzate fuori e fulminavano gl’insorti che nuotavano per impedire a loro di ricongiungersi ai compagni. — Basta, — disse Yanez. — Ne hanno abbastanza e non ci inquieteranno piú. — Al nostro elefante, — comandò Sandokan. Stavano per prendere la corsa verso il bosco, quando udirono una voce umana a gridare: — Aiuto! Aiuto! Bedar aveva mandato un urlo di rabbia. — Il nostro cornac! Capitolo XXXII. VERSO DELHI Sandokan, Yanez ed i loro compagni udendo quel grido si erano subito fermati, ricaricando precipitosamente le carabine e gettandosi dietro agli alberi. Si erano appena messi al riparo, quando videro giungere a corsa disperata il cornac. Il pover’uomo pareva in preda ad un vivissimo terrore e si guardava di quando in quando alle spalle come se temesse di vedersi raggiungere da qualcuno. — Che cos’hai? Chi ti minaccia? — chiese Bedar, muovendogli incontro. — Là!... là!... — rispose il conduttore, con voce strozzata. — Ebbene?... Spiegati. — Un elefante montato da parecchi uomini. — Deve essere quello che mancava, — disse Sandokan che li aveva raggiunti. — Avrà attraversato il fiume lungi da qui per prenderci alle spalle. Dove si è fermato? — Presso il mio animale. — Ti hanno veduto a fuggire gli uomini che lo montano? — Sí, sahib; anzi mi hanno gridato dietro di fermarmi minacciando di farmi fuoco addosso. Mi porteranno via Djuba, signore, ed io sarò un uomo rovinato. — Ho qui nella mia tasca di che pagare cento elefanti, — rispose Sandokan, — quindi tu non perderai nulla. E poi noi impediremo a quei bricconi di rubartelo. Amici seguitemi e tenetevi sempre nascosti in mezzo ai cespugli. Vediamo se possiamo sorprenderli. — E mettere fuori di combattimento anche quel bestione, cosí non potranno piú inseguirci, — aggiunse Yanez. — Avanti, — comandò la Tigre della Malesia. Si slanciarono in mezzo ai cespugli che in quel luogo erano assai folti e raggiunsero le grandi macchie, senza che gl’indiani del terzo elefante si facessero vedere. — Dove si saranno fermati? — si chiese Sandokan, un po’ insospettito. — Che ci tendano un agguato? — chiese Yanez. — Ne ho quasi la certezza. — Conduttore, — disse Tremal-Naik, — siamo vicini al luogo ove hai lasciato Djuba? — Sí, signore. — Lasciate che vada un po’ a vedere io, — disse Bedar. — Aspettatemi qui. — Se li vedi retrocedi subito, — gli disse Sandokan. Il cipai si assicurò se la carabina era carica, poi si gettò al suolo e s’allontanò strisciando come un serpente. — Preparatevi a far fuoco, — disse Sandokan ai suoi uomini. Sento per istinto che quei bricconi ci sono piú vicini di quello che supponiamo. Non era trascorso mezzo minuto quando un colpo di fucile rimbombò a brevissima distanza. Un urlo di angoscia vi aveva tenuto dietro. — Canaglie! — gridò Sandokan, balzando innanzi. — Han colpito Bedar. Avanti, tigri di Mompracem! Vendichiamolo! In quel momento si udirono i rami della macchia a scricchiolare come se qualcuno cercasse d’aprirsi il passo, poi comparve il cipai cogli occhi strabuzzati, pallidissimo. Aveva abbandonata la carabina e si comprimeva il petto con ambe le mani. — Bedar! — esclamò Sandokan, correndogli incontro. L’indiano gli si abbandonò fra le braccia, dicendo con voce semi-spenta: — Sono... morto... là... imboscati... sull’elefante... sul... Uno sbocco di sangue gli troncò la frase. Girò gli occhi verso Tremal-Naik, come per mandargli l’ultimo saluto e scivolò fra le braccia di Sandokan cadendo fra le erbe. — Uccidiamo quei bricconi! — urlò la Tigre della Malesia. — Alla carica! I sei pirati, Tremal-Naik ed il cornac si rovesciarono attraverso la macchia come un uragano, senza prendere piú alcuna precauzione, poi fecero una scarica. Si erano trovati improvvisamente dinanzi al terzo elefante che si teneva immobile sotto un colossale tamarindo, la cui folta ombra lo rendeva quasi invisibile. Sandokan e Yanez avevano fatto fuoco contro l’animale, gli altri invece avevano diretti i loro colpi sulla cassa che era montata da otto uomini, fra i quali si trovavano i due Thugs dall’enorme turbante. Sorpresi a loro volta e con tre uomini fuori di combattimento, gl’insorti avevano perduto il loro coraggio, tanto piú che l’elefante, gravemente ferito, aveva cominciato ad infuriare, minacciando di rovesciarli tutti. Spararono a casaccio le loro armi, poi balzarono a terra a rischio di fiaccarsi il collo, fuggendo come lepri attraverso la macchia. Sandokan aveva caricata rapidamente la carabina. — No, briccone, — gridò. — Non mi sfuggi! Uno dei due Thugs era rimasto entro la cassa, fulminato da una palla; ma l’altro si era slanciato dietro agl’insorti, urlando perché si arrestassero e facessero fronte al pericolo. Sandokan che lo aveva già scorto, lo prese di mira, prima che s’internasse nella macchia e gli fracassò la spina dorsale, facendolo cadere al suolo, stecchito. Intanto i suoi uomini, vedendo che l’elefante stava per caricarli, reso furibondo dalle ferite riportate, lo avevano accolto con un fuoco nutrito, crivellandolo di palle in siffatto modo da farlo stramazzare di colpo. — Mi pare che la battaglia sia finita, — disse Yanez. — Peccato che quel bravo Bedar non sia piú vivo! — Seppelliamolo e poi partiamo senza ritardo, — disse Sandokan. — Povero uomo! La nostra libertà gli è costata la vita. Tornarono un po’ tristi dove il cipai era caduto e servendosi dei loro coltelli scavarono frettolosamente una fossa, adagiandovelo dentro. — Riposa in pace, — disse Tremal-Naik, che era piú commosso di tutti. — Non ti dimenticheremo. — Partiamo senza indugio, — disse Sandokan. — Non tutti gl’indiani sono morti e potrebbero tornare con dei rinforzi. Cornac, credi che potremo ora entrare in Delhi? — Sí, avendomi veduto uscire coll’elefante ed essendo io conosciuto. Dirò alle guardie che ho ricevuto l’ordine d’introdurvi in città da Abú-Assam e sono certo che mi crederanno. — Vi potremo giungere prima di sera? — Sí, sahib. — Allora partiamo. Raggiunsero l’elefante che stava saccheggiando alcuni alberi carichi di frutta, si accomodarono nell’haudah e ripresero la marcia. Djuba si era messo nuovamente in corsa, allungando sempre piú il passo. A mezzodí la foresta era già stata traversata. Si fermarono presso uno stagno per fare colazione, poi verso le due ripartivano costeggiando delle immense piantagioni d’indaco e di cotone, ma per la maggior parte devastate. Dei combattimenti fra le avanguardie inglesi ed indiane dovevano essere avvenuti in quei luoghi, a giudicarlo dalla quantità prodigiosa di marabú, che volteggiavano al di sopra dei solchi, fra i quali forse giacevano ancora numerosi cadaveri. Verso il tramonto le alte mura di Delhi erano in vista. — Silenzio, — disse il cornac. — Se mi fermano, lasciate parlare me solo. Non credo che opporrano difficoltà alla vostra entrata. Alle 9 l’elefante s’inoltrava sotto la porta di Turcoman, la sola lasciata aperta, senza che le sentinelle avessero fatta alcuna obbiezione. Delhi è la città piú venerata dei mussulmani indostani, perché contiene fra le sue mura la santa Jammah-Masgid, ossia la moschea piú grande e piú ricca che sussista in tutta l’India, ed è anche una delle piú popolose e delle piú belle, contando circa centocinquantamila abitanti, duecentosessantauna moschee, cento e ottant’otto templi indi, trecento e piú chiese anglicane ed un numero straordinario di palazzi grandiosi, d’un’architettura ammirabile. Meraviglioso sopratutto è l’antico palazzo degli imperatori del Gran Mogol, chiamato palazzo del padiscià, ove trovasi lo splendido Nahobat-Kana, il padiglione imperiale, alla cui estremità s’apre il Dewani Am o sala delle grandi udienze, decorata in mosaici di gran valore, sostenuta da eleganti colonne e con un baldacchino di marmo. È là che trovasi pure la famosa sala del trono o divani khâs, formata da un chiosco di marmo bianco, semplice di fuori ma straordinariamente ricco nell’interno, con stupefacenti arabeschi disegnati con pietre preziose incrostate nei marmi, con ghirlande di lapislazzoli, d’onice, di sardonia ed altre non meno pregiate; gli appartamenti reali, i bagni che hanno il suolo lastricato di marmo; la moschea di Muti Masgid o tempio delle perle ed i giardini imperiali tanto decantati dai poeti mongoli. Non hanno forse avuto torto i costruttori di quelle meraviglie d’incidere sulla porta principale del palazzo: Se c’è un paradiso sulla terra; è qui! è qui!... Quando il drappello entrò in città, dietro ai bastioni regnava un’animazione straordinaria. Turbe di soldati s’affannavano a innalzare trincee e terrapieni ed a mettere in batteria pezzi di cannone alla luce delle torce. La notizia che gl’inglesi avevano ricevuto il parco d’assedio si era già sparsa, ed i ribelli si preparavano animosamente alla resistenza. Tremal-Naik ed i suoi compagni si fecero condurre dal cornac fino al bastione di Cascemir, dove riuscí loro facile trovare ospitalità presso un notabile che aveva un bengalow in quelle vicinanze, nessuno osando rifiutarsi d’accogliere i ribelli, ormai padroni assoluti della città. Erano cosí stanchi che appena cenato si ritrassero nella stanza a loro assegnata, che dai servi del padrone era stata subito fornita di comodi letti. — Domani ci metteremo in cerca di Sirdar, — aveva detto Sandokan, coricandosi, — chissà che non si mostri in questi dintorni anche di giorno. Quando si svegliarono, un po’ dopo l’alba, il cannone rombava cupamente su tutti i bastioni della città! Gl’inglesi, durante la notte, avevano aperte numerose trincee ed avevano collocato a posto i pezzi del loro parco d’assedio, bombardando furiosamente le mura. Come fortezza, Delhi non si prestava male. Gl’imperatori mongoli vi avevano spese somme favolose per renderla inespugnabile. Aveva una cinta merlata di dodici chilometri, costruita con grossi massi di granito, e numerose fortezze e torri massicce. Un altro muro si estendeva dal bastione di Wellesley, fino al forte di Gar di Selimo, alto otto metri e che si appoggiava alla Giumna, il fiume che lambiva la città. Tutte le cinte erano difese da un fosso, largo sedici metri e profondo cinque e da altri bastioni solidamente costruiti, che tuttavia non potevano durare a lungo contro i grossi pezzi d’assedio dei nemici. Gl’inglesi, la notte del 4 settembre, avevano collocati in batteria quaranta pezzi di grosso calibro, inoltre avevano concentrato in vista delle mura due reggimenti di bersaglieri del Tingrab al comando del capitano Wilde, tiratori del Giût-Ragià, bersaglieri di Merut, lancieri, ed avevano subito vigorosamente attaccato il bastione dei Mori con dieci grossi cannoni, collocati a quattrocento metri di distanza dal fossato, mentre una divisione di fanteria manteneva un fuoco nutrito contro le mura della Cadsia-Bag, dove i ribelli avevano concentrate le loro migliori truppe. Non si erano però perduti d’animo gli assediati, quantunque scarseggiassero d’artiglierie ed avevano risposto vigorosamente, con grande slancio, dirigendo specialmente il loro fuoco contro le fanterie e con tale precisione da ammazzare ben cinquecento uomini, compresi i luogotenenti Debrante e Brannernan. Quando Sandokan e la sua scorta discesero nella via, le prime bombe cominciavano a cadere sulla città, provocando qua e là degl’incendi, che venivano prontamente spenti, ma causando gravi danni ai ricchi negozi della Sciandni Sciowk, la piú bella e la piú splendida via di Delhi, chiamata anche via degli orefici, abitata quasi esclusivamente da venditori di gioielli. In tutte le vie regnava un vivo fermento. Insorti e cittadini accorrevano sui bastioni, sulle torri e sulle mura merlate, credendo imminente l’assalto. Le fucilate scrosciavano senza posa, gareggiando colle artiglierie inglesi, con un fracasso assordante. — Ecco uno spettacolo che non mi aspettava, — disse Sandokan a Yanez. — Ma già, noi vi siamo abituati. Si erano diretti verso il bastione di Cascemir dai cui spalti gl’indiani tiravano con due pezzi, aiutati da uno stuolo di bersaglieri, ma invano cercarono Sirdar. — Aspettiamo questa sera, — disse Tremal-Naik. — E se Suyodhana non avesse potuto entrare in Delhi? — chiese Yanez. — Se non è giunto ieri, non gli sarà piú possibile il farlo, ora che la città è strettamente assediata. — Non strapparmi questa speranza, — disse Tremal-Naik. — Allora tutto sarebbe finito e Darma sarebbe perduta per me. — Sapremmo trovarlo egualmente, — disse Sandokan. — Noi non lasceremo l’India finché non ti avremo ridata la figlia e ucciso quel furfante. Sirdar è con lui e troverà il modo di farci avere sue notizie. Rientriamo nella nostra casa e aspettiamo. Il cuore mi dice che Suyodhana è qui e non m’ingannerò, lo vedrai, amico Tremal-Naik. — Non prenderemo parte alla difesa? — chiese Yanez. — Comincio ad annoiarmi. — Serbiamoci neutrali ora che gl’inglesi non sono piú nostri nemici. Durante la giornata, i cannoni ed i fucili continuarono a tuonare con un crescendo spaventevole. I ribelli, incoraggiati dalla presenza di Mahomud Bahadar, il nuovo imperatore, legittimo discendente dal Gran Mogol, si battevano splendidamente, con un coraggio straordinario, aiutati anche dalla popolazione che aveva promesso di seppellirsi sotto le rovine della città piuttosto che arrendersi. Alla sera, quando il fuoco fu cessato, Sandokan, come aveva promesso al signor de Lussac, fece gettare dall’alto del bastione di Cascemir un turbante bianco contenente una lettera con cui lo avvertiva che avevano trovato ospitalità presso un notabile, unendovi l’indirizzo, poi assieme ai compagni si sedette sulla scarpa interna della fortezza colla speranza di veder giungere il bramino. Fu però un’altra delusione; Sirdar non diede segno di vita. — Chissà che siamo piú fortunati domani sera, — disse a Tremal-Naik. — È impossibile che quel giovane siasi pentito dei suoi propositi. Forse qualche caso improvviso gli avrà impedito di venire qui, e poi non dobbiamo dimenticare che Suyodhana potrebbe sorvegliarlo. Anche le sere seguenti però non furono piú fortunate. Che cosa era avvenuto di quel bravo giovane? Era stato sorpreso a scrivere qualche altra lettera compromettente ed ucciso dai settari o Suyodhana non era giunto in tempo per entrare in Delhi? Intanto l’assedio continuava piú stretto che mai, con enormi perdite da parte degl’inglesi e degl’insorti. S’avvicinava il giorno dell’assalto generale. Già l’11 settembre il forte dei Mori, vigorosamente attaccato dal contingente Sumno Cascemir e battuto in breccia a duecento soli metri di distanza da una batteria di mortai, era stato ridotto in un mucchio di rovine; il 12 gli inglesi avevano cominciato a bombardare il forte di Cascemir con dieci grossi cannoni, mentre avevano collocati otto pezzi da 18 e dodici piccoli mortai dinanzi alla trincea d’acqua da cui gli insorti si difendevano gagliardamente con un ammirabile fuoco di carabine, causando agli assedianti gravi perdite e uccidendo loro il capitano d’artiglieria Fagan. Il 13 il bastione di Cascemir rovinava fra un nembo di fuoco, poi cadevano i fortini vicini e saltava la polveriera della trincea d’acqua, mentre il nemico tentava un furioso assalto contro il sobborgo di Kiscengange, assalto però respinto vittoriosamente dagli assediati che erano protetti da alcuni pezzi d’artiglieria. Ma le colonne inglesi, notevolmente rinforzate, si preparavano all’attacco coll’ordine feroce dato dal generale Arcibaldo Wilson, succeduto a Bernard, di ammazzare e di saccheggiare non rispettando che le sole donne!... Era l’ultima sera della difesa, quando Sandokan ed i suoi amici si recarono ancora una volta dietro le rovine del bastione di Cascemir, per attendervi il bramino, quantunque ormai avessero perduta la speranza di rivederlo piú mai. Vi erano là da qualche ora, quando improvvisamente un’ombra sorse da uno dei fossati laterali e s’avanzò verso di loro dicendo: — Buona sera, sahib! Capitolo XXXIII. LE STRAGI DI DELHI Un grido di gioia era sfuggito da tutti i petti, riconoscendo in quell’uomo il tanto atteso bramino che credevano ormai di non poter piú rivedere. — Suyodhana? — È qui, signori, — ripose Sirdar. — Con mia figlia? — chiese Tremal-Naik. — Sí, con tua figlia, sahib. — Presto, a casa nostra, — disse Sandokan. — Non è questo il luogo di discorrere. Attraversarono quasi di corsa la spianata, che si prolungava dietro le rovine del bastione, tutta coperta di morti e di pezzi d’artiglierie, e pochi minuti dopo si trovavano riuniti nella stanza che aveva loro assegnata il proprietario del bengalow. — Ora puoi parlare liberamente, senza tema che nessuno ti oda, — disse Sandokan. — Quando siete entrati in città? — Solamente ieri sera, a notte troppo inoltrata per recarmi all’appuntamento che vi avevo dato, — rispose Sirdar. — Abbiamo attraversato il fiume sotto il fuoco degli inglesi e siamo qui giunti sani e salvi in seguito a non so quale miracolo. — Perché non avete potuto entrare prima? — chiese Yanez. — La linea ferroviaria era stata guastata dagli insorti e siamo stati costretti a noleggiare due elefanti fino a Merut. — E perché Suyodhana è venuto qui, a rinchiudersi in una trappola? — domandò Sandokan. — La città sta per cadere nelle mani degli inglesi. — Eravamo presi fra due fuochi, — rispose Sirdar — ed era troppo tardi per ritirarci. Avevamo nemici dinanzi e di dietro e non ci rimaneva altro scampo che di farci prendere o di rifugiarci in Delhi. D’altronde Suyodhana non credeva che la città si trovasse cosí presto in condizioni tanto disastrose. — Dove si trova ora? — chiese Sandokan. — In una casa della via Sciandni Sciowk, presso il municipio. — Il numero? — Il 24. — Perché questa domanda? — chiese Tremal-Naik — se Sirdar ci condurrà colà? — Lo saprai subito. La Tigre della Malesia si volse verso i malesi della scorta che assistevano al colloquio. — Qualunque cosa accada — disse loro — non lascerete questa casa se non giungerà il tenente de Lussac. A quest’ora è probabile che sappia che noi abbiamo trovata ospitalità in questo bengalow. Se noi non saremo tornati dopo l’assalto che gli inglesi daranno probabilmente domani ed egli si presentasse, ditegli che lo aspettiamo nella casa n. 8 della via di Sciandni Sciowk. Badate che da ciò può dipendere la salvezza vostra ed anche la nostra. Ed ora, Sirdar, conducici da Suyodhana. Credi che lo troveremo solo? — I capi dei Thugs combattono sui bastioni. — Partiamo: la piccola Darma è con lui? — Un’ora fa vi era ancora. — Puoi introdurci senza che se ne accorga? — Ho la chiave della palazzina. — Vi sono abitanti? — Nessuno, perché il proprietario ha sgombrato. — Yanez, Tremal-Naik, andiamo senza perdere tempo. È già mezzanotte e temo che domani gli inglesi tentino un assalto generale. Non abbiamo tempo da perdere. Si passò nella fascia il lungo pugnale, si gettò sulle spalle la carabina e uscí, dopo aver fatto cenno ai malesi della scorta di coricarsi. Sui bastioni rombavano sempre le artiglierie degli insorti e qualche bomba, scagliata dai mortai inglesi, solcava il cielo cadendo al di là delle cinte. I prodi difensori della città tentavano con un ultimo sforzo di rompere le linee degli assedianti, già giunti quasi sotto le mura. La notte era oscurissima ed un vento caldissimo e snervante soffiava dagli altipiani del settentrione. Il piccolo drappello, tenendosi rasente alle case per non venire colpito dalle granate, s’avanzava rapidamente attraverso le vie della città diventate quasi deserte. In tutte le abitazioni però ardevano dei lumi. I disgraziati abitanti nascondevano precipitosamente le loro ricchezze, per sottrarle all’imminente saccheggio e si barricavano per opporre la piú lunga resistenza. Di quando in quando dei drappelli di combattenti passavano a gran corsa per le vie, trascinando qualche pezzo di cannone o qualche falconetto che andavano a piazzare sui punti piú deboli e piú esposti. Ed i cannoni tuonavano sempre cupamente nella tenebrosa pianura che si estendeva dinanzi alla città, annunciando una strage orrenda e la distruzione dell’effimero impero dei Mongoli. Erano quasi le quattro del mattino, quando Sirdar si arrestò dinanzi ad una elegante palazzina, col tetto acuminato come quello dei bengalow, a due piani, dall’architettura indo-musulmana. Tutte le finestre erano oscure, eccettuata una sola. — È là che dorme Suyodhana, — disse, rivolgendosi verso Sandokan. — Ed è pur là che si trova la piccina. — Come potremo entrarvi senza che se ne accorga? Credi che sia sveglio? — Ho veduto un’ombra a delinearsi dietro i vetri e suppongo che sia lui, — rispose il bramino. — La veranda è sostenuta da pali e non ci sarà difficile scalarla, quantunque io possegga, come vi ho detto, la chiave. — Preferisco la scalata, — rispose Sandokan. Fece cenno a Yanez ed a Tremal-Naik d’accostarsi, quindi disse: — Qualunque cosa accada, voi rimarrete semplici spettatori. O la Tigre dell’India ucciderà la Tigre della Malesia o questa quella. Non temete: non sarò io che cadrò nella lotta. In alto, Sirdar! — Guardati, Sandokan, — disse Tremal-Naik. — So quanto è terribile quell’uomo. Lascia affrontarlo a me quantunque sappia che tu sei cento volte piú valoroso e piú destro di me. — Tu hai una figlia, io non ho nessuno, — rispose Sandokan, — e dietro di me vi è Yanez. Egli mi vendicherà. Sirdar s’era già aggrappato ad una delle colonne di ferro che sostenevano la verandah e saliva silenziosamente, inoltrandosi sotto le stuoie di coccottiero che coprivano la balaustrata. Sandokan ed i suoi due compagni lo imitarono, e mezzo minuto dopo i quattro audaci si trovavano riuniti. Stavano per entrare in una delle stanze, quando Tremal-Naik urlò contro un vaso, rovesciandolo. — Maledizione! — mormorò il bengalese. Un’ombra era improvvisamente comparsa dietro i vetri. Si fermò un momento, guardando sulla terrazza, poi aprí la porta. Quasi subito un uomo gli piombò addosso, afferrandolo strettamente pei polsi e facendogli cadere, con una stretta terribile, la pistola che impugnava. Era Sandokan che assaliva la Tigre dell’India. Con una spinta irresistibile, cacciò Suyodhana entro la stanza che era illuminata da una lampada, dicendogli freddamente: — Se mandi un grido, sei morto! Il capo dei Thugs era rimasto cosí sorpreso da quell’improvviso attacco, che non aveva nemmeno pensato ad opporre resistenza. Quando però vide comparire dietro a Sandokan, Tremal-Naik, e poi Sirdar, un urlo di furore gli sfuggí dalle labbra. — Il padre della piccola «Vergine della pagoda»! — esclamò, digrignando i denti. — Che cosa vuoi tu?... Come ti trovi qui? — Vengo a riprendermi mia figlia, miserabile! — urlò Tremal-Naik. — Dov’è? Il terribile capo degli strangolatori era rimasto silenzioso. Colle braccia strette sul petto, lo sguardo cupo, i lineamenti sconvolti, guardava i suoi nemici, fissando soprattutto Sirdar. Era un avversario degno della Tigre della Malesia: alto, tutto muscoli e nervi, con larghe spalle, il volto fiero, reso maggiormente duro da una lunga barba già brizzolata, gli occhi nerissimi che parevano iniettati di sangue. Stette alcuni secondi immobile, dardeggiando sui suoi avversari uno sguardo feroce, poi disse con voce dura: — Siete voi, è vero, coloro che mi hanno dichiarata la guerra? — Sí, siamo noi che abbiamo anche distrutti ed inondati i sotterranei di Rajmangal ed i loro abitanti, — rispose Sandokan. — Che cosa vuoi tu e chi sei? — chiese Suyodhana. — Un uomo che porta un nome che un giorno ha fatto tremare tutti i popoli delle isole della Malesia e che è venuto qui appositamente per distruggere la tua setta infame. — E tu credi?... — Che avrò la tua pelle e anche la bambina che hai rapita a Tremal-Naik. — Ti reputi ben forte: è vero che siete in quattro. — La Tigre della Malesia affronterà sola la Tigre dell’India, — disse Sandokan. Un sorriso d’incredulità sfiorò le labbra di Suyodhana. — Quando ti avrò ucciso, gli altri mi assaliranno, — rispose Suyodhana. — Il «padre delle sacre acque del Gange» saprà difendere contro voi anche colei che ormai incarna sulla terra la possente Kalí. — Miserabile! — urlò Tremal-Naik, facendo atto di gettarsi su di lui. Sandokan con gesto imperioso lo trattenne. Il capo degli strangolatori, rapido come un fulmine, approfittò di quel momento in cui Sandokan si era voltato per raccogliere la pistola che giaceva ancora a terra. Senza pronunciare una parola la puntò verso la Tigre della Malesia e gliela scaricò addosso a tre passi di distanza, ma fu forse appunto quel breve tratto che gli fece mancare l’avversario e anche la troppa precipitazione. — Ah! Traditore! — gridò il pirata, gettando la carabina e sguainando il lungo pugnale che portava alla cintola. — Potrei assassinarti: preferisco combatterti. Suyodhana con un balzo da tigre si era gettato dinanzi alla porta che metteva in una stanza nella quale forse si trovava coricata la piccola Darma, gridando: — Bisognerà passare sul mio corpo! Anche nella sua destra scintillava una specie di tarwar dalla lama leggermente ricurva e lunga quasi quanto quella di Sandokan. — Che nessuno interrompa la lotta delle due tigri, — disse il pirata. — A noi due, Suyodhana. — Prima te e poi Sirdar, — rispose il capo dei Thugs con voce cupa. — Il traditore non sfuggirà alla punizione che l’attende. Si erano messi entrambi in guardia, raccolti su se stessi come due tigri pronte a scattare, col braccio sinistro ripiegato dinanzi al petto in modo da coprire il cuore ed il pugnale all’altezza del viso. L’uno doveva valere l’altro, perché entrambi, quantunque non piú giovani, possedevano ancora un’agilità straordinaria ed una forza poco comune. Un profondo silenzio regnò per alcuni secondi nella stanza. Yanez, appoggiato ad un enorme vaso di porcellana, fumava flemmaticamente l’eterna sigaretta senza dimostrare la menoma apprensione; Sirdar, rannicchiato in un angolo, stringeva fra le mani un tarwar, pronto a prendere parte alla lotta; Tremal-Naik, visibilmente commosso, tormentava il grilletto della sua carabina risoluto a non lasciarsi sfuggire il thug, quantunque avesse promesso a Sandokan di non intervenire. I due avversari si guardarono per qualche po’, provocandosi cogli sguardi, poi la Tigre della Malesia vedendo che l’avversario non accennava ad assalire, si slanciò tentando di colpirlo alla gola. Suyodhana con un salto si sottrasse al contatto, parò il colpo colla punta del pugnale, poi abbassatosi si fece sotto a Sandokan cercando di squarciargli il ventre. Nel fare però quell’atto scivolò sul pavimento lucidissimo, cadendo su un ginocchio. Prima che avesse potuto rialzarsi e rimettersi in guardia, il pugnale della Tigre della Malesia gli entrava nel petto fino alla guardia, spaccandogli il cuore. Il thug rimase un momento col corpo ancora diritto, gettando sul suo avversario un ultimo sguardo d’odio, poi s’accasciò, mentre un getto di sangue gli usciva dalle labbra. La Tigre dell’India era morta! Tremal-Naik e Yanez, vedendola cadere, si erano slanciati nella stanza vicina dove in un ricco lettino, incrostato di madreperla, dormiva fra coperte e lenzuola di seta una bambina dai capelli biondi. Tremal-Naik con un rapido gesto l’aveva sollevata, stringendola freneticamente fra le braccia. — Darma! Bambina mia! — Babbo! — aveva risposto la piccina, fissando sul bengalese i suoi occhioni azzurri. Nel medesimo istante un rombo formidabile scosse la casa fino alle fondamenta, seguito da un clamore immenso e da un furioso tuonare d’artiglierie e di carabine. — Gli inglesi! — s’udí a gridare Sandokan, che si era precipitato verso la veranda. — Sono saltati gli ultimi bastioni! Sí, erano gl’inglesi che, tramutati in ladri ed assassini, avevano fatta irruzione nella città saccheggiando e massacrando la popolazione che fuggiva e che davano un ben triste saggio della civiltà europea. Fino dal giorno prima avevano prese tutte le misure per un assalto generale, occupando la linea di difesa della trincea d’acqua, la trincea del bastione dei Mori e la porta di Cascemir ed ai primi albori si erano rovesciati sulla città dopo un terribile combattimento sostenuto dinanzi la porta di Cabul, dove gl’insorti spiegarono un coraggio straordinario, uccidendo agl’invasori cinquecento uomini, otto ufficiali e ferendo il generale Nicholson. Urla spaventevoli s’alzavano da tutte le vie, accompagnate da scariche tremende. Si combatteva disperatamente dappertutto mentre le donne e parte degli abitanti fuggivano in massa verso il ponte di barche per sottrarsi alla strage. — Fuggiamo anche noi, — disse Sandokan, che vedeva avanzarsi al galoppo alcuni squadroni di cavalleria che sciabolavano senza misericordia i fuggiaschi, uomini, donne e fanciulli travolgendoli sotto le zampe dei cavalli. Se ci sorprendono qui potrebbero passarci a fil di spada, quantunque possediamo la lettera del governatore ed il salva-condotto. Cerchiamo, se è possibile, di riguadagnare il nostro bengalow. Avvolgi Darma in una coperta, Tremal-Naik, e sgombriamo senza perdere tempo. Presero le carabine e scesero le scale a precipizio. Dietro la palazzina s’apriva un vasto cortile che confinava con dei giardini. — Varchiamo la cinta e rifugiamoci fra le piante, — disse Sandokan. — Lasciamo passare la cavalleria. Stavano per scalarla, quando la porta del cortile fu abbattuta e una frotta di fuggiaschi, per la maggior parte donne e fanciulli, vi si precipitò dentro mandando urla disperate. — Troppo tardi! — esclamò Sandokan, afferrando la carabina. — Eccoci in un bell’impiccio! Sette od otto cavalieri, che avevano le sciabole insanguinate fino all’elsa, avevano fatta pure irruzione, urlando ferocemente: — Ammazza! ammazza! Sandokan con un salto si era gettato dinanzi ai fuggiaschi che si erano rifugiati, piangendo e gridando, in un angolo ed aveva puntata risolutamente la carabina verso i soldati, che si preparavano a massacrare quegli infelici. — Fermi, bricconi! — tuonò. — Voi disonorate l’armata inglese! Fermi o vi fuciliamo come cani idrofobi! Tremal-Naik, affidata la piccola Darma a Sirdar, e Yanez si erano collocati ai suoi fianchi, coi fucili imbracciati. — Spazzare via quei miserabili! — gridò il sergente che comandava il drappello. — Bada! — disse Sandokan. — Noi abbiamo un salva-condotto del governatore del Bengala e se non obbedisci ci difenderemo. — Giú a sciabolate! — comandò invece il sergente. Già i suoi uomini stavano per lanciare i cavalli, quando un ufficiale seguito da una dozzina di cavalieri, fra i quali se ne vedevano alcuni di colore, entrò nel cortile gridando: — Fermi tutti! Era il luogotenente de Lussac che giungeva coi malesi lasciati al bengalow. Balzò a terra stringendo la mano a Sandokan ed ai suoi amici, poi volgendosi verso il sergente che lo guardava confuso, gli disse: — Vattene! Questi uomini hanno reso al tuo paese un servigio tale, che nessuna ricompensa basterebbe a pagarli. Vattene e ricordati che è da vile assassinare delle donne. Mentre i cavalleggeri uscivano precipitosamente, dai suoi fece rinchiudere la porta, dicendo: — Aspettiamo la fine della battaglia, amici. Io son qui a proteggervi. — Avrei amato meglio andarmene, — rispose Sandokan. — Non abbiamo piú nulla da fare qui. — Domani, se le stragi saranno finite. Povera Delhi! Quanto sangue! Qui l’esercito inglese vi lascerà il suo onore! CONCLUSIONE Tre giorni durarono le stragi di Delhi, stragi orrende che strapparono un urlo d’indignazione non solo fra le nazioni europee, bensí nell’istessa Inghilterra. Gl’indiani, sapendo la sorte che li attendeva, disputavano palmo a palmo il terreno, combattendo disperatamente nelle vie, nelle case, nei cortili, entro e fuori le cinte, sulle rive della Giumna. Erano rimasti ancora in loro possesso il palazzo reale, il forte Selinghur e parecchi edifizi porticati, e opponevano una resistenza degna della piú alta ammirazione. La sera però del 17, aperta una breccia nel muro del ben guarnito cortile dei magazzini, gl’inglesi espugnavano il palazzo reale, che era difeso da centoventi pezzi d’artiglieria e passavano a fil di spada tutti i difensori, compresi i figli dell’imperatore, caduti eroicamente colle armi in pugno. Il 18 anche la batteria dei Kiscengange, che era armata di settantacinque cannoni e che costituiva l’ultima difesa degl’insorti, veniva oppressa sotto il fuoco formidabile dei grossi pezzi inglesi ed i difensori subivano egual sorte di quelli del palazzo reale. Lo stesso giorno anche il kotuali o municipio della città cadeva e cento cinquanta indiani, fra i quali parecchi membri della famiglia imperiale, che si erano arresi dietro promessa d’aver salva la vita, venivano fucilati ed impiccati dinanzi all’edificio! Il 20 Delhi era tutta in mano agl’inglesi e allora ne seguirono scene spaventevoli e carneficine inaudite, degne dei selvaggi della Polinesia e non di gente incivilita e di europei. Migliaia e migliaia d’indiani furono massacrati dalle truppe ubriache di sangue e di gin, che piú nulla ormai rispettavano, né sesso, né età, e la città intera subí un saccheggio spaventevole. I valorosi difensori della libertà indiana caddero tutti, dopo d’aver trucidate colle proprie mani la moglie e le figlie perché non cadessero nelle mani dei vincitori. Il 24 Sandokan ed i suoi compagni, dopo averne ottenuto il permesso dal generale Wilson, lasciavano la disgraziata città dove migliaia e migliaia di cadaveri cominciavano ad imputridire nelle vie e nelle case e dove gl’inglesi continuavano ad impiccare e fucilare i vinti. De Lussac, nauseato da quelle barbarie, aveva chiesto ed ottenuto il permesso di accompagnarli a Calcutta. Ormai l’insurrezione era domata e solo il prode Tantia Topi, colla bellissima e fiera Rani di Jhansie ed un pugno di valorosi, teneva ancora alta la bandiera della libertà, fra le folte jungle e le immense foreste del Bundelkund(). Quindici giorni dopo, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik con Darma, dopo d’aver ricompensato largamente Sirdar e d’aver lungamente abbracciato il valoroso francese, che li aveva cosí validamente aiutati nella terribile impresa, s’imbarcavano sulla Marianna, salpando per la lontana isola di Mompracem. Surama, che aveva ormai conquistato interamente il cuore del flemmatico Yanez la tigre e Punthy li accompagnavano.