Francesco Domenico Guerrazzi LO ASSEDIO DI ROMA PROLEGOMENI Roma! E’ corre vecchia fama che Roma sia parola arcana, e significhi Amor, ed io ci credo, però che sappia come l’Amore nascesse ad un parto insieme coll’Odio; ora Roma, appunto rappresenta l’Amore indomato del sangue latino alla terra latina, e l’Odio religioso contro lo straniero da qualsivoglia plaga si muova per contaminare la terra latina. Roma crebbe la sua terra con la polvere degli stranieri: e fu giustizia; ma poi le piacquero i gaudi della strage, e la voluttà acre dello imperio del mondo; allora si accese contro lei l’ira di Dio; i barbari vennero da contrade rimotissime prima a rovesciarla nel sepolcro, poi a seppellire lo stesso sepolcro. Però che anco sepolta Roma metta spavento. E tuttavia, in fondo del sepolcro sotterrato Roma meditò un’altra signoria; all’antica rete dalle maglie di ferro sostituiva la rete sacerdotale dalle maglie di fede, e gittatala su le coscienze imprigionò da capo molta parte del mondo. Anche questa fu colpa, e più trista della prima, però la vendetta ne dura più lunga. I padri nostri peccarono e noi portiamo il peso delle loro iniquità. Veramente ella si merita il saluto di Niobe delle nazioni; lei a buon diritto appellano madre le anime desolate; veruna città patì maggiori ingiurie di lei: qui, pure ieri, al popolo romano plaudente alla libertà il littore francese disse: basta, e il popolo tacque, e qui, mila e mila anni fa, il soldato gallo che profanò temerario la veneranda canizie del senatore cadde col cranio fesso dal colpo dello scettro di avorio. Di cui la colpa? Colpa è di coloro i quali mentre Roma, e Venezia arieno ad essere i punti estremi della cote su cui arrotare il ferro, e la virtù italiana gittarono dentro lo spazio che intercede tra una terra e l’altra viltà, avarizia, ogni maniera di malvage passioni, e ignoranza e ne tramarono il lenzuolo dentro il quale si avvolgono i popoli diventati cadaveri. I preti quando dintorno rintrona il ruggito del lione tremano, e fuggono; allorchè poi vedono accostarsi le volpi dicono: perchè ce ne andremo? Non siamo volpi anche noi? Il crisma del Signore non fabbrichiamo noi altri? Sicchè, se siamo unti non si domanda nè anco! Quanto a corone noi ne portiamo tre. I preti ci procedono acerbamente nemici: chi li potrebbe condannare? Certo non io. Di vero, chi oggi ha in mano il freno d’Italia non li sa satisfare nè spengere, bensì intende arrostirli a lento fuoco come san Lorenzo, ovvero scorticarli a mo’ di san Bartolommeo; e questo i preti ben possono con orazioni panegiriche levare a cielo, e chi lo patì, onde altri lo riverisca, riverire, ma non sostenere essi. La Chiesa non ha più mestieri di martiri; cessò di essere militante per diventare trionfante; se a taluno cui rimase addosso la vaghezza del martirio vuole cavarsene la voglia se ne va lontano lontano nelle parti degl’infedeli, però, che tra noi correrebbe il rischio di trovarsi chiuso in qualche manicomio, ovvero in prigione; dacchè le coscienze abbiano ad essere libere, e persona deve possedere la facoltà di turbarle. Ognuno viva tranquillo nella religione dei suoi padri, nè deve mutarglisi con violenza, o insidiare con fraudi dove non appaia mostruosa per pratiche nefande; il che accade solo tra gente selvaggia; lassù in fondo oltre le stelle vigila per tutti Dio, e le diverse religioni del mondo sono quasi assise diverse di un medesimo signore, e bandiere di uno stesso capitano. Così piaccia al Padre delle cose e degli uomini versare sul capo dei mortali insieme con la luce la benevolenza, affinchè le tavole della sua legge compaiano norme di vivere faterno non bersaglio posto davanti ad arcadori irrequieti. Ma tu dirai: e chi vuole martoriarli? Io intendo tôrre loro il governo dei beni terreni. E chi sei tu che presumi spogliare della sostanza il prete? — Il prete dice: in nome di cui vieni? Quale rappresentanza hai? Come mostri che governerai meno di me soperchiatore ed avaro? Un solo è padrone della terra, questo si chiama popolo. Io non mi sento muggire intorno le onde del popolo. Sorgano intorno a me anime latine, ed io cederò alla grandezza latina. Se per te il danaro è sangue, egli è sangue anco per me; e con quale giustizia mentre il secolo rappresenta una corsa forsennata, un lupercale, un baccanale a traverso tutti gli articoli del codice penale per agguantare il milione dovrò lasciarmi tôrre la camicia io prete, io prete, uso di cavarla altrui, e cantare il Te-deum? Ed io prete, ho mestieri di tenermela cara meglio di voi perchè voi altri andate in Borsa, convenite in Camera, tendete trappole di strade ferrate, aprite reti di crediti fondiari, vendete, barattate, mercate, ma io non ci vado, e a sopperire ai miei bisogni non mi avanza altro che la rete di San Pietro a cui per vetustà ora casca questa, ed ora quell’altra maglia. Qualche prete in Camera andò, ma scarso, e parve pauroso, ma per un’abbadia si mansuefece; di fatti, il modo più sicuro onde uomo taccia sta nello empirgli la bocca; dunque come presumete che altri non fiati levandogli quello che da secoli gl’imbandirono dinanzi la industria propria e la ignoranza altrui? Sacerdoti e Sacerdotesse si rassomigliano tutti; Alessandro strinse la Pitia nelle sue braccia, e la sforzò a rivelare lo spirito del Dio; anche il Papa a quel mo’ intenderebbe ragione; se vuolsi, che il sommo Pontefice si accosti al cielo sollevatelo con mani poderose di sopra la terra. Finchè domanderete Roma come il pitocco la elemosina voi non l’avrete; Roma, di cui i cittadini dispensavano le corone ai Re come soldi, patireste voi vi fosse data come un soldo? A Roma si va ma con cuore, con braccia, e con passi romani. E questo è vero. Ma quando Roma avrà Romani sparirà il sacerdote? Non credo. Potrà egli dunque ridivenire poeta, legislatore, e guerriero? Nè manco questo credo. Potrà, se vuole, durare poeta, e Pio IX lo fu un momento quando nella procella che abbatteva imperi e regni, come fronde in bosco, ravvisava il soffio di Dio; la umanità è cosa che passa sopra mondo, che passa; ma il suo cuore anela la eternità; il sacerdote, se gli basta la mente rimarrà su la terra pilota per indicare alle generazioni che le mille vie lattee sono altrettanti sentieri pei quali le anime dei buoni arrivano al seno del Padre delle cose e degli uomini. Io non so se ad uomo sia dato vivere secoli; lo dicono, ma non ci credo, comunque vive adesso in Italia un’uomo che pare anima romana dimenticata dalla morte: da questo un dì mosse un grido potente, che disse: a Roma. Gli furono addosso i nemici, e degli amici quelli, che si erano fatti della Patria una pentola per cocervi gli alimenti di casa. Le anime romane udirono nelle antiche sepolture la voce, e parve loro antica e conta, sicchè rimescolaronsi, e sollevarono i coperchi. Dalle dimore della morte dei vecchi padri usciva un’alito, che bastò ad infiammare il petto dei pretesi vivi di mirabile ardore. E vi hanno cose che non si possono ridire, come ve ne sono di quelle, che non si possono rappresentare. Timante, pittore, non velò la faccia di Agamennone presente al sacrificio della figliuola Ifigenia? Chi potrà favellare della ignominia di Aspromonte senza sentirsi il cuore trasalire nel petto come leone in gabbia? Imperciochè, qui stava il punto: il Garibaldi aveva ragione del torto altrui. Veruno, ch’io sappia, considerò cotesto caso sotto il suo aspetto giusto ed unicamente vero; Giuseppe Garibaldi dittatore, pigliando su di sè non essere mestieri Assemblea costituente per fermare i patti dell’annessione di Napoli al Regno italiano, mallevò che le cause le quali lo persuadevano sarebbero state compite e subito; perchè opera interrotta affligge più dell’opera ruinata, significando la prima impotenza o inanità di consiglio nel fabbricatore, la seconda, forza di casi, ed empia virtù del tempo; del primo fatto, la colpa sempre intrinseca, e in facultà tua o astenertene, o emendarla; del secondo, nè tua, nè a te concesso riparare. — Il Garibaldi si trovò nella condizione del garante quando manca il debitore principale: tremendo carico gli stava addosso per la Patria, pei popoli fiduciosi in lui, per la democrazia, per la propria fama, patrimonio suo, ma e ad un punto e della Italia. Gli uomini di arme, comunque nella mano prodi, ai nostri giorni ci diedero e ci danno tali e tanti esempi di miserabilissime calate, che il Garibaldi sentì il dovere di mettere fuori la sua apologia: ora cotesta maniera di apologie si scrive col sangue; ed ei col suo sangue la scrisse. Il Garibaldi mostrò essersi ingannato, come il popolo s’inganna spesso perchè generoso e fidente. Di qui, se arguto intendi, comprenderai le ragioni ond’egli solo, o quasi, e certamente non in sembianza di cui si apparecchia a combattere, egli si accinse a compire il suo debito: alla espiazione bastava solo: e di qui il motivo pel quale sopraffatto, crebbe, nello amore del popolo: la gloria di capitano invitto rimase intera a colui, che debole ed aborrente la zuffa, si trovò circondato da eserciti, e da condottieri bramosi di sangue; la gloria di onesto crebbe; e il popolo italiano oggi ha sete, gli è proprio assetato di Onestà. Il Garibaldi Anteo del nostro secolo, o lo rovescino a terra, o lo sollevino al cielo raddoppia sempre la forza; vicino a terra gliela somministra il popolo; accosto al cielo gliela partecipa Dio. I coperchi degli avelli romani sollevati dalla voce del Capitano del popolo non si sono richiusi; come tante bocche aperte gridano: — codardi! eroi da teatro! a Roma non si va che con ardimento romano. Roma venne tratta dinanzi come l’arco di Ulisse; bisogna curvarlo o morire. O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca. Ma intanto che i fati si compiono, bisognerebbe che gl’intelletti divini imprendessero due compiti, pure aspettando d’imprendere il terzo. — Roma un dì ebbe il popolo; — a ripigliarsi Roma, giorno e notte si travaglia il popolo; — il popolo, in avvenire prossimo, si acquisterà Roma. Pertanto alla Italia adesso farebbero mestieri tre uomini, Omero, Macchiavello, ed Erodoto... il guerriero ci è. Omero per consolare con la luce del canto le anime di coloro i quali da tutte parti d’Italia convennero a Roma a fare la prova con documenti di sangue, che la Città eterna è patrimonio degl’italiani. Macchiavello per insegnare con quali modi i popoli caduti ritornino in fiore, e come i deboli devano adoperare per rifarsi gagliardi; — e più ancora chiarire le menti, che ogni disagio deva sopportarsi a patto di costituirci nazione. Se il Demonio, o volesse, o potesse venire al mondo per istrascinare nel suo inferno Papa, e Borbone, e di ogni risma stranieri, ben venga il Demonio; noi lo saluteremo: Demonio I rè d’Italia; purchè venga armato di ferro, e di fuoco. Erodoto, il fortunato, il quale poichè la Italia andrà famosa di battaglie come quelle di Maratona, di Platea, delle Termopili, di Salamina, e di Mycale, potrà sotto la ispirazione delle Muse dettarne la Storia, e leggerla al popolo fatto per entusiasmo divino nelle Olimpiadi e nelle Panatenee nostre. Le storie dei grandi gesti scritte dal popolo, solo la Immortalità accetta e ripone dentro i suoi archivi; dalle altre, dettate da gente di corte e venduta, ella ritira le mani come da cosa immonda. Ora in Italia dov’è Omero? Dove Macchiavello? In qual terra nacque Erodoto? E lasciamo questi ingegni magni da parte.... dov’è chi accenni portare sul capo la fiammella del Paracleto fra noi? Come l’uccello, secondo la stupenda similitudine di Dante, che su l’aperta frasca fisa la plaga di oriente pure aspettando che sorga l’alba, io mi volgo da tutti i quattro venti, smanioso di vedere sorgere la luce nuova di faccia a cui gl’ingegni nostri diventino quale si fa il lume di candela quando splende il sole nella gloria dei suoi raggi; ma, ahimè! da lungo tempo io lamento il secolo apparirmi simile all’uffizio della settimana santa dove al finire di ogni salmo spengono un cero; ed oscurata la chiesa, si annunziano poi le tenebre con le battiture. Senza paura, come senza offesa io lo dirò; non basta la gagliardìa; anco i gladiatori erano forti; e corre gran tratto tra coraggio, e coraggio; anco i gladiatori erano animosi, e sostentavano la vita per darsi la morte dinanzi ai Quiriti. La vita consolata da affetti, decorosa di sapienza, pura da colpa è sagrifizio degno della Patria; chi butta là la vita bestiale, fastidiosa, e contaminata offre alla Patria la offerta di Caino. I sommi capitani in antico comparvero eroi però che con lo intelletto intendessero e col cuore sentissero quello perchè combattevano, e palpitassero prima per la Patria poi per loro; nè le armi, già instituto di vita o fine delle azioni, bensì, mezzo o via per tutela della Patria, e della famiglia. Cincinnato, compita la guerra, ripigliava il solco interrotto nel campo paterno. Oggi, si corre dietro a’ gradi della milizia al pari che dietro una prebenda, e il divario, che occorre tra un capitano e un canonico, gli è questo: che uno si procaccia il vivere con la spada, d’altro, se lo procura col breviario, onde se non trovi canonici che abbiano genio di capitano, ti occorrono qualchevolta soldati che arieggiano anco troppo del canonico; nè questo giudico il peggio. Le armi appartate dal vivere civile, e sceme di dottrina, e piene di presunzione tu reputa addirittura minaccia non sostegno di libertà; il soldato ignorante e il mastino della tirannide. Erodoto, Senofonte, Socrate, Epaminonda di Tebe, Arato di Sicione capitani furono e filosofi; la spada in tempo di pace mettevano per segno in mezzo alle pagine dei libri della sapienza, però, quando ne la traevano fuori non si correva pericolo che senza accorgersene essi l’adoperassero a danno della Patria, e in pregiudizio della Libertà. La milizia incivile ha educato fra noi gente misera a un punto e contennenda; poichè non la menò diritto al canonicato, fastidisce i lavori dagli studii rifugge, irrequieta sempre e bisognosa di sommovere le acque per pescare nel torbido; al contrario di quanto disse stupendamente il Danton, si porta la Patria sotto le suola delle scarpe. Morte degli studii onorati, come del senno politico, del senso morale, di tutto che compone l’onesto vivere civile il mestiere dei Giornalisti. In questa maniera di scrittura convennero la mediocrità astiosa, la calunnia che si vende, la presunzione ventosa, insomma quanto di più volgare, e di più tristo deturpa la razza umana. La più parte dei Giornali, macelli di malacarne, dove i quarti della coscienza degli scrittori tu vedi appesa ai ganci per ritagliarsi a minuto. E’ par bello ai dì nostri vendere a peso, e a misura ciò che altra volta avrebbe condotto sopra la panca dell’accusato; chè, appunto quegli che fu commesso alla custodia della legge, e all’onore dei cittadini paga co’ denari del pubblico i laceri contro la legge, e l’onore dei cittadini. Gli è il saturnale dei maestri di scuola senza scolari, di causidici senza liti, di medici senza ammalati, di ghiottoni di ogni risma; ai quali larvati dell’anonimo sembra grazia, ch’era follia sperare, rifarsi dell’astio contro cui per virtù, o per ingegno, o per servizi resi alla Patria primeggia; sfogare lo infinito veleno che gli affoga; industriarsi ad avvilire altrui onde abbiano gaudio della propria viltà Giornalismo sifilitide schifa della Libertà. — Cristo! che alluvione di pantano si distese per tutta la Italia. E Cristo, tuttochè mansuetissimo fra le creature, quando gli occorse il tempio contaminato dai pubblicani e dai rivenditori, a colpi di flagello li cacciò via dal portico; e vendevano mercerie, o commestibili; i Giornalisti poi vendono la coscienza, e non mica nel portico sibbene dentro il tempio, anzi nel santuario, dove impugnato il corno dell’altare della Libertà, in nome della Iddia pretendono asilo. E tuttavia come cosa barbara gli asili antichi abolironsi, e chi vi rifuggiva s’ingegnava sottrarsi alla pena di delitto commesso, e forse gli rimordeva la colpa; ad ogni modo costui o non poteva o male rinnovare la colpa mentre i Giornalisti abbracciano l’ara della Libertà per continuare impuni i misfatti; nè di altro sentono rimorso, che di non avere fatto peggio. Per tema di offendere l’altare nel colpire il nefario, che lo abbracciava quando tenni in mano la scure del potere, aborii adoperarla; nè me ne astenni solo, bensì curai, che i diari infesti e pieni d’ingiustizia liberamente si propagassero: non sono vanti questi ma verità, e fossero vanti, veruno può contrastarmeli; però, molto meno privato cittadino devo adoperarmi a restringere per anticipazione l’esercizio liberissimo delle facoltà dell’uomo; tanto però ho chiesto, ed in tanto insisto, che ogni scrittore apponga il nome sotto il suo scritto; questo impongono la giustizia e la buona morale, e dacchè gli scongiuri mossi a custodia di cose siffattamente necessarie non sortirono l’effetto desiderato; intervenga la legge e comandi; pei trasgressori metta le pene. Ai liberi uomini sconviene camminare come i topi nei cunicoli; e quando troppi, rodendo le staminare al buio pongono in pericolo la nave, il marinaro li leva di mezzo con la stufa. — Nè mi acqueto punto all’obietto, che in fondo al Diario occorre il nome del Direttore il quale malleva di tutto, perchè il Direttore sta lì per finzione, nè si può disprezzare altrui per finzione, e molto meno trovo giusto punirlo; e poi sovente il Direttore si sceglie per la ragione, che natura ed arte gli foderarono la faccia di zinco sopra ogni altra creatura umana; non potrebbe toccare mai a cittadino onorato peggiore fortuna, che prendere briga con taluno di quelli che si appellano Direttori di Giornali; chi con le mani ignude vorrebbe raccattare lo scorpione...? Anco questo il popolo si abbia per segno di Libertà verace; — il cessare la compra e vendita delle coscienze co’ danari spillati dal sudore del popolo per difendere le colpe e gli errori dei governanti, e per assassinare i cittadini dabbene. Da sè il Governo libero e degno di popolo libero si difenda aperto, franco, ed ardito, e cacci da sè lontano i sicarii; perchè, che cosa mai altro sono gli scrittori comprati se non sicarii della penna? Si, sicari della penna. E questo fu detto, e lo andremo ripetendo, finchè la esecrazione pubblica non gli abbia presi a sassi: ella è la morte dei lupi affamati; tornate, o paltonieri, ai solchi aviti, che vi piangono lontani, tornate magari nel ghetto a vendere ciarpe, scorticate clienti, uccidete infermi, tuffatevi rospi nel sembiante, e più nell’anima nei fanghi del Sebeto e della Dora; tutto men peggio, che vedere caduta la Patria tra gli artigli di questi sciagurati adoratori della nuova Trinità d’ignoranza, di prosunzione, e di viltà, ch’essi hanno inventato per uso loro e dei loro divoti. Intantochè la stampa, pari all’asta di Achille, non abbia curate le ferite che ha fatto, sopportiamola come si sopporta il fumo che precede la fiamma, letizia degli occhi e ricriamento delle membra assiderate. Poichè questa nostra resurrezione, mercè la setta stupida ed iniqua, che sì argomenta, assai si rassomiglia ad un campo-santo, e poichè l’alba con tanta ansietà aspettata si manifesta col raddoppiare del buio, mi proverò io a compire il debito della nuova generazione: nelle notti di estate, quando l’oscurità afosa ingombra fitta la terra, anco la lucciola pare una stella. Una volta io possedeva una cosa buona, e la gioventù un’altra, cento cotanti migliore; io aveva il braccio forte, la gioventù un petto pari all’antico ancile lo scudo venuto dal cielo, onde allorchè io ci battevo sopra, quel cuore-scudo sprizzava scintille d’ingegno e di virtù; ora, vedrete, il suo rumore sbanderà impauriti i giovani quasi colombi alla pastura. Mi si dice esserci noi discostati dalla servitù; questo può darsi: io domando questo altro: di quanto ci siamo accostati alla libertà? — Tu gitti, mi si risponde, sopra la carta la tua anima come lava ardente, e veruno ti torce un capello; un dì per questa colpa quante carceri hai tu visitato? — È vero, io sussurro sgomento, ma la carcere ci appariva gioconda quasi stanza nuziale, perchè l’onda delle passioni popolesche sommossa dalle nostre parole, ne percoteva i muri come mare in tempesta: confidavamo che le sarebbero state seme di verace libertà: — coraggio, gridavano l’uno all’altro, erpichiamoci anco su quel dirupo, superato quel monte, addio nevi, addio dolori, e fatiche; la Libertà ci aspetta tutta amorosa a mo’ che apparisce la sua benedetta culla, la Italia, a coloro che scendono giù dal Moncenisio. Affascinati gli occhi dalla divina speranza, chi sentiva le piante lacere dal tormentoso cammino, e chi, sentendole, avrebbe ardito lamentarsene? Ora, valicato quel monte ci sorge davanti un’altro monte più aspro, e rigido di ghiaccio; i cagnotti dell’antica tirannide, mutata veste, tribolano come prima; della Libertà accadde quello che favoleggiano avvenisse alla Giustizia la quale volando al cielo lasciò cascarsi la veste; i Giudici di cotesti tempi lontani la presero, la tuffarono nella propria coscienza e la fecero nera; d’allora in poi, gli uomini scambiarono la toga per la giustizia, proprio a quel modo che eglino adesso per lunga stagione, hanno barattato la Libertà con le insegne di lei. E da per tutto così. Poteva durare vitale la Libertà ch’ebbe per compare il marchese Lamartine? Poteva essere Libertà quella, covata dal Barone Ricasoli e compagni, superbi odiatori del popolo più che del sangue viperino? A Parigi, come altrove, e forse lì peggio che altrove, una mano di aristocratici e di sofisti adoperarono il popolo secondo che costuma il ladro della scala per salire alle finestre della reggia, e saccheggiarla in nome della Libertà: piaggiatori palesi della moltitudine, quanto più in segreto la odiavano, non guidatori, l’accesero a brame impossibili; poi la saldarono a cannonate. Il popolo si accosciò sgomento e tu ora (atroce a dirsi!) lo raccogli per combattere guerre, che nulla gli dice essere patrie, nella guisa stessa che traduci in vincoli il malfattore affinchè paghi la pena. Con la faccia china alla terra bagnata dal suo sudore, il popolo mormora: ora e sempre, questa terra rappresenta per me travaglio disperato, e sepolcro miserabile. Chi basso, chi alto, ma fin qui tutti quelli che vedemmo succedersi, ombre grottesche di lanterna magica sopra la parete avversa, ci hanno intonato agli orecchi; — servi, paga, e ce ne avanza. — Nè ometto qualche altra cosa, che è questa: — scegliti prima il padrone, e poi, quando ti chiameremo a pagare il tuo tributo di sangue corri a gambe; se meni un solco lascialo a mezzo come costumò il Putnam americano; se ti manca cucire gli ultimi punti ad un’abito, buttalo là; se la chiamata ti coglie mentre ti curvi a baciare nella culla il tuo figliuolino, rompi la curva, e vienne via; se abbracci la tua consorte sciogliti e respingila; se cali adagio adagio l’amata salma paterna nella fossa, scaraventala giù di tonfo, corri a salvare la Patria tutto di un fiato — emula Euchida che nel giorno stesso preso il fuoco a Delfo ritornò a Platea di tutto corso facendo ben cinquanta leghe di cammino, e portò il fuoco, dopo salutati i cittadini morì; e bada qui, sta’ attento, la Patria siamo noi. La Libertà è cosa oltre ogni estimativa preziosa, bisogna che tu popolo la paghi cara, anzi carissima. Lo ha detto chi non poteva fallare. Ma dove alberga, di grazia, e come ha faccia la Libertà? La Libertà è pianta che cresce; e vive a Torino, dove gli alberi privi dell’onore delle foglie paiono spettri sette mesi dell’anno; là Libertà, guardaci bene, è fatta ad immagine nostra. Insomma, come la donna adultera della scrittura, questa setta empia si frega i denti e dice: — io non ho peccato! — All’opposto, sfrontata e bugiarda dopo avere seguito da lontano il Lione del popolo e dopo essersi, sozzo Jakallo, pasciuta dei suoi rilievi, montata su i trampoli, strilla: — -io feci, io fui. Sembra impossibile a qual punto d’insania ella trascorra, perocchè adesso senza impeto alla scoperta ti affermi: — tarlo della Monarchia, io m’imposi; trovo il mio conto a roderla, e con lei mi sto, nè fie che me ne diparta finchè io non miri il popolo in procinto di empire le città di sangue con battaglia cittadina. Il popolo ode queste sentenze uscire dalla bocca di coloro, che gli si professavano amici; leva gli occhi lenti e tardi a guardarli; li nota e ruguma sopra i tempi passati, e gli avvenire. E a noi, che gli parliamo parole di speranza, e gli diciamo: «non badare a cotesti insensati, è una eclissi che passa, una nuvola traverso la faccia del sole; ripiglieremo la via interrotta, cesseranno le mostre sceniche, i giorni delle vere battaglie torneranno, i generosi sul campo daranno e riceveranno perdono; — il popolo brontola cupo, e scorrubbiato: — via di qua poeti, perchè storcerete voi sempre il senso alle parole? E che prò trovate a nascondere la realtà delle cose? Lo hanno dichiarato espresso, bisogna combattere, e vincere, allora e solamente allora ci daranno ragione; essi hanno torto, e lo sentono, ma la legge adoperano come della lacciaia i butteri; chi preso tentenna, sente stringersi il collo. Per quanto amore portate a Dio lasciatemi stare; io non vi chiamerò perfidi ingannatori, ma ingannatori siete perchè vi ostinate a volere essere ingannati. Ormai, dinanzi al popolo la setta empia mette due vie, quella di buttarsi sopra la terra e confidarsi nel tempo che consuma il tiranno e lo schiavo, i re, e i popoli, che logora le catene, e i polsi, i flagelli, e le schiene, appo cui tutto è foglia che disperde il verno; il tempo che ogni cosa travolge dentro ai sepolcri. Ah! poichè il sommo Creatore non volle impedire alla ingiustizia di ramificare le sue potenti radici sopra la terra a sollievo di tanta amarezza mandò la morte. — E’ pare insensato, ma io popolo, affermo solennemente e predico, che senza la morte non potrei più sopportare la vita....» Ecco che ci risponde il popolo adesso che gli favelliamo liberi in tempi che salutano di libertà; prima, le nostre parole scendevano nel suo cuore, auspici la persuasione, e la speranza; adesso la rabbia le respinge pari al demonio che sbatte le porte in faccia all’angiolo, nella divina Commedia. E l’empia setta presume conoscere il popolo, e si vanta tenergli le mani nei capelli. «Esagerazioni! ella esclama, qualcheduno di coloro che a prezzo di vita acquistarono un regno alla Italia morì di fame; forse tal’altro per non patire vergogna portò contro di sè le mani violente; le sono cose che tutto dì accadono, nè per questo se ne «turbano l’ordine delle stagioni nell’anno, nè lo appetito a noi.» Oh! dateci, ridateci i nostri gesuiti, e i vecchi sbirri, e le vecchie manette; dateci tutto, tutto, a patto che ci si ridia il popolo che tremava di odio contro lo straniero, il tempo che al cittadino italiano preso in sospetto di odiare meno l’oppressore della Patria era mestieri ripararsi in istranie contrade, la stagione nella quale un’uomo perchè aveva accettato ufficio da principe assoluto trovò chiusi i cuori e le porte dei suoi amici, la carcere dove si poteva serivere; il Papa vuolsi aborrire per tre tiranni però che porti tre corone sul capo. Non importa, però che l’uomo sia quasi un sasso nella mano del destino e gli tocchi andare dove si sente sbalestrato — e Nemesi duri, la quale vigila eterna; il sonno fugge dagli occhi suoi senza palpebre, il braccio di lei si agita senza posa a percotere le colpe dei mortali: cotesta è gelosa divinità e terribile, dov’ella spinge bisogna andare; conduce i volenti, i repugnanti strascina. È cosa naturale che ogni generazione si consideri la predestinata a compire l’opera del perfezionamento dell’uomo; bene provvide la natura nello infondere dentro l’individuo la baldanza di essere il prescelto a porre l’ultimo sasso all’edifizio; — ma quando l›opera gli si aumenta alla stregua del travaglio, e a mano a mano che sale gli si dilata l›orizzonte davanti agli occhi, allora comprende, generazione o individuo, se essere particola della somma Intelligenza sì, ma particola finita nella sua specie, ma frammento di opera che andrà compita in capo ai secoli, e forse mai. Perchè, quando mancassero le necessità del perfezionarsi, cesserebbero a un punto le cause del vivere, e la umanità priva di passioni rimarrebbe immobile, pari alla nave sorpresa da calma perpetua con le vele pendenti, a infracidirsi sopra il mare morto. Si contentino dunque lo creature umane di formare parte dello edifizio fatale: ognuna fie lodata pel compito, che le venne imposto, e ch›ella valorosamente condusse; e di tanto ringrazi l›Eterno architetto che con gli occhi mortali non potrà vedere il termine della opera manifesta ed intera, le si presenta agli occhi dello intelletto: dove il corpo non giunge, l’anima vola, e se ne appaga. Se poi taluna, o non vede o rifiuta vedere, è colpa di natura se l’uccello non usa l’ale? Vi hanno tre modi di considerare il bene, e tre modi altresì di praticarlo; quanto a vederli basta un baleno della favilla divina chiusa dentro il cranio dell’uomo; circa a praticarli bisogna che la intera umanità acconsenta; io voglio dire lo assoluto, il teoretico, e il pratico; l’assoluto sta lontano lontano quasi al lato a Dio; arduo a conseguirsi, sarà la soglia a piè della quale l’ira, la cupidità, le sventure e la morte lasceranno l’uomo; sarà la porta oltre la quale la creatura umana sublimata a natura angelica assumerà forma e concetto di spirito, il teoretico, comecchè meno in alto, tuttavia apparisce sempre sublime così, che l’uomo dispera di conseguirlo, e pure lo raggiunge non già perchè egli si abbassi verso il pratico, ma si all’opposto perchè il pratico si solleva fino a lui; il pratico rasenta la terra dove lo tirano volgare istinto, voracità, ingordigia, e mente bestiale, e paure; — questo, di verme si muta in farfalla e s’indirizza in su. Se tra lo assoluto e il pratico non intercedesse il teoretico, l’uomo sbigottirebbe, non gli si parando altra via che rimanere lumbrico, o trasformarsi in angiolo. Dall’arrogante prosunzione della setta dei Moderati, oggi a tutto pasto, si bocia: pratico! pratico! — E che sapete voi pratico che sia, e dove arrivi, e come si amministri? Pratico, per voi consiste nel lasciare la società nella fossa dentro la quale si trova; e non alterare le sue condizioni se non in quanto ciò giovi agl’interessi che hanno gittate le loro radici fin dentro le viscere di quella. Gl’interessi oltre i propri di casa e di bottega, sono interessi di eserciti permanenti, di giudici, di preti, di giandarmi, di gabellotti, di gente che invece di produrre consuma... moltitudine d’ostriche aggrappate sul corpo alla balena... o piuttosto male pediculare della umanità. Questi interessi, rinterzati insieme, rabbiosi ed operosi, digrignanti i denti come belve, che si sentano insidiato il pasto, deviano sovente la umanità dal diritto cammino, abbindolandola con errori, empiendola di paure, in mille guise tribolandola, sicchè, da prima, sgomenta, ella si accoscia, poi furiosa, si avventa, e mette a sua posta paura, chè comparisce ella pure, ed è belva; lacera a destra e a manca; la libertà fugge coprendosi per vergogna la faccia. Il sangue marcisce i fondamenti ai troni, non feconda la pianta della Libertà; questo la esperienza insegnò, speriamo gli uomini l’abbiano appreso. I tiranni è bene che lo ignorino. Anco fu causa di maraviglia considerare come la luce, che mandarono le civiltà dei vetusti stati etruschi, greci, e romani andasse spenta dalla molteplice e tutta immane barbarie; ed a torto, dacchè presso cotesti imperi la civiltà che seguita i passi del vivere libero, essendo diventata arnese di oppressione a danno degli altri popoli, la Libertà la rompesse nelle mani loro e fuggisse via. Progresso continuo di Libertà verace non può darsi, che allora quando i popoli della terra, braccio conserto a braccio, non imprenderanno insieme il pellegrinaggio dell’anima pei sentieri della vita: considerate, l’America repubblicana combatte per la conservazione della schiavitù; la Russia emancipa o finge emancipare i servi e affoga nel sangue i Polacchi che rivendicano la libertà; l’Austria giravolta con la Francia per sovvenire i Polacchi di Varsavia, e intende tenere i piedi sul collo ai Polacchi di Galizia, e di Cracovia uno artiglio dell’aquila austriaca si allarga a lasciarsi cascare giù qualche briciola di libertà costituzionale e l’altro stringe per conficcarlo meglio nella indipendenza di Venezia, che è suprema delle libertà; la Prussia sè tribola a intrecciare un cordone dove su venti fili di tirannide pretta ce n’entri uno di libertà; in Francia, dicesi, che da lei si voglia affrancare la Polonia dalla servitù, e intanto ella traversa l’oceano per mettere il Messico in servaggio. Tra noi, il popolo si chiama a creare un Re, e si respinge da eleggersi i suoi deputati; questo è un ribollire di assurdi, perchè in una stessa caldaia hanno buttato alla rinfusa giustizia, e interesse, libertà, e servitù, berretti frigi e corone, diritto divino, e suffragio universale, Dio e il Diavolo... guazzabuglio infernale! Noi siamo sempre nel caos, ma poichè insomma creazione fu spartimento, le materie discordanti si scevreranno da sè; ciò fie doloroso, e potrebbe avvenire anco tardi, ma bisogna che avvenga. Certo, il tempo nel quale viviamo non si può reputare felice, ma nè anco vorremo dirlo infelice: però che se distiamo dal sentiero del perfezionamento, pure siamo in procinto di metterci sul tramite diritto: anco per ciò che spetta a gloria terrena possiamo non lamentarci, perchè il tributo oneroso all’errore fu pagato; e se siamo lontani dal frontone, che incoronerà lo edifizio, ci troviamo altresì lungi dalle fondamenta; ormai gli uomini non passano tutti, mescolati in moltitudine senza nome, e armonizzando nello insieme ci conserviamo nella nostra individualità diversi. Bene altramente infelici coloro che furono travolti nei fondamenti; quante gagliarde nature di uomini, quanti ingegni supremi, quanti cuori generosi ci caddero interi vita, e rinomanza! Verun poeta irradiò quella che parve tomba, e fu culla del genere umano. Nella notte si udirono due voci, ed una era della moglie che piangeva alla quale rispondendo ululava il cane fedele.... poi cessò la prima, e l’altra tacque, ma non per questo fu silenzio; al rumore delle singole creature sottentrò uno strepito profondo ed infinito, la favella dei secoli. Dov’è questa favella? Chi lo sa dire? Nelle nuvole, che passano, nelle ale degli uccelli, che volano, nella terra che crepita screpolandosi all’alito di primavera, nel granito di Mennone che dava responsi quando il sole lo investiva: voci arcane popolano il cielo e la terra, che ascolta solo colui il quale dai cieli fu destinato a sentirle; donde la voce che annunziò la morte del gran Pane? E donde quella che avvertì Apollonio Tianeo in Alessandria in quello stesso punto cadere trafitto Domiziano a Roma? Vanno ingombre le storie di annunzi di vittorie portati dalle ali dei venti. Chi per abito suole dubitare, afferma: le sono ciurmerie di empirici; — veramente molti uomini, reputati illustri, a prova si conobbero empirici; come taluno empirico poi si conobbe intelletto divino, — e si conobbe rovistandone le ceneri dopochè fu arso per mago. Orazio cantò molti forti essere vissuti avanti Agamennone; questo è vero, come altresì vissero anime elette e grandi innanzi di Lino, e di Orfeo; di loro non avanza memoria, anco il nome rimase sommerso, e tuttavia quanta costanza mirabile, e trovati d’ingegno eccellente, ed opere egregie, dolori, affetti, sventure, e tutto affondò nel mare del tempo! Ed essi ebbero a scavare con le mani il granito che col ferro, e con le polveri incendiarie domiamo noi! Ma se si dileguarono nella gloria dei secoli, essi stanno presenti a quella di Dio: il ricordo di loro è scritto a caratteri di stelle nel volume dei cieli: tanto maggiore premio conseguiranno, ed avranno diritto di conseguire quanto meno potrà dirsi loro: avete ricevuto la vostra mercede. Il Giudice, all’occhio del quale nulla è nascosto, quando gli verranno dinanzi le moltitudini degli spiriti senza numero, che pellegrinarono pei mondi, a molti, che le genti salutarono magnanimi, dirà: andate, e crescete la sostanza del Maligno: voi altri poi cui colse il desolato oblio quasi seconda morte, transfondetevi nel mio seno ed aumentato la mia divina sostanza. Questo, mi si oppone, è rimoto, e viaggia con le nuvole nel cielo della poesia; certo io non lo nego rimoto, ed anco immaginoso; ma io vi ho detto, che non procediamo per tempi felici, però che tali non sieno quelli nei quali l’uomo o aderisce tutto al suolo, o tutto si esalta pei cieli; dal primo stato scappa fuori il banchiere, il venditore di ciarpe, lo scorticatore di capretti, il moderato; dal secondo, l’anacoreta della Tebaide, e il bramino dell’India; solo avventuroso è il tempo dove con giusta proporzione puoi compiacere alla materia e allo spirito, andando appunto composto l’uomo di anima, e di corpo: e poichè questo adesso non si può, colpa in molta parte altrui, e moltissima nostra, di concetti divisi, e di forze infermi, meglio che curvarci alla terra, sarà bello lasciarci trasportare colà donde la nostra stirpe ci comparisce un brulichio di formicole divorantisi fra loro sopra una zolla di argilla. Dunque tu ti commetti in Dio? — Veramente l’uomo deve confidare in sè, ed in Dio; ma troppe cose vi hanno nel mondo a compire le quali l’uomo solo non basta; perochè niente o solo torni lo stesso; e finchè dura il flagello che disgrega le menti e i bracci dei mortali, ripariamo in Dio. A Dio poi è più difficile discredere, che facile credere: creature noi, use a vederci sorgere obietti dintorno creati per natura o per arte, come possiamo immaginare cosa non creata? Se Dio non fosse bisogneria inventarlo, affermano che sentenziasse il Robespierre, e s’ei il disse, fu favilla che uscì dal ferro. Noi abbiamo bisogno di Dio, nè possiamo fare a meno di credere così quando pensiamo al numero infinito degli uomini cui sembra fosse dato un cuore solo per sentirselo ferire, e braccia per portare catene, e sangue per versarlo su i campi, e su i patiboli, — e labbra, pur troppo, perchè ci tenessero incollata sopra la spugna satura del fiele della calunnia, e dello aceto dell’odio; se a tutti questi non fosse venuta ad allietare la idea dell’eterno Riparatore, quale mai tormento inventato dal demonio in un’estro di malignità potrebbe uguagliarsi all’amarezza della ora ultima della loro vita? Bella consolazione (esclamava il Generale Pasquale Paoli, che fu quasi il Garibaldi del secolo passato) bella consolazione per un’uomo il quale «per tutta la sua vita si travagliò in benefizio di una Patria, che sta per rinnegarlo; di una Libertà sul punto di voltargli le spalle, che con forze impari, male armate, peggio vestite si trova in procinto di essere assalito ed oppresso dai Francesi dieci volte più numerosi, ordinatissimi, forniti di ogni maniera di arme, squadernargli in faccia, fra un’ora una palla ti spaccherà il cranio, e tu cascherai in tutto e per tutto, zolla di terra sopra la terra!» Speriamo nella virtù altrui, speriamo ad ogni evento in noi, e sempre in Dio. Ora per me sarà divisa questa scrittura in quattro libri diversi di mole, come svariatissimi di stile; nel primo, esporrò il bisogno supremo della Italia di avere Roma. — Nel secondo, il diritto del popolo italiano su Roma. — Nel terzo, quello che il popolo ardisse per ripigliarsi la sua Roma. — Nel quarto, quello che incombe alla Monarchia eletta dal popolo, e quando, di compire su Roma. Forse non sarà giunto a mezzo questo volume, quanto spetta alla Monarchia ella avrà fatto; in questo caso l’opera mia non verrà meno, però che invece di esporre quello che doveva operarsi da lei, con altra voce ormai, con altro cuore, raccolte le forze estreme, celebrerò l’operato; — intendo dire: — la Italia veracemente risorta su le ruine della oppressione dei Papi e degli Stranieri. Il soccorso che mi aspettava dai gloriosi superstiti di questa guerra, non corrispose fin qui ai miei desiderii: non importa; io faccio come Abramo, mi metto in via sperando nella Provvidenza. Deus provvidebit. Per ora mi furono larghi dei loro ricordi il Generale Garibaldi, il Generale Sacchi, il chirurgo maggiore Ripari, il colonnello Cadolini ed altri generosi di cui il nome fie rammentato a suo luogo. Se l’ingrato silenzio dipende, perchè altri dubiti, che per me si possa compire il carico che mi sono tolto, io non me ne dorrò: potrebbe darsi ch’essi avessero ragione pur troppo; — se per modestia, la quale mai sì scompagna dagli uomini veracemente prodi, io affermo loro, e ci possono credere, che inopportuna è qui la modestia dacchè quanto essi operarono spetti meno a loro che ai tempi, e alla Patria; ad ogni modo, se volessero tacere delle proprie, perchè non favellano delle azioni altrui, massime di quelle dei defunti? Corre sacrosanto l’obbligo suscitare la fama dei caduti; io so che i morti anelano alla lode come i vivi alla luce; e pensino, che fratelli essi furono e sono, e che, la prima morte di ferro o di piombo essi ebbero dai nemici... ma la seconda, la morte dell’oblio, essi avrebbero da loro. Questo li muova, ed anco il pensiero, non darsi cosa la quale tanto dissuada da mettersi a cimento pel bene comune, quanto la vista della comune ingratitudine. LIBRO I. Senza Roma non è Italia. Quando scese in Italia, i suoi passi erano quelli di un Liberatore, le sue parole quasi di un Dio. Lo precedeva la Libertà come l’Aurora va davanti al Sole; — a cui ben guardava, vedeva lei non affatto lieta dei bei colori di primavera; nè le sue pupille giocondava pieno il raggio della speranza divina; tuttavolta nè manco appariva austera a modo di sacerdotessa che strascini all’altare di Nemesi la vittima espiatoria; su pel volto le tralucevano, contendenti fra loro la fiducia di essere, e il timore di non essere placata; di tratto in tratto volgeva il capo come chi sospetta di trovarsi non seguitata o tradita. E dietro al Napoleonide veniva lo Spirito del passato; le vipere delle sue chiome pendevano giù morte in sembianza, e rovesciata a terra si tirava dietro la fiaccola senza fuoco; ma quando te lo attendevi meno, talune vipere si ripiegavano all’insù a modo di uncini, attestando non essere venuto manco in loro nè il maligno talento, nè il veleno; la teda poi di tratto in tratto mandava fumo, segno sicuro di fuoco doloso. Egli scese nelle terre d’Italia... e venuto sopra le pianure della Insubria, ordinò alla Libertà gli menasse davanti il destriero, il forte destriero delle battaglie, e la Libertà gli condusse la Rivoluzione. La Rivoluzione appena scorse il Napoleonide puntò i piedi, e drizzò gli orecchi, abbrividì; ma quegli non istrinse labbro, nè aggrondò sopracciglia... le si accostò blando, con dolci nomi l’appella, la brancica amoroso; la Rivoluzione gira attorno repugnante portarlo; pensò egli allora ad Alessandro e al Bucefalo, e dubitando ch’ella spaurisse dell’ombra di lui, la drizzò verso il sole, e saltatole alla sprovvista in groppa, le disse: — va! Non ci era mestiere sprone, anco della voce ce ne aveva d’avanzo, e nulla meno, ei la volle eccitare. La Rivoluzione cominciò prima a correre soavemente, poi mise le ale, volò, imperversò con la procella dei cavalli del sole quando vinsero la mano a Fetonte; allora il terrore cadde su l’anima del Napoleonide e dubitò che la Rivoluzione non trattenuta dalle pianure del mare, lo menasse diritto diritto in mezzo all’Oceano, al cenotafio lasciato vuoto dall’arduo Zio; nell’angoscia del cuore egli si volse allo Spirito del passato, gridando: — aiuto! Allora lo Spirito del passato agitò le chiome di vipere, che si drizzarono tutte fischianti, ed ei se le strappò a ciocche facendone ritorte che gittava tra le gambe alla Rivoluzione; la quale incespicandovi dentro, diè di un cimbotto in terra a Villafranca e si slogò una spalla. — Adesso il Napoleonide la riconduce zoppicando ai presepi, e lo precede lo Spirito del passato: l’erba s’inaridisce sotto i suoi piedi, e la sua strada è pel cammino delle ombre: intanto la Libertà gli ammicca dietro col capo, ed appoggiata ad un’arbore, grida; ti aspetto qui! Che arbore è quello sotto cui lo aspetta la Libertà? L’arbore donde i popoli hanno cavato il ceppo e l’arnese su cui deposero il capo Carlo I e Luigi XVI. Noi abbiamo bisogno di Roma, imperciocchè lo Spirito del passato trascorrendo sopra le nostre teste ci soffi un’aura di morte; e sembra a noi, che ci vada sobillando dentro gli orecchi dell’uomo fatale il concetto antico del popolo gallo nemico allo opere, e al sangue dei latini: al popolo romano nei delirii della potenza, adesso divisa, sostituirsi il popolo francese; l’aquila di Roma morì senza crede, e fu giusto: nè aquile, nè lioni od altri animali rapaci possono somministrare la insegna a cui intende condurre i popoli a reputarsi figliuoli di un medesimo padre. Dura continua nel mondo la fede nella forza, che regna sul diritto come su di un prigione fatto in guerra. Ciò che fu lusinga di cortigiano, la Francia imperiale si travaglia a ridurre in fatto; ed è, che verun popolo al mondo deva attentarsi a dare fuoco ad un cannone se essa non lo consenta. La Francia imperiale si perigliò nelle contrade rimote del Messico per ferire nel fianco l’America repubblicana, dacchè conosca non potere vivere sicura nel mondo finchè la Libertà, ch’ella simula, messa a confronto della Libertà che prorompe da una Repubblica non comparisca falsa. A questi voli cui arieno bastato appena le ali dell’aquila romana, si logorano quelle della Francia imperiale; le sue penne cascarono; prima che toccassero terra se le portò il vento; solo in Algeria vi si posarono; ma per quanto? E poi coteste penne caddero non già all’aquila imperiale, bensì dalle ali dell’angiolo custode dei regi gigli di Francia. Non pertanto, giocatore disperato, lo Impero raccolto nuovo sangue, viene a metterlo a cimento sopra il tratto dei dadi; e se bene intendi vedrai com’egli non possa fare a meno, imperciocchè lo Impero non rappresentando libertà, o che significato avrebbe mai se non fosse forza? Però la Italia ei sovvenne in quanto le diventasse vassalla, scudo, o spada, ma adattati alle sue mani, e nelle sue mani. — Poichè, nè Francia, nè Austria si sentivano capaci di strapparsela dagli artigli intera, si trovarono presto d’accordo per ispossarla con la febbre degl’inani conati; per la pace di Villafranca la Italia apparve un tigre, che menino a spasso legato da due catene in senso contrario; ben’egli può ruggire, ma non avventarsi nè a destra, nè a sinistra: la catena dell’Austria si chiama Venezia, quella della Francia Roma, che rinterzò poi con Nizza e Savoia: più tardi contrasteranno delle due catene fra loro. — La Francia imperiale non crede, o finge non credere, supremo anelito del popolo italiano la integrità d’Italia. Quelli che si misero a capo della rivoluzione nei varii stati d’Italia, da prima, la unità della Patria ributtarono; nè può negarsi, chè le prove abbondano, e dove mancassero lo confessarono ei dessi: e poi non le consegnarono con le proprie mani Nizza e Savoia? Come pretendete voi altri che abbia fede in cosiffatta necessità, se per impetrare licenza di aggiungere alcune provincie alla Corona di Savoia, voi deste a patto due corone delle Alpi? Non fu il popolo, non noi, che respingemmo la Unità affermata col nostro sangue, e con lo spirito della nostra vita; certo non noi, che la predicavamo allorchè i più pietosi fra coloro i quali se ne vantano adesso, ci commiseravano per folli: non fu il popolo, nè noi che consegnammo Nizza e Savoia. — Voi lo vedete, questo è taglio che non si rimargina per tempo; rimarrà aperto, e sanguinoso finchè i nostri fratelli separati dalla violenza e dalla frode non tornino al seno della madre per virtù di amore, e di diritto. La Francia imperiale, io lo vado ripetendo spesso, a’ termini del negoziato ha ragione; ella ha ragione pel torto di quelli che indegnamente ci rappresentarono: non posero essi in iscritto lei avere giusta causa per sospettare d’Italia? La Francia imperiale, maravigliando, non vide stipulare dai magni guidatori del risorgimento italico la necessità in lei di agguantare parte d’Italia alla stregua che questa andava ricostruendosi? Io non vo’ rompere in detti impetuosi, mi reggo con ambe le mani il seno per comprimere i palpiti del cuore; ma chi questo immaginò e compì, non merita certo fama di uomo di stato, nè di patriotta, nè di cittadino italiano; adesso l’errore con lo irrequieto stridere, infesta noi veterani della libertà; i moderati hanno messo su fabbrica di uomini grandi; avendo veduto lavorare mattoni pensarono che i grandi uomini si facessero a quel modo, pigliando una manata di argilla, e cacciatala dentro alla forma spianarla; poi risecca alquanto al sole, cuocerla nella fornace, donde estratta, mettere su mucchio di uomini grandi, e di mattoni. Ma il giudicio, che fruga severo uomini, e popoli sperderà l’osceno schiamazzo e sopra la tomba bugiarda, inalzata dalla abiettezza o dalla insania, porrà una delle torri tradite e seppellirà l’uomo e la sua tomba. Però, le colpe altrui non escusano le proprie; nè quale piglia atteggiamento di liberatore può indurre altrui nel fallo, per approfittarsene poi: queste sono arti di usuriere, che agguindola la gioventù pel babbo morto. Non impunemente si grida ad un popolo: sorgi e cammina; nè senza pericolo proviamo il grido lanciato in mezzo alle genti: ogni nazione è padrona della sua terra: male si adoperano parole da eroi con intenti da ladri. Se gli uomini, i quali voglionsi beneficare con la mente annebbiata dalla vecchia servitù, vagellano offerendoti, o cercandoti cose disoneste, tu memore della magnanimità di Scipione dovevi rimbrottarli come costumò costui quando il popolo tumultuante voleva ad ogni piatto la legge del tribuno Curiazio circa al provvedere alla carestia dei grani: «tacete Quiriti, io so meglio di voi quanto conviene alla salute pubblica.» Quando l’anima nostra sente agitarsi la parte che in lei è divina, più alto non può concepire che sensi romani, nè con parole o con modi più degni significarli di quelli, che i Romani adoperarono; però, vedendo innanzi a te il pedagogo che ti menava, se non per tradimento per follia, parte di genta italica, tu nella maniera stessa che Cammillo fece al maestro dei fanciulli falisci dovevi consegnarlo agl’Italiani con le mani legate dopo le spalle affinchè lo flagellassero. Allora te, come Cammillo, avrebbero salutato Dio, Salvatore, e Padre; e volentieri ci saremmo confessati vinti dalla virtù tua, persuasi che là dov’era tanta giustizia non poteva fare a meno che quivi in sua compagnia si trovasse eziandìo la libertà. Pur troppo la esperienza insegna i buoni pensieri di natura alcalina evaporarsi peggio dell’etere: ma volato il sublime poteva restare il senno onde Erennio Ponzio ammoniva i Sanniti, che il popolo romano sbattessero così che in processo di tempo non levasse più il capo, ovvero co’ benefizi se lo gratificassero per modo che Nemesi pigliasse in custodia; la religione della riconoscenza, e del patto. E se neppure il senno doveva restare in fondo al vaso, perchè non pensasti alla vicenda eterna dei casi umani? Te ne somministrava in copia la tua casa; nè te ne faceva difetto la tua stessa vita. Quanto al paese che la fortuna ti pose in mano, verga o scudo della umanità, potevi ricordare, che un dì Cesare stette ad un pelo di donarlo a Marco Ofrio, assai oscuro cittadino romano, raccomandatogli da Cicerone. Prevalse intero, nella mente della Francia imperiale, il concetto plebeo della Francia regia; e fu tenersi Italia vassalla, e finchè dura nel nappo, bere il vino della superbia a danno altrui; il capo dei fratelli, continui sgabello per salire sublime; i popoli arino per sè, mietano per altri; portino i pesi altrui, le battaglie altrui combattano; il mondo non cessi di comparire un sistema di tirannidi concentriche, in fondo al quale Dio regni, e governi tiranno supremo ed universale. La terra di Francia graviti sul mondo come il destino; il mare mediterraneo diventi lago di Francia; la Francia manderà la pioggia e il ciel sereno su quante terre abbraccia l’oceano; spiriti e corpi stieno legati ad una catena attorta intorno il dito indice della destra di chi impera la Francia. Questo, e non altro, il concetto altrettanto superbo quanto inane; questo, e non altro, il disegno che presumono tenere celato, e tuttavia prorompe di straforo quasi raggio di lume chiuso dentro la lanterna del sicario. — Arzigogoli furbeschi di fraudo vulgare le ragioni onde si presume onestare la perfidiosa ingiuria. — Teme il benefattore imperiale, che l’Austria alla sprovvista ritorni; e se ciò fosse, forse lo starsi i Francesi a Roma nel 1859 trattenne l’Austria da allagare il Piemonte? — Nè certo sono le poche forze francesi stanziate a Roma quelle, le quali varrebbero ad impedire gli Austriaci: bensì la tema della sua potenza, e questa essi hanno o no, sia che i Francesi occupino Roma, sia che non l’occupino, però che dal mare ed anco dal lato di terra abbiano facoltà di sopraggiungere lesti come segugi sopra le pianure lombarde. — E ventidue milioni d’Italiani non hanno mani, non cuore per difendersi dagli assalti nemici? Col pretesto di minore età vorranno tenerci sempre sotto tutela? Se ventidue milioni di uomini non si mostrano capaci di schermire la propria libertà, sentite una cosa, nè manco sono capaci di possederla. E poi si oppone la necessità che ha l’Imperatore di Francia di tenersi bene edificato il Papa; ma questo a noi niente importa, anzi preme il contrario; e a parere mio, questo non si avrebbe neppure a mettere innanzi, come quello che accenna a screzio inevitabile fra noi: qui surge la necessità di significare a viso aperto o col Papa, o con noi, però che il Papa noi sappiamo eterno nemico nostro, e causa perpetua delle miserie d’Italia. Il Papato per noi gli è proprio la volpe che il fanciullo spartano si teneva sotto la veste; ma di lui in breve più a lungo; adesso giova chiarire, che il Papa è un cavicchio nelle mani del Benefattore imperiale, non ci potendo persuadere, che a ciò lo muova la religione, la quale per certo non consiste nell’ossequio delle improntitudini sacerdotali, figlie dell’orgoglio e della cupidità del pari sfrenati: nè egli che con la propria persona le combatteva, or fa trentatrè anni, ci parve per la qualità della mente, e degli studii suoi, capace di professare oggi opinioni contrarie affatto alle antiche. Per me, credo, che il Napoleonide abbia commesso errore dal principio del regno; e forse questo errore non mi sembra al tutto volontario, bensì condotto dal mal pendìo dove primamente ei si mise, dacchè non fosse punto vero, che in Francia la famiglia di Bonaparte non avesse seguito; ce lo possedeva e gagliardo aggruppandosi intorno a questa immagine quanto di glorioso vantava la Francia in fatto di arme, e di onorato in fatto di libertà. A mio giudizio piacque la repubblica come quella che almeno in suono comprende la massima copia della libertà; poi riuscì odiosa, perchè o per necessità non saputa removere, e forse artatamente indotta, o per tradimento col pretesto d’infrenare la licenza percosse la libertà, la quale cosa non in cotesta occasione sola, ma sempre vediamo accadere: ora con esempio tanto fresco sotto gli occhi, saria stato un gran bene pel Napoleonide, e per noi, se non fosse, in grazia dello errore suo, o per malaugurato eccesso dei fazionari suoi, caduto prima nella colpa, poi nella necessità di offendere la libertà, creando a sua posta e immaginando pretesti, ed anco cause in apparenza giuste, onde sotto colore di salute pubblica poterlo fare a mano salva. I volgari reputano queste arti di regno, e lo sono, ma pei tiranni, nè sopra la tirannide fu posto mai fondamento stabile di monarchia; ad ogni modo se nei principii ti senti trabalzato a offendere la libertà, tirati presto indietro, e procura ottenerne il perdono, imperciocchè le ferite che le farai rimargineranno presto, ma la cicatrice durerà; per la quale cosa con la memoria della offesa si perpetua il desiderio della vendetta. Quali i pensieri del primo Napoleone su i preti più volte fu esposto, che impossibile è governare stati con le stupide cattiverie loro; dov’essi toccano, la terra sterilisce, le anime intristiscono; capitano della repubblica, egli tolse loro gran parte di terra a Tolentino, imperatore, tutta; anch’egli, come tu, scemando meritamente nella estimazione dei popoli, si volse al passato per acquistare potenza contro l’avvenire, e qui, la sua mente si ottenebrò essendo l’avvenire tale onda contro cui ripe, nè argini valgono, chè ella o li strappa, o li rode, o con acque concitate passa loro di sopra. Quantunque costasse amaro alla sua superbia, egli acconsentì curvarsi ai piedi del sacerdote perchè altri si prostrasse davanti ai suoi; pensò mostrarsi servo un’ora per diventare padrone un secolo; egli pretese tôrre di sotto al prete la fune ond’ei lega le anime, e il prete, mentre gli cingeva la corona, gli adattava il laccio della sua fune al collo. Napoleone intantochè alienata da sè la libertà s’industria ingagliardirsi col passato, percosso dall’alito mortale perde gran parte di vita; la statua giacente su la terra, e ch’egli ripone con le proprie mani sopra la base, gli casca addosso, e se non sola, aggiunto il suo al peso di altri, l’opprime. A Santa Elena, in mal punto si avvisa convertire cotesta isola in rupe dove l’invidia dei potenti lo avesse incatenato con lo avvoltoio nel fegato; veruno lo compianse; le sue catene furono il disprezzo degli uomini, e l’odio della libertà; l’avvoltoio, la sua sterminata e tuttavia stolta ambizione. Le sue prediche ascoltavano i marosi dell’Oceano, i quali rompendosi sopra la spiaggia, brontolavano come moltitudini alle parole dell’oratore doloso; se lo avesse udito il genere umano non avrebbe fiottato meno incollerito. Il giorno dopo la vittoria, il successore di Napoleone si rinvenne debole; egli credè avere posto i piedi sul granito, ed il terreno gli si affondava sotto, peggio che sabbia; tutti contro, tranne i complici, anzi nè anco questi interamente con lui; però che vi abbiano tali cose, che chi le fa di notte, ne abbrividisce di giorno; e dinanzi la propria coscienza, la colpa per difesa immalignisce. — Lo esercito poi, quello che fa per costringimento di disciplina non parte da volontà deliberata, e fatto, spesse volte detesta. Sia l’uomo costituito in condizione privata, ovvero in pubblica dignità, supplichi Dio di non essere indotto mai alla prima colpa; non già per questa prima soltanto, ma si perchè ella figli mostruosamente feconda, e strascini senza riparo: — così il nuovo monarca bisognoso, e spaurito, ad un punto, della democrazia si prova annegarne lo spirito sotto la materia, promovendo lavori manuali, accertando il pane a buon mercato, e curvando le anime alla venerazione dell’autorità: ai cittadini provvisti di beni di fortuna, epperò tremanti di ogni foglia che si agiti, squassa su gli occhi il panno rosso, ed ei ne infuriano peggio che bufali: le furie gelate dell’interesse lacerano troppo più implacabili delle furie ardenti della passione; la parte dello inferno, suprema in tormenti, è di diaccio e si chiama Caina; almanco così ha immaginato il padre Alighieri. Intorno alle minaccie di sconvolgimento universale comparse in Francia dopo il 2 decembre, per me opino, che in parte movessero spontanee, ma troppo più fossero eccitate; comunque sia, gli abbienti assistevano con religioso raccoglimento all’olocausto della libertà fatto su l’altare dello interesse loro: certo non santo il sacerdote, ma santo il sagrifizio; e quando il delitto torna, si può dire virtù; anzi è virtù addirittura. Non domandate nulla allo interesse, egli, scosso il sacco, non può darvi altro che un affamatore di popoli, uno appaltatore di ferrovie, un banchiere; la passione, certo, può darvi un Eufemio di Messina, ma altresì sola può crearvi all’uopo o Tell, o Garibaldi. Ma tra i cattivi pessimo consiglio fu agguantarsi al prete, che in tanta fortuna stavasene accartocciato; egli, dopo avergli porto la mano, lo sollevò, gli finse ossequio, lo empì di danaro, e con atti anco burlevoli, perchè soperchianti il bisogno, e’ tenne averselo guadagnato ai suoi disegni; e s’ingannò a partito, perchè mentre pensava prenderlo egli rimaneva preso. Oggi, egli ne trema, e se a ragione non so: questo altro so, che usi noi a vedere da gran pezzo Roma sacerdotale rappresentata da un vecchio debole di corpo e della mente peggio, ci sa di morto, e nè la rispettiamo, nè temiamo. Pure, posto eziandio, ch’egli a dritto tema: o perchè presume che noi ancora abbiamo paura dello spettro che ha evocato? Noi dobbiamo non portare il peso dei suoi errori; se commise colpe egli le espii: qui appunto stanno le ragioni dello screzio fra noi, che come noi non fummo complici dell’atto, così non intendiamo sopportarne le sequele. Noi pertanto abbiamo bisogno di Roma, conciossiachè durando la Francia in cotesta nostra terra, sorgano due necessità; la prima, in lei di tenerla ai comodi suoi, e ai danni nostri; la seconda, in noi di odiare la Francia quanto Austria, e peggio, chè la offesa del fratello e dello amico irrita gli animi troppo più profondamente che quella mossa dal nemico. Noi abbiamo bisogno di Roma. Il Papato, un dì, camminò sul tramite che gli segnava il sangue di Cristo e apparve al mondo verace ministro di lui... ma giunto al bivio forviò mettendosi su la strada dei beni terreni, e poichè allora precedeva la intelligenza universale, intese a comporre con la venerazione, gli errori, la potenza, e le altre cose di cui aveva copia un’argine oltre il quale non si dovesse avventurare la umanità, pena il fuoco dello inferno; quando poi ella vide, che se non gli uomini tutti, almanco taluno, di questo fuoco lontano non temeva le scottature, ci surrogò un buono, e bel fuoco di fascine da cocere il pane e calcinare le ossa degli eretici. — Nè valse; le colonne di Ercole mal poste nel mondo fisico, peggio si presume porle al mondo morale, e la Chiesa per opinione mia, sparse il seme della sua ruina il giorno in cui si affermò compita; imperciocchè limite nello spirito sia immobilità, attributo della materia; da quell’ora in poi ella fu impedimento in mezzo della via; da prima, lo intelletto umano si sforzò forarlo, e ci riuscì con le riforme le quali traversando a fatica per cotesto pertugio tanto o quanto uscirono mescolate co’ frammenti che ne staccavano, e ciò fu molto rispetto alla negazione, poco per la filosofia, o vogliamo dire per lo specolare liberissimo della umanità, il quale sdegnoso di ogni sentiero, che apertissimo non sia, ha cumulato onda sopra onda, e adesso passa su cotesto ostacolo senza pure far gorgo. Non si può, e molto meno io voglio disdire, che buona parte di umanità rimanga di qua dall’argine, ma ce la tengono la usanza, e lo errore, che d’ora in ora dimoiano meglio, che neve di aprile. — La umanità che pensa ed ama, non offuscata da tristi partiti, oggimai per mirare la Chiesa cattolica bisogna che si volti addietro; e senza ira, le dice: «tu mi sparisci nelle nebbie del passato; non io ti condanno; ti condannasti tu stessa alloraquando ti togliesti di camminare innanzi; io precedo con Cristo trionfante, quello che io ti lascio, è il suo sepolcro vuoto.» A queste cause antiche ed universali di mortifera decadenza, il Pontificato ne aggiunse altra recente e peculiare al nostro paese; pensando egli riprendere lena co’ sermoni dei vecchi, raccolse vescovi di ogni gente a Roma perchè dichiarassero in modo solenne, sacro, e santo, e necessario il potere temporale al governo delle anime: nè qui passavano il segno, passarono il segno, e fu oltraggio e minaccia quando bandirono Roma non appartenere agl’Italiani, bensì a non so quante centinaia di mila cattolici. — Dopo ciò, la guerra è rotta. Roma importa diventi nostra e subito, o noi cessiamo favellare della unità d’Italia. Sia che il popolo largisse Roma al Pontefice, o i greci Imperatori, o i franchi gliela donassero, non può fare a meno che gliela dessero come a principe, o delegato di principe, e gliela trasferissero nel modo ch’essi la possedevano; ora il derivato non ha, nè esercita maggiori diritti di quelli che gli vengono dalla sua origine: e ciò quanto a legge. — Verun caso come il presente somministra argomento di paragone migliore per chiarire come la potestà temporale contenda con la spirituale, e la confusione dei fini loro affatto diversi, generi cozzi perpetui, nè rimediabili mai. — Quanti professano la medesima religione si appellano, ed estimansi figli del Dio che venerano e dei suoi sacerdoti, i quali si affermano immagine visibile, o vicarii, o interpreti del Dio invisibile, membri tutti della medesima famiglia spirituale, fratelli nella orazione, partecipi dei sagrifizi, quanti vivono, arbitri accedere nel tempio del Dio vivente e pregare: ciò viene dal diritto della comune religione, e s’intende; ma che di punto in bianco, scambiando lo spirituale col temporale, quanti sono credenti in una fede si tengano signori e padroni della terra dove sorge il tempio od abita il sacerdote del Dio questo non s’intende, e non è. Un’uomo di molta dottrina, amico mio dilettissimo, e per singolare ventura fratello del Cardinale Viale Prelà, autore del famoso concordato con l’Austria, favellando meco sovente con assai garbo, mi mostrava il partito miserabile, che i Preti di Roma in ogni tempo confondendo le cose dello spirito con le materiali, procacciassero ai proprii interessi sia mediante l’abuso delle metafore, sia con lo equivoco dei traslati, sia con qualunque altro argomento tornasse loro più a grado; nè solo ne favellava, ma sì ne volle l’ottimo cittadino lasciare ricordo stampato nel suo libro dei Principii delle belle lettere: «dallo abuso delle parole, egli ammonisce, di leggieri si trapassa allo abuso delle idee, ed anco alla pravità delle opere; così, dagli appellativi di gregge, di pastori e simili, attribuiti ai cattolici ed ai sacerdoti loro, ne scappò fuori la conseguenza che la Chiesa possedesse il diritto di ammazzare gli eretici, i quali, a mo’ di lupi le insidiavano il gregge; di fatti, il gesuita Salmeron oltre questa, non porta altra ragione per mettere la mano nel sangue: lupos interficendi, idest corporalem vitam hœreticis auferendi. Narrasi che in Inghilterra alquanti congiurati si peritassero a minare, e buttare in aria il parlamento dov’essi annoveravano non pochi parenti ed amici; desiderosi pertanto di porsi in quiete la coscienza consultarono il padre gesuita Gametto sul quesito se fosse lecito senza commettere peccato sobbissare una torre dove tra cento nemici occorressero otto o dieci amici; e il gesuita che aveva subodorato la trama, rispose: sicurissimamente poterlo fare, e senza uno scrupolo al mondo; dopo ciò, non istettero più dubbi come quelli che per traslato erano usi chiamare il palazzo di Westiministere la torre dell’eresia. — Altro esempio calzante, è questo altro; nelle controversie lunghe e terribili tra il papato e le corone, circa le investiture, la Chiesa misusò fellonescamente delle parole adulterio, sacrilegio, ed altre cotali, fondandosi sopra il testo delle Scritture: — la Chiesa è sposa di Gesù Cristo. — e su l’altro: io ho detto a voi sacerdoti: voi siete dei, da ciò, per linea retta perpendicolare nella geometria della Chiesa, adulteri, violenti, pirati, e ladri, chiunque si attentasse toccare pure col dito quanto la Chiesa aveva detto: è mio; e a modo di corollario, quale gli avesse spenti di ferro o di veleno diventava santo o giù di lì.» Ragionando sempre alla medesima guisa, ognuno dei cento milioni di cattolici, come ha diritto di pregare nel tempio, possiede pari diritto sul tempio, su la terra che lo sopporta, e sul paese che serve a mantenere il tempio e i sacerdoti; e siccome ognuno non può nè deve portarsene via un frammento, può impedire e deve, che altri se ne impadronisca. Così Roma, nel concetto dei Preti diventò, quasi Tebe dalle cento porte, o piuttosto una casa aperta a tutti i venti; le chiavi essi impugnano, non mica per chiudere, bensì sempre per tenerne spalancato lo ingresso; e perchè accogliemmo il Prete e lo nudrimmo, eccoci fatti una cosa nullius; siamo preda del primo occupante: noi respinti dal dominio di casa nostra, mentre in casa nostra hanno potestà gente remotissime e selvaggie, le quali forse nè manco sanno Italia che sia, nè dove giaccia Roma. Anco a noi sia lecito cavare una conseguenza dalla dottrina, che il Papato professa, la quale è questa: poichè per diventare padroni in casa nostra bisogna che il dominio sacerdotale cessi, e poichè il prete intendo esserne il portinalo per aprirne l’uscio a quanti presumono entrarci — sgombri dalle nostre dimore. Noi non ravvisiamo il vicario di Dio che letifica i suoi figliuoli con la libertà in colui, che ci vorrebbe sottoposti a perpetuo ed universale servaggio. E se vuol fare il portinalo vada in paradiso a dare la muta a san Pietro, che a quest’ora deve essere stracco. Noi abbiamo bisogno di Roma però che colà si annidino tre voleri pari, e tre poteri dispari ad impedire con tutti i nervi, che la Italia si compia. Instituti barbari furono gli asili, i quali provocavano un dì più delitti, che non ne reprimessero lo pene un’anno; e tutta via sopportavansi; tanto è disagevole sradicare dalla società un’ordine di cose, il quale nei tempi ebbe pure argomento di vita, quantunque adesso siasi trasmutato in argomento di morte. Di fatti, nei tempi eroici e nei barbarici la espiazione del delitto importava molto all’offeso, ed alla famiglia di lui, al pubblico poco; oggi procede il contrario: e poichè i delitti si componevano allora con danari, di cui la voce più tardi si fa sentire nei petti mortali gagliarda sopra quella del sangue, premeva salvare il colpevole dai primi bollori dell’offeso, dove il grido del sangue supera quello dell’interesse. Anco sulla consegna dei rei, riparati in paesi stranieri, si pendeva incerti se la si dovesse ributtare, ovvero promovere; nè questo in tempi lontani, bensì pure ieri, nè da ingegni vulgari, al contrario eccellentissimi; a mo’ di esempio dal Beccaria: e ciò perchè non reggevano da per tutto miti le leggi, nè sicuri ci si formavano i giudicati; ai tempi che corrono, se la libertà non fece troppi avanzi, e se la giustizia politica brancola sempre per acciuffare, per quanto poi spetta l’amministrazione della giustizia nei delitti comuni tra stato e stato, poco divario occorre; e quando fie abolita la pena di morte screzio, a mio credere, non ce ne sarà veruno. Oggi, finalmente, acconsentendo a sensi civili sentiamo quanto sia indegno, che speri asilo nel tempio colui, il quale lacerò truculento i precetti del Dio che si adora là dentro; ovvero nella dimora dell’oratore, o negli stati del principe, cui ha da correre l’obbligo di operare in guisa che ogni parte di mondo vada immune da delitti. Solo dall’obbligo della consegna si escludono gli accusati e i condannati per colpe politiche; e questo io reputo ingenua confessione dei governi che nelle faccende di stato o non sanno, o non vogliono praticare giustizia. Or bene, ciò che la Corte di Roma nè anco ai tempi di Sisto V pativa, oggi patisce; nè soffre solo, bensì promuove, ostenta, e se ne vanta. Ma là dove si trattasse sottrarre un capo dalla scure, e il rifuggito agitassero la paura ed il rimorso, di ora in poi egli avesse a strascinare la vita penosa come palla incatenata ai suoi piedi, nè inteso ad espiare l’antico potesse commettere nuovo delitto, forse vi sarebbe tale, che non approvando mai, pure compatisse alla pietà del sacerdote del mitissimo fra quanti Dii furono al mondo, e sono. Ora, ditemi, uomini italiani, egli è così che si mostra il sacerdote romano? Quando mai il preteso vicario di Cristo si mostrò avaro di sangue, comecchè innocentissimo? Costui mette lo sentenze di morte ai piedi di Cristo! Ma che mai gli hanno a dire i piedi di Gesù quando gli manca un raggio della bontà del suo cuore? Quando ei fuggiva da Roma con la pisside di Pio VI in seno, e al fianco la donna Spaur, nata Giraud, egli non cessò mai (racconta la donna Spaur) supplicare il divino Redentore per la salute dei suoi persecutori, i quali più tardi mandava spietatamente a morte. E poi ben’altra è la ragione dello asilo che adesso fre Roma ai masnadieri della terra. Non si tratta già salvarli alla pena, al contrario, spingonsi ad uccidere e; essere uccisi; non gli accoglie dopo commesso il deliti bensì gli ordina, e li manda a tuffarsi le mani nel sangue non alla espiazione, ma alla colpa: il danaro raccolto dalla pia credulità dei fedeli a Roma si converte in istrumenti di morte; costà si fabbricano pugnali che per temperare più taglienti dopo averli arroventati nel fuoco del sacro cuore di Gesù, spengono dentro l›acqua benedetta. — Che vorrete contrapporre voi altri sacerdoti, e sacerdotali? Per avventura, che ogni partito fu sempre giudicato buono quando o si difende, o vuolsi ricuperare il proprio? Di questo a suo tempo: intanto il Papa è o no! vicario di Cristo? — È. — Badate, Cristo rampognava Pietro quando percosse Malco i! servo del sacerdote Kaiaffa: «riponi il ferro; chi di coltello ammazza conviene che muoia.» Ora, di grazia, gli è questo il Cristo di cui si chiama vicario il Papa ovvero un altro? Veramente, che i preti a Roma si sieno fatti complici di quanti masnadieri ci vomita il mondo da loro non si nega; anzi, si ostenta senza pur darsi pensiero che a cotesto modo operando rendono aborrita quella religione sotto la quale riparano i fatti nefari. La religione, essi pongono, come Federigo Barbarossa sospese vivi i corpi dei tortonesi prigioni, intorno alle torri nello assedio di Tortona, io vo› dire perchè i cittadini cessassero il saettame, o continuando, prima di arrivare ai suoi arnesi di guerra, traferissero i petti dei congiunti: ma se taluno si attentasse negare il rapporto della commissione d›inchiesta intorno lo stato delle provincie meridionali, io noto, che ne allego i fatti non già la esposizione, la quale dice e non dice, rivela e nasconde, biasima e loda, come le balie (ho udito raccontare) un passo ella muove innanzi e due indietro... si mostra e non si mostra, pari a Bertoldo quando si presentò con un vaglio davanti la persona al re Alboino; al pane sembra che senta orrore dire pane, e sasso al sasso, la piglia larga, e poi stringe a randa, leva a cielo la giustizia e il diritto per nabissare l›una e l›altro a mo› dei saltatori, che si tirano indietro e pigliano la rincorsa per isfondare i cerchi: i diritti altrui dissimula, gli spogliati oltraggia, e sovente ti richiama al pensiero quel Fimbria, di cui narra Valerio Massimo, che ai funerali di Caio Mario investì Scevola ferendolo malamente nel volto, e poichè costui si salvava fuggendo, Fimbria imbestiato gridava volerlo accusare al popolo; di che taluno maravigliando lo interrogava, che mai potesse apporre a Scevola, e Fimbria rispondeva: «— non avermi lasciato ficcare tanto il mio stile nel suo corpo da poterlo uccidere.» Lasciamo coteste sazievoli e vulgari compilazioni monumenti di colpa, di piaggeria, di astio, e di paura a bandire un diritto appo il quale conquiste, trattati, prescrizioni, e tutto, viene meno; il diritto del popolo, che vivendo ara, difende, e ricupera la terra ove è nato, e morendo cresce con le sue ossa la terra dove giace sepolto. Lasciamole, dico, e condiderate sola la parte compilata dal deputato Castagnola copiosa di fatti quanto sobria di parole, e vedrete quale l›opera nefaria di Roma, e quale scellerata miscela per lei si faccia di religione, e di omicidii; mirabile a dirsi! Un Romano di Gioia, il quale per errore di mente si dà ad intendere essere campione della fede e difensore del trono, conosciuti tardi i compagni suoi, così lasciava scritto nei suoi ricordi: «siccome in questi era unicamente il pensiero di rubare.... cominciarono ad agitarsi contro di me dicendo: — noi siamo usciti in campagna e siamo chiamati ladri, dunque dobbiamo rubare, e se il nostro capo non fa come noi, mala morte farà, oppure rimarrà solo.» E tuttavia cotesti compagni suoi pigliavano nome di Giurati alla fede cattolica; con sacramento obbligavansi a difendere mediante la effusione di sangue Dio, il sommo Pontefice Pio IX, Francesco II re delle due Sicilie, ed a combattere i ribelli della Santa Chiesa. Pasquale Forgione presso a morire, presago che i bersaglieri i quali gli stavano dinanzi fossero ordinati per metterlo a morte, disposto a confermare le sue dichiarazioni al confessore protesta combattere per la fede. Se gli obiettano la fede cristiana aborrire dalle stragi, dagl’incendii, dalle immanità di cui egli si è contaminata l’anima, egli risponde: «di questo non sapere niente, egli combattere per la fede, lui essere, benedetto dal Papa e possedere documenti chiari, mandatigli da Roma; chè chi combatte per la santa causa del Papa, e del Re Francesco non fa peccato.» — Nè costui si scuote punto allo annunzio della morte imminente, e nè al giusto terrore, che il giudice tenta incutergli con le parole: — «ma come di tante scelleraggini hai tu potuto tenere per testimone, e, nel tuo pravo concetto, complice la Madre di Dio portando appeso al petto questo laido abitino con la sua effigie del Carmine? Di peggio non potrieno fare li stessi demoni, tu hai deriso la religione, e Dio.» — Senza commoversi il Forgione persiste: «io, ed i miei compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente con la benedizione non sarei stato certamente tradito» Il Borjès, anch’egli, maledisse il momento in cui abbindolato, mentre crede trovarsi preposto a partigiani agitati dallo spirito della fede si mira attorno una collezione di rappresentanti di tutte le galere di Europa; lo stesso Tristany ebbe a mettere le mani addosso al Chiavone, e farlo fucilare pei suoi delitti: affermano che ciò cocesse al re Francesco, ed è credibile la fama imperciocchè vediamo licenziato il Tristany; e forse può anco darsi che costui ammazzasse il compagno meno per odio delle scelleratezze commesse, che per gara di comando: con gente siffatta s›indovina sempre quando si pensa al peggio. E› fu avvertito come Roma noccia forse assai più con i sobillamenti morali, che per forza di arme, e questo non sembra possa negarsi; nè danno siffatto muove solo dai preti, ma dal Borbone altresì, e dai Francesi. Quanto alle armi, agli ordinamenti, ed ai fini del Borbone, pari a quelli del Prete, e non occorre farne altra parola, senonchè meritano considerazione due cose: che il Pontefice come signore temporale non dovrebbe prendersi la scesa di capo pei negozi di Napoli; e s›ei lo fa ci è indotto dal pensiero di rattrappare la terra pel cammino del suo paradiso, come a cui ci vuol credere dà ad intendere, che possa espugnarsi il cielo rimettendo nelle sue mani il diritto del popolo sopra la terra; se sieno fratelli in Cristo può dubitarsi, ma fratelli nella tirannide si sentono e sono: l›altra, che Francesco Borbone stanziando a Roma si è posto in luogo strategico unico al mondo, e dico unico, imperciocchè colà non pure si trovi difeso da amici potentissimi, ma gli stessi nemici confessino non volerlo o non poterlo combattere; però con sicurezza intera, a bello agio, senza pericolo di un pranzo, o di un sonno turbato, egli ordina, insidia, trama, e mantiene la guerra civile: non valeva certo il pregio superare Gaeta; in ben altra fortezza si rinchiuse il Borbone; almeno Gaeta non ci fu impedita, o poco dagli amici nostri; di Roma adesso, così ci persuadono gli amici, noi dobbiamo rispettare le benedizioni apostoliche, e gli stiletti. Ora ecco quanto allegano Francesco di Borbone, e i suoi fazionari in prò suo e di loro. — Noi ripigliamo il nostro; nostro il regno, nostri i popoli; ci vengono per baratti, per trattati, in virtù di carte sottoscritte, bollate, in buona forma, e guarentite; ond›è che ce ne cacciaste fuori? O piuttosto perchè vituperando il rapitore vi avvalete della rapina? Voi barattate le carte; gli spogliati siamo noi, e voi c›infamate per ladri se per ogni via c›industriamo riagguantare il nostro; sicuro! ai nemici si ha da nocere meno, che fie possibile, ma le sono sentenze da starsi nei libri del Grozio, e del Puffendorffio; un dì queste magnifiche cose non sapevano i principi, e non facevano; oggi le sanno ma non le fanno; ecco il divario che passa tra il vecchio e il nuovo. A me Borbone che apponete voi? Il diritto del popolo? Ma voi tremate a verga quando obbligati mettete fuori questo diritto; le parole escono scorticate dai denti stretti, e su le labbra vi levano le gallozzole come se fossero corrosive: voi amate, e voi fate capitale del popolo come lo amo, e lo avrei curato io; un›ora libero ma per darsi il padrone, e poi schiavo per omnia saecula saeculorum amen. Ma via.. di che popolo mi contate voi? Certo non erano popolo i miei ministri corrotti per tradirmi, nè popolo i generali comprati per vendermi; e dalle mani di questi non da altri si agognavano consegnate le mie spoglie, forse il mio sangue; e poichè si voleva mutare soma, non servitù, procuravasi con affannosa sollecitudine, ch’egli, il popolo, non se ne accorgesse, e nè manco levasse il muso di su la consueta paglia che pasceva. Certo, costoro cupidi di guadagnare, non ci era pericolo si spendolassero per tema di perdere, e tuttavia ebbero premii non solo dei traditori arrisicati, ma sì dei guerrieri virtuosi; i miei di Spagna pagarono Maroto; (fu pagato anco Giuda) poi lo cancellarono dalla memoria degli spagnuoli. O per avventura presumerete chiamare popolo quei mille uccelli di rapina che si avventarono alla sprovvista sul mio regno, e lo misero sossopra più per istupore, che per terrore della loro audacia? Udite: o voi li sovveniste, o no. Se li sovveniste nella opera da corsale, io vi chiamerò complici, io, insidiatori, io, pirati regi; e contro cui? Contro un re fanciullo; inesperto di regno, sottomesso ad odio sterminato per le colpe dei suoi maggiori; mallevadore innocente, e sventurato. Forse mi ostinava io a seguire le orme paterne? Non elargiva volenteroso quelle larghezze del vivere civile che mi si chiedevano? Negai cosa alcuna? Io distendeva la mano supplice perchè sostenessero i miei passi, e verso cui la sollevava? Ad amico, ed a congiunto per vincoli strettissimi di sangue. No, voi non li sovveniste; ve ne siete vantati così per ispavalderia, o piuttosto per necessità di perfidiare, che a voi non conviene l’antico: sic vos non vobis mellificatis apes con quello che segue, e vale: le api ripongono il miele nei fiali, e i calabroni se lo mangiano. Non lo giurate, perchè tanto io vi terria spergiuri; ma, udite, caso mai voi foste complici, io vi cito a comparire al Congresso dei Rè che intima l’Agamennone francese e quivi vi accuserò di fellonia. — Ormai la Storia ha inciso nelle sue tavole, e con le vostre parole, che voi pregaste il capitano di cotesti avventurieri a non valicare lo stretto di Messina; voi spediste gente giurata a voi ed a lui cara, perchè gli attraversassero la via; voi commetteste alla favilla elettrica di bandire al mondo la vostra ruina se il Garibaldi prima dei vostri soldati toccasse la Cattolica: o non vi ricordate, che otteneste la pazienza altrui per la presa della Umbria, e delle Marche appunto con la paura della rivoluzione? Non vi profferiste voi, proprio voi, di sperdere con civile battaglia la rivoluzione? E pure ieri,...testè, uno di coloro che ora governano, dichiarò aperto al Parlamento ributtare con tutti i nervi da sè la rivoluzione, nè avere saputo mai, che in Italia si operassero rivoluzioni; il moto ultimo, che raccozzava insieme ventidue milioni d’Italiani aversi a definire così: «svoltatura della Italia in senso monarchico costituzionale» Bene stà; anco qui vi credo; ma allora perchè non foste meco a combattere i briganti? Perchè più tardi, e non in quel punto mandaste armati a schiacciarli? Cotesta fu la caccia al Falcone, gli levaste il cappello, lo avventaste contro il colombo, poi agitando il logoro per richiamarlo, gli riponeste i geti appollaiandolo sopra la stanga. — Perchè mai briganti quelli che in nome mio movono contro voi, e non briganti coloro che si gittarono contro me in nome vostro? Forse in virtù del plebiscito? Ma di plebiscito allora non si ragionava nè anco. Poteste, e sapeste risoluti troncare le gambe all’avventuriere in Aspromonte quando ei si spinse contro Roma, o come non poteste e non sapeste fermarlo quando calò su di me falco rapace per rapire a conto altrui? — Io era un libro bianco; dovevate aspettare prima di gittarmi sul fuoco a vedere che cosa ci avrei scritto: ecco, prima di peccare io mi trovo condannato; l’esilio amaro, il vituperio, forse la morte mi aspetta per colpe non mie. Chè se voi dite tradimento il combattere disperato dei miei, per me lo giudico magnanimo; ad ogni modo egli ebbe inizio dopo non prima la cacciata da casa mia. O che pretendete voi che i miei campioni battaglino alla vostra maniera per darvi agio di vincerli? Forse voi a mo’ dei cavalieri antichi rifuggite dagli agguati? Aborronsi da voi tranelli ed insidie? Ogni arme buona in guerra massime in questa slealissima dove le armi ministra il furore. Ah! voi m’infamate ladro, e ladri i miei; restituitemi il regno, e pagherò regolarmente le milizie così, ch’io le dannerò alle debite pene dove commettano la millesima parte di quello che pure fanno le vostre pagate e nudrite su le mie terre col mio. Certo, si capisce, che voi avreste a grado rinvenire pei boschi i miei fedeli morti d’inedia, o attriti dal digiuno in guisa da pigliarli come conigli in parco; grande invero e truculento il misfatto loro non volere finire di fame; hanno torto, ma da necessità costretti dove trovano arraffano: difettano i miei della vostra virtù, e pensano giustificarsi con la sentenza dei pubblicisti, che afferma nei supremi bisogni rivivere la pristina comunione delle cose. Quanto ad opere di sangue riardono dentro noi l’ira dei traditi e la rabbia degli spogliati; avventurosi i vostri i quali immuni da cosiffatte passioni possono procedere benignamente miti.... Voi non ammazzate a sangue freddo persona, non inferocite mai, non trucidate l’innocente invece del reo, udite sempre le discolpe, attendete le testimonianze altrui, i supplici esaudite, i traviati perdonate, all’altrui pianto piangete. Devo, io rendere conto al popolo delle colpe paterne? Ma, io figlio per piacere altrui non doveva mostrarmi snaturato: chi si raffida rinvenire ottimo re in pessimo figliuolo fa male i suoi conti. A me non istava maledirlo. Se il padre mio fu spergiuro, se nemico alla libertà, se crudele, se, cupido quanti principi furono nei tempi passati diversi da lui? E pure qual re di piccolo stato, come egli, seppe opporre porre animo alteramente sdegnoso contro Potentati, che sgomentavano allora, e sgomentano adesso col solo aggrondare del ciglio i minori regnanti? Se nella mente del re mio padre capiva il concetto di dominare la Italia certo è, che veruno al mondo se lo sarebbe reso mancipio. E voi al re del mio regno moveste mai rimprovero delle colpe paterne? Non osaste, e sta bene; ma perchè a me sì, e a lui no? Dunque non camminate nelle vie della giustizia; voi adoperate due pesi e due misure; ma troppo voi ardite di più, che mentre rovesciate contro la memoria del padre mio parole ardenti da disgradarne la lava del mio Vesuvio, voi rubereste i raggi al sole per circondarne la tomba del re Carlo Alberto; voi consumaste per celebrarlo ogni metafora panegirica, la favella nostra giace rifinita pel saccheggio degli aggettivi encomiatori sbraciati su la memoria di lui. La pietà e la modestia dovevano essere poste custodi a cotesto sepolcro: voi ci metteste la menzogna e la provocazione. Chi fosse il re Carlo Alberto io vergognerei desumerlo da gente vendereccia di cui la coscienza si acquista a un tanto la canna; guardimi Dio da tirare innanzi il giudizio di uomini stranieri, o a me devoti: mirate, io vi squaderno davanti agli, occhi tre testimonianze de scrittori piemontesi, tutti reputati uomini retti, comecchè zelatori di massime fra loro diverse, e ministri suoi; le quali scritture essi dettarono non pure mentr’egli viveva, ma altresì quando l’anima di cotesto re riparava sotto il manto del perdono di Dio, e di quello degli uomini: potendo più in taluno di loro l’amore del vero commecchè con certezza di tornare sgradito, per la piaggeria provvisioniera di tristo pane, e d’infamia. Prima il conte Santorre Santarosa morto per la libertà a Sfatteria: quel desso Santarosa, ad onorare la memoria del quale mercè povera lapide, ora il Piemonte tardamente pietosa va in volta a razzolare con pena pochi danari, il Piemonte, che dianzi si votava le tasche di rincorsa per erigere al morto conte di Cavour monumento regio: mirate qui vi narra come il principe di Carignano Carlo Alberto acconsentisse alla rivoluzione del Piemonte, la quale doveva accadere nel giorno otto marzo 1821; il dì innanzi, ecco correre una voce nefasta: Carlo Alberto avere disertato dalla bandiera; ed era vero; tuttavia ei rampogna i congiurati di poca fede sicchè tornano a deliberare il movimento, e nondimanco mentre Carlo Alberto assicurava i congiurati del suo consenso pienissimo spediva ordini, e disponeva le cose per modo da rendere impossibile qualunque atto a Torino esponendo a pericolo mortale il Santarosa ed il Collegno! e fu tiro cotesto, che a parere del Santarosa, potrebbe qualificarsi perfido, ma ch’egli, discreto, desidera piuttosto attribuire a naturale ambage della indole di lui. — Considerate attenti il libro del prode Santarosa: Carlo Alberto il giorno 13 marzo annunzia la costituzione dalle finestre del palazzo, il 14 la giura..., accorsi i Milanesi a profferirgli di buttare all’aria la Lombardia, gira nel manico, e si tira indietro, onde al conte Santorre tocca dire: «dov’era andata allora, o Principe, la smania antica di liberare la Italia dallo straniero? Donde in voi siffatto mutamento? Forse, l’ardire si destava in voi quando la occasione di adoperarlo era remota, e cagliava avvicinandosi?» Il rifiuto del re di ricevere Lisio, Santarosa, e Collegno si giudica come difetto di cuore a sostenere i liberi sguardi di tre animosi cittadini, mentre forse fin da quel punto gli stava fisso nella mente il pensiero di tradire la Patria. — Se in vece di Villamarina prepone al ministero della guerra il cavaliere Bussolino, sì il fa: «perchè con la scelta di uomo meritamente riputato lealissimo da tutto il partito costituzionale ei si lusinga celare meglio i disegni nefari.» E già la Costituzione era abbandonata dal suo capo spergiuro, quando interrogato dal ministro dello interno circa le voci sinistre, Carlo Alberto le ributta sdegnoso come contumelia plebea; poi dà la posta dell’ora pel giorno veniente al ministro dello interno e ad altro collega, per negoziare intorno alle faccende di stato; e nel fitto della notte si fugge conducendo seco le guardie del corpo, l’artiglieria leggera, i cavalleggeri di Savoia, e il reggimento Piemonte reale cavalleria; che se domandi (così sempre ragiona il conte Santarosa) per quale causa egli rifuggisse da mettere in esecuzione con le proprie mani il meditato tradimento, così bene ordito da lui, per me giudico, che a Carlo Alberto mancasse fino il coraggio di fare il male, coraggio del quale confesso che non difettava la buona anima del padre mio; all’opposto, egli ne aveva anco di avanzo. — Carlo Alberto invece, valicato il Ticino, andava in sembianza di profugo a gittarsi nelle braccia di un governatore austriaco, il quale lo accoglieva coll’oltraggio, che a me piglia rossore di rammentare. Della cattolica chiesa Carlo Alberto zelatore quanto mio padre; e più, però che egli sendo dotto in lettere la difendesse con la penna mentre a Ferdinando, buon’anima, mancò la possa non la voglia; e di ciò fa fede quel perfetto gentiluomo del conte Clemente Solaro della Margarita di cui il Memorandum in mezzo al diluvio dei libri satanici galleggerà, pari all’arca santa, fino alla consumazione dei secoli; di vero si ricava da lui, che Carlo Alberto dopo avere dettato un libro di riflessioni storiche, lo facesse stampare; non so poi per quale cagione ne ritirasse le copie, eccetto una sola, che mandò in dono al cardinale Lambruschini, il quale esaminatala a dovere, trovatala conforme al suo cuore, assai la commendò; Gregorio XVI a cui ne fu data parte ne faceva le stimate; e stette a un pelo di segnarlo sopra l’albo dei santi... ma poi se ne trattenne. Dal tratto che corre fra il 1821 e il 1847 io non rimoverò la tenda, che lo cuopre: la è pesa di sangue grommato, nè vo’ bruttarmene le mani, almanco senza profitto; e poi la reverenza regia mi preme come avrebbe importare altrui; non siamo tutti re? D’altronde ne vanno piene le storie dei tempi. Parliamo del 1847, che lo colse mentre, con altri nati in Arcadia si godeva ministro il buon Solaro; ora questi nel suo celebre Memorandum stampato proprio a Torino nel 1851 ci afferma essere stato il suo adorabile padrone tenace profondamente della regia potestà, ossequentissimo alla santa madre, la Chiesa cattolica, appassionato della indipendenza italiana, la quale (intendiamoci bene) a dire del conte ministro, dal suo adorato Signore ponevasi nello estendere quanto meglio per lui si potessero i proprii dominii: in omaggio al diritto divino, ed alla esaltazione della Chiesa protesse Don Carlos nella Spagna, la Duchessa di Berry in Francia, i Gesuiti da per tutto spendendoci attorno fiore di moneta, anzi per fine tanto lodevole s’indebitò. — Quando temè essere aggavignato dalla necessità, e non lo era, prese a tartassare, Dio lo perdoni, il beato Padre, ma ei lo fece per non perde; credito presso i liberali, e potersi avvantaggiare di loro nella prossima guerra, vinta la quale, e messo al largo proponeva convertirli tutti non senza speranza di riuscita, quando poi gli fossero tornati corti i presagi gli avrebbe spenti in pena della ostinazione loro. Di qui tu hai la chiave per capire la causa, onde gli aiuti francesi furono ricusati, le dimore in Lombardia, la repugnanza dalla Venezia; quindi l’astutezza non mai commendata abbastanza di mutare regia la guerra nazionale, e la giusta paura gliene scappasse dalle mani il governo, paura, che anco il mio augusto genitore partecipò col miscuglio di una seconda paura. e fu questa: che dei tre esiti della guerra tutti e tre gli approdassero a rovinargli un picchio tra capo e collo; imperciocchè, il mio augusto genitore, dando le spese al suo Cervello, faceva il conto così: se gli Austriaci ci zombano perdiamo egli ed io; così, del pari se la rivoluzione ruba la mano a lui, dove sbatacchierà me, non lo so nè manco io; ecci il terzo caso, che ei vinca, e allora ei vincerà per se non per me, e potrebbe anco darsi contro me; per le quali ragioni e cagioni se il padre mio richiamò di un tratto la sua gente, non sembra che deva poi scomunicarsi in cera gialla. Di qui la chiave della Venezia derelitta, dei passi delle Alpi lasciati aperti, e i Romani, e i Toscani non soccorsi, quelli nel veneto, e questi nel mantovano, e le pratiche avvenute con l’Austria per la cessione della Lombardia. Nella medesima maniera si giustificano le diffidenze non mai troppe, e i timori plausibili contro la parte repubblicana; si spiegano le mirabili fortune della impresa, che dicono perduta per colpa, e arebbono a dire, per senno del Re, il quale aombrava meritamente della repubblica troppo più che dell’Austria, perchè con questa poteva guadagnare terra, alla più trista non perderla, con quella perdeva tutto di certo. Rimarrebbe l’abate Gioberti, che stette ministro presso al trono di Carlo Alberto fino alla vigilia della battaglia di Novara, ed un tempo gli procedè piuttosto sviscerato che amico; ma ciò che lasciò ire cotesto benedetto abate nel suo Rinnovamento a bocca di barile contro Carlo Alberto, senza ritegno, nè pietà della tomba appena chiusa sopra la salma del misero Re, io non ricorderò: molte pagine, adopera contro la sua fama, nè già credo io; maggior virtù avrebbono esercitato due moggia di calce viva contro le ossa di lui. — Lasciamo i morti in pace; certo, chi soffiasse dentro le ceneri del mio genitore, correrebbe risico di accecare senza cavarne una favilla di virtù; ma domandate alla morte, che le pesa tutte nella sua mano, qual divario corra tra la cenere di un re e quella di un’altro. — Contro tutto questo, che vorrete opporre? Abbiamo creato un popolo! Per noi tornò la Italia se non donna di provincie, di sè signora; e rotte le catene antiche oggi siede venerata e temuta nei concilii dei Re!.... Se questo avete fatto, chino il capo e venero il decreto, che nella onnipotenza loro bandirono i popoli e Dio.... Queste ed altre cose, che vanno diffondendo nel popolo della Italia meridionale il Re di Napoli e i fazionarii suoi, non vere tutte, nè le vere a quel modo, e nondimanco poniamo le fossero vangelo tutte, a che montano? Anco a lui risponderemo in tempo debito, pure per impedire, che lo indugio pigli vizio, con parlare succinto consideriamo, elle di questo il popolo sa niente, ed è con lui, che bisogna fare i conti, o co’ delegati suoi. Delle colpe delle quali o per forza, o per fraudo, o per arte, o insomma, per volontà non sua egli porta il peso, male si domanda ragione al popolo, anzi ne cava argomento ad esercitare, liberissimo le sue facoltà. Chi dei due fu prima, re, o popolo? Certo il popolo. Veruno finquì ci mostrò lo instrumento in virtù del quale un popolo consenti a diventare gregge perpetuo di un membro, ne sempre il meglio, di sè; dove anco ce lo mostrassero, come l’uomo potrebbe alienare la libertà sua, datagli da Dio in presto, affinchè gliela renda insieme con l’anima? Donde cava l’uomo facoltà o diritto di obbligare le generazioni che gli succederanno in perpetuo? Egli, di cui la vita dura quanto un battere di palpebra, l’uomo, pugno di terra che si anima quando la Provvidenza lo piglia per buttarlo più in là sopra la terra, e muore mentre ch’ei passa da un punto all’altro; la vita dell’uomo che è mai se non una corsa verso la morte? Dicono, non so se vero, che la lingua ebraica non conosca presente, bensì verbi passati, o futuri, dacchè la parola, volata appena non ti appartenga e il battito del polso non anco compito è fuori di te. Le eredità gravose o ripudiansi, o accettansi sotto benefizio d’inventario... e questa tra tutte miserabile, come quella che mi lega la servitù devo accettare per forza? Finchè le colpe del popolo porgono alimento alla dominazione, durano la signoria e il servaggio, stato non solo fuori, ma sì contro natura; espiate le colpe il popolo riassume la libertà come, secondo la nostra fede il peccatore dopo il sacramento della penitenza torna in grazia di Dio. Qui dentro sta il diritto, e fra tutti sacrosanto, del popolo ad ordinarsi, potendo, come meglio gli torna, e a preporsi chi gli talenti. Separate il nostro Eletto da qualsivoglia origine, dove non teniate ben ferma questa, suo padre fu il suffragio universale, sua madre la volontà popolare: Re per la grazia di Dio, e secondo della Sardegna altri lo salutò; per libera elezione di quanti fummo Italiani a votare, Re d’Italia, e primo lo salutiamo noi. Necessità ultima di avere Roma, lo Imperatore dei Francesi: di lui parlammo, e di lui parleremo, finchè chiarite prova le parole inani, sorga chi chiami la Italia a generose risoluzioni, e degne in tutto di popolo grande. Quanto a me giudico, che l›argomento onde possa non solo ma debba spiegarsi meno cotesto uomo sieno le sue parole: e› ci ha chi afferma veruno in Francia procederci più amico di lui; e ciò muove da levità, o da ciurmeria, imperciocchè se costui accenna ai singoli Francesi risolutamente lo sostengo falso, e se piuttosto alla nazione intera, tu considera come un›uomo straniero, che trapassa su la Francia come la rondine cacciata dalla stagione iniqua, sia da tanto da conoscere la Francia; la rondine, che passa acchiappa insetti, non già il senso dell›anima di Francia: che se per Francia s›intendono gli attrezzi i quali stanno dintorno a qualunque trono, e vestiti di panno paiono persone non si nega; ma si mette in sodo, che soprastare a loro piccolo guadagno ne caviamo noi. Quando i potentati di Europa rovesciaronsi contro il primo Napoleone, quasi fiume ingrossato da molti torrenti, l›Austria parve avversario più mite degli altri, ma ciò non la impedì di spogliarlo più e meglio degli altri, nè insieme con gli altri conficcarlo sopra la rupe di Santa Elena. Con Napoleone III teniamoci ai fatti, e questi sono amari. Affermano com›egli accolga dentro la sua mente consigli reconditi, ma se la sta nel modo che la contano, come lo sanno essi? Se pure fosse così, chi troppo l›assottiglia la scavezza, sicchè quei suoi concetti, sprofondandosi tanto; veruno li vede; gli atti esterni poi così appaiono contradittorii, che il giudizio ne scende contrario alla proposta. A bene considerare e› sembra che il mondo morale si disgreghi, ed il Padrone della Francia nello intento di riordinare per sè crebbe il caos. Avendo egli offeso la democrazia, e di lei paventando, nè potendone fare a meno, da un lato suscita in lei gli appetiti della materia, dall›altro studia mortificarne lo intelletto consegnandolo in mano al prete; in qual modo ei raccattasse il prete, ho esposto di già; nè direbbe il vero chi lo negasse, imperciocchè abbia veduto io medesimo sovvenire i Gesuiti con la pecunia propria dello Imperatore... e fu come ingrassare l›ortica col guano; quasi che le erbacce lasciate a sè non prolifichino anco troppo; a questo modo operando egli immaginò logorare la democrazia con la beghineria, e lo interesse, a quel modo stesso, che vediamo consumare un diamante contrapponendogli un›altro diamante: simili contrapposti, non nuovi in Francia, anzi antichi, e sempre funesti, si reputano trovati d›ingegno acuto e la storia chiarisce che derivano da lassezza di mente; e› sono rappezzi per ischermirsi dalla molestia del minuto, non già disegni per edificare nel tempo; aggiornano i mali forse rimediabili subito, cronici poi, sicchè più tardi irrompono sovvertitori di stati. Così Caterina dei Medici mentre dondola tra Ugonotti e Cattolici consuma tutta la sua figliuolanza nell›antitesi pericolosa; le industrie, che ella adoperò, ed altri glorifica argute, mentre erano perfide, per conservare il trono alla sua famiglia approdarono a trasmettere il trono dei Valesi nei Borboni, e la notte di San Bartolommeo, tramata per la strage di tutti gli ugonotti, mise capo a tirare sopra la Francia un Re ugonotto. — Ancora le storie di Francia! levano a cielo Enrico IV, nè il mio compito mi conduce a contendergli le buone doti che gli attribuiscono, però parmi potere affermare, che fu basso pensiero quello, che lo spinse a cedere la sua fede pel trono, insegnandomi la storia come le basse voglie nei reggitori dei popoli spesso sieno colpe, e sempre errori; in questo io lo pospongo al popolano che non avrebbe renunziato alla sua amante barattandola con Parigi: rendendosi cattolico, nè volle, nè potè opprimere i suoi correligionari, e se da un lato frequentava la messa, dall’altro si governò co’ consigli del Sully. Qualunque fosse la sagacia del metodo di regno, sbagliava nel principio, dacchè ormai la fede religiosa diventata pretesto, ovvero confusa con fini politici e mire di ambizione, si era intrisa nel sangue ed infamata con mortalissime fraudolenze: non pace ormai sperabile, nè tregua; la quiete apparecchio alle armi, il furore non mancava mai. Se fossero prevalsi gli ugonotti si sarebbero ricattati; superando i cattolici vennero la revoca dell’editto di Nantes, le stragi, gli esilii spontanei o costretti, le industrie trasmigrate altrove, e le ingiurie alla fortuna pubblica, donde in breve il tracollo, il malcontento, l’aperto tumulto, la rivoluzione scapigliata, e il nabissare della monarchia dentro la voragine che si era aperta con le proprie mani. Col sistema di antitesi per gittare durevole il fondamento al regno della sua stirpe, io vedo Napoleone avvilupparsi dentro una rete di contradizioni, che ad ogni istante più lo stringe alla vita. La guerra contro la Russia fu bandita a nome della civiltà, e smussate appena le ugna all’orso si tira indietro salutandolo civile; nè quella la causa della guerra, nè della pace questa: causa vera dell’una come dell’altra stringergli con la mano della Francia forte la zampa, e fargli sentire, che lui aveva a sopportare nel concilio dei Re: di ora in poi come non iscritti gli sgraffi, che l’orso russo aveva, in luogo di firma, messo sotto i trattati del 1815. Pari intento il Napoleonide si propose e conseguì nella guerra d’Italia; lui sentano, e lui tremino i Re per rinnovare insieme la catena dell’autorità al genere umano; l’Austria si penta avere disprezzato il nuovo, e tradito l’antico Napoleone: perchè aborrirli parenti? Non li battezzarono signori la violenza e la frode? Quale altra origine ebbero i superbi imperiali della casa di Asburgo? Di vero, come altramente intendi la sua scesa in Italia? Il bando di affrancarla intera, e il vanto di piantare la bandiera da per tutto dove ci fosse a proteggere una causa di civiltà, e poi chiamarsi contento di una provincia sottratta agli artigli dell’aquila imperiale, e la sollecita pace? — Peggio poi, se confronti questi suoi atti con lo avventuroso valicare dell’oceano, e con tesoro inestimabile e sangue generoso di Francia, sommettere uno stato per farne dono a quella stessa casa da lui sbattuta in Italia? Certo, riesce troppo arduo penetrando nel riposto animo dello Imperatore pescarvi disegni di universale civiltà; all’opposto torna destro supporre, che la repubblica democratica, anco in parte di mondo da noi rimota, fosse un grande stecco negli occhi di lui: come mi parve vero che la libertà dove non sia attecchita da per tutto (non fa caso se più o meno secondo la natura degli uomini e la condizione delle cose) non possa durare, così troppo più reputo vero, che nè anco il dispotismo si mantenga, se da qualche spiraglio penetri raggio di libertà. — Come qui in Europa campione di sovranità di popoli, ed in America strozzatore di quelle? So bene ch’egli, e i suoi con parole solenni lo negano, ma oggimai le sue proteste per la pompa della gravità loro si convertono in argomento di giocondezza per le brigate; almeno per noi Italiani apparisce così, imperciocchè nei varii popoli varii la materia del riso; presso i nostri poeti berneschi ella consiste nel vestire di forme e di parole gravi concetti burlevoli. Come invocare la Provvidenza vindice dei diritti conculcati dei popoli, e poi mettersi tra mezzo impedimento fra la Provvidenza ed i popoli? Come dopo che la bandiera di Francia fu vantata tutrice di civiltà rimane su ritta fra le infamie di Roma come piantata nel fango? Perchè fino all’ultimo l’impero di Francia protesse Gaeta contro il volere del popolo? Perchè si agitò tanto, giungendo fino alle minacce, non ischifando le insidie onde i membri sparsi della famiglia italiana non si riunissero? Queste le sono cose, che non si ponno negare. E a Roma perchè ci, sta adesso? -. Nè Italia egli patisce una, nè libera: una, nel presagio della sua potenza la teme come uomo e come dominatore della Francia; libera, se ne atterrisce come uomo; da per tutto dove la libertà sorga capisce che gli chiederà ragione del 2 Decembre. Diventava il Napoleonide Re co’ popoli, adesso vorrebbe mantenersi Re co’ principi; una maniera di centauro politico; nè mai arrivò a infingersi intero, e se altri traverso le sue ambagi nol seppe capire, la colpa non è sua; se altri perfidia ad attribuirgli concetti, ch’egli in mille maniere respinse, ed in ogni occasione dichiarò proprio agli antipodi dei suoi, a lui non si può imputare: innanzi del 2 Decembre, io ricordo, come se fosse adesso, che a certo dabbene uomo il quale con parole di oro s’industriava innamorarlo della gloria del Washington rispose netto: «io sono principe e non lo posso fare.» Così è, al nipote di Carlo Buonaparte pareva la fama del Washington cosa da non giovarsene, e i Francesi uomo siffatto elessero capo della Repubblica, e dopo simile manifestazione dell’animo suo lo sopportarono. O Francesi! I popoli, il Napoleonide, tiene in mano a guisa di carte, per giocare la partita in pro suo, e dei suoi: seguita i disegni dello Zio, il quale prese per davvero che gl’Imperatori possano tenere nelle mani la palla del mondo con la croce sopra; e neppure adesso che si sente preso dentro le morse pone giù il disegno: al contrario ci s’intora acerbo più di prima; giunto in fondo degli arzigogoli avventura l’estremo per ripigliare fiato, memore della sentenza del Macchiavello: «cosa fa cosa, e tempo la governa.» I Moderati prima rimasero attoniti, poi lodarono, all’ultimo censurarono, adesso tentennano, piegano a destra ed a mancina; musano come le formiche; incerti intorno alla via da tenere: fino dal primo apparire della proposta del Congresso chi possedeva non dico fiore, ma briciola d’intelletto, disse cotesto espediente manca perfino della furberia di cui è copia nei trovati dei marruffini, e dei trecconi. Di vero i Moderati stracciarono co’ denti la Costituente proposta dal degno amico Giuseppe Montanelli, nè del tutto a torto, come quella, che intendeva sottoporre i principi al giudizio di un tribunale composto di deputati eletti dal popolo: ora bisognava domandare se questi principi ci si avessero a condurre spontanei, ossivvero per forza, e se spontanei, egli era chiaro come l’acqua, che non ci sarebbero andati, mentre se per forza, i popoli, i quali senza bisogno di geometria sanno come la via retta sia la brevissima, potendo, gli avrebbero mandati tutti in un fascio non mica dinanzi al tribunale della Costituente, bensì in luogo che non importa dire. Però, se in questa parte la Costituente zoppicava, stava ritta su tutte e due le gambe nell’altra: all’opposto il Congresso intimato dallo Imperatore dei Francesi a questa pecca della Costituente montanelliana ne aggiunge l’altra, ed è che i convenuti sarebbero ad un punto giudice, e parte. Ad ogni uomo comecchè fornito di levatura mediocre apparve chiaro, che ogni principe avrebbe a lasciare un brindello di carne, che tiene stretto fra i denti, nè certo consentirà a lasciarlo; prima di ogni altro quello di Francia: ad ogni modo levati di mezzo i trattati del 1815 a quali altri storneremo noi? A quello di Amiens, di Tilsitt, o piuttosto all’altro di Luneville? Ovvero, andando anco più in su, ci fermeremo a quello di Utrecht, o di Wesfalia? A veruno di questi, però che quivi non si considerassero le aspirazioni dei popoli bensì unicamente gl’interessi dei principi, ed oggi lo scopo del Congresso sta per lo appunto quì, che adempiendo i desiderii dei popoli si apra un nuovo ordine di secoli, il regno di Saturno riapparisca sopra la terra dove ogni uomo possa vivere tranquillo all’ombra della sua vigna, e del suo fico! Bene sta. Ma quali popoli interrogheremo noi circa le infermità, che li travagliano, ed intorno ai rimedi, che reputano più spedienti a guarirli? Gli europei Soltanto o quelli di tutto il mondo? Chiedo venia della impronta domanda; presso uomini così sviscerati pel bene della umanità ella suona peggio che oltraggio: là umanità non circoscrivono mari nè monti, e il sole levandosi e tramontando vede più torti a riparare, che contentezze a benedire. Da ponente come da levante, da ogni lato insomma la umanità grida: ohi! Dunque tutto il mondo. Ciò posto in sodo, in qual guisa vorrannosi interrogare le generazioni! degli uomini? Col suffragio universale, mi risponderanno: — Ottimamente; ma tra suffragio universale, e suffragio universale ci corre: a mo’ di esempio, suffragio come a Nizza, o come nel Messico? Della sincerità di cotesti voti non ne dubita veruno dei principi raccolti; piace loro il metodo, e approvasi; essi imiteranno come in ogni altra cosa in questa la Francia maestra del vivere civile. Ora io dico, che dove rimanga statuito così non vale il pregio adunarsi, imperciocchè non pure gli Arabi e gl’Indiani supplicheranno Francesi, e Britanni a restare in Affrica, e in Asia, ma se non volete altro, Veneti, e Pollacchi esporranno il Santissimo su l’altare onde Austriaci e Russi non li privino della delizia del paterno reggimento. Se qualche dimostranza si permetteranno e’ fia perchè non mettano a prova più dura la infinita loro pazienza a sopportare e a patire. Di ciò interpreti la maggiore parte dei Vescovi, che la verità sanno da due parti, da quella di Dio, e dall’altra dei popoli. Dunque poniamo il caso che si voglia, e volendo si possa adoperare una guisa diversa, e supponiamo altresì, che tutti i popoli senza paura rimangano facoltati a dire la sua, e allora del pari il convenire dei regi che monta? I popoli vorranno prima essere affrancati dalla dominazione straniera, e poi dalla casalinga; però che in ogni tempo pochi principi abbiano preferito regnare coll’amore, piuttostochè col terrore, e la terra considerino podere proprio dove chi vive è bestiame, e chi muore ingrasso. Nel concilio dei re chi rappresenterà dunque i popoli? Chi ardirà farsi innanzi don questa maniera di mandato? E’ tornerebbe lo stesso che andare a farsi seppellire da sè; per la quale cosa si chiarisce come si dovrebbe commetterne la incumbenza ai re. Omero ha chiamato i Re pastori di popoli, mentre il Byron li appellò addirittura lupi; su di che io mi astengo giudicare, considerando che o lupi o pastori la messa torna a mattutino, dacche o che gli uni tengano il Congresso o gli altri, la materia non si può versare che intorno al mangiarsi gli agnelli cotti o crudi. Questo poi una differenza veramente per noi la fa: quanto ne vadano lieti gli agnelli non è facile darcelo ad intendere. Ai dì nostri che tengono bottega aperta di piaggeria, e di vituperio come di ogni altra mercè, non mancò chi celebrava la proposta del Congresso come tiro furbesco da sbancarne il Macchiavello in persona: là dove fosse così io per me affermo tra i mali metodi di governo pessimo quello che poggia sopra la bindoleria, però che non puoi filare sempre tanto sottile che altri non si accorga del tuo tramestio, e allora perdi il credito, nè ti avranno più fede mai, sia, che tu mentisca, o che dica la verità; e poi ognuno s’ingegna vincere di scherma lo schermitore, per la quale cosa dai e dai la sua brava botta diritta all’ultimo gliela ficcano. Lo intelletto umano sostenuto dalla logica, e dalla lealtà non solo dura, ma cresce di vigore progredendo; invece appoggiato alla frode ogni dì più strapiomba, e quanto maggiormente si travaglia a ingannare di tanto si sconcia. Sicuro, a modo che i pesci da che mondo è mondo si pigliano con le reti, e gli uccelli co’ vergoni così gli uomini con le parole dolose; non però gli uomini, che fanno professione di sagacia, e sia quasi esercizio del loro mestiere; imperciocchè allora tanto sa altri quanto altri, e tra corsale e pirata non ci corre che i barili vuoti, E parmi che non si possa allegare con frutto l’esempio del Borgia sempre traditore, e sempre creduto; imperciocchè i traditi il più delle volte presagissero il fato soprastante ma nol potessero evitare; e nè anco potendo vollero, dacchè fuggendo era certa la perdita della sostanza, e restando forse perdevano la vita, onde l’uomo tra il forse della morte probabile, e il certo della miseria corre sempre il rischio della prima; tanto lo amore della roba lo vince! Ad ogni modo anco il Valentino cascò nella fossa che si era scavato; la fortuna gli tirò la somma dei tanti tradimenti macchinati a danno altrui, e fu un tradimento che gli tolse peggio che la vita, vo’ dire la potenza. I re tutti privi di scettro ci apparvero sempre una miserabile cosa, ma se pensi al tiranno senza sbirri, senza giudici, e senza carnefice, e al suo tremare sempre, alla paura della luce, al suo immaginare in ogni tasca un coltello, in ogni bicchiere un veleno ti senti aggricciare le carni addosso per lui. Più, che ci si pensa sopra, e meno posso persuadermi della utilità del bandito Congresso per lo Imperatore dei Francesi: quanto allo interno, non ha mestieri fingere, almeno per ora; il vento gli dura non come un dì in filo di ruota pure sempre potente a gonfiargli la vela: rispetto di fuori, con un poco di arte gli hanno riversato sul capo il ranno ammannito per la testa altrui; di vero, lo amore suo per la umanità levano a cielo; chi può negare l’opera sua a tale disegno, che porrebbe al fine ed una volta davvero la belva umana sopra le altre belve dei boschi? Fra quelli che hanno a consentire occorrono due donne, alle quali gli uomini facilmente concedono tesori di bontà; e almeno quanto alla regina di Spagna sembra proprio che colgano in mezzo del bersaglio. Dunque assentono tutti, ma innanzi di convenire insieme sembra, ed è non che profittevole necessario sapere un po’ in quanti passi di acqua si abbia a pescare: egli definisca l’argomento pei negoziati; egli accenni chi debba rendere, e che cosa, ed a cui; egli che concepì il disegno deve avere pensato senz’altro al modo di mandarlo in esecuzione; sicuramente quanto sarà per proporre non gli promettono di punto in bianco accettare, quantunque confessino potere addormentarglisi in grembo; un po’ di esaminazioncella gliela daranno, ma così lemme lemme tra un dito e l’altro a mo’ della vergognosa di Camposanto, insomma come usa tra gente tuffata tre volte nella pila della buona fede. Forse il Palmerston fa un po’ troppo a fidanza, e corre il rischio che gli mettano il curatore; ma fu sempre il suo pecco di fidarsi troppo, e ormai gl’Inglesi ci si sono avvezzati. Extra jocum, il contegno dei vari stati europei alla proposta dello Imperatore dei Francesi mi ricorda la favola del viaggio impreso di conserva tra la volpe, e il lupo, i quali giunti, che furono in parte dove la volpe prese odore di tagliola si tirò da un lato dicendo in segno di onore al lupo: passi eccellenza! Aggiunge la favola, che il lupo passò, e rimase preso; forse non è probabile, che passi Napoleone; staremo a vedere. Che se io fossi meno persuaso l’errore essere stato la prima fascia avvolta intorno alla vita dell’uomo quando venne al mondo penserei che lo Imperatore dei Francesi innanzi, e meglio di noi conobbe la gaglioffaggine del bandito Congresso, ma, che ciò nonostante lo volle intimato, e ci persevera per tirare senza sospetto, o almanco con pretesto plausibile in Francia non tutti, ma quei Principi co’ quali gli preme intendersi per istringere lega offensiva e difensiva; nè questo può farsi per via di scritture, o di ambasciate; e’ vi hanno cose che la bocca di cui le dice, ha da sussurrarle nelle orecchie di cui le deve intendere e tre sono troppi; qui o mai cade il taglio di affermare, che bisogna comportarci con gli amici come se domani ci avessero a diventare nemici, e ciò accadendo tanto vale il mio sì, quanto il tuo no; non importa poi che i sovrani contro i quali si ordisce la tela rispondano alla chiamata, anzi giova che non vadano, bene preme e di molto accorrano quelli, che l’hanno a tessere. — Però avvertite che se la Francia la (trama, la Inghilterra la ordisce, e dove l’una delle due manchi la tela non si fa, o si fa male. Che, che di ciò sia avventuriamoci ad un’altra se guenza di pensamenti. Adesso per certo non avanza altro eccetto l’alternativa di riunire il Congresso o non riunirlo. Poniamo prima, che si riunisca nel modo, che unico può succedere, vale a dire di Re consulenti al proprio interesse. I Principi sanno che ricupero di diritto di popol risponde per l’appuntino la diminuzione delle regie attribuzioni. Uomini democratici non rifinano mai di predicare, che i popoli si rimarranno contenti alla libertà esterna, che oggi si chiama indipendenza di nazione, e a modi ragionevoli di libertà interna; i Principi non ci credono; però che se quello che i democratici affermano per un periodo limitato di tempo sembra vero, tale non è del pari nello spazio dei secoli, ed i Principi non si contentano a fermare come Giosuè il sole per ore, bensì presumono inchiodarlo perpetuo nel cielo della loro potenza. Se voi rammentate loro come i Pivernati sendo rimasti vinti dai Romani mandassero oratori a Roma per negoziare la pace, i quali richiesti in qual modo intendessero comporsi in amistanza risposero: — da uomini liberi. — Al che i Romani da capo: — bene sta, ma concedendovi pace vi conserverete fedeli? — E i Pivernati di rimando: — sempre, se i patti equi, se iniqui, finchè la necessità dura. — Concessero patti generosi, li mantennero i posteri, e i Piveri co’ Romani diventarono una gente: se voi allegherete simili casi v’irrideranno esclamando: — cotesti sono fatti antichi e chi lo sa se veri. — E se, buttate in un canto le sentenze democratiche, metterete innanzi l’esempio di Teopompo re di Sparta, il quale rimproverato dalla moglie per avere ristretto la potestà regia rispose: — certo la scemai per farla più durevole, — i Re osserveranno, ch’ei non se ne intendeva; la moltitudine pari alla lupa, che dopo il pasto ha più fame di pria, e meglio vale essere mangiato a un tratto, che cincischiato in brandelli, tranne il caso, nel quale, concedendo, tu ci veda il verso di rientrare più tardi su i tuoi co’ cambi dei cambi. Dunque la Storia è li come il morto su la bara, per insegnarci che le tratte spiccate dal popolo creditore della sua libertà sopra la reggia gli vengono saldate in moneta di ferro, o di piombo, — e sovente anco di canapa. Pertanto i Principi convocati non possono fare altro che consultarsi ai danni d’Italia; imperciocchè se essi consentirono lo impero di Francia e il Regno italico fra noi, e’ fu perchè reputarono l’uno e l’altro capace di soffocare la rivoluzione; anzi considera bene, prima per virtù di questa paura i soscrittori ai trattati di Vienna mostrarono sopracciglio meno aggrondato allo Imperatore di Francia, poi lo imperatore insieme con gli altri col medesimo patto sostennero il Regno d’Italia; con una differenza però, che si ragguaglia al potere dei due stati; il primo gagliardissimo fu riconosciuto in fatto, e in diritto, il secondo in fatto soltanto, in certo modo come una scheggia nella mano, finchè non arrivi il cerusico co’ ferri a cavartela fuori. Nel Congresso, e da per tutto, la Francia attenderà all’interesse proprio rigidamente, senza nè pietà nè pudore imperciocchè abbia sempre costumato così; di vero le faccende di questo mondo non si giudicano per via di fisime, bensì con la notizia dei casi, la speculazione delle conseguenze, dei costumi, e della indole dei popoli co’ quali abbiamo a trattare; e rinnuovo qui certa mia querimonia che non andrà del continuo perduta; la quale è, qualunque professione, o vogli mestiere per umile, che sia desidera tirocinio; se ne assolve, e ne assolvono colui che rizza su cattedra di politica, tra le difficili scienze umane difficilissima; conciossiachè a molto sapere delle cose accadute esiga accompagnata cognizione precisa delle cose, e delle persone presenti; nè tanto bastando voglia altresì un certo divinamento dell’avvenire. Ora, se avessero bene considerato la parte della storia di Francia, che spetta a noi, conoscerebbero a prova com’ella sempre più anco di nocerci ci straziasse: mettiamo in disparte la storia antica come quella, che poco approda alle contingenze nostre: incomincisi pure da Carlo VIII; ei si precipita giù dall’alpi a guisa di vento, che va innanzi turbinoso, buttando all’aria stati, e popoli come polvere di su la via; guerreggia senza fine, negozia senza fede, e dopo avere lusingato tutti, tutti tradisce; crudele nella facile vittoria, si mostra animoso nella fuga, e si lascia dietro a testimoni del suo passaggio soldati ladri, modi di guerra efferati, il costume di trangugiarsi prima di venire a battaglia l’oro rapito, ed il troppo più truce di cercarlo dai vincitori nelle viscere palpitanti dei vivi; all’ultimo la infermità vergognosa che quasi maledizione lanciata da lontano attinge nella sorgente della vita i nostri più tardi nipoti. — Luigi XII Re mercante vende libertà, e tirannide, cresce esca alle discordie, ed altre ne suscita; negozia come le Parche filano, per tagliare mortalmente ad ora ad ora il filato; il Regno di Napoli si spartisce con Ferdinando il Cattolico a mo’ di fanciullo che si divida una mela col compagno arrapinato; semina la Italia di ossa italiane, ma altresì di francesi. Quale amico si fosse costui sel seppero i Fiorentini, messi quasi olive nel torchio con modi da disgradarne ogni matricolato usuraio per ispremere loro di sotto pecunia; e con parole, non come adesso sanno adoperarsi pompose di amore per il genere umano tutto quanto senza pure pretermettere un cosacco, e non dimanco a volta a volta acerbe o benigne ora altalenava per Pisa libera, ed ora per Firenze padrona; risucchiato poi l’osso lasciò Pisa ai Fiorentini perchè se lo rodano. Francesco I dei peccati mortali superò i dieci non che i sette; materia affatto agitata principalmente dalla lussuria, dall’ira, e dalla superbia: anch’egli empiè la terra di morti: massime la Italia contrastando senza concetto regio all’emulo Carlo imperiale concetto per la propria immanità condannato a screpolarglisi nelle mani, ed era la conquista del mondo, o di quanto più mondo si potesse; poi rifinito patteggia la pace tradendo i collegati suoi. Qui si manifesta non meno trista, ma più aperta che altrove la perfidia di Francia, imperciocchè da un lato si aizza vano i Fiorentini, e gli altri stati italiani a intorarsi nella guerra contro Cesare, e a chiudere gli orecchi ad ogni proposta d’accordo, e ciò perchè i negoziatori imperiali non salissero in baldanza nelle trattative di pace a Cambraio facendola alla Francia pagare caro. Confronta e vedi se le arti di allora uguali a quelle, che la Francia volle usare poi. Baldassarre Carduccio oratore fiorentino raccomanda al Re Francesco la sua povera Patria con queste parole: «Sire, la Maestà vostra tante volte mi ha affermato e ripetuto le medesime cose, che se io non veggo la osservanza di quelle, non che io creda più a parola di Re dubiterei si avesse a credere a Dio.» A cui il Re di Francia rispose: «Voi avreste mille ragioni perchè io ve l’ho promesso, e con l’effetto lo manterrò.» E mosso dalla medesima passione il buon Carduccio mentre faceva uffizio pari col Gran maestro udiva dirsi: «Ambasciatore, se voi trovate mai, che questa Maestà faccia conclusione alcuna, che voi non siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite, ch’io non sia uomo di onore, anzi ch’io sia un traditore»; e mentre queste cose così solenni dal Re, e dal suo ministro affermavansi essi avevano bruttamente, come in quei tempi fu detto, e i posteri ratificarono, traditi e venduti i collegati, nè Carlo V dopo avere condotto i Francesi al passo iniquo volle lasciarsi scappare di mano la occasione di trafiggerli; imperciocchè sollecito a procurare agli amici suoi il benefizio della pace, mentre domanda il mandato all’oratore di Ferrara esce fuori col detto amaro: «io vo’ avere risguardo ai miei collegati, e non fare come fece il Cristianissimo.» Nonostante questo allora, come adesso (sebbene con meno largo strazio della coscienza umana per difetto di Giornali) affermavasi in Francia i collegati essere rimasti comprasi nella lega, e il Re stesso pregava, che così si propalasse per avere agio di andarsene prima che le querimonie incominciassero; le quali scoppiando poi violentissime, mostrarono la indegna remunerazione alla lunga osservanza, e ai danni patiti in pro della Francia; avere per ben quindici anni tenuto i Fiorentini, a lei devotissimi, servi, senza avere detto o fatto cosa che valesse per la liberazione di loro; alle quali dolorose rampogne mutato, volto il Gran maestro rispose: «O che volevate voi, che per piacere vostro rimanesse impedita la liberazione dei figli dei re rimasti statichi nelle mani dello Imperatore?» E poi che il Carducci lo rimbeccava dicendo: «Bene sta, ma la libertà nostra, e il nostro sangue dopo le promissioni vostre non avevano a servire di prezzo come avete fatto, avendo noi venduto, anzi dato noi tutti in preda al nemico per loro.» Il Gran maestro voltategli le spalle lo saldò. Donde gli Scrittori dei tempi cavarono due considerazioni generali, una di etica, e l’altra di politica; la prima fu che l’uomo savio non deve abbandonarsi in balia alle promesse, alle leghe ed ai giuramenti degli uomini; e questa parmi ripetizione della sentenza Attribuita niente meno, che allo Spirito Santo: «maledetto l’uomo, che confida nell’uomo:» la quale, nonostante la reverenza che professo grandissima allo Spirito Santo, per me giudico balestrata là in un momento di stizza; la considerazione politica generale è quest’altra, che non merita uscire di servitù quel popolo, che si raffida riacquistare la libertà con altro braccio, che col proprio; una terza particolare ce la metto io dichiarando, che consultata la Storia senza passione di odio o di amore non sai se la Francia sia riuscita più molesta alla Italia amica, o nemica. Alla casa di Savoia portarono via i Francesi quasi tutto l’avito retaggio; Nizza fedele asprissimamente combatterono con le armi proprie congiunte a quelle dei Turchi. Le Storie della monarchia piemontese dalle più antiche fino alla recentissima del Ricotti ti mostrano le perpetue ingiurie recate a lei dalla Francia, e il racconto degli strazi, che Carlo di Savoia ebbe a patire da Enrico IV dettato dal cardinale Bentivoglio, empiono l’animo dei leggitori di tristezza, e di rabbia. Della prima repubblica di Francia tu sai; ci rubò fino ai chiodi del Vaticano, e parte d’Italia, la Venezia, prezzo di pace necessaria, almeno così afferma nelle sue memorie Napoleone I difendendosi del tradimento di Campoformio; lo Impero pretese plasticarci francesi, ed altra volta io ammonii gl’Italiani: badate! porgete mente al concetto di Napoleone I quale si svela intero nella sua corrispondenza col fratello Giuseppe Re di Napoli pubblicata per cura dello inclito suo nipote Napoleone III; costui persuadeva Giuseppe a trovare modo di torre la sostanza ai baroni, per renderla poi a titolo di dote alle figliuole a patto si maritassero con soldati francesi, i quali arebbono dovuto comporre la nuova baronìa di Napoli, sempre che si obbligassero a fermarsi per sei mesi dell’anno a Parigi. Appartiene a lui la parola, la quale se avesse voluto tradurre in effetto sarebbe stata seme di guerre senza fine, vo’ dire: «il mediterraneo ha da diventare lago francese.» La Francia di Luigi Filippo aizzava i popoli alle rivoluzioni, e poi se li metteva dinanzi a mo’ che il Buonarroti costumò sospendere le balle di lana intorno al campanile di Samminiato a fine di ammortire la percossa delle bombarde. Se si trattava di beduini, bandivasi la Francia ricca abbastanza per pagare la sua gloria; se di sovvenire la Italia, e la Polonia l’oro e il sangue francesi avere a bastare per la Francia; e se la Polonia sdrucciolava nel sangue si annunziava il caso dal Sebastiani nel truculento modo, che la Provvidenza gli fece provare pari nella sua famiglia. — Del secondo impero non parlo, non mica perchè a quello che largamente fu addotto non si possa arrogere troppo più, ma perchè la copia partorirebbe a un punto fastidio e sazietà. Tale avvisando, so come altri, nella sfacciata petulanza che oggi tiene il campo, non mancherà riprendermi come o perniciosamente sconsigliato, o mosso da smania di screditare il governo, o di parzialità per la Inghilterra: risponderemo ora all’ultima rampogna, le altre confutammo in prevenzione, o ribatteremo a suo tempo dopo: la Patria vuolsi amare, gli stranieri se in casa di riffa odiare con le viscere dell’anima, e qualunque essi sieno, a casa loro rispettare, e proseguire con ogni maniera di buoni uffici, come uomini fratelli, che procedano di conserva al miglioramento scambievole. Gl’inglesi certo si mescolano nelle nostre faccende, però nella guisa, che non si può loro impedire, e potendo non si dovrebbe; le arti adoperate da loro, il consiglio, le insinuazioni, e dove occorra anco un po’ di moneta: della natura del trapano essi ritengono molto, e le loro dita penetrano nella carne dei popoli più che non facciano le grappe di bronzo dentro la pietra. Quando venne Riccardo Cobden a predicarci il libero commercio, onde avere facilità anco maggiore di levarci di sotto le materie gregge per rimandarcele lavorate, io molto tenendo in pregio l’uomo mi astenni da fare di berretta alla sua predica e ne esposi con breve scrittura le ragioni, tra le quali, manifestando il concetto a quel modo che la mia natura m’ispira, dissi che quante volte mi occorre un’Inglese con gli occhi fitti nel nostro sole ho paura che egli almanacchi se ci sia verso di portarselo a Londra per rimandarlo a venderlo in Italia ridotto in candele sopraffini. Questo ed altro può dirsi dell’uomo inglese intento al proprio interesse; forse lo trascurarono gli altri? — Non ci è che i Francesi i quali si spencolino fuori della finestra per una idea! Gl’Inglesi hanno senno pratico, e stima dell’uomo: ordinariamente conoscono dove devono andare, come i Francesi ordinariamente non lo sanno, comecchè fine di entrambi sia l’interesse. Lo Inglese negoziando teco, fa il tuo conto, che del guadagno ne vuole a mano salva tre quarti, ma una volta rimasti d’accordo va franco, ch’egli curerà l’interesse tuo al pari del proprio; perchè non intende usare teco come i contadini a lascia podere, e confida cavarti di sotto qualche altro vantaggio: il Francese vuole tutto per sè, ti agguanta quanto può; se qualche cosa ti lascia e’ sono gli occhi per piangere, ma poi il rubato volentieri sprofonda teco per farti ridere; lo Inglese quando ti spoglia non confessa ai quattro venti che ti ha spogliato, ma nè manco si vanta averti vestito; mentre se dai retta al Francese sai tu chi è il ladro? Quegli che si è lasciato rubare; così vero questo, che uno dei loro filosofonisti ha spiattellato chiaro, che la proprietà è un furto; epperò i ladri devono venerarsi sopra gli altari come operai; a fare rivivere la pristina comunione delle cose; l’Inglese non pone nel traffico tenerezza in nulla eccettochè sul netto ricavato; salda affare per affare; la gratitudine che cerca sta nel profitto, ed altra non ne cura: al Francese non basta, esige la lode, desidera tu lo saluti generoso e magnanimo se portandoti via un quadro di Raffaello te ne lascia una copia fatta di sua mano; quasi quasi pretende una statua se dopo averti mangiato le ostriche te ne depone in mano con religiosa gravità i gusci vuoti! Ha scritto Martino Lutero in qualche parte come considerando la ragione umana gli facesse lo effetto di un’uomo briaco a cavallo; non so in qual maniera ci possa incastrare, ma quante volte penso alla pretensione della Francia; di essere salutata cervello del mondo cotesto ricordo mi ronza per la mente zufolando a mo’ della zanzara. Dello interesse i Francesi hanno lo istinto, non il discorso, non per virtù di concetto bensì di nervi spiegano e ritirano gli ugnoli: per l’interesse ustolano, ma quale veramente sia, la vera strada di conseguirlo non sanno, e ciò perchè un pensiero torna loro molesto quanto una mosca sul naso; pensa se due! Piuttosto poi di tenere tre pensieri fitti nel capo li baratterebbero con la corona di spine di Gesù. Chiunque in mezzo a loro si ricorderà, che il quattro viene dopo il tre, e dopo il quattro il cinque, e chiunque non rifinirà gridare a squarciagola strozzandoli, come il carnefice del principe Carlo figliuolo di Filippo: «la stia zitto, signore, che quello che io fo, lo fo proprio per suo bene» arriverà a dominarli sempre, Infatti dopo che lo imperatore Napoleone pubblicò urbi et orbi, che impero significava pace, la Francia non sostenne mai guerre sì varie, nè più difficili a vincersi, nè meno facili a prevedersene la fine. A Caterina dei Medici, al cardinale Mazzarino, e a Napoleone Bonaparte, che mai possono opporre i Francesi? Il solo Richelieu, e questo perchè egli e gli altri ponevano il proprio concetto sul capezzale la sera quando si addormentavano per ripigliarlo appena desti la mattina. Per gli uomini francesi torna mostruoso tenere un pensiero in testa più di un›ora quanto alla femmina francese condursi due volte al festino col medesimo abbigliamento; che se contrastando tu osservi da Caterina, dal Mazzarino, e da Napoleone creature per eccellenza uniche non può cavarsene regola generale io ti allegherò la turba dei còrsi Saliceti, Pozzo di Borgo, Sebastiani, Abbatucci, ed altri moltissimi per ingegno certo non superiori ai Francesi, ma che pure costanti nei propositi, e fermi nei concetti arrivarono a dominarli, e li dominano. Se la fortuna maligna ci fece il cervello senza gambe, o perchè non ci approfittiamo del giudizio dei nostri vecchi? Ora senza tante storie tenetevi come un breviario nelle mani da recitare quattro volte il giorno quanto lasciò scritto di loro Niccolo Macchiavello, o piuttosto imparatelo a mente, che la è cosa corta, ed insegnatelo invece della Santa Croce ai vostri figliuoli: «Stimano tanto l›utile e il danno presente che poco rammentano le ingiurie e i benefizi passati, e poco cura si pigliano del bene, e del male futuri.» «Taccagni piuttostochè prudenti; poco loro cale di quanto su loro si parli o scriva: cupidi più del danaro, che del sangue; generosi solo nelle udienze.» «Chi vuole condurre a bene una cosa nella Corte di Francia gli bisognano danari assai, diligenza grande, e buona fortuna.» «Richiesti di un benefizio pensano prima che utile ne possono cavare per loro, che se devano servirti.» «Quando non ti possano far bene te lo promettono; quando te ne possano fare, lo fanno con difficoltà o non mai.» «Umilissimi nella cattiva fortuna, nella buona insolenti.» «Ordiscono male col senno, ma tessono bene con la forza.» «Chi vince accorda sempre con loro, chi perde mai, epperò prima di cominciare una impresa bada se ti possa riuscire, e se la ti può riuscire non ti trattenga il pensiero d›impermalirli. Con tutti, massime con loro il traditore è il vinto.» «Vari sono e leggeri; nemici del parlare romano e della fama nostra.» E non è tutto; pure può bastare; che se taluno screditasse l’autorità del Macchiavello come uomo appassionato o maligno tu credi, che il Macchiavello poteva sentire forse il caldo e il freddo, l’amore, e l’odio in cose di stato no; così vero questo, che gli scrittori francesi o vogli antichi o vogli moderni più gravi accuse articolarono a proprio danno, e le puoi leggere nella storia di Francia del Michelet. Tito Livio attesta i Galli avere in costume rompere la fede per vezzo; nulla contavano le promesse: vanto loro gabbare; e’ sembra che i nipoti non abbiano tralignato. Voi vedete quanto grande il debito dei Francesi nel conto che loro aperse la Italia, e delle poste antiche di Carlomagno si tace per compensarle con le antichissime, nostre di Giulio Cesare. Veruno di voi ignora la copia del sangue generoso che ci costò il primo impero: e che importavano a noi le guerre ispaniche, e che le boreali? Con le nostre mani dovemmo fabbricare le nostre catene, però la vittoria, la quale agli altri è madre gioconda di libertà, a noi ribadiva il servaggio. La Francia crescente noi empiva di lutto, tramontante c’involse nella sua ruina; dopochè la Italia venne tratta nell’orbe della Francia mai più fu visto così infelice satellite. Quando Napoleone si struggeva all’Elba quasi ferro morso dalla lima, noi altri Italiani commiserando alla grandezza sventurata dell’uomo gli dicemmo: «vieni tra noi, qui troverai meglio dell’aquila rapace; cuori che palpitano anco dentro i sepolcri; menti che la fortuna impietra nella fede; che se per tua sventura e nostra ti talenta un’aquila per la caccia dei popoli, eccoti la romana; meglio di cotesta tua francese conosce le vie della vittoria.» Ed egli sdegnò; insetto imperiale antepose bruciare alla candela di Francia, che rinnovarsi il sangue co’ raggi del sole italiano. La stirpe napoleonide ci doveva un compenso, e i laudatori codardi della potenza felice baccando come Menadi briache lui inneggiavano padre, e redentore, per poco non supplicavano Dio a cedergli il trono, per metterci lui, allorchè venne a combattere l’Austria in Italia: quali i suoi concetti nel moversi come nel fermarsi dicemmo; e se sia vero il fatto lo dimostra, imperciocchè se veramente, come le parole sonavano, volle la Italia unita per qual consiglio mentre si vantava aiuto in Lombardia diventa ostacolo a Napoli e in Roma? Tuttavolta ebbe Nizza, e Savoia; la chiave d’Italia, e le tombe dei padri dei monarchi d’Italia; materia ed anima, religione e interessi, vivi e morti crudelmente offesi; — e scredenza confessata da noi della unità italiana, e ragione stabilita a impedirla in futuro; posti i fondamenti della guercia unità di un Piemonte ingrassato. E come se tanto non bastasse, ecco i nostri rettori, e chi consente con essi crescere di furore: la libertà, e la indipendenza sembra, che addosso a loro esercitino la virtù di due camice di Nesso; muove a sdegno la viltà di Esaù venditore della sua primogenitura per un piatto di lenticchie, ma quali e quante passioni agiti dentro noi la vista di questi Coribanti insaniti di servitù noi non possiamo significare. Mi pare avere intronate le orecchie dall’orribile profferta dei figliuoli del conte Ugolino: «... Tu le vestisti Queste misere membra e tu le spoglia.» Guai! anco a cui tra loro non doma perfino una aurora boreale d’intelletto italiano! Guai! anco a cui tra loro mostra che il sangue gli batte il cuore meno gelido, meno monotono della goccia che casca giù dalla volta della grotta, che in procinto di essere messo al bando della Chiesa moderata per ottenere perdono bisogna, che si presenti con la corda al collo, co’ piedi, col capo, coll’anima nella neve. — Signore, liberaci da questi lupercali di vergogna e d’infamia! Pertanto fu ragione, se l’amico nostro non si reputava soddisfatto, e chiese così la Sardegna per finocchio dopo il pasto; ma essendosi gli arruffapopoli inalberati sul serio, i castrapopoli non gliene poterono fare dono. La Sardegna avrebbe somministrato stabile fondamento di preponderanza alla Francia nel mediterraneo, e poichè per questo lato non le riuscì spuntarla, ecco che torna per via obliqua all’assalto, e mediante il trattato di navigazione a se accerta facoltà di crescere, noi assicura a perpetua rachitide. La trista setta, che ha tolto per compito di nabissare la Italia opponeva lo stato della navigazione nostra floridissimo nonostante la concorrenza francese, e male argomentava, però che lo appunto si miri a fare in modo che cotesto stato non già floridissimo, ma comportabile cessi; nè da per tutta la Italia accadde ad una maniera, bensì nella Liguria dove la inopia di terra spinge alle industrie marittime. Fu domandato s’instituisse una inchiesta di gente perita affinchè in faccenda dove ne va posta sì grossa si procedesse con piena conoscenza di causa, e secondo il solito dispettosamente la respinsero, e sì che dovevano conoscere a prova quanto male avesse approdato al paese cotesto loro arrogante perfidiare. — Come riuscì profittevole l’aumento del 10 per cento per le ferrovie? Nè valsero a dissuaderli le persuasioni di uomini espertissimi, ed a loro devoti; come neppure la sconcia contradizione in che cascavano, avendo nella stessa sessione proposta la legge pel menomato porto delle lettere: qui si contava sopra, maggiore ripresa sul rinvilio, là speravasi il medesimo resultamento dal caro: peggio di tutte la legge sul bollo, e sul registro: fioccavano i moniti; sbracciavansi a dare ad intendere come certe tasse, che sta in potere tuo diminuire se crescano soverchiamente, trovi modo a ridurle senza tuo pregiudizio: valga per esempio questo: dove tu renda grave il diritto di registro sopra il trapasso di proprietà avendo a comperare un podere del valore di tremila scudi, tu d’accordo col venditore porrai sul pubblico strumento tanto prezzo quanto basti a coprirti dall’accusa della lesione, e basteranno i mille e cinquecento scudi, gli altri millecinquecento tu passerai a mano al venditore mercè ricevuta privata; donde avviene, che se prima il registro costava tre per cento, veruno pensando a frodarlo, tu riscotevi sul contratto la gabella di novanta scudi, mentre adesso, che l’hai cresciuto a cinque per cento tu non ne cavi più di settantacinque; vero è però che il legislatore mascagno ha previsto il tiro, e dove il Percettore trovi alterato il prezzo a danno del fisco cresce a suo modo e manda la gente al tribunale; di qui odio contro il Percettore, querele nei tribunali, liti che si possono vincere come perdere, aperta a due imposte la porta agli arbitrii, e quello, ch’è peggio, se a qualche misero toccò la sventura di avere ad alienare il suo a prezzo vile per soprassoma dovrà pagare la tassa come se glielo avessero pagato il giusto: orribile legge! di fatti cagione d’inestimabili querimonie! ella, come si presagiva, non approdò allo erario secondo le ingorde voglie; e chi la fece, dopo aver promesso riformarla, adesso si vanta aver fitto cotesto cavicchio nella Italia. — Ma che ci sta a fare il cervello dentro cotesti benedetti crani? Se ce lo avessero messi come un cencio sudicio nella conca del bucato a questa ora avrebbe ad essere lavato e asciutto al sole. Niente valse; che cavillando in ischiuma di parole inani, ecco a colpi di sofisma la setta ha conficcato il secondo chiodo alla Italia; il primo fu il trattato di Nizza, e di Savoia, il secondo è il trattato di navigazione; aspettate il terzo, e sarà messa in croce la Italia; ah! se mi si domandasse se più debbansi aborrire o tedeschi o moderati in coscienza penserei dovere rispondere, che voglionsi odiare con odio pari ambedue, benchè maggiore cagione la porgano i moderati: di vero quelli nemici sono, e si arrabattano a mantenersi serva una terra conquistata, mentre questi poichè la bindolarono a cui l’aveva col proprio sangue redenta anfanano adesso a riporla in servitù. Giusto giudicio cada sopra il vostro sangue, talchè i vostri successori ne abbiano spavento. Sovvenuti da cotanto amico si dice, che noi aderimmo al Congresso: quanto a me non ci credo; dacchè è chiaro come noi non possiamo, che scapitarci. I Sovrani, che ci riconobbero diranno: voi ci deste ad intendere, che il metallo popolano urlava infocato nella fornace, le volte ne tremavano, screpolavansi le pareti; se si commetteva a voi aprirgli la via voi lo avreste condotto a fondere una corona; all’opposto se stiantava da se irrompeva a gettare un berretto; in queste angustie io vi ho concesso fondere una corona: ora poi vediamo a prova, che la faccenda cammina altramente; dura la guerra ma no per la libertà, bensì per mantenere fermo un trono stabilito da Dio, e col consentimento nostro raffermato: così essendo ci piace la corona del Borbone come quella, che conosciamo fabbricata di metallo ugualissimo al nostro, e poi ci garbano meglio due corone che una, perchè quanti meno siamo a comandare tanto meglio ci torna, ed una contrapponendo all’altra rendiamo inani ambedue: la regia potestà l’è una tal cetra dove come più ci hanno corde peggiore suono manda. Poco preme a noi del Papa capo dei cattolici, moltissimo come capo di quella potestà spirituale, che interzandosi con la nostra ne fa una corda da reggere tutto il genere umano; non intendiamo, che la Italia si componga intera, anzi ripigli ognuno le sue spoglie, e torni a casa. Non ci opponete i voti dei popoli: con noi siffatti garbugli non giovano a scarrucolarci: ad ogni modo frego e da capo: fuori tutti da Napoli, fuori dalla Toscana, e dalla Emilia, e liberi allora da timore, e da lusinghe i popoli palesino la propria volontà. In tali strette a qual santo vi voterete voi altri? Al vostro amico di Francia? Dov’egli non abbia composto i fatti suoi, fingerà di sostenervi per avvantaggiarsi; se gli avrà assettati vi rinnegherà anco fuori del pretorio, e senza, che lo abbia ravvisato la serva. Certo per voi non si rimarrà su la corda; considerate il tiro, che fece agl’Inglesi nella guerra di Crimea, e credete ch’egli voglia pigliarsi soggezione di voi? O non capite, ch’egli tenne ad arte fin qui spezzata la Italia come il mercante va al mercato con la moneta spicciola in tasca per aggiustare il prezzo della derrata? Oggimai però torna vano spendere parole intorno a questo argomento, che il Congresso, mancata la Inghilterra, non si può fare; la vescica di Francia cadde sgonfiata al penetrare della punta di un ago inglese. Fin qui la fortuna arrise al Napoleonide, e mentre dura il vento prospero ogni uomo par pilota; adesso, che si mette alla burrasca gli spropositi fioccano, e veramente è tale questo della proposta del Congresso, dacchè avendo il fino che già accennai, bisognava scandagliare prima il terreno per non cascare dentro la fitta: ora poi fu mandato sossopra per ragioni così agevolmente pratiche, così ovviamente persuasive, che bene si acquista fama di leggerino chi prima lo promosse: donde noi giudichiamo o che non ebbe mai senno, o lo ha perduto chi si avventura a mettere in repentaglio la reputazione di prudente per cosa dove il civanzo è incerto, la perdita sicura; e comecchè ai Francesi non manchino spiriti vivacissimi, che anzi li possiedono in copia, vie più mi confermo nella opinione, che di Stato essi non intendano niente; e se questo ebbe animo di dire il Macchiavello in faccia al cardinale di Amboise ministro di Luigi XII non farà caso, che lo dica io qui dove veruno Francese ci sente. Smorzato il Congresso sottentra un’altra sequela di considerazioni piene di ambagi; e tu odi dintorno un domandare affannoso: «avremo la guerra?» Gli oracoli tacquero, affermano gli scrittori cristiani, dopo la venuta di Gesù Cristo, i Profeti non costumano più, o li bruciano come il Savonarola, o li buttano nel Tevere come Brandano; degli Astrologhi non rimangono neppure le ceneri: a speculare il futuro non ci avanza altro telescopio, che l’intelletto il quale quando non ha le lenti rotte quasi sempre se le trova appannate. A Torino ci hanno vecchi repubblicani con un paio di occhiali di dodicimila franchi all’anno sul naso adesso vedono tutto monarchico, ed anco assoluto. Noi pertanto con lo intelletto nostro ragioniamo così. Lo Imperatore di Francia guerra sembra non ne abbia a volere; suo fine prima di giungere al regno fu arrivarci, arrivato mantenercisi; magari! se starebbe quieto ad esclamare: Deus nobis hæc otia fecit; ma nè Dio si pigliò cura di lui, nè gli largiva ozi; i giorni suoi afferrò Nemesi dagli occhi senza palpebre, la Dea implacata, che veglia sempre, la quale gli contende posarsi; dov’egli si fermi le sue gambe, come quelle di Filemone, e di Bauci, barbificheranno nella terra, e ne sorgerà rigoglioso e potente l’albero della Libertà. Lo impero perchè duri bisogna, che procacci al popolo di Francia la recuperazione di quanto la Repubblica consegnò al primo Napoleone, e adempia alle necessità della Democrazia. Ma dov’è questa Democrazia, e chi la rappresenta? Tutti e nessuno; per ora assai rassomiglia alla morte, la quale mentre non ha forma disforma tutte le cose, e come la morte è capo di vita novella: difficilmente accade e forse mai che l’uomo acconsenta in tutto e per tutto ad un’altro uomo; quindi screzi in casa, nel foro, e da ogni dove, anco tra quelli che si professano cultori di uno stesso partito; ma dai milioni dei singoli emanano a mo’ di molecole spiriti di sensi uguali sottilissimi, e tenui, i quali aggregandosi moltiplicano; cresciuti a potenza mirabile compongono quella grande cosa, ch’è la coscienza pubblica, donna e madonna del mondo. Questa s’insinua nell’aria, la bevi nell’acqua, l’odi in tutti i suoni, ti squilla in ogni canto; se la cacci in prigione ti guasta il carceriere, se la mandi al patibolo si mette a predicare su la traversa della forca, se cammini ti sta allato come ombra, se giaci ti zuffola di sotto al guanciale, se dormi ti si pone a sedere sul cuore come sopra un cuscino. Ferro, fuoco, laccio, e veleno non valgono contro lei; gli hanno provati, e conobbero, che se ne alimenta per crescere. — Gli astutissimi sfidati poterla vincere hanno cercato agguindolarla e pare, che riescano; ma ella è una proroga, che talora si concede da lei per ferire meglio,... la sosta nella cappella del condannato condotto alla giustizia. E che vuole mai la Democrazia? Con quale sacrifizio si placa questa terribile divinità? — La Democrazia si compone di anima e di corpo, quindi abbisogna del pane quotidiano di biada, e d’idee; l’uno senza l’altro non approda; con le idee sole tu plastichi un solitario, col solo pane un gladiatore. Napoleone III attese a seppellire l’anima dentro ad un pane; ed ha sbagliato per molte ragioni, e primamente perchè le anime non si seppelliscono dentro ai pani, come non si affogano dentro l’acqua benedetta; e poi perchè veruno al mondo per quanto potentissimo egli sia può sostituirsi in luogo della Provvidenza, ed il concetto di bastare al pane di trenta e più milioni di uomini si reputa infermità da curarsi con l’elleboro; anco a un milione non lo potrai dare, che scarso, e per tempo non lungo. — Di vero la Francia con quasi due miliardi di entrata dopo lo impero patisce un manco nel bilancio di 336 milioni a ragguaglio di un’anno per l’altro; ed ora di un tratto ci palesa per soprassello un vuoto di 900 e più milioni. La Democrazia va agitata da istinti immani, che brancolano come una volta l’Erebo, e la Notte dentro il Caos prima che l’onnipotente Architetto ordinasse il mondo; dentro le odierne forme sociali la Democrazia si sente scoppiare, tutto è dolore per lei, la vita come la morte; così non va bene, bisogna che muti; ma come mutare? Qui il nodo. — I sapienti almanaccano con certi sperimenti loro, che chiamano scienza, e i derivati suoi predicano assiomi, ma poi alla prova nè manco essi ci credono; arroganza antica di empirici: frai sapienti davvero Socrate ti afferma nella sua vita avere saputo non sapere nulla, Pirrone dubitava di tutto, santo Agostino di molto, san Tommaso di Aquino distingueva: i nostri divini intelletti all’opposto non distinguono mai, di nulla dubitano, tutto sanno. La Democrazia molto si arrovellò un giorno per le forme politiche degli Stati suspicando che per colpa, o per virtù loro ei prosperassero o intristissero; adesso ricreduta alle forme politiche non bada, o poco ella più che tutto pensa a mutare l’alveo al fiume della umanità. Che giova nascondere la faccia delle cose? Nè per ambagi, nè per dinego può farsi che le cose non appariscano e non sieno. La Democrazia se dal dispotismo ricavò sempre male, non sempre ebbe bene dalla Repubblica; che monta regno, e che monta repubblica? Agide e Cleomene Re sentirono pietà pel popolo, come si commossero per lui Tiberio, e Caio Gracco tribuni, tribuni e Re rimasero dai conservatori, o aristocratici, ottimati, moderati, o con quale altro più reo nome voi li vogliate chiamare, insomma i privilegiati che intendono circondare il privilegio col terrore delle leggi, e la mannaia del carnefice. Parecchi ed io con loro confidarono potesse cosiffatta trasformazione operarsi a mano a mano, e all’avvenante che si abbatteva il vecchio costruirsi il nuovo: i conservatori, o moderati che vogliamo dire (e si faceva per loro!) non compresero, o rifiutando comprendere proruppero in calunnie; e forse quanto divisammo non poteva accadere: in questo come nella più parte dei nostri disegni abbiamo conosciuto la verità della parola del divino maestro, che toppa nuova su panno vecchio non regge; grandissima parte di noi in premio dei travagli sofferti avrà fama nei posteri di trave in mezzo alla via, ostacolo al progresso della umanità; felice colui di cui le forze a spingere rinvenute uguali a quelle del respingere passerà senza infamia e senza lode: fie per noi desiderabile essere stimati uomini inutili. — Il moto, che agita i popoli rigettato indietro, poichè la scienza non gli trovò lo sbocco, glielo faranno trovare l’ira, e la necessità. Che aspetto presenteranno gli umani consorzi dopo gli eventi presagiti? Chi può dire che sarà della terra dopochè l’avranno solcata le lave dei vulcani? — Quello, che deve accadere accadrà; questa iscrizione si leggeva sopra il castello di Enrico IV nel Bearnese; sia permesso a me popolano usurpare la iscrizione del Re. La Democrazia pertanto, secondo la opinione mia, sforzerà alla guerra il Napoleonide, ma non lo sovverrà, e nè egli vorrà essere sovvenuto: oggi costui si trova ridotto a tale, che non può stare con lei, nè senza di lei: preso pei capelli dalla Democrazia egli si ostinerà ad ordinare la guerra regia; e la Democrazia sola è capace di soffiare il vento, che spinge la tua bandiera in faccia al nemico; cotesto vessillo poi di qua o di là, che sventoli tu avrai sconfitta o vittoria; però che solo dalla Democrazia puoi ottenere i volontari, che fuggendo prima a Gemmappe portarono poi le aquile imperiali per tutta la terra ferma di Europa. — Con chi vorrà o potrà collegarsi il Napoleonide? E’ vi ha chi dice con la Italia, e con la Russia, e sembra strano che la guerra mossa dagli strazi della Polonia andasse a finire con la lega della Russia; ma i tempi e l’uomo ci hanno avvezzi a bene altri contrasti, e te ne persuaderai solo, che tu confronti la impresa d’Italia con quella del Messico. Comecchè dunque siffatta lega non s’impugni, pure ne esecriamo il presagio nè la crediamo per nulla; avvertiamo ad altro. Lega con l’Austria non sembra possibile, imperciocchè la blandizie insidiosa del Messico rifiutata, palesa il suo animo alieno dalla Francia del pari che il Congresso non accolto dalla Inghilterra lo dimostra avverso; e veramente riesce duro a credersi, che l’Austria voglia scendere in campo per affrancare la Polonia di cui parte ella abbranca dentro ai suoi artigli; nè a lei talentano davvero le guerre, che mirano al riscatto dei popoli dalla servitù; lo stesso dicasi della Prussia su la quale molto ascendente esercita la Inghilterra; nè vediamo quale sarebbe il compenso della impresa zarosa: forse la promessa all’una ovvero all’altra potenza della Polonia riscossa di mano alla Russia; ma chi compra pelle di Orso prima, che sia preso? E poi qui occorre conquista doppia: prima vincere la Russia, poi la Polonia. O vorrà il Napoleonide mettersi allo sbaraglio con solo la Italia, e forse con la Turchia? Quando Napoleone I si avventò contro la Russia, eccetto la Inghilterra, traeva seco alleata tutta la Germania, che allo improvviso gli si voltò nemica; sarebbe prudente che ci si avventurasse Napoleone III con la Germania avversa? Se lo facesse, la Italia dovrebbe, o potrebbe seguitarlo? La Italia non può seguitarlo; imperciocchè la Italia e la Francia portino le pene, quella di non avere preso, questa di averle contrastato Roma. Roma tolta in tempo di mezzo importava per noi stato se non perfettamente, almeno quanto basta ordinato: guerra civile repressa; massima parte di malcontento senza ragione di sorgere, e di durare; erario non florido, ma nè anco agli ultimi tratti; esercito intero, e non guasto da battaglie come vuote di gloria così piene di molto pericolo, e di ferocia, Roma per noi importa la trasformazione di ventidue milioni di stracci ammucchiati, dentro la bottega del rigattiere, in un popolo nobilissimo e potentissimo di ventidue, e più milioni di anime. La Inghilterra abbisogna in terra ferma di uno stato forte sopra il quale appoggiarsi, non già per offendere, che non le giova, bensì per difendersi, cosa a cui molto ella bada; e fin qui ella si tenne l’Austria, nè le doleva (fosse genio o costume di antica domestichezza), nel quale concetto mi conferma il ricordo delle parole del Russell quando confortava gl’Italiani a riporre ogni loro fidanza nell’Austria ridivenuta mite: ma poichè la Inghilterra conobbe l’Austria dannata ad insanabile decadenza, ella, per quanto ci è dato giudicare, non era aliena, anzi si prestava volonterosa alla composizione del regno italiano, come quello che interponendosi tra la Francia, e la Inghilterra le avrebbe mantenute in pace. Ora finchè la Italia rimanga satellite della Francia la Inghilterra, sembra a noi, che sia condotta ad appoggiarsi su la Prussia, ovvero sopra l’Austria, o sopra ambedue. Se sia provvidenziale o funesto non sapremmo dire, ma certo egli è che tra Francia e Inghilterra vive uno spirito, che le sospinge perpetuo una contro l’altra, e dove la Italia per virtù propria, e per benefizio di fortuna potesse essere assunta alla dignità di araldo fra loro oltre ad acquistare per sè novella gloria, e più desiderabile delle passate assai, forse aprirebbe il varco ad ordine di cose, che fin qui è stato desiderio di anime innocenti o fantasia di poeti. La Italia poi più che altri ci apparisce capace a tanto ufficio, imperciocchè da lei ab antiquo emani aura di civiltà, ed è usa dare alle genti religione, riti, e nozioni di diritti, le quali cose tanto più volentieri si pigliano da lei quanto ella sa meglio vestire il buono con le amabili forme del bello. Veramente l’appetito cieco, massime da principio, poteva ribellarsi da siffatto arbitrato, ed allora la Italia accostandosi colà dove la inchinava la giustizia, avrebbe eziandio con la minaccia della guerra prevenuto la guerra. La Italia sembra a me ridotta a tale, che per sè nulla possa, e se mai segue la fortuna di Francia lo farà come il grano messo sotto la mola; vi rimarrà macinata; il perdere di lei è rovina, il vincere servitù: tuttavia messo da parte la volontà, ma donde cava ella la potenza per sostenere una politica propria, ed anco per comparire utile aiutatrice della politica altrui? — La Italia manca di armi sufficienti alla impresa: la setta empia, che fa cadavere tutto quello, che tocca, adulando sostiene possederne anco troppe: e mentisce: ma che monta per lei? Se la Patria avesse a dare il tracollo, le sue gambe sono già use ad inginocchiarsi davanti al nemico invasore; use le mani a picchiarsi il petto; e la bocca usa a recitare il confiteor d’infamia. Mentisce, imperciocchè l’esercito non sommi bene a trecentomila uomini; cento e più mila ne sciupano tra la Sicilia, e Napoli; diffalcate gl’infermi, i presidii, gli addetti alle amministrazioni; avvertite, che tutti ad un tratto non si possono arrisicare; quelli, che rimangono sopra una carta, e ditemi poi quanti entreranno sul campo? Che se vi attentaste scemare i soldati nelle provincie meridionali, e forse anco altrove con Roma arrotatrice di masnadieri, il Borbone arrovellato per la mandra rapita, le trame dei sacerdoti iniqui, le ire degli spodestati, gl’interessi inciprigniti, l’agonia di ricattarsi, e ahimè! la inerzia altresì, o il corruccio degli uomini liberali, per me dubito, che correremmo presentissimo pericolo che avvenisse a noi come ad Uguccione della Faggiuola, il quale mentre esce di Lucca per ricuperare Pisa arrivato a mezzo cammino perde anco Lucca. Su i soldati volontari non parmi ci si possa fare capitale, e ciò per due ragioni; la prima, che il Governo non consentirebbe chiamarli, la seconda, ch’essi non ci vorrebbero andare. Quanto al Governo una volta, che con pertinacia stupenda, e spesa enorme li licenziò non sembra, che senza biasimo potrebbe radunarli da capo, e poi non ci ha di questi pericoli considerando la perseveranza del ministro della guerra a sbrattare l’esercito di ogni labe garibaldesca; per ciò che spetta ai volontari, sicuro occorrono uomini della natura dello insetto, che non sembra pago dove prima non si sia arso intorno al lume, ma non crederei che queste voglie si partecipassero dai garibaldini. E quanto ai volontari in brevi accenti mi giovi ripetere quello, che apertamente già ne dissi altrove, avendo avuto a sperimentarli io. Importa distinguere tra volontari che non pigliano la ferma dagli altri che la pigliano; e poi tra quelli che si assoggettano a regolare disciplina, e gli altri che ci repugnano; per ultimo fra quelli che si danno e gli altri che ricevono gli ufficiali. Chi non piglia ferma, e procede senza legge, e si sceglie il capo non mica per obbedirlo bensì per istrascinarselo dietro tra i cattivi è pessimo. Ricordai altrove come Gasparo di Coligny grande ammiraglio di Francia, costretto ad accettare nelle guerre di religione chi veniva veniva ebbe più volte a dire, che aria tolto a reggere piuttosto una legione di diavoli, che una compagnia di volontari; ed avverti, che i volontari del Coligny spettavano la più parte alla nobiltà campagnuola, mentre i più dei volontari odierni uscivano dalla popolazione delle città. La elezione dei capitani messa in balìa dei soldati se dannosa sempre io per me non saprei, ma nuoce certo negli esordii, però che allora prevalgano gl’imbroglioni, mentre dopo combattute parecchie battaglie potrebbe darsi, che la virtù prevalesse. Faceva mestieri pur troppo a non pochi fra i volontari la provvista quotidiana come di pane, e di carne così di cappotti, e di scarpe; le armi se invendute nabbissate; nè questo è tutto: forse in verun corpo come tra i volontari si trovano estremi, imperciocchè vi accorrano giovani i quali per ordinario possiedono facoltà di scansare la leva, ed uomini che dell’anima loro non sanno proprio, che farsi; nè mancano eziandio coloro che tu non patiresti al tuo fianco, eccetto sul campo di battaglia. E bada bene, che non sarebbe giusto, nè arguto respingerli, dacchè essendo mossi da animo buono possono rigenerarsi nel battesimo del sangue, e se da cattivo ci è il caso, che per via onorata scemino alla Patria gli umori malsani che la travagliano. Per la quale cosa riesce difficile maneggiarli prima, e dopo la guerra, imperciocchè adoperando rigidezza sovente meritata dai secondi, offendi i primi, mentre se ti comporti benigno rendendo a questi i degni premi, promuovi con pericolo, e non senza scapito della tua reputazione gli altri. Nè qui le difficoltà cessano; anzi appena furono tocche da me; tuttavia pon mente a questo, che se l’arte di governare i popoli, in ispecie nei tempi grossi, fosse pari a quella d’impagliare i fiaschi gli uomini di stato si troverieno ad ogni svolta di canto; e strano medico ti parrebbe colui, che sgomento o imperito a guarire i mali desse allo infermo di una stanga sul capo per medicina. — E poi le milizie regolari sono proprio scelte con la diligenza di chi mette assieme il vezzo di perle alla sposa? importa non buttare legna sul fuoco, ma davvero, tra lo agitare la camicia insanguinata dinanzi agli occhi del popolo infellonito, e scolpare ogni eccesso ci fie lecito domandare qual sia più tristo, e più nocivo alla Patria? Io per me, quando penso alla rigidità con la quale i Romani punivano ogni più lieve fallo in fatto di disciplina, non arrivo a capire la ragione per cui i Governanti nostri nieghino, o scusino colpe, che per debito sacrosanto avrebbono a ricercare, e a percotere. — Là dove si voglia opporre, come cessata la guerra riescano carico molestissimo i volontari, noterò che carico non meno molesto proviamo le milizie ordinarie: entrambi conservate divorano le sostanze del paese, entrambi dimesse ti empiono le carceri; in altri tempi quando era lecito manifestare il proprio concetto passò fino in proverbio, che la guerra fa i ladri, e la pace gl’impicca. Se oggi la guerra faccia i ladri non cerchiamo; bene però possiamo dire essere molto verosimile li partorisca la pace, ed è per questo, che noi divisavamo un dì trasformare il soldato in agricoltore tirando partito da terreni incolti, e per salvatichezza malsani; nel quale disegno ci confermava la necessità di respingere vie via nella campagna le braccia, che affluiscono nelle città dove le menano il desiderio di guadagno più largo, o di lavoro men duro, così che mentre le industrie manifatturiere nelle quali la Italia non può prevalere patiscono ribocco di cultori, le agricole poi ne sentono difetto. Proseguendo il mio discorso affermo, che la impedita annessione di Roma al Regno italico ci abbia condotto in termini di pecunia, che ormai non vedo come ci si possa trovare rimedio, almeno ordinario; ed anco questo tra gli altri tutti gravissimi è male delle rivoluzioni, o se pure vuolsi, delle trasformazioni tronche a mezzo. Per questo caso tu patisci gli strappi del vecchio, e non ti approfittano i rammendi del nuovo. Adesso la rivoluzione a mo’ del bronzo, squagliato per fondere il Perseo, che Benvenuto Cellini lasciava improvvido in balìa altrui, ha fatto migliaccio, e si chiede virtù più che umana a farlo liquefare; poichè quando potevamo non volevamo, adesso ci tocca a volere come potremo, se pure è volere quello che la necessità ci pone quasi giogo sul collo. Quando gli stati o per volontà propria, o per forza altrui operano rivoluzione o trasformazione patiscono scompiglio più o meno intenso, tuttavia sempre molesto. Chi va a prova di forza si cava meglio d’impiccio, almanco pel momento, però che detti la legge sopra la punta delle baionette. Le sono cose, le quali si devono dire, che la piaggeria al popolo, codarda quanto quella, che usiamo verso i re, torna agli stati più funesta assai: i Tedeschi invasori incutendo paura radunavano più agevolmente moneta, che non poterono i nostri Reggitori quantunque santissimi. Corrotti siamo fino al midollo, e con la perpetua iattanza di civiltà veliamo la putrefazione nostra a mo’, che si usa coprire col tappeto di velluto ricamato di oro il cadavere quando si porta al camposanto; non l’amore di Patria, bensì il terrore del bastone straniero fabbrica la chiave onde si aprono gli scrigni di questo immenso ghetto, che la gente moderata appella Italia. Ai Rettori delle rivoluzioni volontarie fanno mestieri sagacia grande, e virtù: importa ch’ei procedano lieve, lieve, che le carni sono scoperte e per poco s’infiammano, ed io ho creduto sempre, e tuttavia credo, che le regole generali, e le teorie della scienza sul principio delle rivoluzioni non approdino, anzi nocciano, e molto: a guidare gli esordii delle rivoluzioni, per mio avviso, si desiderano uomini ricchi di partiti; i quali nella moltitudine delle contingenze o varie, o discordi, o contrarie si schermiscano con rimedii empirici, sempre mirando a disporre la materia così, che un giorno accolga volonterosa l’ordinamento scientifico. Non si vuole negare, nè io già lo nego, come in siffatti negozi riescano più agevoli i consigli, che i fatti; quando di teorie fu mai penuria? Le pratiche sempre proviamo corte ai bisogni; poichè con le rivoluzioni volontarie non puoi valerti di sevizie, e potendo non lo dovresti; nè giovando andare loro di contro col prezzemolo al naso, a qual santo votarci noi non sappiamo. — Io l’ho pur detto sopra, di regole generali non hassi punto a fare parola; voglionsi uomini ricchi di partiti; e rimedii lì per lì escogitati ed apposti; nè solo in fatto di moneta, ma sì in ogni altro argomento politico mi apparve sempre inane e peggio mettere fuori quelli, che ai giorni nostri chiamansi programmi; e se anche io gli adoperai consentii piuttosto all’andazzo del tempo, che ad una mia persuasione; di vero se essi contengono generalità non rilevano, anzi sovente ingannano e la corda filata con la canape repubblicana non ti strozza meno stretta della fune tirannica; indicare poi rimedii speciali senza il caso di doverli applicare egli è un’ammannire cerotti prima, che il fignolo nasca. Se Casimiro Perier, o Cammillo Cavour tornassero al mondo e mi squadernassero in faccia un manifesto da disgradarne ogni più sterminata dichiarazione dei diritti dell’uomo, uccello accivettato io non cascherei sul vergone; che se all’opposto venisse un Washington, o un Kotschiusko, o un Bolivar, od altro divino spirito, onore di questa natura umana, e dicesse senza più parole: «in me confida» io gli porrei il capo in grembo. Capisco, che a questo modo corriamo pericolo grande; e sarà sempre un bel civanzo poterne fare a meno; ma quando non si può, Siena per forza. Tamen, per dirla a mo’ del Macchiavello, due partiti fino d’ora si possono annunziare; il primo consiste appunto nel liquefare il migliaccio rivoluzionario crescendo il fuoco come adoperò il Cellini col buttarci sopra la catasta dei quercioli secchi da più di un’anno, che gli aveva offerto madonna Ginevra moglie del Capretta; e quando il metallo cominciasse a schiarire, e a lampeggiare gittarci sopra anco il pane dello stagno, e dopo il pane piatti, scodelle, e tondi di stagno quanti ne fossero in casa. Molti lo hanno accertato prima di me, ed io più volte lo dissi e lo affermai: a volere che gli uomini sentano, ed operino eroicamente fa mestieri agitarli; la quale sentenza vera in ogni condizione del consorzio umano, comecchè meno imperfetto, torna a capello nella infelicissima del nostro. Le cose oggi sono ridotte a punto, che non farebbe maraviglia se il primo grido dei pargoli a mezzo usciti dall’alvo materno fosse: «quanto per cento mi assicurate per vivere, se no torno dentro....!» La Patria diventò un commercio, la Libertà un’affare, respublica negotiosa come ai tempi della decadenza romana: la più parte degli uomini, guardateli bene, portano segnato il prezzo tra ciglio e ciglio, come i bauli, le sacche, i ninnoli, ed altra siffatta roba vendereccia nelle botteghe dei mercanti, con la differenza, che su questi ci si legge: prezzo fisso; su gli altri no, però che il valore cresca, o scemi secondochè sul mercato vi sia maggiore o minore richiesta di viltà. — A rischio di riuscire sazievole io vo’ ripetere, che, battendo alla porta dello Interesse, ei non può darti altro, che uccellatori di strade ferrate, o di appalti, o di cariche, o di gladiatori per dodicimila franchi all’anno, o legislatori per tremila franchi al mese, soccorritori della Patria al saggio del venti per cento l’anno, o impresarii di tempii dedicati a Venere pandemica, o nobili offerenti a conquistarti col grimaldello in mano, e mercè il premio di seicentomila franchi una corona, che male si piglia e peggio si tiene se non per virtù di spada, o fornitori di pompe funebri, o scorticatori di capretti, o conti Bastogi. E strana cosa, mentre così si ragiona, ed opera da cui dovrebbe con gli atti porgere esempio imitabile al popolo riarso, estenuato, e reietto, che in onta all’eccessivo travaglio tira l’anima co’ denti, gli s’intronano gli orecchi gridando: «la Libertà è cara, bisogna pagarla.... Ma, il popolo esclama, dove si trova ella questa Libertà per la quale assottiglio il pane alla mia famiglia, e do il sangue dei miei figliuoli? — Io la conosco come i dannati la gloria del paradiso. Voi sempre in cima, io sempre in fondo, voi sempre gaudenti, io sempre tribolato. Per me intendo Libertà quella che mi accerta vita men dura, e mi leva dall’angustia dell’ignoranza: questa amo, e per questa patirei ogni disagio: la vostra di povero mi ha fatto misero. Per farmi vedere maggior lume voi mi ardete la casa. — Voi bandite inclito versare il sangue per la Patria, ma riscattate il vostro a suono di danaro; i miei figliuoli vanno esenti ad un patto, ed è, che per manco di cibo, o per troppo di fatica vengano sparuti, o cresciuti si guastino. Qui si lapida adesso la umanità co’ nomi, e con le apparenze generose si crocifiggono i popoli, la concordia significa tradimento, ordine la morte, libertà servaggio; come altra volta la misericordia era un coltello, e con un va in pace si mandava giù l’odiato innocente per un trabocchetto.» Guai allo stato, ed a noi tutti guai se il popolo, confrontati i mali della tirannide con quelli della falsa libertà, un giorno brontoli: «torni il tiranno, almanco egli mi saziava la fame!» Quale il fuoco, tale l’anima umana: per crescere l’ardore dei carboni tu li sbraci; la luce alla fiaccola tu la sventoli; commuovi forte l’anima umana e manderà calore, e luce. — Allora nell’agitazione degli affetti i popoli vetusti decretarono a Giove l’ecatombe, sagrifizio di cento bovi, non consultate o neglette le necessità dell’agricoltura, onde temperando più tardi lo incauto zelo, la stessa religione interpetrò per ecatombe non avere inteso significare i padri il sagrifizio di cento bovi, bensì cento gambe di bovi, e così venne ridotto il macello da cento a venticinque teste. Con l’animo agitato dal pericolo, e dal furore di superarlo, e’ fu che gli Ateniesi allo approssimarsi dei Persiani votarono a Diana immolarle tante capre quanti avrebbero ucciso nemici; i quali salirono a numero così strabocchevole, che non trovandosi in tutta l’Attica capre sufficienti al sagrifizio, bisognò ridurre il voto a cinquecento per anno; a questo modo ridotto durava anco ai tempi di Senofonte, che ce ne ha lasciato il ricordo. Nè a me giova moltiplicare esempi cavati dalle antiche o dalle moderne storie quando pure ieri io ne vedeva sotto i miei occhi la conferma, conciossiachè disputandosi fra noi sul modo di sovvenire certa sventura fraterna, il popolo non trattenuto dalle parole dei savi, i quali facevano considerare come accadendo gl’infortuni quotidiani, ed uno pur troppo più lacrimabile dell’altro, prudenza persuadeva a risparmiare il danaro tenendone in serbo una parte, ed una parte donandone, divinamente improvvido si rovesciò le tasche dicendo: «a domani qualcheduno penserà.» I santi solo ed il popolo pronunziano col cuore: «Deus providebit,» perchè davvero essi credono in Dio, ed essi solo meritano che Dio risponda alla loro fede. La storia ci ammaestra l’esempio quanto sia contagioso così pel male, come pel bene; sebbene pel male due cotanti più, ond’io penso che amore desterebbe amore, generosità moverebbe generosità, e se taluno oltre a pagare i consueti balzelli per diventare popolo veracemente, costituire la Italia, uscire dall’uggia, e dalla umiliazione del presente avesse a deporre nell’erario mezza la sua entrata, a patti che l’avanzo bastasse ai bisogni della famiglia, e suoi, per me credo, che lo farebbe. — Che se altri irridendo opponga: «o chi lo para da mettere in esecuzione il suo proponimento?» Si risponderebbe: che a questi Governatori sempre ricusammo pecunia, però, che fino dal ministero Cavour a noi parve il concetto del governo viziato; c’increbbero gli uomini, ma più il disegno; conoscemmo la riga tirata obliqua, la quale quanto più sarebbe stata prodotta, di tanto sariasi dipartita dalla via retta. Anzi le mie parole novissime in Parlamento furono profferite per negare la riscossione provvisoria della rendita pubblica, avversando la opinione di tali, che si professano amici, quanto me, e più di me del vivere libero. Ora hassi a giudicare mal vezzo di animo stolidamente maligno intimarci a depositare il nostro danaro in mano a gente in cui non confidiamo, e che per opinione nostra servirebbe ad allungare l’agonìa della Patria. Come spontanei commetteremmo il nostro avere a tali a cui costretti innanzi di dare un soldo ci lasceremmo pestare nel mortaio come Anassarco? — Tanto varrebbe, come dice il proverbio, pagare il boia perchè ti frusti. E prima di dare, tirando un frego sul passato, vorremmo essere sicuri, che di ora in poi non ci si facessero mangerie come rescriveva Cosimo dei Medici allorchè stanziava i trecento scudi pel restauro del bagno di Montecatini. Ancora parrebbe giusto, che le bocche inutili si cacciassero via, dacchè se lice cacciarle dalle città assediate dalle armi non ci biasimeranno se lo facciamo noi assediati dai debiti. Oltre le bocche inutili le bocche indegnamente fameliche si hanno a sfrattare; e chi tira paga, provvisto secondo la condizione ai bisogni suoi e della famiglia, la lasci anch’egli per un’anno alla Patria. — A questo modo raduneremo danaro e subito. Le sono fisime queste, ci schiamazzano dietro, ma tutto ciò, che minaccia l’interesse acquistato, o lo interesse in procinto di conseguirsi dai conservatori chiamasi fantasia, e peggio, nè si contentano a parole, bensì lo lacerano coi fatti: quale impresa onorata cotesti uomini perduti non vituperarono delirio prima dello esito? E riuscita qual’è la impresa di cui non si approfittarono? L’aquila imperiale, il leone repubblicano capitati nelle loro mani, mantrugia mantrugia, tramutarono in pollo, e in capretto per arrostirli poi; e col sangue dei martiri li spruzzarono, affinchè riuscissero più saporosi a mangiarli. A fine di pasto propinarono ai pazzi sublimi defunti per avventarsi più rabbiosi sopra i viventi, finchè a posta loro non fossero morti vincendo nuova pietanza per essi. — Perchè ci lodino, la nostra sorte vuol’essere quella di Epaminonda a Mantinea, vincere la battaglia per loro e poi morire. Consideriamo questi uomini pratici, questi moderati, i quali, secondochè altra volta notammo, tolsero questo nome al modo stesso degli antichi Imperatori, che Affricano, o Asiatico, o Germanico appellaronsi per le stragi, che menarono in coteste parti di mondo; moderati per avere assassinato la santa moderazione; consideriamo, dico, questi uomini alla prova: con qual norma regolarsi non sanno; ora rendono omaggio allo scambio libero, ed ora lo rinnegano, anzi la stessa legge in parte lo accarezza, e in parte lo schiaffeggia; durante la stessa sessione un Ministro scema il porto delle lettere, perchè il buon prezzo cresce lo spaccio, e nello spaccio sta il guadagno; un’altro aumenta il costo dei trasporti sopra le ferrovie, perchè il rincaro quando l’oggetto è necessario non dissuade la gente da procurarselo. Fanno, e disfanno: adesso pare, che consentano, quanto all›aumentato prezzo dei trasporti, a rimettere le cose come prima e ne hanno presentato la legge al Parlamento, che ne voterà la soppressione con la medesima ressa insensata, e servile con la quale testè ne votava la instituzione: trafitti dal successo i Ministri piegano il capo a mutare la legge sul bollo e sul registro, senza però rimettere di un pelo dell›arrogante pertinacia a volere sgararla nelle proposte che sbalestrano a vanvera, nè i fidi Acati a cessare di un attimo dal servire cotesti buoni Signori di coppa e di coltello. Se tu avverti ai quotidiani svarioni economici contrastanti fra loro, e agli atti schiaveschi dei nove Ministri nostri tu pendi incerto se avrai a definire il Ministero o confusione divisa in nove capi, o trattato delle servitù in nove volumi. Economie non seppero, nè vollero fare: promisero prima, poi, secondo il solito, non attennero, e parvero, e furono modi di usuraio che abbindola lo scapestrato per cavargli di sotto il babbo morto. Alla prova ogni Ministro difese il suo bilancio con la ferocia di quei di Saragozza che contesero ai Francesi casa per casa, e stanza per istanza. Curioso poi è questo, che nonostante il crescere delle spese vantano economie, come se tu potessi consolarti di civanzo fatto, dove ti mostrino come invece di aggravarti del doppio ti hanno stremato solamente di un terzo. Per inquisire le ladronaie mancò il coraggio ai nostri uomini di stato ai quali sembra spediente imitare gli ordini religiosi, che negano sempre quando odono accusato reo di grave colpa un frate; con l’arco del dosso lo difendono, e poi di subito tramutatolo di Arno in Bacchiglione sopiscono o credono avere sopito lo sconcio fatto; Rimasta ferma la spesa possiamo senza tema di andare lontano dal vero, asserire che il disavanzo annuale batte in quattrocento milioni, o giù di lì. Alla fine del 1865 quando nel pozzo di San Patrizio avremo buttato la barca, e il palischermo salderemo con un debito nuovo di 766 milioni; questo affermano i moderati, figuratevi gl’intemperanti! Non mancarono persone amiche al Ministero per ammonirlo come essendosi riscontrato nel bilancio del Brasile un manco di quaranta milioni tra la spesa annuale e la entrata i rappresentanti della nazione ne menassero scalpore quasi fosse loro cascato addosso il finimondo, nè si tenessero quieti finchè non ebbero ottenuto il pareggio. La Francia dopo lo impero, che aveva a fondare la pace perpetua, s’indebita di trecentotrentasei milioni l’anno, e se non provvede corre a vele gonfie alla ruina; su di che tu giudica se le spese della Francia possano razionalmente confrontarsi con quelle d’Italia, e se fie dato alla Italia sostenere un carico al quale non regge la Francia. — Antico è il vizio, nè si vorrebbe senza ingiustizia apporre in tutto al presente Ministero; se non lo creava il Cavour, lo crebbe a dismisura, a mo’ del mercante sbilanciato negl’interessi che tira innanzi riavvallando le cambiali alla scadenza; certo se non fu egli che disse: «dopo me il diluvio» lo penso, e lo fece. Se a Ludovico Ariosto era commesso assettare le faccende dello erario io penso, che ci si sarebbe disposto con fantasie alquanto meno bizzarre di quelle del Minghetti, comecchè facilmente più leggiadre; le si conoscono dall’universale; esse consistono in quattro maniere di balzelli; tassa sopra le rendite mobili; dazi sopra la consumazione delle derrate cresciuti; nuovi dazi imposti: per ultimo il conguaglio sopra la tassa prediale: da quello che avrebbero gittato si augurava dentro quattro anni mettere in pari la uscita con la entrata ordinaria. Economie veramente non se ne sono fatte; ma in mancanza di meglio si ripromettono da capo; partiti vecchi, e soliti a comparire in tutte le vigilie delle votazioni dei bilanci, — tappeti del Corpus Domini, che si levano dalle finestre passata la processione. Simili promesse il Ministro adopera per abbarbagliare i deputati come il fanciullo piglia il sole dentro lo specchio e lo vibra negli occhi ai viandanti. Dalla prima tassa il Ministro faceva capitale cavarne un cinquanta milioni, e tanti ne distribuì sopra le provincie italiane, assegnando a ciascheduna la sua quota: la quale misura era desunta da quattro fondamenti, i quali furono chiariti inetti a partorire giudizio buono, onde i censori ne proponevano altri, i quali a posta loro erano ripresi come fallaci: stando a quel modo le cose pareva razionale si rigettassero tutti, e su norme più idonee si stabilisse il giudizio; ma questo ai Ministri del regno italico sarebbe sembrato troppo grave scandalo, però tennero fermi i fondamenti loro, accettarono i proposti, e composto così un guazzabuglio di spropositi, stimarono ne uscirebbe spillato l’archetipo perfetto; di vero, anco Dio o non cavò fuori dal caos la luce? Nè i Ministri sè estimano niente meno di Dii, e del non avere saputo o voluto torre Roma al Papa si consolano di un’altro furto, che gli hanno fatto; hanno rubato a quel meschino di Pio IX la sua infallibilità. Ed è anco più strano questo altro, che il Ministro avendo prima chiesto da simile balzello cinquanta milioni, poi per istralcio si accomadasse a trenta; su di che mettiamo da parte la sconvenienza di vedere il Governo, che adopera col Parlamento a mo’ di creditore di fallito; ci sembrerebbe onesto, che il Ministro domandasse leale quello, che a punto gli abbisogna o giù di lì; ma venti milioni meno su cinquanta dimostrano che o il Ministro non seppe quanto gli occorreva, o chiese pensatamente troppo per procurarsi stoppa a tappare buchi inopinati, e questo, è metodo che meritamente si biasima, imperciocchè palesi incapacità, o malafede nel Ministro, il quale chiese più che gli bisognava, e insipiente prodigalità nei Deputati, che glielo concedevano. Adesso poi sento, che dal complesso delle nuove tasse il Ministero spera cavare somme inferiori a quella, che egli si augurava prima raccogliere dall›unica sopra la rendita mobile; e qui confesso, che mi si annebbia lo intelletto; e tanto danaro si raffida riscotere a patto, che fruttino dal primo di gennaio 1864; che se per quel dì non fossero leste non fa nulla, perchè si darebbe loro virtù retroattiva, come dicono i Forensi. In virtù di quale dottrina le leggi su la gabella delle derrate possono retrotrarsi, il Ministro saprà; a noi non riesce levarci a così alto volo; e nè anco per le altre si potrà, non mica per la ragione, che simile principio equivarrebbe ad una lanciata nel costato del diritto; la maggioranza del Parlamento italiano usa saltare a piè pari bene altri ostacoli, che questi non sono, bensì per la confusione, la fatica, e il rammarichio che persuaderebbero la carne non valere il giunco: ma il Ministro imperterrito s’incoccia, e dice avere fede che ciò possa farsi, e se non potrà farsi subito si farà più tardi; inoltre ha fede che fruttino quanto presagiva e più; dove questa fede avesse a mancare egli trasporterà la sua fede ad altre fonti, e in altri cespiti, la quale cosa significa che riuscita indarno la corda ti darà la ruota, e, se non bastano, l’eculeo, l’assillo, e il fuoco alla pianta dei piedi. Come poi possano sperimentarsi leggi finanziarie fino a strappare la corda, lasciarle poi, tentarne delle nuove senza capovolgere lo stato per me e per altri sono tali abissi d’ingegno, che al solo affacciarmici mi gira il cervello. Rispetto alle gabelle sopra i consumi cresciute, e alle altre imposte, uomini intendenti, e amici del Ministero non mancarono ammonirlo: «mala via tieni; dazio aumentato risponde a consumo diminuito. Già ne hai esempio in Patria: fuori osserva: la Inghilterra, la quale tre volte infedele al principio ormai levato alla dignità di assioma nella scienza ha voluto aggravare la tassa del caffè, del tè, e degli spiriti, e tre vide percossa terribilmente questa rendita della finanza; nella sola Irlanda scapitò l’erario centodiciassette milioni, e seicentocinquantamila franchi; cresciuto il dazio anco sul tabacco, nella sola Irlanda resultò un meno di Libbre 4,070,000, sgabellate.» Il Ministro di sè glorioso a ciò non bada bambinante in quel suo riso di San Luigi Gonzaga. Anco gli amici, come gli avversari, gli aggiungono: «pensa, o uomo a cui la somma potestà della Italia avrebbe dovuto cascare sul capo come il tegolo su quello di Pirro, pensa che le nuove tasse sono torchi stringenti le pietre dove non incontrino il correspettivo della ricchezza pubblica, nè questa può essere nata così di punto in bianco. Tu operi gravemente quello, che il Senatore Gianni uccellando consigliava al Granduca Pietro Leopoldo scorrucciato perchè la gabella delle porte fruttava meno del presagio: — ne apra delle altre Altezza, e le gabelle raddoppieranno.» Non basta; quei dessi amici, ed emuli altresì continuano a dirgli: «avverti, per Dio! che la Italia ti sta nelle mani pari a vaso di alabastro ad un fanciullo; se mai ti cascasse in terra per colpa tua si ridurrà in minuzzoli. Mira, i popoli scontenti hanno dato sempre di fuori per angustia: i Napolitani di Masaniello pel dazio su le frutta, gli Americani di Washington per la gabella della carta bollata, e del tè, i Corsi del Paoli pei seini, e pel mezzo baiocco del mendicante di Bozio; causa non mediocre della rivoluzione siciliana del 1860 fu appunto la tassa del registro; e tu pensi applicando di un tratto quattro tasse le quali non lasciano illesa parte del corpo sociale, che egli non si dolga? Senti, o non riscoterai niente o poco, o metterai la salute dello stato a repentaglio.» Il Ministro inebriato di numeri si canta un ditirambo finanziario, e dacchè tacciava altrui di fatuo non dubita, che noi lo stimeremo da ora in poi uomo sodo. Bene sta che la legge su lo aumento del 10 per cento su i trasporti su le ferrovie deva levarsi, perchè la è vecchia, che quanto meno pregio pretendi di una cosa e più ne spacci: per la medesima cagione il Ministro pensa a ridurre in termini comportabili la legge sul bollo, e sul registro: e per la medesima ragione il Ministro s’intora a crescere il dazio su le derrate! Dopo le tasse, a rattoppare lo sdrucio tirerà fuori centocinquanta milioni di Buoni del Tesoro, ma questi Buoni rispondono a rendite scontate per adoperarne il prodotto in occorrenze straordinarie; dove le rendite non si trovino, i Buoni equivalgono a quel modo di cura, che i Cerusici chiamano autoplastica, il quale consiste a reciderti per esempio una fetta di natiche per rifarti il naso tagliato. Al Ministro non fanno specie i 150 milioni di Buoni del Tesoro, anzi confessa crescerli fino a 300; ma e’ sono ninnoli; e quanto al pagarli torneranno i Narbonesi gente dabbene a consolazione del Ministro nostro, i quali prestavano il danaro in questo mondo per riaverlo nell’altro. Ci hanno i Beni demaniali, che si arebbero ad alienare per un centottanta e più milioni se vuolsi conseguire il bilancio tra la entrata, e la uscita del 1864, ma chi se ne intende afferma gli antichi beni demaniali giungere appena ai centodieci milioni dai quali fa mestieri defalcarne dieci pel Conte Bastogi, il quale si disciplina, come un’anacoreta nella Tebaide, con le strade ferrate per la salvezza d’Italia cara a lui quanto la pupilla degli occhi suoi e più; e poi bisogna sbatterne anco altri dieci, che il Governo dimette ai popoli meridionali affinchè se ne costruiscano strade, dunque una novantina di milioni. Che se vi fosse errore, fuori le stime, e vedremo. Le stime verranno, non ci è furia; furia ci è nel votare i bilanci; all’altro penseremo a tutto agio. Oltre questi beni demaniali affermano avanzarci i possedimenti della cassa ecclesiastica: ottimamente, ma quali e quanti sono eglino? Secondo che tempo farà e’ sommeranno a duagio infino a treagio, ed hacci di quelli del popol nostro, che li tengono fino a quattragio. Una voce credibile ci assicura l’amministrazione della cassa ecclesiastica in iscompiglio, e veramente da siffatta universale epidemia non sapremmo in qual modo potesse andarne immune l’amministrazione della cassa ecclesiastica; e come seguenza di questo stroppio non saldaronsi i conti ai creditori di quella, al contrario appaiono arretrati fino al 1860; e chi ha da avere si gratti; e ciò potrebbe capacitare taluni non noi, sperti che tutti i nodi, gira e rigira giungono al pettine. Ma volendo dare un taglio sul più o sul meno come reputeremo possibile vendere, durante l’anno 1864, i vostri centoventiquattro, o come altri pensa che ne farebbe di bisogno, duecento milioni di beni? In arroto ai centocinquanta milioni di Buoni del Tesoro che occorre (oltre i 150, che già ci sono) buttare sul mercato, e con lo sconto della moneta all’8, al 9, e non si prevede a quanto per cento; — imperciocchè le cause della carestia del danaro non sembra sieno per cessare adesso, là dove sieno vere quelle, che allegano. Altri con molto senno notò, che avendo ad alienare per sopperire ai bisogni del 1863 cinquanta milioni di beni demaniali il Ministro e la Commissione assai confidavano sopra la istituzione del Credito fondiario, la quale essendo mancata la vendita procede lenta, e infelice. Ora se ciò avvenne nel corrente anno per cinquanta o come cammineranno diverso le faccende nell’anno 1864? Forse il Credito fondiario venne accolto? Il Ministro Manna, avendo fitto nel Parlamento con mirabile agevolezza la pala, si avvisò piantarci così di straforo anco il manico, ed incontrò lo scoglio: il soperchio ruppe il coperchio, e il Credito fondiario fu riposto in soffitta come i trabiccoli a giugno. — Il mercato del danaro proviamo scarso, e non si vuole la mente di Galileo per prevedere, che le vendite si opereranno con meno facilità andando innanzi per lo stremarsi delle borse nelle compre antecedenti. Il Ministro dopo consumata la fede ora mette mano alla speranza (un vero saccheggio a tutte le virtù teologali, sicchè noi altri possiamo chiudere bottega) e ci squaderna in faccia gli ostacoli avere a sparire; proporsi vendere all’asta o per trattative private; sconterebbe i prezzi pagabili a rate dentro cinque, e dieci anni... e poi chi ha detto morto il Credito fondiario? E fosse, o che i morti non resuscitano? E basta; chi se ne intende, immagini che cosa ciò voglia dire; se non ti si struggeranno i beni demaniali in mano come pallottola di neve, poco ci correrà. — Ancora, secondo che io considero, il Ministro non bada a questo: come alienando i beni demaniali, i beni della cassa ecclesiastica, e le strade ferrate viene ad alterarsi tutto il bilancio, conciossiachè ti facciano fallo le rendite di tutti questi, che il ministro chiama, forse per rimembranza arcadica, cespiti; e mentre cessa la entrata dura la uscita delle pensioni, e degli obblighi assunti verso i creditori della cassa ecclesiastica, nonmenochè degl’interessi mallevati agl’impresari delle strade ferrate. Questo è lo stato nostro restando le cose come si trovano; caso mai rompesse la guerra a cui ricorre il Ministro per provvedere i danari? — Il Ministro quando sentirà il governo potrebbe convertirglisi in croce da trovarcisi un bel dì confitto sopra lo butterà in terra; ovvero nicchierà come donna partoriente: «su, amici, su, votatevi le tasche, che, me auspice, vi colmaste fino all’orlo, su....» Vedremo allora: alla svolta ti provo. Però se dal passato è concesso argomentare il futuro hassi a credere, che la parte Moderata continuerà l’esempio dei ranocchi i quali stando pure col muso fuori dall’acqua del padule si tuffano sotto al primo stormire della procella per ricondursi al consueto gracidìo tosto che torni l’aura serena e la dolce stagione. — Allora e’ converrà, che taluno si voti alla salute della Patria. Lo assista Dio secondo i meriti suoi, e le benedizioni le quali, fino da oggi, noi gli mandiamo dal cuore: dove (e a pur pensarlo ci tronca lo affanno) fosse nei fati, che ogni sforzo abbia a riuscire invano a lui, e a noi desideriamo la morte; — perchè è amaro, oh! è amaro dopo tanto alito di speranza lasciare scritto per epitaffio da apporsi sopra la tomba: cercando Patria e Libertà sono morto «schiavo.» Intanto pongo per debito qui le parole del deputato Saracco uomo temperatissimo, e non avverso al Ministero: «avete voi pensato, che per entrare in lizza liberamente non a rimorchio di estranea potenza, e sostenere l’urto di tanti nemici i quali ci disputeranno questo sacro suolo d’Italia ci vuole danaro, e molto danaro? Eppure, ch’io mi sappia, danaro noi non abbiamo, all’opposto siamo scoperti di oltre 500 milioni, però che sarebbe chimera grande immaginare alla vigilia della guerra la possibilità di vendere beni demaniali, e mettere in circolazione Buoni del Tesoro. — Al primo rumore di guerra i forzieri si aprono di preferenza alle grandi potenze le quali in simili casi ricorrono al pubblico credito. — In così grave condizione di cose non si farebbe atto di accorgimento pratico pigliare fino da oggi le provvidenze opportune onde il giorno della prova non si converta in giorno di sventura per la Patria?» Dal discorso del Ministro, in aumento di ciò che sono venuto a mano a mano allegando, si cavano lo seguenti proposizioni. Al primo di Decembre egli possedeva in cassa quattordici milioni, resto dei 500 già scontati, e 200 da scontare, i quali non pativano riduzione come dubitava il Polsinelli bensì erano effettivi; con questi si riprometteva sopperire in parte allo sbilancio del 1864: ora tu che hai senno mira svarione: possono elleno sostenersi effettive le cedole della rendita da vendere? Sta a lui fissarne fino da ora il prezzo venale? Col caro del danaro, ed i rumori di guerra sa egli, sappiamo noi di quanto rinviliranno? I diari ci affermano per sicuro l’alienazione di 75 milioni di questa rendita al Vicario di Mammone su questa terra al saggio del 71 per cento, che atteso la imminente riscossione del 2 e mezzo d’interesse fa 68 e mezzo; nè ferma lì, che io vorrei vedere tra ceralacca, e spago quanto ci si debba aggiungere. Ciò è male, e questo altro è peggio: se aliena 75 dei 200 milioni nel 1863 si ha da credere, che il prodotto si serbi per le occorrenze del 1864, o non piuttosto per pagare gl’interessi del debito pubblico a fine di anno? — Certa volta un banchiere, di quelli che vanno per la maggiore, mi ammoniva così: «quando ella vedrà il Governo creare debiti nuovi per pagare gl’interessi del debito vecchio la non si stia a confondere, e si tiri addirittura da parte; gli è il segno dei topi, che lasciano la casa minacciata dalla ruina.» Ora che facciamo noi da molto tempo in qua? Ad ogni modo questo pongasi in sodo, che i 200 milioni non possono bastare al saldo parziale dello sbilancio del 1864. Il Ministro però nega la vendita, e sarà vero, perchè il Rothscild non ne avrà voluto fare la compra, o allora gl’interessi si pagheranno co’ Buoni del Tesoro, e fie pur sempre fermo che gl’interessi si saldano col capitale. Intorno alla difficoltà di accomodare altri 150 milioni di Buoni del Tesoro in tempi così difficili, per iscarsezza di moneta e per presagi di guerra, il Ministro sta come torre fermo, che non crolla nelle sue virtù teologali (eccetto la carità) di collocarli con vantaggio. Per lui 300 milioni di Buoni del Tesoro, senza riscontro delle rendite da riscotersi in saldo di loro, e’ sono ninnoli di cui non vale il pregio trattenere la brigata. Il Ministro non ha promesso mai bilanciare le spese straordinarie dentro i quattro anni, che per queste la Italia dovrà masticare fave per un pezzo; ma in ogni evento la Italia avrà proprio debito a lui, e all’onorevole suo predecessore Sella di averla salvata da fallire ordinariamente; quanto a fallire straordinariamente è un’altro paio di maniche: di questo egli se ne lava le mani nel 1867, e sempre. Il Ministro non vede perchè abbia a rimanere inefficace la tassa sopra la rendita mobile; nè manco la vede al pareggiamento della imposta prediale: queste hanno da operare fino dal primo dì del 1864: quanto a quelle sul consumo delle derrate non può negarsi, bisognerà aspettare; ma non fa nulla, bocca baciata non perde ventura, ma si rinnuova come fa la luna. Certo, nè anco il Ministro nega che vuolsi renunziare al pareggio delle spese con le rendite ordinarie pel 1867; e ciò che rileva? Se non avverrà pel 67, sarà pel 77; pel 97; per qualche sette sarà; e poi per lui non rimase, che tanto benefizio comparisse, le sue brave leggi ei compose, ed ordinò, e non potersi appuntare lui se il Parlamento non le mise a partito, come nè anco fie sua la colpa caso mai gli Italiani non pagassero i balzelli; colui che tolse ad avvezzare l’Asino a starsi digiuno, quante volte gli levò la biada il suo dovere lo fece, se poi l’Asino in capo a sei giorni volle morire, la colpa è dell’Asino, non dell’Asinaio. A colmare il vuoto ci si butteranno dentro i beni demaniali; se non bastano questi, dietro a loro i beni delle casse ecclesiastiche della Italia settentrionale, e media; e se si trovassero corti anco gli altri delle province del mezzogiorno. I quattrini si trovano, o Signore! che ci vuole mai a battere moneta? Nulla; portare l’oro e l’argento alla zecca perchè te li conino, operazione semplicissima a cui basta l’ingegno del Ministro, e ce ne avanza. Leggesi su per le storie, che le Castellane d’Inghilterra, venute meno le provviste, mettevano su la mensa al nobile marito un piatto con dentro un paio di sproni: a questa cena, se la dura così, io temo riserbata la Italia; per me credo, che il signor Minghetti, il quale è uomo di lettere, abbia imparato dalla lettura del Canto del Conte Ugolino a comporre i suoi poemi di Finanza, però che l’ultimo suo meni dirittamente la Italia a mangiarsi le mani per colazione. In onta a ciò, e al troppo più, che potremmo dire ogni cosa sarà non pure approvata, ma laudata, e levata a cielo, imperciocchè ormai gli avversari nostri non possano più come una volta sostenere che noi divide la opinione del metodo da praticarsi diverso per comporre la Italia: questo per taluno può essere, ma dai più ci separano cause bene altramente profonde. I nostri nemici tacciono, e così adoperando si gloriano savi; se così è sbrancate sette bufali e collocateli dentro le nicchie dirimpetto i sette sapienti della Grecia; essi tacciono perchè loro sta lo ingoffo in gola; se mai favellano borbottano come quelli, che tengono sempre il boccone in bocca: rettile di nuova specie, il Moderato si assidera finchè dura il tempo del ragionamento; quando poi spira l’aura dello errore e della servitù si rizza fischiante, e velenoso a mordere la Libertà, che lo sopporta. Miralo! cieco e incatenato ai suoi compagni contro la Patria, e la Libertà pari a Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, il quale privo di vista, è fama, che così facesse insieme alla sua baronìa nella battaglia di Crecy. — Chi non ha le mani pure, vada prima a purificarsi, e torni poi a sagrificare nel tempio, comanda il Vangelo, e noi chiunque tira soldo, e tiene ufficio di governo non apra labbro, se gli cale la fama, nei Parlamenti, e rifugga da parteciparvi, che le intenzioni Dio solo guarda, e l’uomo diritto ha da aborrire ogni sembianza, che sia vile. Prima a costui per la salute della Patria non parve abbastanza appiccare fuoco al Vesuvio, ora con poco spazio di tempo accostato ai geli delle Alpi, anch’essi non reputa sufficientemente ghiacciati: prima il popolo voce e braccio di Dio, adesso polvere soffiata dal Demonio su questa terra; o dove te sacramenti sincero, e immune da ogni vile talento, sarà, ma comincia dallo affermarlo senza il boccone in bocca: sputa i dodicimila franchi; sputa la cattedra; sputa la strada ferrata; sputa la badìa, sputa, e sputa o poi parla. Capitani allo esercito, Professori alle università, Giudici ai tribunali: la sua parte ad ognuno. E gli Avvocati dove? In paradiso a tenere compagnia a Santo Ivone, che ci entrò (dicono) di contrabbando. — Lo dissi e lo ripeto, il popolo ha proprio sete di onestà. — Noi pertanto abbiamo bisogno di Roma sia che dobbiamo ridurci in pace, ovvero rompere in guerra; o procediamo congiunti con la Francia, o ci separiamo da lei; o soli vogliamo combattere le nostre guerre, o in compagnia di Francia combattere le comuni: così durando nè per noi siamo buoni nè per altrui. Contrariamente ai presagi, ci dicono uomini, che lo potrebbero sapere come lo imperatore di Francia si disponga a levarsi da Roma, lasciando libero, il popolo romano di eleggere il reggimento che meglio desidera: dopo quattordici anni e’ sembra, che si voglia ricordare a Roma essere andato appunto per questo; gli è un po’ tardi per la verità, ma meglio tardi, che mai. Certo Romolo per fondare Roma consultò gli avvoltoi dell’Aventino non i galli di Parigi: Roma si avrebbe a pigliare col dosso non già con la palma della mano voltata al cielo; in questo modo si chiede la elemosina: e noi andremo a Roma con la Libertà come il contrabbandiere col frodo sotto: non così, non così si salisce il Campidoglio a salutare le anime latine, bensì si scende nelle Catacombe a gemere sopra i martiri cristiani, e nondimanco pazienza! Purchè fosse...! Le memorie della romana grandezza io vo’ confidare che a mo’ della piscina miracolosa monderanno il popolo italiano della turpe lebbra della moderazione o fracida, o ladra, o codarda. Deplorabile cosa questa, che la gente la quale moderata si appella, per onestare la bruttezza loro abbiano inquinato gli affetti come i nomi più santi, non si potendo comprendere politica, etica, anzi neppure domestica economia senza moderazione. E se fosse, come i nostri avversari si ripromettono ed io no, certamente noi avremmo a correre le fortune della Francia, con questa avvertenza però, che le fossero d’accordo con le nostre; ed anco se comparissero fino ad un certo punto diverse, non però contrarie; inoltre si avrebbe a porre mente, che le fortune le quali noi possiamo correre con la Francia approdassero alla Francia, ovvero alla Francia ad un punto e al suo imperatore, imperciocchè se favorendo gl’interessi di questo non giovassero alla Francia, e peggio se gli nocessero allora adagio ai ma’ passi, che per cosa al mondo io non vorrei movere orma, la quale forse lo imperatore mi ponesse a credito, e certo poi la Francia mi appuntasse a debito. Mutabili le dinastie nel mondo; mutabilissime in Francia, la quale non ardua a pigliare, è una maladizione tenere: breve, io vorrei che l’aquila non mi portasse seco nè nei suoi voli, nè nella sua caduta, e cessando il principe mi rimanesse lo stato: concetto, che senza alterazione di amicizia non solo apparisce lecito, ma è doveroso professare ai reggitori di popoli. Rammentiamoci sempre di questo, che Cristo, il quale o Dio infatti, od uomo prossimo alla divinità, non disse parola mai che non palesasse tutta sapienza e sommo amore, bandì inesorabilmente «chi di coltello ammazza, di coltello conviene che muoia.» E lo impero è surto dal sangue. Adesso poi supponiamo il caso certo meno grato, ma giusta la opinione mia più verosimile assai, che i Francesi non intendano sgomberare Roma, che avanza a noi? Pigliarcela. Oppongono pieno di pericolo il partito: e veramente è così: dubitano possiamo precipitare nel mandarlo ad effetto: certo si corre rischio di rompercisi il collo. O dunque mal consiglio è il tuo? No, bensì l’unico prudente, e lascio da parte se animoso; unico prudente perchè a tale siamo ridotti noi, che altra elezione non ci resta, che tra la morte certa, e la morte probabile; rimanendo fermi noi fuggiamo l’acqua sotto le grondaie. Agevole riesce molto negare il danno, ma impedire che sia gli è un’altro negozio: ora da ogni lato compaiono segni di disfacimento; hanno creduto, e credono ricucire con filo di ferro, e precipitano nella buca dentro cui altri tracollò a capo fitto: che se pei reami antichi trovarono buona la sentenza che non hanno più ragione di vivere quando si appoggiano unicamente su la forza, verissima la sperimentiamo negli stati nuovi sorti dalla benevolenza del popolo. Ci domandano il modo di pigliarla, e noi rispondiamo: «che giova dirvelo? Tanto voi non ardireste praticarlo: voi affermaste avere diritto su Roma, e poi allibiste rifiniti dalla paura; gli è fiato perso a favellare con voi; noi vi proveremmo uguali a Bertoldo, il quale non trovava albero che gli garbasse per esserci impiccato. Ve ne suggerimmo uno senz’armi e voi lo dileggiaste, e faceste dileggiare come delirio di cervello che abbia dato nei gerundi; ve ne mostrammo un’altro con armi, e voi lo malediste ribellione, e levando insegna contro insegna, crisma contro crisma, perfidi! spasimanti e urlanti di paura lo faceste affogare nel sangue; eravi un dì tale tra voi di voi non tristo meno, ma più sagace, che avrebbe acceso i moccoli a piè dei Santi per la mossa del prode uomo Giuseppe Garibaldi, e con tutte le sue forze lo avrebbe fatto sloggiare da Sicilia; traversato, che costui avesse lo stretto di Messina egli, senza posa, addosso; dov’ei levava il piede egli metteva l’orma, così a Napoli, e così al Volturno; relitte le terre sicule non lo lasciava per questo, all’opposto sempre dietro talchè le spalle di lui sentissero l’alito focoso delle sue nari: l’uno con molta mano di gregari fuggendo, e l’altro con molto esercito regolare inseguendo giunti su la piazza del Vaticano, arrestati, e arrestatori sarebbero entrati di amore, e d’accordo in San Pietro a cantare il Te Deum più sincero, che Dio ascolti da moltissimi anni a questa parte.» Questo avrebbe forse fatto il Cavour inetto a operare e ad operare grandemente, pure capace ad approfittarsi dell’operato altrui; adesso i suoi successori, il Ferrari ha detto si rassomigliano ai generali di Alessandro; nè manco per ombra! La politica che ora prevale è quella del cane dell’ortolano, il quale non mangia cavoli e non li lascia mangiare. Provvidenza o Fortuna che sia voglionsi ammirare i casi portentosi pei quali l’uomo, che pure si stima avvisato, se altra volta pensò, che la volontà, e la forza di un popolo commesse ad un braccio di ferro potessero meglio ricondurre la Italia all’antica grandezza, ora bisogna, che si ricreda e confessi che Libertà interna ed esterna scaturiscano scintille di spada percossa di un colpo solo su la pietra. Ci fu un’ora in cui se fosse apparso un’uomo robusto, che nei plebei diletti non imbestiasse sua vita, in cui un’anima grandemente cupida, non ragnatelo a cui paresse disgradare Cesare od Alessandro chiappando una mosca, e portarsela a risucchiare dentro al buco; un’anima ferocemente disdegnosa, la quale avesse voluto agguantare Roma come si agguantano le corone, non già come s’intascano l’elemosine, e posto la mano dentro ai capelli d’Italia con alto grido detto a noi: «tacete, e combattete; finchè vive in questa terra uno schiavo allo straniero non vi è permesso favellare di Libertà.» Noi lo avremmo seguitato: noi gli avremmo messo in mano la rivoluzione come il fulmine in quella del Saturnio. — Forse era a temersi Cesare, ma ben venuto Cesare a patto che se ei ripugnava cibarci del pane della Libertà ci saziasse almeno di quello più duro della Gloria; non permettesse, che la nostra vista restasse contristata dalla gente vile che sta nell’atrio del tempio della Libertà, pubblicana perpetua da Cristo, e prima di Cristo per vendere e per barattare. — Quando gli Ebrei, vinte le colpe loro dalla moltitudine delle nostre, diventeranno nostri signori e padroni, questa gente vile li surrogherà nel ghetto a venderci ciarpe, e panni vecchi; delle loro anime non si gioverà nè manco il Demonio: non varranno il carbone che le abbruci. Ora poi il pericolo della prevalenza del solo è logorata; il giorno passò e non ritornerà più: invece dell’uno, che afferra le moltitudini, le moltitudini afferreranno l’uno, però che i popoli, levando un dito sollevino, e abbassino i loro capitani; i capitani senza soldati compaiono personaggi da commedia. Meglio così: sia dunque che la Francia ci conceda Roma in acconto di soldo per le armi italiano prestate alle sue guerre, o dobbiamo acquistarci Roma non consenziente, ed anco contrastante la Francia, ormai senza offerta spontanea di pecunia e di sangue per la parte dei cittadini italiani non si può. Voglia Dio, che quando di questo si persuaderà la gente non sia troppo tardi. Ad ogni modo con altro, che con parole il pro’ cittadino è uso affermare la Unità della Italia. Noi abbiamo bisogno di Roma per salvarci dal flagello della guerra civile. Badate a questo sconsigliati e provvedete se non per la Patria, per voi. Se tacere giovasse sarebbe ufficio di pessimo cittadino, anzi pure di nemico aperto favellare, e se le parole si reputassero vane dimostrerebbe il dirle animo tristo; parmi debito palesare il mio concetto però che spero le mie parole possano essere seme di bene, e capaci a partorire rimedi valevoli. — Affermano i principi di Piemonte avere sempre indirizzato i concetti loro ad unire in un solo corpo la Italia; e parmi piaggieria espressa, imperciocchè lasciando dei tempi remoti certo le donne, che durante la minorità dei figliuoli reggevano le provincie piemontesi ai tempi della discesa di Carlo VIII, e furono la duchessa di Savoia, e la marchesa del Monferrato, non pensavano a questo quando sovvennero di moneta e di gioie cotesto re ond’ei potesse mandare a ruba la Italia da un capo all’altro con opere piuttosto da predatore, che arraffa, che da principe, che conquista; nè a me sembra dovere aggiungere verbo per chiarire la inanità del vanto; che se per supposto si avesse anco a concedere dovremmo confessare, che i disegni dei principi del Piemonte per lo meno non differissero da quelli che concepirono eziandio le repubbliche dei tempi medi, e lo tentarono, e fu acquistare quanto più potessero signoria di popoli soggetti; così Venezia, e Firenze esercitarono dominio sopra le terre vinte, o comprate; nè i popoli proffertisi accettarono compagni, bensì vassalli; le storie ricordano, che solo dopo molto secolo la repubblica di Venezia accolse tra i senatori alcuni pochi Candiotti in rimerito della mirabile resistenza contro l’armata turca; fra i quali un Manin, donde discese quel Manin, che fu ultimo doge della repubblica tradita dal primo Bonaparte. Non vuolsi mica fiore d’ingegno per capire come nella indole del popolo subalpino l’antico genio italico sia entrato poco, ed a stento: uomini positivi, e diremo così aritmetici sono i piemontesi, schifano la immaginazione per sè, l’altrui gli affatica; anco se taluno di loro n’è tocco le sue fantasie pigliano aspetto di forma geometrica, onde per ragionare l’assurdo, e mettere il disordine in architettura valgono oro. Anco gli edifizi offrono argomento a indovinare la disposizione del popolo, che li fabbricò, e quivi contempli per lungo ordine case uguali in tutto l’una coll’altra, sicchè da prima tu resti ammirato, poi ti uggisce, per ultimo la fastidievole regolarità ti ammazza: uomini, e mattoni ti appaiono formati proprio sopra un medesimo modello; costà da secoli passarono, e ripassarono lo spianatoio: chi mai fu il mal cristiano? Tutti; nè si potrebbe senza ingiustizia asserire che i principi amassero livellare più che i popoli amassero essere livellati. Il valoroso Ferrari ragionando del Bottero, e della sua Ragione di Stato, lo fece proprio toccare con mani, ed allorchè qualche principe si dispose non mica a dare libertà sibbene a smettere qualche prerogativa, ch’era vergogna di secolo civile, ebbe a toccarne dai suoi fedeli sudditi e servitori una ramazzina delle buone. Sequela altresì di questa quadratura di spirito parmi la tardità a mutare, e la perseveranza nel passo che hanno pure, se non a maltalento, con molta renitenza mutato. Chi dei popoli subalpini legge per avventura queste pagine non s’inalberi, dacchè mi garbi procedere alla rovescia di quello, che costumano i detrattori, i quali incominciano a levarti a cielo per flagellarti poi di santa ragione; dirò più tardi dei molti, e nobilissimi pregi tuoi; adesso ascolta e non battere, perchè se batti ti baratteremo lo scudo in cinque lire. — Pertanto il Piemontese ama piuttosto ordinare, che discutere; sentenziare dommatico, che dimostrare; favellare succinto (tranne gli avvocati, che formano classe a parte e parabolani li proviamo in tutto il mondo; il mestiere mangia l’uomo) e tuttavia male rispondente al concetto, nè terso, molto meno elegante, perchè dallo idioma sincero della Italia un dì appartati, e nè oggi vogliosi cultori di quello, come coloro, che intendono e vogliono impiombarci nella lingua il parlare proprio. Certo possiedono scrittori insigni, ma si conosce di botto, che appresero l’arte su i libri, onde il Botta adopera un tal quale stile, che ti sembra gittato sopra il modello del Casa o di qualche altro autore del secolo decimosesto; e il Gioberti ti turbina in mezzo una lavina di parole, elette se vuoi, ma così rimescolate, che è spasimo leggerle: dei minori taccio, i quali nè troppo studiosi dei classici, nè tutti in balia ai modi del dialetto, a leggerli ti alleghiscono i denti. Se pertanto presumono i Piemontesi impiombarci su la lingua la favella loro, tu pensa se tutte le altre o usanze, o pratiche, od ordini dove qualche volta gli assiste la ragione. — A questa superbia dette nome scientifico il Gioberti cavando fuori il vocabolo greco di egemonìa il quale denota sempre potestà soprastante così regia come popolesca, ed egemonìa chiamarono gli antichi la Luna effigiata con due pallide fiaccole nelle mani a rischiarare col lume accattato il sentiero ai sorvenienti. Il Gioberti col nome greco insomma volle farci palese, che i suoi conterranei possedevano diritto, abilità, ed anco dovere di plasticarci a similitudine loro, cacciarci quanti siamo Italiani dentro la forma dove fabbricano i mattoni a Torino; ed esemplificando contemplava nel Piemonte la Macedonia italica, e nelle terre nostre il Peloponneso, l’Attica, la scaduta Lacedemonia, e la Beozia d’Italia; costà sorgevano Filippo, e Alessandro, quì da noi retori, e artisti ornamento alla magnanima rudezza. — Cotesto ingegno tumultuario che chiappava le cose a volo, e di cento aspetti, che presentano, si fermava sopra quel solo, che porgeva rincalzo alla sua scapestrata immaginazione, non comprese come la egemonìa macedone si traducesse in tirannide, in guerre interminate e senza costrutto, in morte della libertà interna, in guerre civili, e per ultimo in servitù straniera. Ma nel Gioberti più che in altri si palesò il tipo curioso di vestire con sembianze di ragione lo assurdo; mirabili i conati di lui per sottoporre le astruserie metafisiche a formule scientifiche, anzi a cifre arabiche, o a forme geometriche; miscela continua, e indigesta di astrattezze e di pratica; stellino abbarbagliante di giudizi veri, e di falsi, di guizzi d’ingegno sublime, e di grullerie; breve, uomo che avrebbe provveduto meglio alla sua fama, o avvantaggiata la Patria se sortiva meno da natura o avventatezza, o fantasia, o le avesse sapute temperare di più. Così battezzati egèmoni della Italia dal metafisico Gioberti (il quale per arroto voleva mettere nella egemonìa come socio d’industria anco il Papa), vestiti da domenica con un nome greco sempre più i Piemontesi sprofondarono nella prosunzione nella quale stavano fitti fino alla gola per disciplina di armi poche ed inferme, pure le uniche che potessimo reputare italiane, per topografia la quale li persuase che il nemico tremasse la loro virtù, mentre gli rispettava a cagione della positura, per l’esito fortunato della testardaggine messa in opera sopra popoli ridotti nella loro potestà, in fine per piaggerìa di tali che gli adulavano per dispetto di non avere livrea dai propri padroni, e per altre cause, che non importa andare tanto sottilmente investigando. Ora la egemonia si esercita, se non m’inganno, o per violenza, o per civiltà, o per violenza e per civiltà congiunte insieme. La violenza non partoriva mai la egemonia nel modo che la intendeva il Gioberti, bensì o l’annientamento del popolo subietto, o il rancore, che matura nel suo segreto la vendetta; nè la violenza egemonica approda meglio anco congiunta con la civiltà; di che pigliate esempio solenne da Roma, la quale, se ne eccettui la Grecia, poteva vantarsi civile sopra i popoli superati da lei; anco Napoleone I disse suo recondito disegno quello di passeggiare la civiltà armata pel mondo, e forse fu vero, non già perchè costui se lo proponesse, o ci pensasse, ma sì perchè l’uomo anco senza saperlo diventa arnese in mano alla forza arcana che affatica il secolo. I barbari si successero come in pellegrinaggio a Roma per pagare il debito di cotesta romana egemonia; la guerra di Spagna, i popoli, che per odio della tirannide tracotante si strinsero ai tiranni umiliati, i cosacchi del Don due volte in Parigi ad abbeverare i cavalli nella Senna saldarono la egemonia francese. I Piemontesi invece sostengono avere provato il metodo loro nella Liguria, e nella Sardegna con utilità manifesta dello stato. — Qui si considera prima di tutto come siffatta sentenza risponda a capello allo aneddoto delle anguille scorticate vive esposto un dì dal Windam nel Parlamento inglese, poichè quello, che riesce praticare col boccone il quale ti possa capire dentro la bocca, bisogna mettere da parte col boccone che sia capace ingolarti; e nè anco la Liguria, e la Sardegna potè a fine di conto masticarsi il Piemonte vivendo in cotesti paesi odio profondissimo contro di lui, un dì frenato dalla impotenza per via delle condizioni politiche di Europa, oggi temperato dalla necessità di costituirci in popolo grande e potente. — Alle teste gagliarde del Piemonte sembra adesso sia accaduto quello che avvenne al cavaliere, il quale avendo messo il piè nella staffa nell’atto di pigliare lo abbrivo invocò lo aiuto di Santo Antonio, e con tanto impeto il fece che innanzi di potere levare la gamba per inforcare l’arcione cascò giù capofitto dall’altra parte; per la quale cosa si doleva col santo, che troppa grazia gli avesse conceduta. Troppa Italia da masticare di punto in bianco alle mandibole subalpine: affermano taluni avere udito gentiluomini piemontesi impazientirsi dell’annessione delle provincie meridionali d’Italia come d’impiccio; e questo ho udito ancora io, e congratularsi con la fortuna, e con loro, che la Lombardia dopo un’ammannimento tedesco di dieci anni fosse tornata loro a mo’ di bottino di guerra però che nella guisa, che ci venne nel 1848 non si sarebbe potuta mantenere, tanto fumava allora, e dalla Costituente fino ai rovesci delle maniche per le vesti militari non ci era da averne bene, mentre adesso domata, e castrata era proprio una pace.... Rimane la egemonìa della civiltà, la quale sarebbe unica che si vorrebbe accogliere, e meritasse durare: questa però desidera nel popolo, che la esercita un primato dal giudizio universale consentito, bontà quasi ineffabile, e arguzia profondissima in esercitarlo, e disposizione nel popolo subietto a lasciarsi fare: mentre se non possiedi le qualità del primato invece di prendere resti preso, come accadde ai Langobardi, ai Normanni e ad altri popoli stanziati qui in mezzo d’Italia. Vuolsi altresì che nel popolo egemonico la civiltà sia naturale, e propria non ascitizia; però che se ella sia accattata da altri non che tramandarla altrui, e’ fie bazza se la mantiene egli; onde parrà, che meno, che ad altri la qualità egemonica si attagliasse alla Luna, di cui i raggi riflessi se danno luce, non fanno calore: ed anco la civiltà da stabilirsi non vada contro corrente, e trovi corrispondenza, altrimenti passa come olio nell’acqua, e tale fu la civiltà dei Saracini a Napoli, in Sicilia, in Sardegna, e nella Liguria dove attecchì un momento ma non potè cestire. Ciò fermo; ora voi altri uomini subalpini in che e come volete esercitare questo primato su noi vestendo la presunzione arrogante col classicismo del nome? — Già voi, ed i vostri più incliti, di civiltà non si talentano; e’ sembra che piaccia loro e giovi essere considerati stirpe in linea diritta discesa dai vetusti allobroghi, o dai taurini entrambi celti, non gentile sangue latino. Già lo dissi altrove, e qui ripeto, imperciocchè ai dì nostri queste anime di polpo poco sentano, e ritengano meno. Cesare Balbo desiderava l’appennino ligure si fendesse, e pertugiasse: più in là no, però ch’egli non consentiva: «che nemmeno fantasticando si lasciasse la immaginazione varcare altri appennini: hacci abbastanza di sangue meridionale, abbastanza di fantasia poetica, e d’ingentilimento italiano, aggiunti i Liguri ai Piemontesi; e troppo di gentilezza tornerebbe in effeminatezza.» Di fatti o che vogliono desiderare di più i Piemontesi: paradiso terrestre Torino; sancta sanctorum Torino: se ne contentino, e non cerchino migliore pane, che di grano: «hacci nel mondo, domanda a sè stesso il dabbene conte Balbo, hacci nel mondo paese più bello del Piemonte? Egli giace appunto a quarantacinque gradi equidistante tra l’equatore e il polo; tra l’arsura e il gelo. Il bene fisico come il morale deve stare nel giusto mezzo.» In virtù di primato di arti i Piemontesi non potranno certo attentarsi ad esercitare la egemonìa: costà l’architettura ci si trova come Cristo legato alla colonna per ricevervi battiture, quante fabbriche ci si fanno; una casa pare riflessa da cento specchi le abbiano posto dintorno; io non lo so di certo, ma ho temuto che da un punto all’altro mettessero su a Torino una Società in accomandita per fabbricare uomini e donne come a Nurimberga i burattini tutti di un conio. Molti assomigliano i casamenti di Torino alla mostra dei soldati, e mi sembra paragone, che non ritragga giusto la cosa; torna meglio in chiave rassomigliarli alle processioni delle povere orfane, che talora mi diedero il male di mare nel vederle per le vie di Torino; tagliate tutto a un modo dalle forbici della stupidità messe in mano alla beghineria: povere anime! con gli occhi bassi, le mani soprammesse sul ventre, con carni, che paiono mozziconi di candele avanzati alla novena di san Luigi Gonzaga. — E come in fondo alla processione di queste poverine anime tu vedi spuntare una figura, che tu credevi impossibile, eccettochè nel sogno dopo avere cenato con ceci, e pesce salato, e quì in Torino trovi viva e verde ad ogni svolta di canto; un mascherone da fontana per virtù d’incanto fatto capace di buttare fuori dalla bocca invece di sprilli di acqua versetti di salmi penitenziali, torto, e bistorto; con certe braccia lunghe da allacciarsi le fibbie delle scarpe senza pure chinarsi; e certi piedi, che nei giorni di riotta cittadina dispenserebbero da costruire barricate; un prete insomma in roccetto bianco, sul quale, caso mai presumesse significare la candidezza della coscienza di cui lo porta, si avrebbe a scrivere come i notari quando saltano un foglio nei protocolli: alba «per errorem!» Un prete con un berretto quadrato in capo su cui i tre spicchi predicano come tre predicatori in bigoncia, chè un prete non può essere bagnato e cimato prete dove non gli manchi uno spicchio o d›intelletto, o di cuore, o sovente di ambedue. — La similitudine capisco ancora io, che passa le proporzioni; di così lunghe ne adoperava Omero, ma comprendo del pari che se Omero mal fece non porge scusa a me di comportarmi peggio: insomma pari a questo prete in fondo delle processioni ti si mostra lontano lontano allo sbocco della via la cupola della cappella regia, che verun pasticciere al mondo nei suoi estri di pastafrolla ardirebbe imitare in un pasticcio quando anco glielo commettesse la demenza in persona pel dì delle sue nozze; e se dico il vero me ne richiamo a tutti, anco ai Cafri, anco agli Esquimesi, non però ai Moderati i quali con duegento cinquanta voti sarieno tomi da preferire quel coso alto che sta sul duomo di Torino alla cupola del Brunellesco. E la cattedrale di Torino o non vi pare ella una trappola tesa dalla religione per chiappare i topi miscredenti? Torino egemonico per arti in Italia con quel palazzo regio ameno quanto lo Spielberg villeggiatura allestita per gl’Italiani dalla nostra amica Austria! Con quel giardino dilettoso a vedersi così, che presso al quale perde il pregio di bellezza lo stradone dei pioppi che da Pisa mette al Gombo in foce di Arno! D’incanto passando in incanto, ecco il palazzo Madama congerie immaginata da Belzebub l’ultimo giorno di carnevale; lì prigioni, lì apparitori, lì littori (lo dico alla romana), lì guardioli, lì assessori di polizia, lì tormentatori, e tormentati, lì specola per contemplare le stelle, lì pinacoteca, lì senatori, lì fossati, dove si coltivano cavoli, o vuoi fiori, o vuoi cappucci. Sì signori; in piazza Castello, allato al palagio dei ministri, intorno all’aula dei senatori, e di tutte le altre degne persone ricordate qui sopra crescono all’ombra dell’aquila sabauda cavoli fiori, o vuoi cappucci. Certo bell’umore, a cui io notava il fatto tutto tremante, mi rispose: — che aveva torto a farne le stimate; ammirassi al contrario la previdenza piemontese, la quale considerando di avere a surrogare via via i senatori defunti se n’era allestito un semenzaio sotto casa. — Così il Piemontese bizzarro; ma io protestai rimbeccando subito la insinuazione irriverente, dacchè è certo, che dei Senatori, come diceva lui, in Senato non ce ne ha che tre quarti, tutto al più quattro quinti, mentre gli altri la sanno lunga, e la sanno contare. E poi il semenzaio dei Deputati dove l’arebbono a mettere? — E il Piemontese di rimando: per ora non so, ma credo che aspettino di Francia un modello di stufa per coltivarli anco nei sidi del Gennaio. A cotesto palazzo dietro e dai lati prigione, fortezza, guardiolo e simili, appiccicarono davanti una facciata composta non so nè manco io di quanti archi sgangherati di un bianco sudicio, e dello stile che si chiama barocco; non mai fu vista l’architettura concia in guisa più feroce e truculenta: cotesto guazzabuglio ti fa l’effetto di un cagnotto dei tempi feudali che pensi essersi travestito mettendosi alla faccia ed in capo una maschera, ed una parrucca da marchese della reggenza. Ho detto che l’architettura non fu mai vista tanto barbaramente trucidata come nel palazzo Madama; ho detto male, supera la ingiuria il palazzo Carignano, che si deve definire così: ribellione in permanenza di mattoni cotti contro il senso comune; colà non occorre linea che vada diritta; storta la facciata, storte le scale di cui la prima a gradini convessi, e la seconda concavi, storta la sala: chi l’architettò e’ fu un Guarini, che Dio riposi, e deve averlo disegnato in profezia, che un dì avesse ad essere la stanza del primo parlamento italiano, conciosiachè la strage del buon senso architettonico di cotesto arnese non può trovare degno riscontro altro, che nella strage di parecchi sensi, che quivi dentro tutto dì menano i Rappresentanti della nazione. Delle opere di scoltura questo dirò, che lo stesso signore Azeglio, non Massimo, ma quell’altro, che discorreva di arti, tutto che Azeglio fosse, gittò gli argini, buttando fuori roba da chiodi: se vuoi trasecolare va di grazia nella piazza del Municipio, e quivi contempla in mezzo quel gruppo che sembra composto di spinaci, ed è di bronzo, di parecchie figure armate in guerra di maglie di seta, disposte in atti di morto, di chi va a morire, e di chi ci manda; il Conte verde, però che il gruppo rappresenti l’effigie del Conte verde, (e tu lettore hai da sapere come qualmente in casa al tuo re ci fosse un Conte verde, e poi un Conte rosso: quanto al Conte verde, come vedi, egli si attenta comparire per le piazze; circa al Conte rosso ei se ne sta chiotto nella sua antica sepoltura pauroso, che il Questore di Torino non lo facesse portare diritto come un cero nella parte postica del palazzo Madama) al quale nell’uno, vale a dire nell’uno dopo il mille, un giorno venne voglia di piantare il ceppo donde nacque il nostro re in linea diritta diritta più di un fuso, secondochè attestano documenti registrati in Duomo, ed Ercole Ricotti nella Monarchia Piemontese stampata in Firenze dal Barbèra, il Conte verde, dunque in vaga positura mimica tiene levata la mazza d’arme su la persona di un guerriero circonciso (la circoncisione non si vede, ma chi voglia alzargli la camicia di bronzo la potrà vedere) il quale inclinato il fianco lo sta a mirare con l’estasi degli apostoli quando pioveva giù a stroscia lo Spirito Santo, e par che dica: «me la dai, o non me la dai, chè ad aspettarla io mi sento stracco?» Hacci un simulacro del Principe Eugenio, che un po’ mi parve dall’uggia di sentirsi da tanto tempo murato su cotesto piedistallo lo abbia preso la mattana, e venuto in furore con la parrucca arruffata, le vesti scinte, il collo ignudo voglia pigliare una rincorsa per andarsene, Dio sa dove, a finire; ovvero, povero uomo! (anche agli eroi siffatte cose incolgono) soprapreso nella notte dalla colica sembra, ch’ei siasi lanciato giù dal letto per arrivare laggiù colà dove confida rinvenire refrigerio. Questa smania di fare correre le statue, qualche malizioso affermerebbe, che a Torino si fa più intensa alla stregua che gli uomini vivi ci stanno fermi; di vero anche nel giardino pubblico il simulacro del Generale Pepe, non ricordando essere di marmo, scappa via; lo scultore dove non potè tradire la verità fu nella statua di Cesare Balbo: quelli, che lo videro vivo, ed ora lo contemplano di marmo, non si accorgono della differenza; però se marmo sono i suoi scritti, e marmo i suoi concetti, di marmo, non fu il suo cuore, quando balenò la speranza di erigere il monumento della Italia, e per la Italia diede più che il sangue del proprio cuore, quello dei suoi figli, e volontieri anco credo, che da quel marmo uscirebbero fiamme se gl’Italiani pigliassero il partito di mettere ogni cosa allo sbaraglio per diventare una volta padroni di sè. La statua della Italia pare una gessinaia lucchese che venda i medaglioni del Manin; quella del Gioberti in forma di modello sul quale i sarti provano i vestiti, a capo basso, con una mano al petto ti rappresenta giusto un penitente, che dica: mea culpa per avere creduto, e dato ad intendere, che la Italia potesse sorgere a dignità col Papa a Roma; del monumento di Carlo Alberto basti questo, che chi avesse a lavorare una saliera potrebbe cavarne un disegno, ma non dei migliori; anco su la piazza del Municipio havvi una statua di marmo di Carlo Alberto in tutto simile ad un cero pasquale cascato da parte. A mio giudizio la statua che solo ne meriti il nome è quella equestre di Emanuele Filiberto. Quanto ad arti pertanto immagino, che egemonìa non avrebbero a volere esercitare i Piemontesi, almeno mi parrebbe, poi facciano loro! Vediamo se in lettere a cosiffatta egemonia possano i Piemontesi aspirare; io mi guardo bene da contrapporre ai vanti loro Dante, e gli altri, imperciocchè se stesse a me ogni toscano, che rammentasse il nome di cotesti grandi indarno, io lo vorrei condannato in carcere per quindici dì con gli ultimi cinque inaspriti di pane e di acqua come soleva ordinare la buona anima del Radetzky, e poi gli fosse fatto divieto di mai più ricordarli finchè la Toscana non avesse partorito almanco una mezza serqua di uomini capaci di arrivare alla caviglia del piede dei grandi antenati. E’ bisogna capirla una volta, che ogni generazione dee vivere del suo lavoro, come della sua sapienza, e della sua gloria; non fare come gli sciagurati perdigiorno i quali campano mangiandosi il capitale raccolto dai nonni. Nè mi uggiscono meno il vanto e la lode dell’antica civiltà etrusca, che affermano antecedente fino alla pelasgica, ed a certa degna persona che meco se ne congratulava risposi: — gran mercè, quantunque in coscienza io non mi estimi erede del re Porsenna, nè dei Lucumoni. — Chè se la civiltà toscana altro non seppe che somministrare i riti religiosi ai Romani, che furono detti cerimonie da Cere città sacra etrusca, e lo scettro, e la sedia di avorio, non che il manto purpureo ai re di Roma, io renunzio a questo retaggio di civiltà per me, e per tutti i miei discendenti in perpetuo; tra noi se il Piemonte si onora del Denina, del Lagrangia, del Galliani, del Botta, del Gioberti, del Pellico, dello Sclopis, del Balbo, del Cibrario, del d’Azeglio, del Mossotti, dello Alfieri e di altri simili, la Italia di contro a loro vanta caterve di uomini insigni in ogni maniera di sapienza umana; la Lombardia ha Scarpa, Volta, e Verri, e Beccaria, e Manzoni, e Grossi, e Cattaneo, e Ferrari, e Romagnosi; la Emilia Leopardi, Bufalini, Puccinotti, Matteucci; Parma, Giordani, Recanati, Leopardi; Napoli e Sicilia Colletta, Ranieri, Nicolini, Melloni, Piria, Pilla, gli Amari Emerico e Michele; Modena, il Nobili; la Toscana il Niccolini; il Ferrarese Monti; Venezia Ugo Foscolo; Verona Pindemonte, e via e via. A Brofferio oppongo il Giusti; e noto, che la satira di questo ultimo si spande per la Italia, e ci alligna, mentre quella del primo discolora, non mica per difetto d’immagini, ovvero di felici scappate, bensì perchè anteponendo il dialetto piemontese alla lingua italiana ordì tela municipale; e che razza di dialetto sia il piemontese che ve lo dica per me, tanto che udendo un giorno recitare dal buon Brofferio taluna delle sue canzoni piemontesi alla domanda ch’ei mi mosse: che me ne pareva, io risposi netto: me ne pare questo, che credendo avere appreso dalla mitologia che Apollo avesse scorticato Marsia; ora mi accorgo dello errore, almeno quì in casa vostra, dove sento Marsia cavare Apollo «dalla vagina delle membra sue.» Alfieri merita abitare eterno co’ grandi che gli fanno corona.... le sue ossa bene stanno in Santa Croce a fremere amore di Patria, con insigne scandalo dei moderati a cui più dei fremiti garbano i belati o i ragli; ma egli è forza avvertire, che l’Alfieri voleva bene al Piemonte come gli occhi al fumo, ed aborrì viverci, e tra noi elesse morire; il fiero animo dell’Astigiano per noi cortese anco troppo esclamava ad onoranza della mia Patria: «Deh! che non è tutta Toscana il mondo.» come modesto soverchiamente in proposito dello idioma, che oggi presumono insegnarci questi bizzarri fratelli piemontesi egli scriveva: «Stranio innesto son io su tosco stelo.» E Botta visse esule da casa sua, e Gioberti altresì, il quale diverso dalla indole piemontese, pare favilla balestrata a Torino dalla eruzione del Vesuvio; e non sarebbe maraviglia, però che si legga, che quando prima ruppe il monte pauroso la lava andò a cascare fino in Alessandria. Se in arti, in iscienze, ed in lettere noi non possiamo insegnare niente ai piemontesi non ci si apponga ad jattanza se affermiamo nè manco noi altri italiani avere nulla da apprendere tra loro. Per amministrazione si governano peggio della lombarda, e questo ho toccato con mano; quanto a legge per amore di unità incaponivano a volerci a parte nella beatitudine della corda, con errato consiglio non meno che con mente iniqua; imperciocchè se la morte abolita efficacemente è segno di buona civiltà acquistata, perchè dobbiamo noi altri toscani stornare alla barbarie, e non voi piemontesi allungare il passo per agguantarci sulla via della civiltà? Ma tutto questo suona prosuntuosa insipienza di curiali; di vero se per sopprimere la pena di morte si desidera stato più perfetto di civiltà, o con qual giudizio v’incocciate a mantenere questa pena, la quale tra le barbare è barbarissima, e tra le inique scellerata delle instituzioni umane? Per leggi civili portava il vanto Napoli; le industrie agricole migliori in Toscana che in Piemonte; nelle urbane Piemonte supera, ma contaci la Liguria, che parte di Piemonte fu per violenza, non però per indole, nè per volontà. Avanzano le armi. Di quali armi favellate voi uomini piemontesi? Quando tra noi fioriva la onorata milizia, di voi non ci giunse novella; nella scuola dei Bracci, e dei Piccinini, tra gli Sforza da Cutignola, gli Alviano, i Colleoni, e tanti altri famosi si ricorda unico il Carmagnola; più tardi tra i Colonna, i Pescara, Giovannino dei Medici, gli Strozzi, il Ferruccio, i Doria, i Sanseverino, gli Orsini, i Farnese, gli Spinola unico Emanuele Filiberto; di cui gloria immortale la battaglia di San Quintino, la quale non egli vinse, bensì il conte di Aiamonte, il principe di Brunswick, e i conti di Hornes, e di Mansfeldt; Emanuele Filiberto arriva tardo sul campo di battaglia, e quando i francesi rotti fuggivano inseguiti dai raitri; solo con le artiglierie egli disperse l’ultimo corpo di fanti guasconi, che combattevano, disperati della vittoria, per proteggere la ritirata; nè seppe usare poi della vittoria, chè proseguendo il corso prospero avrebbe preso a mano salva tutti i francesi senza eccettuarne pure uno; e questo chiariremo con prove espresse se a Dio piacendo mi condurrò a dettare la vita di cotesto duca di Savoia. Certo con gloria maggiore o minore trattarono le armi i principi di Savoia; con grande Tommaso, con massima Eugenio; ma se togli l’ultimo gli altri ebbero emuli pari se non superiori a loro; questi poi veruno. Nel periodo lungo delle guerre napoleoniche i più famosi capitani come Bertoletti, Pino, Teuliè, e Vacani uscirono di Milano, i tre Lechi o Mazzucchelli da Brescia, Lahoz e Peyri furono mantovani, Bianchini, l’eroe di Tarragona, bolognese, il maresciallo Bianchi da Corno, Viani veronese, Zucchi reggiano, Severoli faentino, Palombini di Roma, Fontanelli da Modena, Colletta di Napoli; solo due noti nelle storie dava tutto il Piemonte, più illustre il primo, che fu Rusca, meno il secondo nominato Serras; nella guerra del 1848 venne fuori il Bava capitano di abilità mediocre, e di cattiva fortuna; nel 1849 ebbero ricorso a capitano straniero con perdita di riputazione, e sciagura della impresa. Adesso fanno caso grande del Lamarmora, ma non tutti in lui ripongono fede; ad ogni modo gli preferiscono il Cialdini od anco il Fanti, i quali insieme al Cucchiari vengono da Modena. Quanto a Garibaldi ormai è convenuto che generale matricolato non si possa estimare; di fatti della milizia ei sa una parte sola, una sola, tutte le altre ignora, e questa una è quella di vincere le battaglie. Questo intorno ai capitani; circa le milizie quando per tutta Italia andavano famose le Bande nere, ed anco la ordinanza della Milizia fiorentina le soldatesche del Piemonte si reputavano le più scadenti di tutte. — E perchè non paia avventato e maligno il mio dire, siami lecito riportare quanto trovo sparsamente scritto intorno ai capitani, e alle milizie piemontesi durante il secolo decimosesto nelle relazioni degli ambasciatori veneziani arguti nell›osservare quanto schietti nello esporre. Ora di queste relazioni io ne conosco cinque, stampate a Firenze; la prima è di Andrea Boldiù la quale è tratta dalla biblioteca Capponi insieme coll›altra del Lippomano, che al nostro scopo non approda; due ne somministra l›archivio reale di Torino e sono di Sigismondo Cavalli, e di Giovanfrancesco Morosini, l›ultima pubblicava il signor Cibrario. Quanto a› capitani; e ai soldati afferma il Boldiù: «ha parlato assai sua eccellenza; sebbene non ha terminato cosa alcuna di dare forma alle genti del suo paese nel modo che sono le cerne di vostra serenità, che si chiamano ordinanze; per le quali già ha fatto colonnelli e nominati molti capitani, pochissimi dei quali sono, come intendo, che abbiano comandato in guerra alcuna. E cercando io poi di sapere quanto si sperava, che potesse essere il numero di queste ordinanze mi viene affermato, che per servire nel paese ascenderiano a 24000 uomini, ma volendo condurli fuori non passeriano 8000, ma questi buoni veramente.» Il Cavalli più alla recisa: «di uomini da guerra, che abbiano servizio con sua eccellenza, nè dei suoi sudditi, nè di altri vi ho conosciuto persona di gran nome o valore, salvo che il Signore della Trinità, il quale vostra serenità avrà inteso nominare per le operazioni onorate che fece alle imprese di Cuneo e Fossano.... il signor Duca non si serve gran fatto di lui, prima perchè non vuole mostrare, che quello che fa sia per consiglio del medesimo; poi (nota, o riponi in mente lettore) perchè dove tutti gli altri suoi servitori gli parlano con molta timidità, lui per dire il vero 0 quando si trova in Corte parla più liberamente... per tal causa vive il più del tempo ritirato in casa sua. Vi è ancora il signor Masino, che a tempo di guerra era vice-duca, questi è galantuomo e cavaliere liberale, ma nel fatto di guerra non ha mostrato virtù sopra gli altri. Il conte d’Arignano ancora lui è prudente gentiluomo, ma non ha fatto operazioni, che, meritino essere rammentate più, che tanto. Restano alcuni privati capitani, che si possono riputare buoni soldati, ma non sono persone di grande portata.» Più spezialmente circa la qualità dei soldati, e l’indole dei piemontesi l’oratore Giovanfrancesco Morosini informa il Senato: «il letto loro è pieno di foglie di alberi per la molta povertà, del paese non tanto causata poi in effetto dalle lunghe guerre, e continue, che ha avute, quanto da una naturale viltà e dappocaggine di quei popoli; la quale ancora è causa, che con tutto che pei tanti anni continui sieno stati nudriti ed allevati nelle guerre, non sono però al giudizio di molti, da essere tenuti per molto atti allo esercizio delle anni per non dire, che sieno inettissimi a quello.» Questa relazione del Morosini va copiosa mirabilmente di notizie intorno alla milizia del Piemonte; chi ne abbia talento (e lo dovrebbe avere, ma ne dubito, perchè la gioventù in mal punto oggi si mostra aliena dagli studi, massime storici) può esaminarla intera; al mio assunto giova cavarne questo altro tratto: «ha il signor duca, oltre alli presidi, una milizia di 16000 fanti bene armata sotto quaranta insegne, le quali prima erano 66, ma sono state questo anno ridotte al numero di quaranta, a fine di scansare le spese dei capitani, e degli officiali di 26 compagnie; e li fanti sono stati distribuiti in modo, che in ogni bandiera saranno 400 fanti, e sua eccellenza viene ad avere avanzato 5200 scudi all’anno. Queste genti sono al governo di 42 gentiluomini, tutti suoi vassalli, salvo che uno, ch’è il signor Guido Piovene suddito della serenità vostra e gentiluomo vicentino...... Questi tutti hanno nome di colonnelli e sono stipendiati diversamente l’uno dall’altro, avendo chi più, chi meno secondo la inclinazione di sua eccellenza. Questa gente, come ho detto di sopra, non è molto atta allo esercizio delle armi, salvo, che certa poca quantità verso Fossano, e il Mondovì, li quali per essere tra loro stessi in perpetua gara riescono più esperti, e pronti a menare le mani, che gli altri; ma quanto più sono buoni allo esercizio delle armi tanto più sono fastidiosi, ed insolenti ad essere governati, e disciplinati. Fa usare sua eccellenza molta diligenza per tenere bene disciplinata questa milizia facendo mostre spessissimo, alle quali molte volte si trova di persona sperando pure con questo frequente esercizio doverle levare da quella naturale pigrizia, che hanno; ma difficilmente credo, che vi riuscirà essendo più forte la natura, che l’arte.» Da principio Emanuele Filiberto pare, che facesse capitale sopra i popoli di Savoia, sicchè Sigismondo Cavalli racconta egli avere, per lo scopo di assicurare i stati, «principiato a fare le cernide, ovvero ordinanze dei suoi popoli, ed obbligare ogni comune a dare tanti corsaletti, picche, archibugi, e morioni; e già quelli della valle di Aosta debbon essere in buono stato, perchè quando sua eccellenza passò di là, tornando di Savoia, volle vederne la mostra, la quale riuscì assai bene» Senonchè Francesco Molino dopo dieci anni nel 1574 referendo al Senato così favella di cotesta medesima milizia: «i popoli che abitano la Savoia sono per lo più timidi, e vili: non si danno ad alcuno esercizio, e nè tampoco a quello delle armi, e fecero vedere questa poca inclinazione alloraquando il duca ordinò una milizia, per la quale avendo speso più di seimila scudi in arme, in poco tempo fu ritrovato, che dei morioni, e corsaletti se n’erano serviti a fare delle pignatte e degli spiedi.» e comecchè poco più innanzi afferma i popoli del Piemonte più atti ad adoperarsi, più capaci di disciplina, o più industriosi dei Savoini, non si sa bene con coteste premesse s’egli intenda più avvilirli ovvero commendarli. Nè gli scrittori piemontesi negano questo; al contrario facilmente confessano, che sul cominciare del secolo decimosesto il difetto di coltura non era compensato con la gloria delle armi, le quali erano misere ed incerte; e la difesa dello stato non usciva già dalla copia, nè dalla prodezza delle milizie paesane, bensì dal danaro proprio, e dall’avarizia altrui. Ma non è vero, che negli altri stati d’Italia si procedesse a quel modo; anzi il vero è al contrario, nè gli stessi Scrittori piemontesi lo ignorano, dacchè lo stesso Ricotti nella Storia delle Compagnie di ventura in Italia ci attesti Firenze e Orvieto fino dal 1350 avere istituito i balestrieri del contado per affrancarsi dalla infamia della milizia mercenaria; e Venezia più tardi con l’ordinamento delle cerne; ed altri altrove; ma più che tutti da capo Firenze la quale a’ conforti di Antonio Giacomino Tebalduccio, e di Niccolò Macchiavelli instituì nel 1506 la ordinanza della milizia fiorentina con le prescrizioni, e norme che si leggono per le storie, e da prima furono diecimila nel contado di Firenze solamente fanti, sei anni dopo si fecero anco cavalli nel numero di 500. Questa abolita dalla tirannide dei Medici, ecco Giovanni dalle Bande nere formare la stupenda milizia di cui la memoria ancora non langue, e sicuramente coll’occulto concetto di stabilirla arnese per acquistare gagliardo stato in Italia, e difenderlo contro ogni straniera soperchieria; da questa onorata scuola, cessata la tirannide medicea, risorsero le milizie fiorentine, e furono spartite in milizie del contado disposte in trenta battaglie, ed in milizie di città in quattro bande una per quartiere, ed ogni banda in quattro compagnie con sedici gonfaloni in tutto; da prima cavaronsi dagli uomini di diciotto fino a trentasei anni, e se n’ebbe un tremila all’incirca, ma forse più che meno nella sola città; più tardi si presero da diciotto fino a cinquantacinque anni, e in tutto se n’ebbe un cinquemila. — Nella vita di Francesco Ferruccio mi sono ingegnato quanto meglio ho potuto discorrere di questa gloriosa milizia, la quale non si mostrava come apparivano i soldati piemontesi allora pigri, grossieri, contennendi, e vili bensì tali che il Ricotti medesimo confessa: «colla modestia, e con la esattezza sia nel comandare sia nell’obbedire, con la perizia delle mosse, con la ricchezza delle vesti, e delle armi, non meno che con la concordia, ed unione diventò in breve soggetto di maraviglia ai più vecchi soldati.» Nè per questo solo ella fu maraviglia ai presenti, ed onorata memoria ai futuri, bensì per ferocia di magnanimi propositi, e per valore inclito. Io non riporterò la testimonianza di scrittori fiorentini come quelli i quali si potrebbe per avventura supporre che procedessero parzialmente, ma sì di Carlo Capello oratore veneziano del pari che degli altri dei quali mi valsi per giudicare la qualità delle armi piemontesi; costui pertanto, scrivendo al serenissimo Doge gli afferma: «tuttavia non si perdono di animo e sempre con maggiore costanza si confermano in volere ovvero conseguire la libertà, ovvero portarsi di sorte, che se la perdono, speso, e consumato tutto l’avere loro non vi sopravviva alcuno, e solamente si dica: qui fu Firenze. «E quanto più il pericolo stringe tanto maggiormente s’intorano a mettersi ad ogni sbaraglio. «Tanta, scrive il medesimo oratore il 14 Luglio 1530, è la costanza degli animi di ciascuno, tanto indurata la ostinazione di volere liberarsi che hanno deliberato pubblicamente patire ogni estremità, e subito, che il Ferruccio si scopra... uscire della città con tutta la gente di guerra e con quelli della milizia cittadina, e combattere e così vincere ovvero insieme con la vita perdere il tutto avendo determinato, che quelli che resteranno alla custodia delle porte, e dei ripari, se per caso avverso la gente della città fosse rotta abbiano con le mani loro ad uccidere le donne ed i figliuoli, e por fuoco alle case, e poi uscire alla stessa fortuna degli altri, acciocchè, distrutta la città, non vi resti se non la memoria della grandezza degli animi di quella, e che sieno d’immortale esempio a coloro, che sono nati, e desiderano di vivere liberamente.» Che se questa deliberazione, la quale non ha riscontro nelle storie, tranne nella giudaica, dove gli Ebrei difesero Gerusalemme da Tito imperatore menzogna di umanità, non sortì il suo effetto, il mondo lo sa, vuolsi attribuire alla codarda avarizia degli Ottimati, i quali allora adoperavano come la setta dei Moderati adesso, e al tradimento di Malatesta, il quale, come disse Matteo Dandolo allo ambasciatore del Duca di Urbino: — ha venduto quel popolo, e quella città, e il sangue di quei poveri cittadini, a oncia, a oncia. Dopo cotesta epoca illustre, e lacrimevole non vale, per opinione mia, il pregio ricordare milizia italiana: entriamo nei tempi in cui il Filicaia lanciò nella serva Italia i due sonetti pari a due gridi di dolore, che c’introneranno perpetuo gli orecchi, finchè ella non sia tutta sgombra dagli stranieri. — ... Del non tuo ferro cinta Pugnar col braccio di straniere genti Per servir sempre o vincitrice, o vinta: Quando la Francia si avventò alle alpi repubblicana in vista, ladra in fatti e tiranna, i Piemontesi o soli, o in compagnia degli Austriaci davvero mala prova fecero, nè possono cavarne argomento ad esercitare egemonìa. Nel 1848 le armi piemontesi sembra che avessero virtù finchè mantennero l’ardore di che l’avevano arroventate lo entusiasmo popolare, e l’ira; poi giù giù illanguidiscono, e disperdonsi nello sbandamento più che battaglia, ed anco rotta di Custoza. — Nel 1849 Novara. E Novara fu troppo peggio che sbandamento, se come allora la fama porse, e registrò la storia, si ebbe a chiamare presidio nemico per salvare la città dalla rapina dei nostri. Chè se le rapine novaresi taluno negasse oltre le testimonianze degli scritti io non saprei altrimenti provarle, non però delle genovesi di cui io stesso vidi i vestigi, ed udii i deplorabili racconti; nè valore, nè resistenza scusano, imperciocchè nè prodezza propria, nè gagliarda difesa, la quale è pure prova di animo generoso che vuolsi dai soldati massimamente onorare scusano le ladronaie; e per queste vanno offuscati i nomi d’altronde chiarissimi del Malboururgh antico, di Massena, di Soult; ed in ispecie del Rusca piemontese, della cui avara crudeltà si conservano memorie singolari. E mentre combatteste voi, forse gli altri Italiani filavano? Comecchè raccolti tumultuariamente, nè soldati come voi altri in genere, in numero, e caso con tutte le regole forse non seppero i volontari combattere, morire, e vincere? — Perchè mai si licenziarono quasi gente immonda? E perchè a disfarli fu speso maggiore moneta, che non impiegarono a farli? E soldati sembra a voi che sarebbero quelli i quali voi v’ingegnate plasticare sul vostro modello? Hanno a difendere la Patria, e di Patria nulla hanno da sapere; li presumete soldati cittadini e li pretendete tali in procinto di avventarsi in battaglia, sentano lo sprone delle parole concitate del Capitano, e proibite poi che apprendano, più ancora, che ammirino i gesti degl’illustri capitani del popolo. Col popolo di cui sono sangue, e nel quale, superstiti, avranno a rientrare non piglino usanza; ne stieno appartati, dimentichino sè essere figli, o fratelli; soldati unicamente hanno da diventare; ma in cotesto modo educansi gladiatori non già soldati italiani; così si allevano i mastini affinchè guardino gli orti dai ladri non s’instituisce milizia onore a un punto e tutela della Patria. — Grave fatto è questo e come pieno d’ingiusta diffidenza così a Dio non piaccia, che partorisca funestissimi effetti: dunque temete che il popolo vi contamini i soldati? dunque o il popolo non più si accorda con voi, o voi col popolo? Eppure cotesto popolo volle liberissimo ieri il regno italico con a capo il reale di Savoia. Come! ieri consenso, ed oggi forza? Di già a questo? Ma i reami abbattuti quale altra legge avevano tranne la forza? E non bandiste voi, proprio voi, che un governo il quale si appoggia alla forza ormai non ha più causa, nè ragione di vita? E tacendo del valore delle armi nè manco gli ordinamenti militari vostri paiono così saldi da presumere in grazia di questi la egemonìa sopra gli altri italiani, imperciocchè non entrando nel ginepraio del come si spenda il danaro, noi vediamo fare, e disfare la tela dello esercito, secondochè mutano di tessitore; ed anco qui prego Dio, che non voglia, che invece di tessere una veste nuziale, il Ministro o piuttosto i Ministri non ci ammanniscano una Sindone, la quale sarebbe causa non già di adorazione, bensì di esecrazione perpetua. Insomma se i Piemontesi sè amano e noi, e lo vogliamo credere, importa, che smettano il vezzo di presumere sè chioccia, e noi uova da lasciarci covare. Noi non patiremo certo nè tribù di Levi, ne tribù di Beniamino: fratelli vi amiamo, compagni vi accettiamo, disuguali no, molto meno padroni. Se la casa di Savoia diè lo Statuto al regno, ricordate come non fosse concessione sibbene restituzione; se lo mantenne Vittorio Emanuele il cuore e il senno lo sovvennero nello adempimento del debito suo, e n’ebbe rimerito di fama, titolo unico tra quanti apparvero principi sopra la terra, riconoscenza di popoli, e stato, che lo renderà superiore a molti potentati, inferiore ad alcuno. Nè noi neghiamo, anzi confessiamo volentieri, non mediocre conforto essere venuto agli spiriti liberali d’Italia vedere sempre ritta la bandiera italica in Piemonte, comecchè spesso pendente già lungo la stacca a mo’ di vela nelle uggiose calme dell’Atlantico; e confessiamo altresì che quivi il talento per volere sia stato pari alla fortuna per potere, dacchè se la vostra terra non si fosse distesa oltre il crine delle Alpi, e a verun patto potesse sopportarla la Francia in mano all’Austria, voi come noi avreste dovuto con la morte nel cuore piegare il collo alla maligna onnipotenza dei fati. Come no? Perchè lo neghereste prosuntuosi? Le mura di Alessandria non rimasero contaminate da presidio tedesco? Comprendo ottimamente avere a sonare le mie parole rudi; e giova appunto che sia così; gli adulatori dei popoli più funesti due cotanti, che quelli di un re, avvegnadio questi possa cessare da un punto all’altro, e allora morta la vipera spento il veleno, mentre il popolo forse dura fino alla consumazione dei secoli. Callimaco Esperiente nella vita di Attila racconta come il poeta Marullo avendo composto un poema (immaginate che poema!) in lode di cotesto Unno glielo presentasse a Padova fiducioso di premio, ma quando Attila seppe come costui lo facesse derivare da Dio, e lui medesimo salutasse Dio ordinò che poema, e poeta gittassero sul fuoco; ora il popolo nostro civile si approfitti dello esempio del condottiero barbaro emendandolo secondo la ragione dei tempi; lasci stare il fuoco, ma un tuffo nell’acqua ai suoi adulatori lo potrebbe dare. Io parlo per dire il vero, non per odio di altrui, nè per disprezzo, e se paleso animoso le gozzaie, mi muove studio di ovviare che intristiscano, anzi scompaiano. Fatuità somma credere, come oggi si costuma, che negando un danno possa torsi che sia: così quando schiamazzano la Italia è ricca confidano, che ciò empia le casse; ovvero la Italia ormai non può più disfarsi, e con questo pensano averla assicurata con nodo indissolubile: se simile insania non fosse per partorire funestissimi mali non varrebbe il pregio riprenderla, e nè anco indicarla, ma all’opposto io temo, che possa disfarsi perdendo occasione, che forse non si presenterebbe per più secoli a questa parte. Il passaggio in mezzo alle rivoluzioni assai si rassomiglia alla prova del fuoco, dove se ci era via a salvamento consisteva nel traversare del campione tutto, e di rincorsa, lo spazio incendiato. E bazza se allora le scottature erano poche! Se si fermava un’attimo, di lui non rinvenivi nè manco la cenere. Nei primi tempi delle rivoluzioni molti interessi laceri, o coperto, o palese travagliano lo stato novello; e da per tutto vedi scompiglio: ora preme più che mai in questo periodo climaterico l’universale trovi qualche compenso ai patimenti inevitabili; se gli assottigli il pane e tu ministragli copia più larga di libertà; se esigi piamente spietato il tributo di sangue, e tu mostra, ch’egli è per francare la Patria dalla dominazione straniera; la contentezza futura fa toccare con mano, che uscirà dal seme del disagio presente; i membri sparsi di un popolo ridotti come fratelli in una famiglia sola non pure soddisfano al precetto della religione, non pure all’ultimo provvederanno alla pubblica ed alla privata economia, ma altresì acquisteranno la potenza in ogni tempo necessaria, non già (Dio ne guardi!) ad offendere altrui, sì bene a difendere noi stessi. La divisione nostra risponde al Tedesco confitto nella Venezia, allo Spielberg, alle verghe, alle forche, alle fucilazioni, e forse, più amaro che questo, agli strazi quotidiani della gente galla. Nello stare strettamente uniti è posta la salute d’Italia; nè la pena di Beltramo dal Bornio, che per avere con arti scellerate diviso il figlio dal padre il Dante immagina vagolare per lo inferno, con in mano il capo tronco dal suo corpo la reputo sufficiente a cui intenda separare parte d’Italia dalla Italia. Se mi mostro, e sono implacabile contro colui, che la scemò a settentrione non meno irrequieto per quanto io valga, inchioderò nella infamia chi la menomasse a mezzogiorno; molto più, che questi non potrebbe nè anco allegare in discolpa il pretesto della necessità: non a dividere pertanto, bensì per istringere io muovo parole, persuaso, che la compagnia non dura fra genti con varia ragione aggravate; meglio vale, anzi unicamente vale, che il troppo carico dica: «io non ne posso più, fratello vienmi in aita;» che infellonirsi tacendo, e buttare via dalle spalle la soma con iattura di tutti. Noi tutti della famiglia italiana possediamo in copia vizi e virtù sovente diversi, qualche volta contrari, mettiamo in comunella ogni cosa; nelle mutue virtù ci educhiamo, dei vizi scambievoli emendiamoci. Piacemi dirlo: avendo per quanto mi fu dato ricerco la natura del popolo torinese io lo trovai onesto, e più lo era prima che l’alito corruttore del Cavour ci soffiasse sopra; nel commercio singolare, invece, che presuntuoso confessa sentirsi d’ingegno inferiore, e chiede che tu lo chiarisca; se non che la moltitudine delle parole gl’introna lo intelletto peggio, che i tamburi gli orecchi; le immagini lo abbarbagliano, lo sgomentano i tropi; teme i farabulloni lo scarrucolino, i parabolani lo abbindolino, ed ha ragione; chiede definizioni esatte, argomenti precisi; insomma con la sua gamba tu regola il tuo passo; e se lo fai ti si professa grato: il concetto compreso egli si mura dentro il cervello col gesso da presa: forse fie l’ultimo a cessare fede nel governo monarchico, ma cessata ch’ei l’abbia non valgono ganci a ripescarla. Alle amicizie nè facile, nè subito; non ti trabocca giù il suo liquore cordiale da empirtene il bicchiere, e allagarne la mensa, ma se te ne versa mezzo, e’ lo fa per dartene il rimanente un’altra volta: forse, almeno io provai così, con veruno uomo al mondo possiamo durare tanti anni amici come co’ Piemontesi, e senza, che una nebbia sola venga ad offuscare la lunga amicizia: liberali del proprio non mi parvero troppo, ma nè anco costumano pigolarti attorno per avere del tuo; ossequiosi per abito, non per viltà; tenaci dell’oggi, previdenti del domani, e perchè in un concetto solo io stringa quello, che potrei forse stemperare in molto, i Piemontesi possiedono a capello le qualità capaci a guarire noi dai vizi del rilassamento, della incostanza dei propositi, della fatuità delle affezioni, dell’abbiosciatezza in ogni ufficio onde si compone il vivere civile. Tuttavolta la prosunzione collettiva nel Piemontese occorre, e di molto; gli viene dai suoi maggiorenti interessati a fomentarla: gliela inocchiano i Giornalisti venduti; gliel’aizzano i Moderati consenzienti che altri divori, ed opprima a patto che possano rosicchiare essi, ed opprimere di seconda mano, nè trovo verso migliore a farla cessare, che uscire da Torino trasportando la sede del governo a Roma. I Torinesi per altra città non consentirebbero, o a malincuore consentirebbero; per Roma sì; di vero quale città italiana potrebbe stare a petto di Roma per magnitudine di memorie antiche, e per presagio di futura grandezza? Il popolo di Torino, certo finchè cotesta città resti capitale ne sfrutta il benefizio e ne gode, ma si è persuaso, che così non può durare, e talora udii da lui medesimo esporne le ragioni: certo verranno alcune industrie a patirne, ma le sono di quelle, che non fanno ricchezza permanente, bensì transitoria: anzi pure di quelle che servono più presto a corrompere le industrie civili, che ad avvantaggiarle, come locande, osterie, e più o meno onesti instituti, ed anco disonesti addirittura, e turpissimi; il sapore di siffatte industrie noi sopra gli altri conosciamo in Toscana, dove un dì concorrevano forestieri a portarci i vizi, ed i catarri loro. Compensi chiederanno i Piemontesi certamente, ed anco non li chiedendo li meritano, nè sembra arduo accordarli, conciossiachè paia non pure utile ma necessario convertirla in gagliardo arnese di guerra per opporla in ogni caso a qualunque irrompesse giù dalle Alpi nemico; e questo a cagione della scoperta fatta dal Conte di Cavour quando orava in Parlamento per cedere Nizza e Savoia, la quale fu che i paesi si difendono meglio allo aperto in pianura, che non per le angustie delle forre, o dalle alture... anco di queste a noi toccò udire! Nè udire soltanto, ma lodare con plausi, e confermare coi voti! Reverenza dunque, gratitudine, e compensi al popolo piemontese, e a Torino; fratello sia, e sopra tutti onorato, come quello, ch’ebbe la ventura di affaticarsi sopra gli altri per la Patria, e per la Libertà; non signore, non sopracciò, nè egemone: in questo intorandosi perderebbe ogni merito, porrebbe a cimento la salute pubblica, e risoluti non lo patiremmo noi opponendo le nostre forze, fin quì insuperate, di repulsa alle invaditrici sue; e perchè cessi il sospetto in noi, l’uzzolo in lui, in entrambi lo screzio della male auriosa egemonìa urge stabilire il nostro regno a Roma. Senza capitale un grande stato non può stare unito; ella ha da essere come un cappio il quale senza stringere troppo, o stringere a casaccio ordini le forze del paese per la difesa prima, e poi per la massima prosperità interna accordandole armonicamente sia dove tendono ad assimilarsi, sia nello invincibile screzio. Veramente io non ho letto la storia di Gengis-kan, la quale pure fu raccolta circa tre quarti di secolo dopo la morte di lui, ma l’avessi pur letta io porrei mediocrissima fede alle quarantamila, o cinquantamila teste gittate nei fondamenti di Samarcanda come pietra angolare a costituirla capitale; che ferocissimo ei fosse non si contrasta, ma sagace altresì era molto, tanto che il Gibbon ebbe a trovare non poca corrispondenza tra il codice composto dal Locke per la Carolina, e quello di Gengis-kan! Ad ogni modo io credo, che cotesto si abbia, se successe, intendere per simbolo, che molti voleri, come molti interessi devano concorrere a stabilire le nuove capitali, e che questi interessi devano recidersi del tutto da interessi antichi. Napoleone Imperatore giudicava la Italia poco acconcia a comporre un corpo solo a cagione della sua lunghezza, e questo suo concetto prima e dopo lui parteciparono parecchi; tuttavia discorrendo dei luoghi adattati per instituire la capitale del nobile stato così argomenta: «Vari i pareri degli uomini intorno la migliore giacitura della capitale d’Italia, che taluno accenna a Venezia imperciocchè supremo bisogno della Italia paja levarsi a potentato marittimo. Venezia, essi dicono, sta riparata dai subitanei assalti, e favellando a mo› di mercante, deposito dei commerci della Germania orientale e punto più prossimo di Genova a Milano e a Torino; al mare si accosta per tratti lunghissimi di sponde: altri poi vengono dalla storia, e dalle tradizioni antiche condotti a Roma; Roma, affermano, sopra tutto mediana, destra alle tre grandi isole Sicilia, Sardegna, e Corsica, destra a Napoli; per ogni parte a un dipresso equidistante da cui la voglia offendere, o lo inimico si presenti dal lato di Francia, o dalla Svizzera, ovvero dall›Austria, che dove si accosta più distà centoventi, e dove meno centoquaranta miglia, ed ancorchè superate le Alpi la schermiscono due validissimi ripari il Po, e gli Appennini. Roma prossima alle coste adriatiche, e mediterranee con risparmio non meno che con velocità per via di Venezia e di Ancona può sovvenire alla tutela delle frontiere dell›Isonzo, e dell›Adige: per via poi del Tevere, di Genova e di Villafranca ella provvede di leggeri alla frontiera del Varo, e delle Alpi cozie: la sua posizione felice le concede abilità di offendere, mediante l’Adriatico, ed il Mediterraneo l’esercito nemico, il quale si attentasse traghettare il Po, od avventurarsi nell’Appennino senza avere preso la sua sicurtà dal lato del mare; ad ogni evento agevolissimo scansare alle rapine del nemico vincitore i tesori di Roma a Napoli, ovvero a Taranto; finalmente Roma è già: nè si conosce città al mondo la quale offra comodi quanti essa per costituire una grande metropoli; in favore suo la magnificenza e la nobiltà del nome; ed io per me penso, che quantunque lasci a desiderare qualche cosa, ella sarà certamente la capitale che gl’Italiani eleggeranno un giorno.» Questo nel volume terzo delle sue Memorie; nè meno arguto nei Ricordi di Santa Elena: «Se la Italia cessasse con Parma, Piacenza, e Guastalla, o vogliamo dire, ch’ella circoscritta dentro la valle del Po non possedesse penisole, allora Milano sarebbe la sua capitale necessaria, comecchè i periti reputino supremo difetto per lei che il Po non la difenda dalle ingiurie tedesche: ma dove gl’Italiani si componessero in un popolo solo allora Milano non potrebbe pretendere a diventare capitale, imperciocchè troppo prossima alle invasioni terrestri si troverebbe troppo lontana dalle spiaggie per provvedere alle marittime.» E quì nota lettore, che quando il sempre mai funesto ministro d’Italia Cammillo di Cavour non che non vietasse, consegnava le Alpi alla Francia avvertendo io, che dove questo accadesse bisognava pensare a trasferire altrove la capitale, molto più che smantellata la cittadella, Torino, e il Parlamento correvano pericolo di assaggiare le prime bombe francesi, ciò fu argomento di dileggio pel gregge servile: ora se Napoleone, il quale se ne intendeva, non consentiva a Milano di essere capitale d’Italia, pensa tu se lo avrebbe conceduto a Torino nella condizione miserabile in che l’hanno posta il savio Conte, e il suo più savio armento, che i ministri successivi si sono vie vie consegnato come le stime vive di un podere sfruttato, e tuttavia dura salvo dalla epizotia. Napoleone continuando a ragionare intorno alle diverse possibili capitali d’Italia arroge: «Bologna, unita in un solo corpo la Italia, sarebbe da preferirsi a Milano, dacchè ov’ella in caso d’invasione terrestre vedesse superate le frontiere montane, avrebbe sempre la difesa del Po, e pel suo sito, per le strade, e pei canali agevolmente, e presto comunica col Po, Livorno, Civitavecchia, i porti di Romagna, Ancona, e Venezia; come pure assai più di Milano si avvicina a Napoli. «E se la Italia terminasse col regno di Napoli, ed una parte di Sicilia, e di Napoli potesse riempire lo spazio fra terraferma e la Corsica, allora Firenze come centralissima potrebbe costituirsi meritamente capitale.» Donde tu apprendi chiaro, che al pensiero del gran Capitano non si affacciasse mai per capitale Torino. Che se l›autorità di un tanto uomo avesse mestieri di un po› di rincalzo io ci aggiungerei quella di Ubaldino Peruzzi, il quale ci ammaestrò da Torino non potersi governare la Italia, là dove questo personaggio non si fosse smentito dichiarando potersi governare la Italia da Torino finchè non si conseguisse per capitale Roma; e questo parve contradizione, conciossiachè se non può reggersi la Italia da Torino in modo assoluto, molto meno (anzi la difficoltà cresce) non avendo Roma, o standoci contraria: tuttavia queste che paiono a noi contradizioni, potrebbe darsi, che fossero profondità di consiglio a cui il nostro corto intelletto non arriva. Napoleone ai giorni nostri tanto più avrebbe a preferire Roma per capitale d›Italia quanto che adesso con le strade ferrate viene in certo modo diminuito lo spazio se giova; e se non giova si rimette come prima, potendosi in caso di bisogno rompere i ponti, turare botti sotterranee, buttare all›aria carreggiate. Roma quasi naturalmente diventa il nodo delle ferrovie, che dal settentrione mettono capo al mezzogiorno d›Italia, e se soltanto di strade militari Roma antica ne annoverava quindici ora potrebbero occorrendo con molta agevolezza moltiplicarsi non considerando più impedimento nè picchi impervii, nè torrenti indomati. In questo punto, forse non senza profitto, ricordo come le strade militari di Roma pigliassero tutte le mosse dal pilastro della fontana ove i gladiatori uscendo dal circo andavano a lavarsi le ferite; onde non parrà strano se cotesti sentieri contaminati nel loro principio di sangue schiavo diffuso per feroci diletti servissero poi per portare al mondo la servitù. Contro la opinione del sommo Capitano havvi (io non lo vo› tacere) quella del Goethe, la quale da noi si potrebbe agevolmente chiarire inane, imperciocchè sebbene egli abbia vaghezza di favellare di tutto, non però ci ne discorra bene del pari, compiacendo a certo talento, ai nostri giorni assai comune, di comparire onniscienti, il quale viene assai promosso dai nuovi metodi d›insegnamento, su di che aprirò un mio concetto, che ho sperimentato vero ed è questo: quanto lo ingegno nostro acquista di estensione altrettanto perde di profondità: ma i modi stessi che il Goethe adopera dimostreranno quanto poco caso abbia a farsi del suo giudizio. Ora ecco le sue parole estratte dal Viaggio in Italia, 25 gennaio 1787. «La terra dove giace l’antica capitale del mondo basta sola a richiamarci al pensiero la qualità della sua fondazione, dacchè subito tu ravvisi come costà siasi fermata una tribù di gente avveniticcia, condotta alla ventura da capi imperiti; il caso non la sapienza menò costà una mano di vagabondi, certo con tutto altro concetto che fondare il centro di vastissimo impero. I più forti tra loro dopo avere costruito in vetta a’ colli i palagi pei padroni del mondo lasciarono in balìa degli edificatori avvenire i paludosi canneti delle sponde del Tevere, e delle falde dei colli; così le sette colline non valgono a difendere affatto Roma dal lato della pianura; tuttavolta se a primavera mi venga concesso di visitare più accuratamente mi tratterò con maggiore lunghezza a dimostrarvi la positura pessima della capitale del mondo. Intanto io mi addoloro alla passione delle donne di Alba, le quali, dopo distrutta la gioconda loro città, furono condotte repugnanti a respirare le nebbie del Tevere, fermandosi sopra la povera collina di Cornelio, donde potevano ad ogni momento volgere gli occhi desolati al paradiso ch’elleno avevano perduto.» Rimpianti antichi e comuni in Italia, dei popoli, i quali tolti dai luoghi montanini furono avviati a vivere vita meno agreste nei piani; così fra noi Toscani Fiesole. Al Goethe poi, giovane allora e vago di venture, il tempo per considerare meglio non sovvenne, e coteste sue parole balestrate a vanvera rimangono piuttosto a detrimento della fama di lui, che pregiudizio a Roma, a cui i colli fecero sempre temuto schermo se consideriamo da qual lato movessero gli assalti al tempo del contestabile di Borbone, e a quello di che ora noi favelliamo. Molti hanno scritto delle grandezze di Roma, e noi stessi più volte secondo ci dettavano meraviglia ed amore; la sua miseria, come succede, vinse la sua grandezza di assai. Il Montaigne afferma che di Roma antica non rimane più il cadavere, anzi nè pure il sepolcro, avendo i suoi nemici seppellito anco quello; Lutero a sua posta la deplora come mucchio infelice di ceneri, le case ora cominciano dove un dì terminavano i tetti, e tante erano le macerie, che ingombravano ai suoi tempi le vie, ch’egli ne accerta averne vedute fino all’altezza di due lance di lanzechenecchi; le volpi durante il giorno appiattate pei ruderi del Palatino vanno nella notte a bere nel Velabro. Ed anco ai tempi che corrono mandre di pecore, di bovi, e di cavalli selvaggi ti avvertono il deserto cingere attorno la città, o piuttosto la natura silvestre: appena varcate le porte ecco dinanzi a voi lo spazio sterminato e mesto; il sole sembra versarvi sopra con la luce la malinconia, e la malaria: di tratto il cane custode dell’armento si avventa sul passeggero che nella sua salvatichezza non distingue dal lupo; il bufalo leva il capo dalle erbe paludose e seguita lungamente il pellegrino attonito che altra orma eccetto la sua si stampi in cotesto deserto; nuvoli di corvi gracidanti pare che ti presagiscano la febbre maligna in pena della tua audacia di avere penetrato nel loro dominio. In mezzo a cotesto lugubre silenzio ti accorgi che la desolazione stessa consumate le grida, e il pianto ora si tace: non più coltura, non più popolo, gli acquedotti sono privi di acqua, le tombe di ceneri. Ci sono i Preti! E tuttavia scrive Livio con la consueta sua magnificenza: «non senza consiglio gli Dei, e gli uomini scelsero cotesto luogo per porvi Roma; quivi colli saluberrimi la circondano, quivi il fiume destro per trasportare agevolmente dalle spiaggie mediterranee le vittuarie, e i cibi marini; prossimo ha il mare per le sue comodità, non però troppo da temere offesa di armate nemiche: luogo unico insomma per giacitura in mezzo alle terre d’Italia, e per augumento di Roma.» Ma Livio non presagiva il dominio dei Preti capaci a disfare in tre quanto il Creatore fece in sette giorni con le poderose sue mani: e posto eziandio, che Livio movesse soverchio affetto ella è cosa sicura, che Roma sotto Augusto conteneva quattromilioni di anime, e ai tempi di Vespasiano il suo circuito sommasse a 13,200 passi. Roma aveva are, e sacerdoti, e vittime votive, e messi da parte gli emblemi di forza prepotente a ragione la salutarono ed effigiarono sotto Nerva Roma felice con in mano un timone per chiarire come a lei spettasse il governo del mondo. Ora giova pel suoi nuovi destini, ch’ella sia così, imperciocchè l’uomo pigli amore alle cose che gli costano fatica, massime se trovi il compenso largo alla opera durata; la quale ragione essendo pari per gli obietti animati ovvero inanimati spiega la causa per la quale i padri tanto si appassionino pei figliuoli. Nè io mi condurrò mai a credere, che la natura ci abbia dichiarato perpetua guerra, però che questo sarebbe contrario al fine della creazione: di vero sebbene da prima più spesso e con maggiore ampiezza, oggi rado, e ristretto la natura agitandosi muta mari in deserti, e viceversa, e monti in valli o valli in monti trasformando orribilmente l’aspetto delle cose, pure gli uomini assai più tenaci delle formiche non isgomentandosi tornarono indefessi al lavoro, ed ora la natura quietata lascia vincersi, ma da mani valorose, ricordando in certa guisa i connubi spartani, dove al marito toccava usare una quasi violenza alla moglie, e ciò perchè accendendosi più veemente l’appetito ne nascevano figliuoli gagliardi a maraviglia e belli. Dove mai per ricerche ed esempi si dimostrasse che la natura veramente sta in guerra contro l’uomo, con esempi manifesti e non meno copiosi mi rimarrebbe a chiarire come non sia da per tutto così; e nelle parti dov’ella soverchia troppo, l’uomo intontito si rannicchia nella inerzia, mentre all’opposto nelle meno dure cresce di coraggio facendo come alle braccia con la natura, e le fora i monti, le incatena torrenti, mette il morso al mare, le acchiappa il fulmine, e se ne serve da corriere, e ad altre maggiori audacie egli si attenta nè ella se ne cruccia: però non parmi vero, nè utile affermare la necessità della guerra perpetua della natura contro l’uomo, dello spirito contro la materia, della libertà contro la fatalità. Quello, che io affermo troviamo giusto considerando che nulla impedisce, che Roma possa tornare quale fu prima, e qualche segno ne vediamo anco adesso nel bonificamento delle paludi pontine, e Roma, che cascò fino a non contare dentro i suoi muri oltre sessantamila anime, risorse a stato meno infelice. Quivi città da popolare, terre a dissodare, culture a instituire, paduli a prosciugare; quivi elementi fruttuosi proposti all’esercizio delle industrie umane: Roma a conquistare; l’antichissima Roma diventò quasi un nuovo mondo aperto alla solerzia degl’Italiani; l’acquisto di terra agevole, ferace per lungo riposo, le opere da condurre, premio corrispondente alla fatica somministrano altrettante cause per desiderare di possederla, e posseduta tenerla per ogni verso accettissima. Non importa, che Roma torni alla immane grandezza dei tempi di Augusto, e tuttavia bisognerà pure che cresca oltre quello che adesso è, per la quale cosa giova, che ella abbia luoghi vuoti di abitatori e desideri riempirli, e maggiormente diventerà scema per lo spulezzare di tanti scarafaggi forestieri usi a comparire dove si fa pattume, ed a scomparire dove il pattume si rinetta. Le varie parti d’Italia forniranno il proprio contingente di nuovi incoli che alla nuova dimora porranno amore pure ritenendo l’affetto per l’antica, donde certamente hanno da scaturire due beni, che Roma diventerà capitale di tutti, e di nessuno esclusivamente; Panteon delle rappresentanze dei diversi popoli italiani; stretta con vincoli quasi di parentezza con tutte le città italiche; l’altro, che i vari Municipi parranno come confusi in lei: nè dinanzi a Roma alcuno sentirà rimuginarsi dentro l’uzzolo di primeggiare; e cesserà una volta per sempre ciò che torna in supremo fastidio adesso, voglio dire che dove tu freghi di un’attimo le improntitudini municipali di Torino ti bandiscano la croce addosso come uomo insoffribile per misero ed eccessivo furore di campanile. Che se la politica, e la economia indicano Roma capitale d’Italia, ragioni di etica ci sospingono gli spiriti italiani. Che importano libri costà? Lì ti parlano le ruine, e i sassi, e t’imprimono solenni insegnamenti. Odi Lutero; quando ei prima la vide racconta, che cadde sopra le ginocchia, e levate le mani al cielo esclamò: «Salute Roma, o la santa, o la consacrata dal sangue dei martiri... e pure adesso tu sei cadavere, mucchio di cenere.» L’altro tedesco, cui reputò bello convertire la sua musa di fuoco in istatua di marmo, Pigmalione alla rovescia il quale rapiva il fuoco celeste per animare la sua creatura di marmo, il Goethe scriveva di Roma: «altrove ti è mestieri cercare, qui la copia ti opprime: ad ogni passo ti occorre o palazzo, o giardino, od arco di trionfo, o intercolonio, o ruina, o casuccia, o presepio così fitto che tu potresti disegnare ogni cosa sopra il medesimo pezzetto di carta. A che serve una penna? Qui bisognerebbe possedere mille stili, e non pertanto ti sentiresti vinto ogni giorno dalla sorpresa, dall’ammirazione, non meno che dallo spossamento. — Contemplando questa città che dura da oltre venticinque secoli tante volte, e così pienamente trasmutata di forma e d’indole, e che nondimanco sta sempre sopra la medesima terra e spesso co’ medesimi chiodi, e co’ medesimi arpioni, talora crediamo assistere al gran consiglio del destino, e partecipare ai suoi eterni decreti. — Roma è scuola solenne, dove ogni dì t’ispira troppe più cose, che tu non puoi con parole significare; e sarebbe spediente dimorarci per secoli chiusi dentro silenzio pitagorico.» E l’arduo Byron, il re dei poeti dell’anima, allo aspetto di Roma mandava fuori questi nobili concetti: «O Roma! O Patria mia! O città dell’anima! Gli orfani del cuore devono volgersi a te madre solitaria d’imperi estinti! Essi impareranno da te a comprimersi in petto i loro affanni meschini. Che sono di faccia ai tuoi i nostri patimenti, e i nostri dolori? Venite a vedere i cipressi, a udire i cuculi, ad aprirvi una viottola su gli sfasciumi dei troni, e dei tempii voi di cui le angoscie sono sciagure di un giorno... ecco un mondo fragile sotto i nostri piedi quanto la nostra creta. Roma dalle: «Antiche mura, che ancor teme, ed ama E trema il mondo quando si ricorda Del tempo andato e indietro si rivolve» Affermano Roma avesse tre nomi uno sacerdotale ed era Flora o Anthusa, l’altro civile, che fu Roma, il terzo misterioso Amor. Quanto a me credo di ciò sia niente e l’Amor nascesse da leggere alla rovescia il nome Roma; chè se mai avessimo a reputare vera la leggenda questo noi impareremmo di più, che ammonita fino dai suoi primordi ad amare trasgredì perpetuamente al precetto, donde le venne quel fascio di miseria, che sbigottisce i suoi stessi nemici, e tuttavia dura; imperciocchè nè senno astuto, nè prodezza di braccio valgano dove manchi amore. — Non può accertarsi, pure è da credersi, che la umanità ti ami quando le rompi con l’ariete i muri di casa per farci penetrare la luce, e certo poi ti esalterà se le apporterai un tanto benefizio per virtù di persuasione, e la tua potenza poggerà sopra saldi fondamenti; ma il dì che inebbriato della scienza, o della forza farai sentire agli uomini che tu mutasti loro la soma non la servitù, quel dì avrai pronunziato la tua sentenza di morte; immaginando incatenare altrui ti accorgerai avere incatenato te stesso; nel porre agli altri un limite te diffinisti; e le cose finite sono destinate a perire. Roma imperiale è morta, e nonostante le jattanze dei preti le tiene dietro Roma sacerdotale. Il Vaticano in breve starà di contro al Campidoglio come sovente occorrono nei tempii cattolici un sepolcro dirimpetto all’altro; la Roma nuova ha da meritarsi lo emblema, che ho detto vedersi nella medaglia coniata in suo onore ai tempi di Nerva, col timone nelle mani, quasi preposta a guida del mondo; imperciocchè fosse antico instituto di lei dare la nozione del diritto ai popoli jura gentium; e le sue leggi meritamente si chiamassero la ragione scritta, onde come i ruderi delle fabbriche romane ti occorrono per tutta la terra conosciuta, i frantumi dei sapienti responsi dei suoi giureconsulti tu trovi in ogni codice di popolo civile; nè questo, io penso, deva riputarsi vanitosa prosunzione, però che posto ritornasse in fiore un senato romano il quale stesse a pari dello antico invece di ricorrere all’arbitrato di qualche principe divenuto savio più che per altro per anni, e per isventure lice credere, che volessero preferirgli un consesso di uomini per forte volere temperanti. Roma di tutto ti si farà maestra, nè con parole inani, tristo retaggio del secolo tabella, bensì con esempi gagliardi i quali solo possono rimettere i nervi a queste nostre generazioni sfatte. Sì tu apprenderai a che meni lo screzio tra patrizi, e plebei, e come sia più prudente invece di partecipare a questi i privilegi dei primi, torre via le disuguaglianze non solo al cospetto della legge bensì per quanto fie possibile nelle sostanze mercè gli ordini della buona economia, negl’intelletti in grazia della diligente educazione. — Roma t’insegna come gli stati precipitino quando una classe dei cittadini accaparrati per sè gli utili, e il seguito che vengono dai pubblici offici ne pretenda escluse le altre, e i governi diventino consorterie ingiuste sempre per necessità ingiuriose, provocataci, e superbe le quali contese se finiscano con certa maniera di empiastri dove veruna delle parti rimanga soddisfatta è male, e se per tumulti dove scapitino tutte è peggio: guai se mettano capo agli esilii, alle carceri, e al sangue. I Gracchi, come avvertiva il Mirabeau, morendo gittano all’aria un pugno di polvere insanguinata, e da cotesta terra nasce Mario. Mario suscita Silla, quindi a breve Tiberio erede della Repubblica strangolata; poi i Barbari giù dalle Alpi a mo’ di Lupi accorrenti all’odore del sangue. Quivi Stolone ti si conficca nella mente immagine perenne del plebeo povero abbaiatore dei ricchi, che fa mettere la legge, veruno cittadino si attenti acquistare oltre i cinquecento jugeri di terreno: raccolta poi buona quantità di pecunia ei ne compra mille; nè per onestare la cosa gli giova metterne cinquecento in testa del figliuolo, che posto in accusa da Popilio Lena con la sua medesima legge è condannato. Roma per norma al popolo nostro di costume veramente civile, onde come a pietra di paragone ci provi i suoi uomini, ti addita un Marco Rutilio Censorino, il quale eletto per la seconda volta censore raduna il popolo e lo ripiglia severamente perchè con siffatta elezione prolungasse la durata di un ufficio, che i padri ordinarono breve come quello, che conferiva soverchio seguito; un Fabio Massimo cinque volte consolo, ponendo mente il padre, l’avo, e il bisavo avere tenuto il medesimo maestrato, arringare il popolo per dissuaderlo a eleggere il suo figliuolo, non già per manco di virtù, che in lui concorrevano copiosissime, bensì perchè fosse di esempio pessimo il continuato imperio nella medesima famiglia; uno Scipione Affricano, che contrasta al popolo la facoltà d’inalzargli statue, e decretargli qualunque onore o mercede perchè combattendo i nemici della Patria egli compiva il debito di cittadino, e non altro. Colà in Roma apprenderai il cittadino armato non estimarsi nè essere tenuto da più degli altri, anzi o meno, o da guardarsi maggiormente come quello, che può riuscire da vantaggio pernicioso alla repubblica; anteponendosi a buon dritto Licurgo, Solone, Numa e simili a Temistocle, ed a Cammillo però che questi con le armi tutelassero la Patria una volta sola, mentre gli altri con le leggi provvidero alla prosperità, e sicurezza futura di quella: nè ciò per sentenza del solo Cicerone, bensì degli stessi imperatori Leone ed Antemio, e consegnata nelle leggi dove si trova scritto, «che non solo quelli i quali sono armati di corazza, di scudi, e di brandi militano per lo impero, ma i giurisperiti altresì; militano coloro, che fidati nel glorioso dono della eloquenza difendono le speranze, la vita e la posterità dei cittadini» Le armi cedevano alla toga; e se taluno si attentava affermare in mezzo allo strepito dei ferri non farsi sentire la voce delle leggi questo soldato era Mario, che poi ruppe ogni legge. In Roma Postumio Tuberto, Manlio Torquato consoli dannano a morte i propri figliuoli perchè malgrado il divieto loro avessero assalito e vinto i nemici. E se Papirio dittatore dopo avere condannato alle verghe Fabio Rulliano, che senza ordine del dittatore combatte e rompe i Sanniti, gli rimette la pena ciò fa annuendo alle preghiere del popolo romano, e dei tribuni suoi mossi a compassione del padre di Fabio già dittatore, tre volte consolo, e salvatore di Roma; con questi, e tali altri esempi si mantenne la disciplina costà, e vi sarebbe comparsa, come veramente ella è, immane cosa, che un soldato avesse ardito, come testè accadde a Torino, presentatosi in Parlamento vantarsi avere trasgredito la legge; mostruoso fatto da invertire ogni ordine della Repubblica, che l›Assemblea lo lodasse, ruina espressa della Libertà poi se con guiderdone siccome benemerito lo avessero proseguito. — Più tardi la Repubblica rimase contristata da simili esempi, ma allora i soldati non obbedivano più la legge bensì l›uomo, non cittadini, bensì gladiatori, infesti per fermo alla Libertà, non però meno esiziali al tiranno, che vie vie ammazzano mettendone il trono allo incanto. A Roma imparerai come nelle guerre civili il Capitano non pigliasse titolo d›imperatore, nè vincendo gli rendessero grazie per decreto, nè egli ardisse menare l›ovazione, molto meno il trionfo. C. Antonio, spenti Catilina ed i compagni suoi, ordina ai soldati lavino le spade, e si purifichino innanzi di entrare nel campo; e non, che altri Mario, e Silla t›insegneranno a Roma come le vittorie su i cittadini sieno eventi luttuosi da consacrarsi agli Dei infernali, quegli fuggendo dai tempii, e dagli altari, questi omettendo le immagini delle città vinte nelle guerre civili quando menò il trionfo. A Torino sì esulta quando si vince non già Catilina, bensì Garibaldi, non avversi ma amici, e si largheggia a danaro, e si promuove a gradi superiori.... Andiamo a Roma; che esempi di temperanza civile, e di grandezza italiana non ci può dare Torino. A Roma cotesti sassi, la terra stessa ti diranno con quali arti si crei un popolo grande, e creato si mantenga; essi ti rammenteranno come il Senato romano dopo la disfatta di Canne per nulla sbigottito inviasse soccorsi nella Spagna; ed esposto allo incanto il terreno occupato dal campo cartaginese, mentre il nemico instava minaccioso a porta Capena, non pure lo vendono, ma sì no cavano il maggiore prezzo delle garose licitazioni: lì imparerai come coteste anime non meno eccelse, che sapienti, invece di empire il mondo con la confessione della propria fiacchezza reputano più disutile vincere co› soccorsi stranieri, che dannoso perdere in sè solo fidati quando in procinto di rompere la guerra a Pirro udirono come i Cartaginesi spedissero in ausilio di loro cento venti navi mandarono un legato per licenziarle, però che essi costumassero imprendere le guerre, che si sentivano capaci a sostenere senza bisogno di soccorsi; altrui. Oggi un Ministro della Guerra a Torino bandisce al mondo, che la Italia con quattrocentotrentamila uomini (non mai i Romani ne adunarono tanti!) nulla può senza il soccorso di Francia. Andiamo a Roma che maestra di grandezza non ci può essere Torino. Anco altrove, che che calunniando la umanità si attenti sostenere la empia setta la quale nega in altrui la virtù, ch›è morte alla tristezza sua, anco altrove, massime a Firenze, puoi conoscere quanto sagrifizio in pro della Patria sappiano fare i popoli accesi nel santissimo amore che lei; ma in Roma questa virtù diventa febbre. I Deci padre, e figliuolo si profferiscono vittime volontarie alla salute di Roma; e lasciando del sangue se favelliamo di averi, che chiamano secondo sangue, e a troppi troppo più caro del primo, nota, nella seconda guerra punica gli universi cittadini chiesero, remossa ogni causa di esenzione, essere accettati a pagare il tributo, le donne dettero gli ornamenti muliebri ed i fanciulli, non potendo altro, le insegne della loro ingenuità la bolla e la pretesta; nè cavaliere, nè centurione domandò il saldo durante la guerra: i padroni dei servi affrancati da Sempronio Gracco a Benevento ne ricusarono il prezzo. Che più? Gli appaltatori delle feste religiose informati come per penuria di pecunia pubblica il Senato stesse per sospenderle, si proffersero continuarle a proprie spese col patto, che al termine della guerra ne sarebbero soddisfatti; ed anco a cotesti tempi per mercadanti parve avessero toccato le colonne di Ercole della liberalità. Nè altrove come a Roma tu avrai esempi del modo col quale la uguaglianza civile con tutte le potenze dell’animo si prosegua, e del modo feroce onde si punisce chi la insidia. Genuzio Cepione pretore mentre esce da una porta percosso da non so quale prodigio consulta gli auguri, che lo chiariscono lui destinare i fati a re di Roma ove mai ci ritornasse: da tanta scelleraggine aborrendo ci si condanna a perpetuo esilio. I Romani in memoria del fatto ed in laude dell’uomo su cotesta porta ponevano la sua immagine condotta in bronzo; però la porta ebbe nome di Raudusculana, chè in antico il bronzo si chiamava raudera. — Spurio Cassio Vescellino sendo tribuno della plebe propone primo la legge agraria per gratificarsi il popolo nel pravo intento di assoggettarselo poi. Cessato lo ufficio il padre Cassio convoca il consiglio di famiglia di parenti, e di amici, e lui accusa e convince d’insidia alla libertà della Patria; da tutti dannato ordina il padre si uccida con le verghe; il suo peculio consacra a Cerere; e Plinio ricorda avere veduto ai suoi tempi il simulacro di Cerere fatto col danaro di Spurio Cassio. Bruto ammazza Cesare senz’altro rito, che con ventitrè pugnalate. Questi i tiranni pallidi di paura urlano essere atti feroci, e meritamente; costoro fanno il loro mestiere; ed è ragione, che lo ripetano a coro i complici della tirannide. Diversi noi, consideriamo che pigliare un giudice e mutatolo in mannaia mozzartene il capo, ovvero la legge e convertitala in corda stringertene il collo, o i figli del popolo ed avventarli soldateschi mastini alla gola del popolo, troppo più rimescola sottosopra il consorzio civile che non il pugnale immerso nel cuore al tiranno. Rotta, che sia una volta la legge sottentra la violenza, per la quale cosa non si conosce con che diritto si presuma che altri ti faccia la guerra a modo tuo, e non in quello, che altri giudica per ottenere su di te vittoria facile e intera. Strana cosa! Un dì altari inalzaronsi ai trucidatori dei tiranni, e si ebbero il pregio di eroi, e di semidei; andarono lungamente celebrati nei peana argivi Pelopida, Timoleone, Trasibulo, Armodio e Aristogitone e simili: oggi, se antichi riverisconsi, e nelle scuole rammentatisi modello alle giovani menti, se moderni si dannano agli Dei infernali. Che gl’imperatori moltiplichino affannosi i delitti di lesa maestà, e affermino capitale delitto il negato saluto alla propria immagine provandolo poi a suono di scure, bene sta; e’ sì arrabattano a fare il loro mestiere, ed anco s’intende che per paura rabbiosi, o per cupidità convulsi lo vadano ripetendo i satelliti che tengono dintorno, e da loro ricavano infamia, pane, e ardire; ma che altresì lo bandiscano uomini che presumono avere a cuore la Libertà non s’intende, molto più che così non la intendeva nè anco Marco Aurelio imperatore, il quale consegnando la spada emblema della sua carica al Prefetto del palazzo gli diceva: «piglia questa e se impero retto difendimi, se iniquo uccidimi.» Roma con le sue rovine ti ammaestra che pari fato attende quel popolo il quale recandosi a tedio il lavoro stende le mani alla elemosina dei cittadini, e più funesto assai ai doni dei re. La dovizia lasciata dal re Attalo al popolo romano fu proprio la camicia di Nesso, ond’ei rimase incenerito. Benefattore della umanità è quegli, che appresta lavoro alle mani, e scienza allo intelletto del popolo: ricordi sempre costui come quando il cozzone intende saltare sopra le groppe del puledro gli presenta blando nel cavo della palma la biada, e Cesare mentre con le larghezze del suo testamento pare liberale al popolo romano porge la cima della catena di cui lo ha avvinto al successore Ottaviano: il popolo corrotto la celebrò bontà di amico, e fu libidine di tiranno che nè anco per morte si attuta. Nella città eterna imparerai a parlare come Aulo Cesellio il quale interrogato che mai gli desse balìa a riprendere acerbo come faceva le iniquità dei Cesariani rispose: i molti anni, ed i punti figliuoli; ovvero come Marco Castricio, il quale negava gli ostaggi commessi alla sua fede a Cneo Carbone, ed a costui, che presumeva atterrirlo con le parole: «bada ch›io ho molte armi;» egli mansueto diceva: «ed io molti anni.» Ed anco piglierai norma di onesto e forte vivere da quel Caio Blosio amico di Tiberio Gracco e della sua fama, non già della sua fortuna, che interrogato da Lelio per ordine dei Senatori a fine, che esecrando il male condotto amico con le nuove parole si procurasse perdono della colpa antica ei repugnò come da azione abominevole; e quante volte gli domandavano: «ma se Gracco ti avesse ingiunto di sovvertire il tempio di Giove l›avresti tu fatto? E se Gracco ti avesse comandato di appiccare le fiamme a Roma l›avresti tu arsa?» Ed altri cosiffatti vituperii, tante ei rispose: «Tiberio Gracco non era capace di ordinare scelleraggini.» Aborrendo lo inclito uomo menomare la reverenza alla memoria dello amico anco con silenzio onesto, o con prudente sermone: — -imparerai, cosa anco più difficile, a tacere, nè di questa qualità fondamento oltre la comune aspettativa di ogni virtù cittadina ti fornirà esempio solo M. Perpenna legato a Genzio re degl›Illirici, il quale stretto con blandizie, e con terrori a rivelargli i segreti del Senato accostò il dito indice alla fiammella della lucerna che gli stava dinanzi, e ce lo tenne fermo finchè non lo ebbe tutto arso, dimostrandogli in quella guisa, che i tormenti non valevano sopra di lui; delle carezze non importava dire; gli esempi ti verranno altresì dalle donne come sarebbe Porcia, la nobile consorte di M. Bruto, che cela, e tace la ferita, che si è fatta per chiarire il marito se si sentisse bastevole a tenere il segreto intorno ai disegni, ch›egli agitava nella mente; — e non pure da matrone, bensì dalle femmine, che il mondo cerca e disprezza, registrando le storie il memorabile fatto di Epicari cortigiana, la quale per non essere sforzata dai tormenti a rivelare la congiura contro Nerone con le proprie mani accosciatasi giù in ginocchioni si strangolava. Sopra tutto Roma t›insegnerà a morire, più della vita rendendoti desiderabili le cause del vivere; di Catone si tace, e di Arria maestra di generosa morte al marito, e di Porcia, che impedita a troncare il vivere suo co› mezzi ordinari non rifugge uccidersi trangugiando carboni ardenti, e di Sempronia la sorella dei Gracchi, che invano spaventata dal popolo, e dal senato furenti nega il bacio ad Equizio supposto figliuolo di Tiberio, perchè il decoro della famiglia con la turpe agnazione non si vituperasse; giovi ricordare Quinto Metello Scipione suocero di Pompeo magno, che, ruinate le fortune del genero mentre naviga nella Spagna, vista assalita e presa la nave dai Cesariani si ritira a poppa e quivi si ferisce a morte, donde, sentendo i nemici domandare ansiosi: «dov›è Scipione?» rispondeva: «Scipione sta bene, e vi saluta.» Indi a breve moriva. — E moriva Trasea Peto, ed altro non potendo, col sangue grondante dalle aperte vene propinava a Giove liberatore. Qua in Roma studia la faccia multiforme della tirannide, onde altra mai non possa più abbindolarti, e di ora in poi capitandotene in mano qualcheduna delle nuove tu possa, dopo brancicatola alquanto, dire: «il vivagno v›è ricucito di fresco, ma il panno è antico.» Augusto rappresenta la tirannide che s›instilla nel popolo come raggio di sole blando, e inevitabile; le dà sembianza di legge, l›orna con lo splendore delle lettere, la rende gioconda di agiatezza e di comodi; trova Roma di mattoni la lascia di marmo; ed anco ai dì nostri la tirannide, giusta il detto della Scrittura, s›industria ingrassarti il cuore, onde non ci entri, o ci esca senso di dignità. Finchè non si recarono a tedio i lari pudibondi, e lo studio della spola e dell›ago crebbe la gloria delle donne latine che partorirono gli Scipioni, e i Gracchi; adesso predicano il lusso necessità degli umani consorzi, e piglia la più pericolosa di tutte le facce, quella della scienza, con inane consiglio, a parere mio, dacchè solo, che tu distingua se le ampliate comodità si affanno ai bisogni veri della vita procurando più ferma salute, o giorni meno duri, e tu accettale in casa come ospiti amiche; se poi per assillare il genio vanitoso delle femmine, o la obliqua irrequietudine dei figli, o la tua stessa superbia chiudi loro la porta in faccia; meglio sarebbe tu l›aprissi alla volpe. Bada, il tiranno prima ti empie di vanità, e poi ti compra. — Tiberio rappresenta la tirannide che penetra nelle carni del popolo con gli artigli dell›uccello di rapina, odiato odia, e perchè lo desiderino egli attende a lasciarsi successore un›uomo di cui le atrocità valgano a fare dimenticare le sue, e vi riesce; però che egli fosse tiranno astuto, Caligola matto, Claudio imbecille, Nerone, Caracalla, Costantino immani, e parricidi; Galba e Vespasiano rappresentano la tirannide avara, Vitellio la tirannide da taverna, Massimino la briaca, Tito la ippocrita, Domiziano la bestiale, Procolo ed Eliogabalo la infame di laidezze supreme; insomma lì come in un Museo puoi studiare ogni maniera di tirannide, conoscerne le qualità, l›indole, i modi aperti, e segreti, diritti, od obliqui di tribolare la gente, e farne suo pro. Dopo la notizia della Libertà per amarla e praticarla veruna torna più utile quanto quella della Tirannide per evitarla ed aborrirla, perocchè questa sia quasi il rovescio di quella; così nella maniera stessa, e per lo medesime ragioni dopo considerato le facultà dell›anima umana fino a quale stupenda estensione si possano esercitare nel bene giova vedere del pari a qual punto estremo giungano nel male. — Costà i ladri non s›infingono, aperti rubano e la rapina ostentano; chiamansi Mummio o Verre, che quegli la Grecia, e questi Sicilia scorticarono come vittime sagrificate alla loro insaziabile avarizia. Caligola va franco alla volta di Giove, e gli strappa la barba e il manto di oro affermando che gli Dei non portano barba, nè patiscono freddo; mentre ora non si ardisce riprendere non già ai Numi, ma ai preti la male acquistata sostanza; in sembianza compunta, atteggiati a confiteor ecco si accostano di scancio all’altare, ci si inginocchiano davanti, e quando il proto attendo a leggere in cornu epistolæ il vangelo di San Giovanni acciuffano le candele, e soffiatoci su se le rimpiattano in tasca: poi chiotti chiotti tentano svignarsela, imbecilli! gli rivela ladri il puzzo di moccolaia che mandano i mozziconi rubati. Il popolo, che ripiglia il suo non ha bisogno di lavarsi le mani dentro l’acqua benedetta. L’avarizia non piglia sembiante di amore di Patria, molto meno di umanità; truce è, e truce si mostra. Opimio console avendo per pubblico bando promesso pagherebbe a peso di oro il capo di Caio Gracco, Lucio Settimuleio vuota il cranio dello amico spento, e c’infonde piombo, perchè aumentato il peso il console gli cresca il prezzo, e poichè, somma avarizia sia l’agonìa del regno; tu vedrai per questo Tullia non rifuggire a passare sul corpo di Servio Tullio, e mentre torna trionfante ai domestici lari su carro di cui le ruote segnano per la via una traccia di sangue paterno empie di paura la città, e impone per sempre il nome di scellerata, alla via infame per tanto sterminio. Caio Toranio in grazia di procurarsi il favore dei Triunviri svela il luogo dove si tiene nascosto il padre, e somministra i segni perchè i sicari spediti a trucidarlo lo riconoscano. Il padre tratto fuori, più che di sè sollecito del figlio, domanda s’ei viva; rispondongli: vive, e te, con la sua delazione, ammazza. Il misero cadde trafitto più della morte dolendogli la causa della morte. Pari o peggio il fato di Lucio Vellio Annale, che mosso da paterno affetto mentre sotto mentita veste, essendo egli proscritto, si fa al campo Marzio per promovere nei comizi la questura del figlio, scoperto da questo, lo denunzia, e preponendosi ai littori ne segue le traccie, lo trova, e al proprio cospetto comanda, che gli tronchino il capo. Potrai lagnarti d’ingratitudine, o sopportare con molesto animo l’oblio dei cittadini, ovvero arrovellarti altresì dei tradimenti, e delle persecuzioni dei tuoi carissimi un giorno, quantunque volte tu, miri Furio Cammillo accusato da Lucio Apuleio tribuno di peculato perchè, se la fama porge il vero, gli furono rinvenute in casa due porte di bronzo dalle spoglie etrusche, morire in bando ad Ardea? Nè con diverso guiderdone pagato Scipione Affricano secondo salvatore della Patria costretto a concludere la sua vita a Linterno; certo di questo fu volontario lo esilio, quello di Cammillo per sentenza, e quando nelle esequie del figliuolo si tribolava. Il primo della ingratitudine cittadina non pigliò vendetta oltre quella di negare le sue ossa alla Patria facendo questo suo proponimento scolpire sopra il suo sepolcro: ingrata patria nè ossa quidem mea habes; vendetta veramente atrocissima, ma l’unica, che senza rimorso il cittadino può trarre dal luogo, che lo vide nascere, e nondimanco Cammillo hassi a giudicare più grande di Scipione, conciossiachè percosso dalla immanità dei suoi, e quinci cavando funesti auspici per la Patria supplicò gli Dei, che accettassero il suo capo, e delle pene espiatorie il colpissero. — Della miserabile morte di Marco Tullio Cicerone tutti sanno, o molti; Caio Popilio Lena da lui difeso, e salvato nell’accusa di parricidio, presso la spiaggia di Gaeta gli fu sopra mozzandogli il capo, e la destra: soldato era Popilio, suo imperatore Marco Antonio; a Roma nei tempi truci delle proscrizioni soltanto, fra noi in tempi ordinari coteste obbedienze soldatesche si lodano, si premiano, ed anco si presume onorare; pochi all’opposto sanno il caso senza dubbio più reo di Caio Cesare oratore, il quale dopo avere (arduo carico!) sottratto alla scure il capo di Sestilio accusato di maestà contro Silla, mentre a sua posta travolto nella proscrizione di Cinna supplica asilo nelle case del cliente, costui lo strappa dalle perfide mense, e dagli altari dei nefandi Penati e lo consegna a morte. Se ciò commettesse Sestilio per paura o per cupidità ignoriamo; ma se fu per paura di morte si mostrò indegno di vita, se per premio, degnissimo di morte. Le crudeltà antiche di Roma non vennero mai superate, eccettochè in Roma dalle più recenti dei Papi, e dalle modernissime del moscovita Alessandro, di cui l’amicizia è sì cara ai moderati di Francia. Contempla, fra infiniti, questo caso: Caio Mario in mezzo alle mense ricevuto l’odiato capo dell’oratore Marco Antonio lo stazzona con feroce voluttà, gli dice ingiuria, poi così sanguinoso con le proprie mani lo pone ornamento al convito, e Pubblio Annio, che glielo portò in grembo vuole che così imbrodolato di sangue si sdrai su i letti convivali; poi continuando a guardare per la storia vedrai tutta la stirpe di Mario di mala morte schiantata, e le sue stesse ceneri cavate dall’emulo Silla fuori del sepolcro e disperse su per le acque dell’Aniene. — Di Silla, se il cuore ti basta, puoi esaminare le quattro legioni senza misericordia trucidate nel campo marzio, e lui dire ai Senatori raccolti nel tempio di Bellona spaventati dagli urli, e dal rivo di sangue irrompente nel tempio: «non è niente: pochi ribelli ora si castigano per mio comandamento;» i cinquemila abitanti di Preneste anch’essi, affidati alla sua fede, e anch’essi con istrage promiscua ridotti in pezzi; i quattromila e settecento proscritti prima per odio, poi per cupidità; nè risparmiati la vecchiezza, ed il sesso; anch’egli si dilettò di morti con trucissima industria prolungate; anch’egli, come un dì gl’imperatori antichi posero nell’atrio delle loro magioni le spoglie dei popoli vinti, volle che nell’atrio della sua sopra tante aste conficcassero i capi di L. Scipione, di Giunio Norbano, e di altri parecchi. Mentre a piè del letto fa dai servi strangolare Granio vinto dall’ira muore per istianto di apostema verminosa; gli eredi arso il corpo, ne celano la cenere onde non avvenga a lui quello, ch’egli ordinò si facesse con la cenere di C. Mario. Taccio della lascivia, mostruosa piuttosto che infame, di Messalina, che conduce pubbliche nozze, vivo Claudio l’imperiale marito, ricercatrice notturna di soldati pei guardioli, sfidatrice di femmine perdute a gara di vergogna. Nerone, ed Eliogabalo convitanti come a festa allo spettacolo di tali abbominazioni, le quali la notte non ha manto sì fosco, che valesse a nasconderle degnamente. PARTE II. Assedio di Roma. Comprendo ottimamente la impazienza di coloro, che male ponno aspettare al canapo la storia di quanto il popolo oprò per avere Roma, e tenerla sostenendo il memorabile assedio, e di quanto sta per operare la monarchia, che se n’è accollato il compito: però importa non arrecarsi degl’indugi da un lato, perchè innanzi tutto bisogna che aggiustiamo qualche partita con Roma; dall’altro, perchè se dobbiamo compire il libro col racconto dei gesti monarchici per salire al Campidoglio noi potremo attendere un pezzo. Dal primo assunto noi ci sbrigheremo presto come quello che è riposto in potestà nostra; quanto al secondo spetta alla monarchia e al suo governo e non a noi. Noi abbiamo pronte l’anima e la penna; sta alla monarchia apprestare le armi e combattere. Noi ci sentiamo sempre disposti perchè nostro ausilio sia Dio. La monarchia senza aiuti stranieri sembra non possa fare: almeno così ci afferma chi tiene il maestrato della guerra: più bellicoso, chi amministra l’erario: ma la guerra fin quì si è condotta con i cannoni carichi non con le casse vuote. Parliamo di Roma sacerdotale, e poichè il Papa si vanta rappresentante in terra del principio di ogni giustizia, ch’è Dio, miriamo un po’ qual diritto egli possieda, come ai diritti altrui chini la fronte, e se Dio possa manifestarsi alle sue creature per via di così indegna, o scellerata, o stupida cosa come fu la maggior parte dei pontefici romani. Tanti già favellarono su questo argomento, che potrà parere per avventura soverchio; e parrà male per due ragioni; la prima delle quali consiste in questo, che ogni uomo considera i medesimi fatti con modo suo proprio, accadendo nella speculazione quello, che succede nella visione degli enti fisici; ed abbine esempio nelle forme diverse, che gli alunni ricavano da uno stesso modello nelle scuole del disegno; onde ti senti quasi per mano condotto a sempre nuovo, ed inaspettato ordine di pensieri; la seconda ragione poi è quest’altra: che l’errore ti casca come macchia d’inchiostro su l’anima, e per poca stilla ch’ei sia ci vogliono brocche di acqua per isbrattarlo. Il Conte di Cavour intorno a Roma manifestò due concetti, uno dei quali, per opinione mia, si ha da reputare buono, e l’altro no. Buono quello di combattere la Chiesa romana più con le armi della ragione, che con le armi di ferro; e forse era meglio dire, dovercisi adoperare ambedue, però con questo intento, che la potestà temporale intorno intorno segata dalla dottrina caschi al primo tocco, come la porta santa sotto il colpo leggerissimo del martello del Papa. Chi poi crede che si possa movere guerra efficace alla potestà temporale lasciando incolume la spirituale, non se ne intende, perchè con questo Roma ripiglierà la prima a tempo ed a luogo; già lo fece una volta e non si capisce perchè non l’avesse a fare da capo; se il ragnatelo rifabbrica la sua rete sette volte, la Chiesa tornerà a tramarla per lo manco settanta volte sette; nè tu spera col Sacerdote pace sicura mai se prima la sua usurpata potestà temporale non cessi, e la spirituale non si rimondi da ogni mescolatura di faccende terrene. La Chiesa romana quando acciecata dalla superbia, e dal considerarsi tanto nella dottrina superiore al secolo, che la circondava, intese definirsi, fece come Licurgo quando piantò la vigna; ella si tagliava le gambe: custode alla immobilità sua pose la maledizione, e il fuoco: nè di roghi, nè di anatemi ella fece a spilluzzico; ma il pensiero non si brucia: anco ai roghi, anzi soprattutto ai roghi dello errore si accendono le torce della verità: quanto a maledizioni avvertite, che quelle dell’uomo ben possono percotere, e percotono l’uomo, ma l’uomo soltanto, mentre quelle della ragione rompono l’uomo e le sue frodi. E veramente noi confessiamo come l’uomo col suo intelletto non possa comprendere tutto: tra il cielo e la terra havvi uno spazio, che a sapienza umana non fu concesso penetrare; ma ciò non deve porgere argomento al Sacerdote di empirlo di terrori, di errori, e di fantasmi; aucupi di uccellatore cotesti per cavarne profitto ad ingrassare la mensa: se quì dentro sta chiuso un mistero per me, e tu Sacerdote a posta tua uomo come me, sovente meno di me, adora e taci. Chi di coltello ammazza conviene che pèra, ha detto Cristo, e con giustizia migliore poteva sentenziarsi: chi seminò l’errore raccatta la morte. Il Sacerdote avvolse intorno alle gambe della umanità una catena d’inganni agguantandola per la cima a fine di reggerne i passi, ma la umanità limandola per secoli con la opera della mente se n’è affrancata, mentre la cima impiombatasi dentro la mano al Prete lo tiene preso provvidenzialmente. La vita è moto: la immobilità spetta ai cadaveri, ovvero alle cose inanimate: nè cessa soltanto il viandante che si ferma per le lande nevose della Siberia, bensì ogni istituto, che sosta a mezzo il cammino del suo perfezionamento: per condizione di vita l’uomo ha da rimanere incompiuto finchè duri sopra la terra; condanna sia, o grazia il suo intelletto si trova spinto a poggiare sempre e più sempre in alto affaticandosi a diminuire la distanza la quale intercede fra la mente umana e la mente divina. Che se ti oppongono: spenta l’autorità chi mai fie potente a creare la regola? — Cristo provvide a questo: l’uomo non la può imporre all’uomo, e la Chiesa non istà nello individuo, bensì nella comunione dei fedeli: così fu una volta, e così ha tornare ad essere: dai Concili composti di uomini guasti di ogni reo costume (e per ora invano gli speri diversi) non ti puoi attendere altro che miserie, più tardi ne uscirà regola e scienza: dalle legna secche prima non hai fumo, tristezza degli occhi, poi fiamma conforto delle membra assiderate? L’altro concetto, che per me reputai pessimo e sbalestrato dal Cavour fu quello della Chiesa libera nello Stato libero. Se la servile piaggeria da una parte non generasse sempre temeraria prosunzione dall’altra, e se prima di avventurare proposte, le quali ci potrieno riuscire funeste le provassimo nella ragione di fatti per meditarci sopra conforme è debito di tutti, massime di cui regge gli stati, troveremmo come la Chiesa romana instasse un dì per siffatta separazione, poi ella stessa la togliesse di mezzo; ed ora ne aborrisca, e quasi fosse empietà la condanni; perpetua la contradizione nei detti, negli scritti, e nelle opere della Chiesa di Roma, comecchè ella sia tutto un prete, un prete solo che striscia pari ad un boa immane traverso quindici secoli: durante tre il Sacerdote raccolse nel suo cuore i raggi della divinità, e la sua via fu quella del paradiso; da quindici secoli a questa parte i passi di lui tendono per dritto tramite allo inferno; e nondimanco in mezzo alla contradizione proponesi fine immutabile; cotesta è volubilità delle vele da mulino per movere la mola, che macina il grano per casa. Noi ci atterremo per non andare errati alle parole di Cristo, e mettendo il vangelo per falsariga sotto il cammino dei preti conosceremo a prova i passi loro essere quelli del granchio; nè vale opporre che la lettera uccida, e lo spirito ravvivi, conciossiachè la lettera di Cristo risplenda luminosa della luce dello spirito. I preti ad ogni piè sospinto ti vanno ripetendo santo Agostino avere sentenziato nelle cose dubbie doverci noi stare piuttosto alla interpretazione della Chiesa, che alla Scrittura, e quando pure l’opinione di questo santo facesse regola, tu nota com’egli dichiari la Chiesa non il prete, e che cosa sia Chiesa avvertimmo. Ma ai tempi nostri, Roma da imprudenti campioni non so bene se o tradita o difesa, sempre pertinace a rifiutare ogni riforma, scendeva nello arringo della discettazione: per questa guisa dopo renunziato il domma della infallibilità respinge anticipatamente i benefizi della disputa; anzi prima di disputare si confessa vinta, imperciocchè, il campo della disamina secondo lei, non avria ad essere libero e sconfinato, bensì all’opposto da lei definito e ristretto: ora chi a tale patto intende combattere si sente vinto. Se col sussidio della notizia dei fatti tu vorrai conoscere la causa per la quale la Chiesa chiedente un dì la sua separazione dallo Stato, oggi arrovelli a solo udirne favellare ti fie palese, osservando come sottoposta un giorno allo Stato in ogni sua manifestazione esterna, ella che pure agognava a roba, e a potere terreno ebbe mestiere aggirarsi libera, e inosservata per una sfera di atti diversi, ed anco avversi al principato civile; avendo poi fatto roba ella con le ruine dello stato si compose uno stato, si armò di leggi, il codice romano si adattò a suo dosso, o piuttosto lo convertì in arnese capacissimo a lavorare i suoi disegni, nella maniera medesima che ritagliava per sè il titolo di pontefice massimo, e il paludamento imperatorio mutava in piviale. Ora poi che possiede le decretali d’Isidoro peccatore o mercatore, il Decreto di Graziano, le Clementine, l›Estravaganti, il sesto di Bonifazio VIII e il corpo del diritto canonico, e prosunzione d›infallibilità con altre più enormezze di cui terremo parola, in virtù delle quali, un tempo, ella s›impose sovrana dei sovrani, e dopo, per lo meno pari a loro, repugna a cosiffatta separazione, e veramente non si può operare senza trasformarla, così che avendo arruffato le cose divine con le umane, gl›interessi co› sacramenti, le stole con le manette, l›aspersorio con la mannaia, dividere importi tagliare. Il diritto canonico si caccia dentro il codice civile a mo› di bietta in mezzo al ceppo per ispaccarlo; ed invero egli talvolta dispone diverso, e tale altra opposto alla ragione civile; onde se lo abolisci, e devi abolirlo, non puoi lasciare la Chiesa libera come colei che si compone nella massima parte di questo, il quale ella inalzava alla dignità di domma, ed emana figliuolo primogenito dalla infallibilità sua: dove all›opposto tu glielo lasci stare, e› sarebbe come rapire al corsaro il bottino, e non levargli la galera; con le mani ignude ella strappò le corone di mano dei Re, pensa tu se non vorrebbe ritentare la prova provvista di questa sorte tanaglie! Qui con parole succinte pongo uno esempio. Nelle materie matrimoniali il codice civile conta da due parti; così a mente di questo tu disti dalla tua cugina quattro gradi, imperciocchè fra tuo padre e te corra un grado, un secondo fra tuo padre e l›avo tuo, il terzo fra l›avo e lo zio, finalmente il quarto tra la cugina e te; quindi là dove ti garbi puoi con la tua cugina stringere liberamente legittime nozze; non così per diritto canonico, il quale inteso a moltiplicare i divieti per crescere la messe delle dispense conta da un lato solo; però tu dalla tua cugina distando due gradi non puoi con essa dirittamente ammogliarti se prima, pagando, non ottieni la dispensa. Supposto che tu non voglia, o non possa procurarti la dispensa, ed invece persista nella voglia di sposare la cugina, ecco le coscienze turbate, la famiglia percossa nei fondamenti; se non che il prete ipocrita ti nota: o credi o non credi; se ti piace credere, tu lo hai da fare a questo patto; se non credi che t›importa di me? No, prete, non è così: le società umane senza religione non sembra, che possano durare, e tu ti sei impadronito di questa necessità dell›uomo, foggiandola in modo da fartene il tuo campamento; odi: si narra come a Temistocle esulo Serse donasse tre città, Lampsaco, Magnesia, e Miunte, la prima pel pane, la seconda pel vino, e l›altra pel companatico; a te poi non furono dati, bensì pigliasti i sette sacramenti e gli adattavi a cappa magna dei sette peccati mortali, che per ordinario ti trovi a possedere; nè qualche volta il panno basta per tutti. — La Chiesa come sta non può lasciarsi libera: la dottrina diversa è inganno, od errore; la religione forma parte dello stato; che rilevano menzogne? Peggiorano il male, che deve conoscersi intero e guarirsi; quando, come nei primordi della Chiesa, il popolo eleggerà i suoi seniori (dacchè prete altro non significa che vecchio) egli gli scerrà tali che rispondano ai suoi intendimenti, nè andrà a cercarli tra gente che tiene la religione come schiera ordinata contro la legge. Caschino le decretali di Gregorio, e il Sesto di Bonifazio; diventino curiosità di Museo i sacri canoni, e il diritto canonico, non oltrepassi la Chiesa la soglia della coscienza, e allora, ma allora soltanto si bandisca la Chiesa libera, però guardandola sempre, perchè in simili faccende sempre si vedano rimettere i talli sul vecchio. Vedrai lettore questa Chiesa, che cristiana avversò con indefesso studio il paganesimo, fatta cattolica redarne le spoglie, e mentre conserva la rete di San Pietro per pescare pesci, adopera poi la rete di Vulcano per agguantare uccelli. — Ti fie manifesto altresì come Roma clericale ora della libertà dei popoli si armasse contro la tirannide dei re, e più spesso della tirannide dei re contro la libertà dei popoli, poi li pestasse ambedue. — Conoscerai come con parole avvampate di sacro furore il vescovo di Roma maledicesse in altrui quello, che per pigliare a suo benefizio non dubitò mandare sossopra la unità della Chiesa cristiana. Casi peculiari ometteremo, o riporteremo pochi, e dei fatti generali solo quelli, che varranno a chiarire vero il nostro concetto. Questa grave materia gli scrittori partirono in diverse maniere secondochè meglio si adattava ai fini delle ricerche, che essi si proponevano: al mio assunto giova dividerla in quattro grandi sezioni, le quali sono: Chiesa di Gesù Cristo, e suo costume, finchè per tre secoli seguitava le santissime orme di lui. Chiesa romana, che s’industria prevalere sopra le Chiese sorelle, e vi arriva col danno dello scisma di oriente: di tanto non paga la Chiesa, volta alla terra ogni sua cura, acquista soldati, sbirri, carnefici, tribunali, e prigiona uomini da sfruttare, campagne dove mietere senza lavorare, città da mettere sotto il torchio col nome di governo; insomma acquista luogo nel sinedrio degli oppressori a modo e a verso come ogni altro tiranno. La Chiesa assetata per colpa del liquore che beve, male sopportando anzi aborrendo durare pari co’ potenti delira oltrepotere su tutti: e poichè dopo Samuele apparvero i re, ci stieno; a patto però che servano di pavimento ai piedi del sacerdote; e il mondo parve salvato dal diluvio universale dell’acqua piovana perchè sommergesse dentro un’altro diluvio di acqua benedetta. Poichè il superbo intento andò in pezzi rotto dallo schiaffo sopra la guancia di Bonifazio VIII entra il periodo dove vediamo nel Papa mantenersi, ed anco crescere la libidine di dominare popoli e re sopra la terra; ma ogni giorno scema di potenza, quantunque qualche volta gli dieno ad intendere il contrario anco quelli che ci credono meno, a fine di mettere Dio complice nel misfatto commesso immaginando consacrare la usurpazione col depositarla sopra la tomba di San Pietro; il prete ora si rileva, ora casca, e diverso da Anteo ad ogni caduta perde di forza. Quello, che portò a Roma il flutto della barbarie, la civiltà ritoglie; la libertà riscatta quanto il prete ghermì alla scure del Franco; la lampada sdegnosa di essere tenuta sotto il moggio ad ardere pel prete, appiccato il fuoco al carcere illumina tutti i figli di Adamo; non anco è sorto il sole della verità nella pienezza dei suoi raggi, ma le tenebre dello errore si diradano ogni momento di più. La Chiesa di Roma oggi presenta lo spettacolo miserabile dell’uomo decrepito, che combatte con l’agonia; intorno al letto le fanno corona servi interessati, ed intrusi stranieri per involare parte del suo retaggio ai legittimi eredi. Anco quando presume operare bene ella fa male, e mentre a sè non giova, altrui danneggia, però che levando la voce a maledire il tiranno russo noi rammentiamo come altre volte la levasse a maledire l’oppresso Pollacco; e da voi altri sacerdoti non si veda, che cosa, secondo il vostro giudizio, rimarrebbe da fare ai Pollacchi quando vituperando l’enormezze russe rifuggite da lodare la virtù pollacca. La voce del sacerdote non suona amica, e franca; nella ribellione dell’oppresso il rappresentante della Giustizia eterna non ravvisando la sacra ira che la Provvidenza dette anco al verme mi scappa fuori con la dottrina infelice di San Paolo che comanda, o finge comandare ai cristiani tremanti sotto Nerone: «obbediscano sempre, e poi sempre ai principi comunque iniqui.» In questa voce, che emise il prete come se avesse la gola presa dal raffreddore tu senti che qualche cosa manca... sì certo, ci manca il prezzo pagato dal Moabita a Balam; se Alessandro moscovita donava a Pio IX un Cristo di oro co’ chiodi di rubini come praticava Niccolò suo padre con Gregorio XVI, costui avrebbe spaventato il mondo con una seconda edizione riveduta e corretta della scellerata enciclica del 1832. Di due cose ha sete il tempo, o piuttosto di tre: di libertà, di probità, e di religione; prima, che muti il secolo queste tre cose sgorgheranno pari alle acque dell’Oreb dai capi del prete, e del despoto spezzati. Ecco le parole di Cristo, chi le sa le rilegga, chi le ignora le apprenda e giudichi poi se il prete di Roma possa vantarsi vicario di lui: «Non vogliate possedere oro, nè argento, nè danaro nelle vostre borse, nè bisaccia in viaggio, nè due vesti, nè calzari, nè bastone. Paga il tributo delle due dramme a Cesare — Se vuoi essere perfetto va, vendi ogni tua sostanza, donane il prezzo ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli, quindi vieni, e seguimi. Io vi assicuro difficile, che un ricco entri nel regno dei cieli, anzi vi ripeto: è più facile, che un camelo passi per la cruna di un’ago di quello, che un dovizioso entri nel regno dei cieli. Ognuno, che perderà la casa, o i fratelli, o le sorelle, o il padre, o la madre, o la moglie, o i figli, o le possessioni per cagione mia riceverà centuplo il guiderdone, e possederà la vita eterna. Voi sapete, che i principi fra gli uomini li dominano, ed i magnati esercitano potere sopra di loro: tra voi ciò non abbia luogo, ma qualunque presumesse primeggiare fra voi sia il vostro ministro; chi vorrà parere primo diventi servo. Gesù pertanto avendo compreso, che sarebbero andati a lui per impadronirsene, e proclamarlo re, di bel nuovo tutto solo si ritrasse sul monte.» Questa la dottrina di Cristo, la quale potremmo di leggieri confermare con altre sentenze ricavate dalle labbra di lui o da quelle dei primi Padri della Chiesa. Il prete di Roma, che nel commentare si dimostra sì arguto per guisa, che sostiene Cristo avere comandato, non già che camminino scalzi i suoi sacerdoti, ma solo che non posseggano due paia di scarpe, però che il divieto di non tenere in serbo due vesti si ha da intendere esteso anco alla quantità delle scarpe: quasi la nudità dei piedi fosse la medesima cosa, che la intera nudità del corpo, o quasi i prelati di Roma per osservare il precetto di Cristo dalle scarpe, che portano in piedi non ne possedessero altre! I preti di Roma intorno al divieto pronunziato da Cristo di primeggiare sopra i fratelli, e circa l’aborrimento di avere titolo e potestà di re tacciono o armeggiano. — Certo, i preti dichiarano, il regno di Cristo stà nei cieli, egli lo ha detto e non ci ha da ripetere; ma spieghiamoci a dovere, cotesto è il fine del viaggio, epperò nulla osta che per arrivarci meglio noi possiamo trapassare per un regno terrestre; il regno dei preti quaggiù gli è come la scala sognata da Giacob provvisoria e di legno per arrivare nel paradiso perenne. Cristo (parla sempre il prete) a me commise bandire la sua fede alle genti, ora, insegnatemi un po’ voi, come potrei obbedirgli con profitto senza un danaro al mondo, senza bauli, e senza scarpe? Si valicano i mari con tra le gambe un bastone? — Le amministrazioni dei vapori ci dicono, che quando daranno loro il carbone come a noi preti è data la grazia, cioè gratis, ci condurranno in America magari per nulla. — Possiamo noi presentarci al re del Congo vestiti come il giglio della valle, e il cedro del Libano? E tu rispondi: la dottrina che predicaste, e predicate ella è veramente dottrina di Cristo? Si conosce Cristo con gli orrori di cui empiste l’America, e traverso le idolatrie di cui spargete il seme nell’Asia? Bandite Cristo voi, o i vostri santi Ignazio da Loyola, Luigi Gonzaga, e Stanislao Kotska? Perchè tanto studio vi punge per la gente rimotissima, e di questa, che vi sta sottomano in casa non vi piglia studio di sorte? Quì ì Greci scismastici, quì Luterani, Calvinisti, Zuingliani, e Valdesi, qui Ebrei e Maomettani; qui d’increduli un diluvio: prima assettate le faccende di famiglia poi attenderete a quelle di fuori: chi tralascia avvantaggiare i suoi per vestire gli stranieri corre rischio di farsi abbaiare dai cani. In qual conto terreste il colono, che lasciasse in Europa il suo podere in balia delle ortiche per girsene traverso l’oceano a dissodare le terre della repubblica dell’Equatore? Innanzi di medicare altrui fie savio guarire sè stesso. Non nella China, o nel Giappone si rammenda il manto sdrucito della Chiesa, ma qui in Europa e più che altrove in Italia. Dite, preti, qual’è più cosa Dio, o il sole? Certo Dio; ora questa provvidenza suprema, che ogni dì manda il sole a illuminare la schiatta umana, ond’essa si mantenga in vita, non avrebbe saputo nella profondità del suo consiglio suscitare intelletti capaci di bandire la sua fede in ogni plaga del mondo? E se lo avesse giudicato spediente non lo avrebbe fatto da un bel pezzo a questa parte? Imperciocchè oggi alla religione di Cristo consenta la decima parte appena del genere umano. Donde in voi la crudele jattanza di affermare perduti tutti coloro, che, comparso Cristo, nol conobbero, o quelli altresì che innanzi di comparire non l’arieno potuto nè manco conoscere? Come lo sapete? Chi ve lo ha detto? Si confida la Divinità con voi? O presumete voi imporle regole, comandamenti, e definizioni? Intanto questo è il primo predicato del Vangelo, che i sacerdoti di Cristo non solo devono procedere immuni da qualsivoglia dominio il quale ingerisca necessità di rompere guerre, e mettere mano nel sangue, ma ed anco da possedimento terreno. Il Papa per dare un po’ di sostegno alle strane pretese sè afferma successore di San Pietro ito a bella posta da Galilea a Roma per fondarvi il supremo sacerdozio di Cristo: ora mercè la storia critica si rese manifesto come San Pietro non si recasse mai a Roma: e valga il vero. Gli storici della Chiesa cattolica asseriscono come San Pietro venisse nella metropoli del mondo nell’anno 42 dell’era cristiana e quinci scrivesse le due lettere, che rimangono di lui; tu prima nota: in quelle non rammentarsi mai Roma; solo nella prima si legge: «vi saluta la Chiesa ch’è in «Babilonia con voi eletta, e Marco mio figlio.» L’Arcivescovo Martini chiosando dichiara tutta l’antichità per Babilonia avere inteso Roma, e non è vero che se a taluno sembrerà temerario opporre una mentita ad un’Arcivescovo, e per di più morto, mi scusi presso costui lo sbugiardare ch’io faccio l’Arcivescovo Martini l’autorità dell’Arcivescovo Martini, il quale commentando il capitolo 16 dell’Apocalisse tira fuori tre ragioni per confutare gli antichi interpetri i quali insegnarono per Babilonia nell’Apocalisse aversi ad intendere Roma; ed è singolare quest’altro, che ad escludere il concetto, che Babilonia sia Roma, allega S. Agostino nella Enarrat, secunda in psal. XXVI, mentre quel medesimo benedetto Santo nella Città di Dio l. 48. c. 2. scrive: Roma essere quasi una seconda Babilonia. Però non voglio tacere, che ai giorni nostri Vincenzo Padula di Acri con begli e dotti ragionamenti dimostra come la Babilonia dell’Apocalisse non può essere altro che Roma, e chi ne ha voglia li vada a leggere, che io per me li lessi una volta e n’ebbi d’avanzo. Più sicuro è questo altro che seguita, Babilonia avere i nostri poeti chiamata più tardi la corte pontificia sia che ad Avignone stanziasse ovvero a Roma: «L’avara Babilonia ha colmo il sacco «D’ira di Dio, e di peccati empi e rei. cantava il canonico Petrarca che ci stava di casa. E qui pure, o lettore, pon mente, come per colorire sue novelle il prete non aborrisca prendere per prova ciò che una volta fu titolo per significare la infinita infamia di lui. — Pudore di prete, e sfrontatezza di meretrice gli è quasi come dir marito e moglie. E mira, se ti quadra, che San Pietro rammentando la Chiesa di Roma non lo avrebbe fatto sostituendo al vero un nome di vergogna. — Arrogi, che San Paolo descrivendo minutamente il suo viaggio, e la sua dimora in Roma nè anco per cenno rammenta la presenza di San Pietro costà. Contegno siffatto arieggia gli amori pieni zeppi di astio, che ricambiansi gli amici politici dei giorni nostri, ma che decisamente avrebbero fatto scorgere due santi, massime apostoli e di quelli che vanno per la maggiore. E vi ha di peggio; San Paolo oltre a non ricordare San Pietro inviando saluti ai Cristiani di Roma in nome suo, e dei compagni suoi non dimentica alcuno; fa i suoi rispetti così agli uomini come alle donne, e si dimostra sommo maestro in divinità del pari che fiore di gentiluomo; ma di San Pietro nulla. Gli scrittori papisti soliti a non isgomentarsi per poco obiettano: — allora San Pietro era in giro. — O dove? — Dove s’ignora, ma che fosse in giro egli è sicuro. — Bene sta. Ma dalla medesima lettera di San Paolo ecco uscire la testimonianza, che Pietro non fu mai a Roma; Paolo dichiara: «io poi non ho predicato lo evangelo dove è conosciuto Cristo, affinchè non edificassi sopra il fondamento altrui.» Ora parmi chiaro, che se San Pietro avesse fatto conoscere Cristo a Roma queste parole Paolo non aria potuto dire. Rincalza l’argomento quello, che seguita; Paolo afferma i Romani convertiti giusta il suo evangelo: «a lui solo onore, il quale può confermarvi secondo il mio vangelo.» E questo da lui sarebbe stato anco meno veramente asserito se i Romani fossero stati redenti alla fede mercè il vangelo di San Pietro il quale usava quello di San Marco, mentre Paolo preferiva quello di San Luca. Paolo dunque non Pietro fu a Roma mandando innanzi alcuni suoi discepoli, e parenti perchè ammannissero il terreno alla sementa di Cristo. Tuttavolta o andasse, come pretendono gli scrittori papisti, San Pietro in Roma, o non vi andasse come pensiamo noi certa cosa ella è che nè manco costoro, ora, che sono alla porta co’ sassi, perfidiano San Pietro immaginasse, e molto meno istituisse il primato della Chiesa Romana: solo sostengono che stava dentro il concetto di lui come pulcino nell’uovo, ed oggi predicano così il Dottore Newmann, e il Cardinale Wisemann, e il Moelher, ed altri cotali che la sanno lunga e la sanno contare. E’ sono arzigogoli pretti, però che la Chiesa cattolica non crebbe la dottrina di Cristo esplicandola bensì la schiantò di pianta sostituendone un’altra contraria, si capisce ottimamente come il pargolo crescendo diventerà uomo, non si capirebbe se diventasse un bufalo: e si comprende altresì che da non possedere altro che un paio di scarpe i sacerdoti tirando innanzi nei tempi dovessero essere forniti da comparire onorevoli secondo la dignità del sacerdozio; ma da non avere nulla a pretendere tutto ci corre: s›intende acqua ma non tempesta!... E badate che come concederei io per menare il buono per la pace non l›ammolla San Paolo, il quale fa una lavata di capo ai Galati con queste parole: «ci sono alcuni, che vi sconturbano e vogliono capivoltare il Vangelo di Cristo: ma quando anco noi od un›angiolo del cielo evangelizzi a voi oltre a quello, che abbiamo a voi evangelizzato, sia anatema. I dottori papisti abbaiando parlano di tre unità, di cui una si è votata mano a mano dentro l’altra, prima del vescovo, poi del metropolitano, all’ultimo del papa. — Dunque sul principio, cristianesimo non fu cattolicismo, e questa ultima forma, che sostenete perfettissima, non cadde nè anco in mente al suo fondatore: ciò parmi grave, e come grave contrario alla natura delle cose; perchè gl’instituti umani nei primordi procedono dirittamente, ma coll’andare del tempo venendosi a corrompere, egli è mestieri riportarli via via ai loro principii per mantenerli, la quale considerazione se ha luogo negl’instituti fondati dall’uomo, quanto non deve apparire maggiore negli altri che emanano da mente divina? — Il prete pertanto presume saperne più di Cristo, e mentre da per tutto il tempo logora o corrompe, a Roma poi conserva anzi migliora. Ancora, vuolsi domandare, perchè accaddero le modificazioni di cui favellate? Perchè, dice il Papista, secondo il costume degli uomini, e le qualità dei tempi egli è mestieri mutare. — Tu parli di oro; ma se questa tua gerarchia si governa co’ tempi, il tempo muta e non si ferma mai, onde nel modo che necessità ti strinse un giorno a cambiare potrebbe coartarti la quarta volta e la quinta; che se presumi sostenere come ormai lo edifizio essendo compito veruno abbia da toccarlo più, io ti avverto che le tue parole ti condannano, imperciocchè questa presente unità cattolica tu non l’affermi ordinata da Cristo, nè ottima in sè, sibbene partorita dalla necessità, e dal degenerare che fecero i cristiani dalla eccellenza antica; insomma buona come rimedio tenuto caro finchè il morbo dura: certamente quando giaci infermo tu bevi olio di ricini, ma ricuperato che abbi la salute già non credo che a mensa tu ti mesca olio di ricini, anzichè vino, e quello a questo tu preferisca. Peggio se il Papista pretendesse la ultima unità opera di Dio, le precedenti degli uomini; conciossiachè si abbia a credere più opera sua quella, che gli uscì dalle mani, e che fatta dagli Apostoli tuttavia spirava l’alito che ci soffiava con le sue labbra divine, che non l’altra fabbricata tardi dai sacerdoti presi pel collo, com’essi dicono, dalla necessità. — Finalmente Tertulliano, e gli altri padri della Chiesa danno di frego alla dottrina della Curia Romana con la solenne sentenza: «Quello soltanto è verità, ed è cattolico che prima fu stabilito; eresia quanto si diparte da lui.» San Bernardo, domando io, nel concetto dei cattolici che roba egli è? Santo od eretico? Diavolo! Santo e dei buoni: or bene; egli rimbrottando il papa Eugenio III così gli favellava: «Quale Apostolo ha giudicato gli uomini, diviso i confini, distribuito terre....? Coteste fragili cose terrene hanno per giudici i principi della terra, ma voi perchè invadete i confini degli altri, e nella messe altrui ponete la falce?.... È vietato agli apostoli dominare. Ora va ed ardisci usurparti l›apostolato o la dominazione intitolandoti apostolico. O l’una cosa o l’altra ti è interdetta, e se ambedue presumerai tenere, entrambi perderai» Se però San Bernardo tu reputi santo, e tu seguilo; se eretico, e perchè non lo consegni al fuoco eterno? E quanto San Bernardo dichiara in prosa Dante confermava da parecchi secoli in rima: «Di oggimai, che la Chiesa di Roma, Per confondere in se due reggimenti, Cade nel fango e sè brutta e la soma.» Dunque Cristo di cui si vanta Vicario il Papa gli vieta espresso ogni potestà temporale nel mondo. Però quando leggi come nei primi tre secoli la Chiesa si mantenesse pura non la devi intendere così puntuale che mali esempi non fossero di già corsi in lei. Il desire ceco tira alla terra, e il corpo dà perpetua gravezza all’anima; fra i molti fatti comparisce notabile quello di Vittore I, il quale presumeva imporre ai Vescovi di Asia l’uso osservato a Roma di celebrare la Pasqua; i Vescovi asiatici non volendo obbedire egli trascorse al punto di bandirli separati dalla sua comunione; di che acerbamente lo rimproverava Santo Ireneo chiamandolo vuoto di carità, e pieno d’ignoranza. Stefano I in certa questione intorno al battesimo amministrato dagli eretici si chiarisce avverso alla dottrina di San Cipriano vescovo di Cartagine, il quale confutandolo lo taccia di leggerino, di gaglioffo, e di cocciuto presontuoso; e San Firmiliano vescovo di Cesarea ribadisce il chiodo scrivendo al medesimo Papa: «essere universalmente biasimate la stupidità, l’arroganza e in modo speciale il difetto di carità in lui, che sè estima erede di S. Pietro, mentre egli lo giudica il pericolosissimo fra gli eretici.» E’ pare che questo Papa non avesse troppo fortuna co’ santi. La parola clero viene dal greco, e significa sorte, che è quanto dire i sacerdoti sortiti al servizio dello altare tutti si consacrino a quello lasciando addietro ogni cura mondana; pari ai leviti d’Isdraele si contentino delle decime, e delle oblazioni. — La tonsura poi denota la renunzia ad ogni cosa temporale: tutto si poneva in comunella tra i cristiani, ed anco dopochè i sacerdoti per munificenza di Costantino imperatore possederono terre, e casamenti per lungo tempo ebbero le sostanze comuni: le divisero in seguito. I vescovi eleggeva il popolo; parecchi fra loro vissero del lavoro delle proprie mani, e fu cosa degna; oggi si aborrisce parendo, che Cristo si degradi ad essere trattato da mani che il lavoro santificò, come se egli stesso con l’opera sua non sovvenisse al padre fabbro: servi dei servi di Dio non si dicevano quei primi sacerdoti, ma erano: loro intento procurare il bene meno del singolo, e di una classe, quanto della intera comunità. — Veramente San Paolo insegna, che gli anziani, o vuoi preti (che appunto prete suona anziano) quando fanno bene, e faticano nella parola e nella dottrina devano reputarsi degni «di doppio onore»; ma avverte altresì: «quando abbiamo vitto, e vestito contentiamoci.» E queste, nota San Girolamo, erano appunto tutte le ricchezze dei Cristiani. — Insomma per istringere quanto ci rimane a dire in una sola sentenza rammenteremo le parole di San Giovanni Crisostomo: — nei primi secoli della Chiesa preti di oro celebravano in calici di legno, adesso sacerdoti di legno celebrano in calici d’oro; e di quale legno! Di quello del quale Gesù Cristo comanda che inetto a fruttificare, ovvero atto a frutti tristi vuolsi mettere sul fuoco. I lutti della Chiesa e la ruina d’Italia derivano pur troppo dalla origine a cui alluse l’Alighieri nostro: «Ahi! Costantin di quanto mal fu madre Non la tua conversion, ma quella dote, Che da te prese il primo ricco padre.» Però che se la donazione di Costantino sia ormai confessata una delle infinite fraudi per cui la curia di Roma avrebbe ad essere condannata a perpetuo ergastolo come falsaria, tuttavia si ha per certo, ch’ei si fosse largo a Salvestro vescovo di Roma di protezione, e di averi, per la quale cosa costui uscito dallo scuro subborgo fuori di porta Capena, dove viveva confuso agli Ebrei, si condusse ad abitare il palazzo Laterano proprietà una volta della imperatrice Fausta. La Chiesa, e i chiesastici un tempo fabbrica e fabbricanti di falsità, nè permesse solo o sofferte, bensì prescritte: così quando non si avevano gli atti di un qualche martire pel dì della sua festa s’immaginavano; e tanto più erano accetti quanto più strepitosi; di quì le leggende mostruose onta della ragione umana, le false Decretali, i libri sibillini, il Libro della Gerarchia, i Canoni, le Costituzioni apostoliche, e la Donazione di Costantino. La prima volta questa donazione occorre rammentata nella lettera di Adriano I a Carlomagno per destare in costui la gara della larghezza: ne affermano fattore quell’Isodoro il quale di peccatore, che si chiamava prima si trasformò in santo Isidoro e mercatore. Tra le altre cose si diceva in essa: «noi attribuiamo alla sede di Pietro tutta la gloria, e tutta la potenza imperiale. Noi diamo a Salvestro ed ai suoi successori il nostro palazzo di Laterano, la nostra corona, e tutte le nostre vesti imperiali, la città di Roma, e tutte le città occidentali della Italia, e delle altre contrade. Noi gli cediamo il luogo non essendo giusto che un imperatore terrestre conservi la minima possanza dove Iddio ha stabilito il capo della religione.» Oltre queste, bene altre diavolerie contiene il documento, come, a mo’ di esempio, che l’imperatore Costantino si conduce a cotesto atto per consiglio dei suoi satrapi; ch’egli ha riposto dentro due cassoni di ambra i corpi dei Santi Pietro e Paolo, e dopo avere costruito in onoranza di loro basiliche eccelse assegna alle medesime poderi grossissimi in Giudea, in Grecia, e in Tracia per mantenervi dentro la luminaria, e tutto questo nè manco in dono, ma per salario di averlo Papa Silvestro guarito dalla lebbra, e battezzato. Di siffatta donazione ce ne ha parecchi esemplari; a tutto oggi arrivano a 12, uno secondo il solito diverso dall’altro, ma ciò non toglie che come genuini li venerassero tutti e dal Graziano per genuino si ponesse nella sua collezione quello, che primo gli capitò davanti. La critica storica ha dimostrato come Costantino nella epoca della mentita donazione non si trovasse già in Roma, ma sì in Tessalonica ed a quei giorni non reggesse prefetto a Roma, secondochè l’atto di donazione asserisce, Calpurnio, bensì Lucrio Verino. Menzogna il battesimo di Costantino a Roma per mano di Papa Silvestro, mentre il battesimo l’ebbe in punto di morte in Nicomedia da Eusebio da Cesarea vescovo di cotesta città. È menzogna altresì che le provincie italiche fossero donate e sottoposte al Pontefice; al contrario. Costantino le governò sempre come sue mandando a reggerle prefetti uomini consolari correttori e presidi. Ciò nonostante, finchè poterono i preti difesero l›autenticità di cotesta donazione con le ugna, e col becco, o se non buttarono sul fuoco (come taluno afferma) Lorenzo Valla, che ardì impugnarla con parole acerbe verso la metà del secolo decimoquinto, ci corse poco; sessanta e pochi più anni dopo si pigliavano spasso di cotesto documento Prelati solenni e Cardinali, ne sorrideva il Papa stesso, e l›Ariosto senza una paura al mondo la metteva nel mondo della luna: «Di varii fiori ad un gran monte passo, Ch›ebbe già buono odore, or pute forte, Questo era il dono (se però dir lece) Che Costantino al buon Salvestro fece.» Potremmo dirne delle altre; al nostro assunto basti tanto, e poniamo in sodo prima di ogni altra cosa come fondamento precipuo della potestà temporale del Papa sieno la fraude e la menzogna. Il Papa prese da Costantino, ma rimase anco preso; per questa volta invece di pescare ei fu pescato; a mo’ del pesce fu vinto nella gola: importa ora conoscere le cause, onde Costantino così di un tratto si mostrò sviscerato pel Papa: io ragionando pongo da parte ogni intervento soprannaturale, molto più che mi occorre narrato in diverse maniere. Di fatti, Cecilio riferisce come la notte precedente alla battaglia del ponte Milvio, dove la fortuna di Costantino prevalse su quella di Massenzio, una visione lo ammonisse a mettere sopra gli scudi dei soldati il celeste segno di Dio se voleva vincere. Eusebio nella vita di cotesto imperatore dice, come camminando egli a capo dello esercito tutto pensoso intorno alla religione da seguitarsi levate le ciglia vide una croce luminosa sopra il sole col motto traverso: «con questo segno vincerai;» di che rimase smosso; pure non essendo bastante a fargli dare la balta nella notte successiva gli comparve davanti (in sogno s’intende) nientemeno, che Cristo in persona, il quale lo accertò, che se gl’importava debellare Massenzio non doveva fare altro, che pigliare cotesto segno per bandiera, la quale cosa Costantino non si fece dire due volte, e ne compose subito il famoso Labaro, ch’ebbe virtù di dare a lui ed ai successori di lui sempre vittoria sopra i nemici meno quando ne toccarono. Questo i Cristiani, ma i Pagani non mondarono nespole, che Nazario nel Panegirico di Costantino attesta come di cosa veduta da tutta la nazione dei Galli, che un’esercito di angioli era sceso giù dal cielo volando a sovvenire a Costantino, e ne descrive la faccia luminosa, il portamento altero, la garbatezza mescolata con la gagliardia, con le altre virtù, le quali se non possedessero gli angioli non si sa chi mai le avrebbe a possedere. E’ pare che siffatta frequenza di miracoli piuttosto che persuadere le menti le debba irritare; e sembra altresì che questi miracoli quando non furono fraude per gli occhi, sieno oltraggio allo intelletto; ma vi hanno stagioni in cui agli occhi del pari che allo intelletto piace rimanere delusi; onde potrebbe anco darsi che o sogno, o visione, od altra cosa simile movesse l’anima di Costantino. Costantino in tanto che lo ammannivano per santo ebbe dai preti titolo di vescovo dei vescovi, e non era poco: però dall’altro lato quasi per tenere in bilico la sua perfezione gli stava sul petto un peccato, non tale certo a senso dei preti da fargli chiudere da San Pietro le porte del paradiso in faccia, ma che un po’ di fastidio glielo doveva recare, — egli era un semplice parricidio: però che costui portasse le mani micidiali nel sangue del figliuolo Crispo. Ora la fede di saldare questo suo debito, con altri parecchi mercè un poco di acqua sul capo può averlo disposto al cristianesimo, differendo a riceverlo secondo il costume di allora in punto di morte. — Di costumanza siffatta porgono esempio Teodosio il grande e Valentiniano II; nè il medesimo Santo Ambrogio ebbe battesimo prima della sua promozione al vescovato di Milano, però che a quel modo si esentassero dalle pubbliche penitenze che a quei tempi la Chiesa usava co’ cristiani penitenti, ed anco credessero così praticando assicurarsi meglio la salute eterna. — Certo il suo pericolo ci era, mettendosi i catecumeni a repentaglio di uscire dal mondo senza quel salutevole bucato, ma sarebbe stato come annegare nel forno, dacchè la morte non viene così subito, che un po’ di tempo per salutarla non conceda, ed acqua, ch’è materia del sacramento da per tutto se ne trova (così come dell’acqua accadesse pel vino!) e le poche parole necessarie per la forma di quello ogni menno sa dirle. Molto doveva talentare eziandio al tiranno la obbedienza ceca e passiva, che i primi cristiani ostentavano per le autorità temporali fino a predicare come parte della loro dottrina la pazienza di principi comunque perversi etiam discolis; e riverirli come costituiti proprio con le sue mani da Dio: ho detto ostentavano, chè deboli essendo ed invisi non ardivano romperla ancora co’ Governi; conciossiachè non pure codarda ma contro la natura appaia simile dottrina solo che tu consideri essere stata professata dall’Apostolo Paolo regnando Nerone, uso a far dare la caccia ai cristiani quasi belve in bosco, e ad ardere alle sue mense i cristiani vivi per doppieri; ed anco se dottrina siffatta fosse stata leale non si sarebbe convertita nelle mani di San Tommaso in facoltà di ammazzare il tiranno per violenza o per frode postosi a capo dello stato per tormentare il popolo. Delle virtù cristiane intese avvantaggiarsi altresì Costantino per la ragione medesima per la quale i ladri si procurano servitori onestissimi: i buoni costumi, la industria, e la parsimonia insieme alle altre virtù partoriscono le ricchezze onde il tiranno può alimentare meglio i suoi vizi: forse nei principii può essere stata causa a rifiutarli la codardia praticata dai primi cristiani come precetto evangelico, ma durò poco, però che tornando alle guerre, ed al sangue sembri, che l’uomo rientri nella sua natura; e nei concili adunati sotto Costantino, i vescovi cortigiani bandirono l’obbligo del giuramento militare, e la scomunica contro i soldati, i quali, durante la pace, gettavano via l’arme. La conversione di Costantino nell’ordine delle cose umane questo gli fruttò, che potè valersi del cristianesimo come arnese di guerra per soperchiare i suoi nemici, ed istrumento in pace per disporre il paese a perpetua servitù. Io non credo che quando Costantino donò a Papa Silvestro il manto, il caval bianco, e la signoria una voce dal cielo fu udita, che disse: «oggi è messo il veleno nella Chiesa di Dio» come non ho voluto aggiustare fede all’apparizione del Labaro, però mi resta chiarito vero quanto afferma Santo Atanasio che Costantino sovvertì la costituzione del Signore trasmessa agli Apostoli. Di fatti mentre fino a costui il vescovo usciva eletto nel modo che resulta manifesto da queste altre parole di Santo Leone Papa: «si preferisca per vescovo quello che il popolo, e il clero ha concordemente richiesto. Guardisi a non ordinare alcuno che dal popolo non sia voluto, e domandato acciocchè il popolo preso a contro pelo non odii, o disprezzi il suo pastore e si separi dalla religione non avendo potuto ottenere quello che desiderava. Chi ha da presiedere a tutti sia eletto da tutti. Nè i vescovi soli eleggevansi dalla universalità della Chiesa, ma tutti i ministri, tra cui vuolsi porre mente ai Diaconi, dei quali era ufficio amministrare le cose temporali della Chiesa al fine che i vescovi attendessero indefessi a predicare, e ad insegnare. — Ora, imperante Costantino, i vescovi non si eleggono più dal popolo; all’opposto, testimonio Santo Atanasio, egli li «spedisce ai popoli che non li vogliono, da luoghi stranieri e lontani ben cinquanta giornate, e li fa scortare da soldati, e tali vescovi invece di accettare la giustizia che i popoli farebbero di loro portano ai giudici minacce contro il popolo.» La terra tirò il sacerdote alla terra, sicchè mentre nei primordii della Chiesa non che non si sentisse parlare di antipapi, appena si trovava uno che volesse fare da papa; a mezzo il secolo quarto Pretestato prefetto di Roma pagano, sobillato a rendersi cristiano rispondeva: «magari! fatemi vescovo di Roma, ed io mi farò cristiano.» Dopo alterata l’elezione dei vescovi pel fine di convertire il cristianesimo in arnese di governo, ecco che Costantino introduce tra i vescovi le stesse differenze di grado stabilite nella gerarchia pagana dello impero: la importanza della giurisdizione episcopale andò alla stregua della importanza della diogesi dove il vescovo sedeva. Questo decreto il Concilio di Nicea promulgò e il Concilio di Calcedonia poi confermò con le parole: «Se qualche nuova città è stabilita per comando dello imperatore l’ordine della diocesi seguirà la forma del governo politico.» Costantino intimava i Concili, li presiedeva, forniva ai vescovi il viatico, e il mantenimento, arduo starsi appartato, più arduo contrastare, e in mezzo ai rei colpevole il giusto, nè forse tra cotesti vescovi vi era chi volentieri non servisse da un lato per dominare dall›altro. Adesso così a tratti consideriamo l›andatura della biscia romana per acquistare dominio principesco, e prevalenza sopra la Chiesa di Cristo. Nel Concilio di Nicea per la prima volta si udì ricordare il nome di patriarca, e compartirlo non solo al vescovo di Roma, ma ed anco a quelli di Alessandria e di Antiochia dichiarati uguali fra loro. La fortuna ci è, e si agita fuori di noi; beato quello che afferratala se la lega innanzi al carro, e fu fortuna che i vescovi scacciati dalle sedi orientali, segnatamente Santo Atanasio vescovo di Alessandria, ricorressero a Roma, dove Giulio I allora vescovo gli accoglie a braccia quadre, e ne cava partito di convocare un Concilio a Roma per costringere con molte minaccie i nemici di Santo Atanasio a professargli venerazione ed ossequio: quì stava la ragione per lui, e la ragione gli somministrò l›addentellato a costruire un diritto: subito dopo, lo assistesse la fortuna, o ci adoperasse ingegno, il Concilio di Sardica confermò le sentenze di quello di Roma. Papa Liberio vescovo perde il terreno acquistato, però che Costanzo imperatore preso in uggia Atanasio ordina a Liberio si separi da lui; Liberio si prova resistere; era immaturo il tempo, quindi ne tocca; cacciasi in esilio in Berea, sostituiscongli nel vescovato di Roma Felice II, ma vinto dal tedio condanna Atanasio, e tornato a Roma governa la sua Chiesa in società con Felice. — Allora il papato esercitavasi eziandio in accomandita tra soci: Damaso eletto vescovo dopo Felice appare di meno facile contentatura, e con armi, e sangue contende del vescovato di Roma con Orsino: uscito vincitore Valentiniano lo chiama a parte del titolo di pontefice massimo, Graziano poi glielo renunzia intero, ed ei lo accetta, chè vano ei fu, e dei vescovi di Roma il primo, che ostentasse splendido trattamento, anzi regale. Da Numa s’instituiva il pontificato; prima l’ebbero i patrizii soltanto; poi anco i plebei: soprastava il sommo pontefice al culto pubblico ed alle cerimonie, al calendario, alle feste, agli oracoli, agli augurii, alle quistioni religiose, ai giudizi delle colpe contro gli Dei, alle vestali, ai sacrifizi, alle sagre, ai giuochi: trasse nome il pontefice dalla cura ad esso, ed al collegio dei pontefici minori affidata di mantenere il ponte di legno, che conduceva oltre Tevere: finchè stette in piedi la repubblica l’autorità del sommo pontefice si estendeva, su Roma, e suo contado; quando gl’imperatori presero questo ufficio per loro fino ai limiti estremi dello impero. Il dono pareva di titolo inane, ma il prete subodorò il partito che avrebbe potuto trarne e lo ebbe caro; sul gomitolo gentile si avvisò dipanare la nuova primazia della Chiesa romana. Facile è la discesa verso lo inferno, disse Virgilio, nè sembra che il pendìo dello inferno pagano fosse più arduo di quello verso lo inferno cattolico, imperciocchè dallo studio di acquistare ricchezza presto si fece trapasso al delitto: e Graziano imperatore, quantunque parzialissimo al vescovo di Roma, ebbe mestieri di promulgare la legge 10 de Ep. et Ecclesias, che occorre nel Codice Teodosiano con la quale si vietava agli ecclesiastici bazzicare le case delle vedove, e dei pupilli onde col perpetuo serpentarli non cavassero loro di sotto per via di donazione, o di testamento le sostanze di famiglia. Di questa legge tesse San Girolamo singolarissimo encomio lodandola come medicina molto acconcia alla corruzione dei chierici. Non è nostro scopo esporre la storia della Chiesa romana, però lasciamo dormire in pace quattro Pontefici che non fecero dire nè bene nè male: non favelleremo di Origene peregrino intelletto ma balzano da tre, nè di Pelagio predicatore del libero arbitrio contro la necessità della grazia, e il peccato originale; nè di Nestorio negante Dio nato da donna, opinione antica rinnovata ai giorni nostri da Ernesto Renan; e nè manco dei due Concili di Costantinopoli, il secondo dei quali contro Macedonio nemico alla divinità dello Spirito Santo, o di Efeso contro Nestorio dove la Vergine Maria venne dichiarata Theotocos, cioè madre di Dio. Leone Primo di una spinta maestra mandò innanzi gl’interessi della Chiesa di Roma però che inducesse Valentiniano III a decretare ver un vescovo si attentasse a innovare senza il consenso del vescovo di Roma; le costituzioni della Chiesa romana avessero forza di legge nelle altre chiese. Trovando poi con Marciano il terreno più morvido, lo condusse fino a decretare la pena di morto contro qualunque esercitasse cerimonie pagane: già siamo a 455 anni dopo Gesù, e voltandoci addietro non vediamo ormai il punto donde il Cristianesimo piglia le mosse; la Chiesa di Cristo si raffida meglio nelle manette, che nella parola; e intanto, che ella si arrabatta ad averle di suo lo piglia in presto dal Despota. Il verbo alle mani del Papa già è fatto mannaia. Ai tempi di questo Papa, Attila mosso alla ruina di Roma atterrito dalle parole di lui si arresta sul Mincio, e l’hanno per miracolo; poco dopo sopraggiunge Genserico, il quale non curate le invenie del vecchio imbelle nabissa la città dei Cesari, e lo hanno per meritato castigo alle colpe dei Romani. Così con la Chiesa di Roma non si vince, e non s’impatta. Del miracolo nel caso di Attila parlano bravamente tutti gli scrittori chiesastici; ebbe monumento dipinto da Raffaello nelle logge Vaticane, e scultorio in San Pietro per opera dello Algardi; del fatto di Genserico o tacciono, o si attentano a sostenere che anco lì un po’ di miracolo ci fu, dacchè, intercedente Leone, tre chiese andarono immuni dal saccheggio; e a fin di conto quantunque il sacco durasse quattordici giorni, e quattordici notti, bruciassero fabbriche, votassero case, le chiese spogliassero, anzi con mirabile vicenda le reliquie di tre religioni la pagana, la giudaica, e la cristiana in un fascio rapissero, il tetto dorato del Campidoglio arraffassero, le gemme a Eudosia imperatrice ghermissero, a Leone fino i vasi di argento, dono di Costantino, strappassero, molte migliaia di Romani di entrambi i sessi, o per piacevole aspetto, ovvero per talento utile pregiati, menassero in cattività, gli scrittori chiesastici, ed anco qualcheduno non chiesastico sostengono, che molti mali Leone il grande prevenne, e grande senza fallo egli fu, ma nell’arte di estendere l’autorità sua sotto colore di fede ortodossa, e di ecclesiastica disciplina. La uguaglianza dei vescovi fra loro prescritta dallo Evangelo ed osservata nei primi secoli della Chiesa non può rivocarsi in dubbio. San Paolo scrivendo ai Corinti afferma sè in nulla inferiore agli altri Apostoli, anzi rinfaccia apertamente San Pietro di non camminare diritto nelle vie del Vangelo. «Cristo, insegna santo Agostino, affidò la Chiesa non al solo Pietro, e nè principalmente a lui, bensì indistintamente ed ugualmente a tutti gli Apostoli,» — La uguaglianza fra i vescovi attestano i SS: Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Cirillo ed altri parecchi, sicchè il Concilio di Aix la Cappella con le parole medesime di San Cipriano sentenziava: «tutti gli Apostoli hanno ricevuto con Pietro uguale partecipazione di potestà, e di onore.» Da capo Cipriano parlando a nome di 87 vescovi dell’Affrica rimbrotta Stefano vescovo di Roma: «veruno tra noi presume chiamarsi vescovo dei vescovi, nè adopera minacce tiranniche per obbligare i suoi colleghi ad obbedirgli, però che ogni vescovo in virtù della sua potestà è libero nel voto, e nell’amministrazione.» Ancora Cornelio successore di Stefano avendo accolto alcuni scomunicati della chiesa affricana San Cipriano lo ammonisce con gravi parole a non alterare la disciplina ecclesiastica onde a cotesti perduti non abbia a parere l’autorità dei vescovi di Affrica minore della sua. Anco nel quarto secolo quel grande luminare della chiesa San Girolamo predicava: «La Chiesa di Roma non differisce dalle altre. Un vescovo sia in Roma o in Gubbio, in Costantinopoli o a Reggio, in Alessandria o a Tanis possiede merito, e sacerdozio uguali; inopia, o dovizia non fanno divario, tutti sono a pari titolo successori degli Apostoli.» Chi dei due il vescovo di Roma, o quello di Costantinopoli fu primo a pretendere la monarchia della chiesa? Arduo a sapersi, ma poichè entrambi ormai col cuore gonfio di superbia procedevano appartati dalle vie del Signore è da credersi che ambedue concepissero pari consiglio: però sarà manifesto come il vescovo di Roma, esecrando in quello di Costantinopoli il titolo di monarca, ne usurpasse indi a breve per sè il titolo e le prerogative. Il Concilio di Costantinopoli concedeva titolo di primate al vescovo di Roma, i secondi onori all’altro di Costantinopoli; di qui la origine dello screzio, il quale crebbe quando il Concilio di Calcedonia, invano contrastante Leone il grande, non alla giurisdizione romana di lui, bensì a quella della sede bizantina sottomise i vescovi di Eraclea, di Gerusalemme, e di Antiochia. E poichè signoria non pate compagnia, dallo screzio si venne alle contumelie e alle armi; la Chiesa di Cristo unita per la virtù degli Apostoli si divide come la sua veste giocata a dadi dai crocifissori; di lui dopo un mezzo secolo, sedendo papa Osmida, si riconciliano gli animi, ma non per durare; al contrario la contesa si rinfocola più acerba di prima, volendo i vescovi bizantini estendere la propria giurisdizione sopra l’Illirico, l’Epiro, l’Acaia, la Macedonia, e la Bulgaria. Però mentre da un lato il vescovo di Roma innanzi di patire, che l’emulo suo si avvantaggi pure di una oncia, manda la Chiesa a rifascio, egli s’industria accaparrarsi qualche o titolo o preminenza che lo ponga in vista delle genti; e davvero bisogna confessare che la infallibilità non sia dote di Papa, o almanco non fu di Papa Simmaco, quando nel Concilio detto delle Palme gli bastò il cuore di fare chiarire impeccabile chiunque tenesse la sede romana; difatti, se non tutti, per certo la massima parte dei Papi potrieno definirsi gli Apolli di Belvedere dei sette peccati mortali. Calisto Papa fu ladro, per quanto si legge nei Filosofumena attribuiti a Santo Ippolito, e ripreso dal suo padrone Carpoforo fu messo alla macina. Urbano VI per ira, che sette cardinali si fossero palesati avversi alla sua elezione, menatili a Genova li strangolava: nè corrono anni molti che gli scheletri infelici furono rivenuti nei sotterranei della Badia di San Giovanni dove quel truce si condusse ad abitare. Avari tutti, ma fra di loro porta il vanto Giovanni XXII. Chi più brutto di nefande libidini di Alessandro VI? Chi più pigro o scandaloso di Giulio III? Superbo di Gregorio VII? Giulio II beveva come un lanzo e bestemmiava come un vetturale. Insomma bisogna confessare che se il petto del Papa è proprio stanza dello Spirito Santo egli si trova pessimamente alloggiato sopra la terra. Silverio, e Vigilio contendono del papato, prevale Silverio in virtù della pecunia fornitagli dal re dei Langobardi; proteggono Vigilio femmine infami, Teodora, e Antonina, quella moglie a Giustiniano, questa a Belisario. Cotesto o Papa od Antipapa promette accettare i capitoli favorevoli alla dottrina di Eutiche negante in Cristo la persona umana per contrapposto a Nestorio, che gli negava la divina, se Giustiniano lo sovviene a vincere l’avversario Silverio; aiutato ci arriva, e fa spegnerlo a tradimento; ma poi o si pente, o piglia a tedio la suggezione, sicchè non osserva il patto; relegato in Sicilia da Teodora, minacciato da Giustiniano di un Concilio a Costantinopoli accetta da capo i capitoli di Eutiche: la viltà, come succede, gli fruttava obbrobrio, non concordia, anzi la Chiesa nel suo pontificato si lacerò peggio di prima; allo scisma delle chiese orientali si aggiunsero quelli della Illiria, delle Spagne, delle Gallie, e dell’Affrica; si separarono altresì dalla comunione di lui Toscana, Istria, Umbria, Liguria, e Venezia; lo scomunicò San Paolino patriarca di Aquileia in un Concilio dei suoi suffraganei. Pelagio I considerando come argomenti spirituali non bastassero a sottomettergli i vescovi avversari s’industriò adoperarci il terrore delle armi; e sembra persuadesse Narsete a sovvenirlo; ma scomunicato dai vescovi si rimase attendendo a raccogliere le sostanze della chiesa streme e disperse nel perpetuo disegno di primeggiare sopra i suoi uguali. Pelagio II rifatto di forze torna ad insistere nel concetto di primazìa, ma poichè i vescovi di occidente riparansi sotto la tutela dei Longobardi, egli disperato di venirne a capo con le proprie facultà si raccomanda a Childerico re dei Franchi di Austrasia, il quale lo trastulla e lo delude. Intanto se il vescovo di Roma si arrabattava a prevalere sopra i suoi uguali nè manco il vescovo di Costantinopoli rimaneva con le mani alla cintola, e in certo Concilio radunato per giudicare di un vescovo di punto in bianco si piglia il titolo di Universale. Questi fu Giovanni digiunatore. Se Pelagio saltasse su i mazzi non è da dire; vomitò ingiurie a bocca di barile, e per ultimo in nome di san Pietro buttò all’aria tutti gli atti del Concilio. Troppo più fiero di lui Gregorio magno, però, che stemperati in ogni mala cosa, nella violenza delle parole turpi, i Pontefici non conoscano confine: vale il pregio considerare quello, che Papa Gregorio magno non aborrisse proferire contro questo patriarca usurpatore del titolo di Universale: «tu stai di casa vicino al diavolo, e quanto presumi è scelleraggine espressa; tu proprio ammannisci la ruina del sacerdozio il quale venne istituito da Dio per dare l’esempio della umiltà.... Veruno dei miei predecessori patì mai portare, o lasciare portare questo titolo profano, conciossiachè dove mai un patriarca si appelli universale venga a mancare negli altri il nome di patriarca. Per me credo che accordarti siffatto scellerato titolo, e mandare in perdizione la fede sia tutt’uno. — Se la tua santità chiama papa me o non capisce, che viene a confessare lei non essere tale, poichè io divento per suo consentimento ecumenico? — Se un vescovo si chiamerà universale andrà di certo a precipizio la Chiesa». Però mentre Gregorio astia al Digiunatore il nome, s’ingegna agguantare per sè la cosa; per costringere il Patriarca ad umiltà egli primo s›intitola servo dei servi di Dio, e così si sottoscrive nella lettera, che gli spedisce, ma intanto si mette coll’arco del dosso a dilatare la primazìa della sua fede sul mondo cristiano, massime in occidente, e nelle sue epistole si dichiara aggravato dalla cura, e dalla sollecitudine di tutte le chiese, la quale cosa, ch’è mai se non la presunzione d’imporsi ecumenico agli altri vescovi? Difatti Bonifazio III, successore di lui, timoroso, che altri lo prevenisse a pigliare per sè il titolo di universale non istette a perdere tempo e indusse lo imperatore Foca a concederglielo; donde tu vedi come anco questo nome da cui tirano tanta superbia i Papi di Roma non si diparta da istituzione divina, ma al contrario sia dono d’imperatore, e di quale imperatore! Ribelle al suo principe, trucidatore di lui, e della imperiale consorte, e di otto figliuoli innocentissimi, di persona deforme, di aspetto sinistro, nella crapula sprofondato e nella lussuria; codardo così, che a ragione Maurizio quando lo seppe tale esclamasse: «ahimè! se vile per certo diventerà assassino.» Le stragi che menò questo feroce non mai precedute da giudizio, e precedute sempre da atrocissimi tormenti; occhi e lingue strappati, mani e piedi recisi; arsi a lento fuoco, o disfatti dal flagello; l’anfiteatro contaminato da membra tronche: insomma tale non dirò da disgradarne Nerone, bensì da stargli a pari. Nondimanco il papa Gregorio gli manda epistole gratulatorie perchè «la benignità della sua religione fosse giunta al fastigio dello impero; si rallegrino i cieli, la terra esulti e delle opere sue pietosissime il popolo della repubblica universale fin qui afflitto spietatamente meni tripudio.» e terminava poi profetandogli, che dopo lungo e prosperoso regno se ne sarebbe volato ritto ritto come un cero nel celeste impero. E’ sembra, che il dono della profezia non fosse per anco piovuto addosso al vescovo di Roma, dacchè Foca abbandonato da tutti dopo ogni maniera vilipendii, e strazii ebbe il capo mozzo, e le ceneri del suo corpo, dato alle fiamme, furono disperse al vento. Il clero già tanto non so se io mi abbia a dire o abbietto o truce, pago di leccare il sangue esaltava il nuovo imperatore Eraclio con ressa supplichevole chiamandolo al trono, che avrebbe purificato dalla ignominia. Tale fu Foca imperatore il quale inalzava il vescovo di Roma alla dignità di ecumenico. Innanzi di procedere raccattiamo per via un fatto strano come quello, che chiarisce la inanità dei nostri moderni uomini di stato, e la sfrontata ignoranza di loro. Gelasio I papa, imperando Zenone, bandiva la Chiesa avere a governarsi libera nello stato; e prima di lui Sinesio vescovo di Tolemaida così ammaestrava il clero cristiano: «per esperienza vi è chiarito come porre insieme Principato e Sacerdozio sia un mettere all’aratro un’asino con un bove. Gli Egizi e gli Ebrei furono un dì governati da sacerdoti, ma poi il Signore separando questi due generi di vita dichiarò l’uno sacro, l’altro politico; questo unì alla materia, quello a se; i Principi ai negozi; alle orazioni noi. Perchè congiungerete quello che Dio separò? Perchè imporci un carico impari alle nostre spalle? Se abbisognate di protezione volgetevi a cui fu preposto alla esecuzione della legge. Avete bisogno di Dio? Andate dal vescovo. Scopo del vero sacerdote la contemplazione la quale mal si accorda con l’azione.» Il testo famoso di Gelasio e la lettera di Gregorio III a Lione l’Isaurico occorrono significati, anzi copiati nella epistola ottava scritta da Nicolò I papa a Michele III imperatore: «concedo prima di Gesù Cristo taluni essere stati re, e sacerdoti insieme, ed il demonio ha imitato questo nella persona degl’imperatori pagani, i quali erano altresì sommi pontefici, ma apparso colui che fu re e sacerdote vero, lo imperatore non si appropriava più i diritti del sacerdozio, nè più il pontefice usurpò nome regio. Imperciocchè quantunque tutti i sacerdoti sieno schiatta sacerdotale ad un punto e regale, Dio però consapevole della umana debolezza, e desideroso di salvare i suoi in virtù della umiltà volle separare gli uffici dei due poteri per modo che gl’imperatori cristiani, abbisognassero dei Pontefici per la vita eterna, ed i Pontefici andassero soggetti agl’imperatori nelle cose temporali. Colui pertanto che serve Dio non s’intrometta nelle cose del secolo, come colui che attende alle cose del secolo non s’intrighi nelle cose divine. A questo modo ognuno dei due ordini rimane circoscritto nei termini della modestia, ed ogni vocazione è applicata a ciò che le appartiene». Ora se vuoi conoscere come il Papa allora instasse su cosa dalla quale ripugna adesso, la ragione ti comparisce manifesta. Il sacerdozio in cotesti giorni sentiva non potersi ordinare a suo modo, e farsi stato dentro lo stato per riuscire più tardi stato solo e trapotente, se non si appartava dalla subiezione dello impero, però mostrava repugnanza dello antico istituto di principato comprenditore eziandio del sacerdozio per giungere a stabilire un sacerdozio comprenditore del principato: insomma rovesciare la medaglia. Il quale intento avendo con pertinacia grande, e con fortuna ottenuto vediamo il Papato armarsi di leggi atte a camminare compagno a canto lo stato, e se gli capita, padrone; e di vero prima fu compagno, e poi padrone; per ultimo anch›ei provò quanto sia vero il proverbio, che chi più stringe meno abbraccia, e decadde dal superbo concetto di signoria universa sopra le cose spirituali come sopra le temporali, non già per migliore senno, o per mutato consiglio, bensì per impotenza, e smanioso di ragguantare la perduta primazia quando, che fosse. Una volta egli attese a separare le due potenze, adesso il Pontefice si ostina a respingere la partizione, e ciò perchè mutava punto di appoggio alla leva: allora il principato l›aduggiava impedendogli di farsi potenza; ora che dominazione è fatto separandosi perderebbe il principato: di qui l›ira, e la minaccia di adoperare le folgori, che non bruciano più, nè manco i pagliai, per tenere insieme quello, che sotto pena dei medesimi fulmini si pretese un dì spartito. — Per me considero la repugnanza del Papato proprio provvidenziale, imperciocchè là dove la separazione fosse avvenuta a casaccio siccome propose il barone Ricasoli, uomo per certo inettissimo allo ufficio che si tirò su le spalle, la Chiesa di Roma nel modo col quale adesso si trova costituita avrebbe potuto sovvertire, o turbare a sua posta lo stato; e questo parmi avere con buoni argomenti chiarito altrove. Carte in tavola; tutte le religioni, che occorrono dentro lo stato voglionsi libere per ciò che spetta al foro interno; quando poi presumono intrecciarsi con atti esterni agli ordini pubblici, come ogni altra cosa civile, cascano sotto le discipline della polizia nel modo, che la intendevano i Greci. — E poco, anzi punto, secondo la opinione mia, vale che il sacerdozio ha da essere libero, dacchè io pure consenta così, ma al tempo stesso sostengo, che ricondotto alla sua prima istituzione, voglio dire al suffragio del popolo, parmi manifesto, che il popolo non fie per eleggere uomini i quali contradicano alle sue leggi; mentre adesso il clero per suggestione di principe straniero interessato ad arruffarti le faccende di casa compiace a lui non al principe proprio e nè manco al suo popolo. La dottrina del suffragio universale ha da mutare la faccia del mondo; nè rechi amarezza il tristo esempio di Francia: per ora il tino bolle sicchè i raspi e i fiocini vengono a galla; lasciate posare e avrete il vino ch’è conforto dell’anima. Quantunque ormai per istudio di acquistare potenza i Papi si fossero avvantaggiati delle cerimonie pagane però che quanto la religione perdeva di spirituale tanto desiderava ornarsi di forme sceniche, e affatto materiali, tuttavia verun Papa postergato ogni rispetto più di Gregorio magno strinse lega col paganesimo. A questo uomo misto singolare di pedanteria e di forte volere un dì venne in testa di convertire gl’Inglesi: la causa che lo spinse questa: veduti a Roma alcuni giovani sassoni-inglesi bellissimi di forma domandò chi fossero e donde venissero. Gli risposero essere angli, ed egli, «angioli sì cui bisogna liberare dalla schiavitù del demonio; ma da qual provincia vengono essi? — Dal Deirè. — Ci supplicano, soggiunse il Papa, a salvarli dalla ira di Dio; e come si chiama il capo o principe loro? — Ella. — Alleluia, conchiuse Gregorio, certamente a noi commise il cielo, che per le costoro terre si abbia a cantare alleluia.» Bambinesche forme coteste, le quali velavano concetti terribili, che furono in processo di tempo spedire bolle ai Franchi per consacrare le loro rapine affinchè essi le suggellassero con la scure, e a lui Papa pagassero il prezzo del sangue. Mandava Agostino in Inghilterra co’ giovani educati nelle arti della curia romana, e parecchi monaci mascagni, i quali tutti giunti ad Aix scorati per le molestie della via stanno in procinto di stornare, ma Gregorio li rimbrotta di poca fede, e li sovviene di lettere commendatizie pei baroni franchi sbraciando loro a destra, ed a sinistra d’illustrissimo, piissimo, cristianissimo e via con iscialacquo, che non mai fu visto maggiore, se ne eccettuiamo quello, che adesso si fa delle croci dei santi Maurizio, e Lazzaro; gli resse il cuore perfino di scrivere lettere alla immanissima donna Branechilda salutandola eccelsa per ispirito inchinevole alle opere buone, e tetragona nel timore dell’onnipotente Dio. Così andarono innanzi Agostino e i frati sicchè giunti appena a Cantorbery domandano al re Etelberto: «una terra con tutte le sue rendite non per loro, ma per Cristo, facendone atto di cessione solenne affinchè egli Cristo colmi lui re di beni in questo mondo e più nell’altro.» Doveva parere un po’ strano al re Etelberto che per divenire meglio vestito dovesse cominciare a spogliarsi, pure bebbe grosso, e donò la prima terra a santo Agostino ed ai suoi monaci, le altre se le pigliarono da loro: il peggio era che i Sassoni gente dura male consentiva lasciare le cerimonie vetuste della barbara religione, sicchè non sapendo che pesci pigliare mandava a Roma per consiglio, e Gregorio lo ammoniva a far la gatta di Masino, sopporti i sacrifici di vittime, lasci stare gl’idoli, non tocchi i tempii, si pigli ogni cosa in santissima pace a patto di appoggiare l’alabarda; e così fu; indi a breve Offa ammazza Etelberto; dai morti non ci ha modo di cavarne costrutto; i preti si voltano ad Offa al quale danno assoluzione plenaria a patto che paghi a Roma un tributo annuale intitolato danaro di San Pietro; tale l’origine di questo danaro, che Cesare Cantù non aborriva ricordare nel Parlamento italiano come esempio imitabile; un dì lo somministrò alla Curia romana il tradimento, oggi lo paga il fratricidio. E poichè il prete tiene assai della natura della Fama di Virgilio, che in andando cresce, così a cotesti tempi rimoti con celerità spaventosa, egli impose decime sopra le mercedi degli operai, sopra il soldo dei soldati; che più? fino sopra il turpe lucro delle meretrici. Siccome suole, la ingordigia troppa adesso aliena gli spiriti; chi paga, e chi non paga; di più, rotta una maglia aumenta la voglia nei Sassoni di affrancarsi dalla catena, per la quale cosa cacciano di sede Roberto di Jumieges eletto vescovo di Cantorbery dal Papa; allora Alessandro II lucchese si lega co’ Normanni, incitato da Ildebrando monaco; questi capo dei frati accattoni, quegli pure paltoniere e tignoso, onde quando lo menarono intorno a processione il popolo gli urlava dietro: «va via lebbra; va via bisaccia.» Soccorsi del Papa lucchese furono una bandiera benedetta ed un’anello di oro con dentro non so qual pelo della barba o capello di San Pietro. Guglielmo il Bastardo vinse e compensò il pelo rinnovato nella sua pienezza intero il danaro di San Pietro donde forse l’origine della carità pelosa: ma i successori di Guglielmo trovando come cotesto pelo costasse troppo caro, e credendo altresì di averlo a quell’ora pagato oltre il dovere presero a nicchiare, negando il danaro, e le romane improntitudini respingendo, Papa Innocenzo III stizzito, per ispuntarla mandò al re Giovanni senza Terra quattro anelli con molta solennità richiamandolo a meditare la forma, il numero, la materia, e il colore di quelli, però che avrebbero avuto virtù di ammonirlo intorno ai suoi doveri: infatti la forma circolare degli anelli gli avrebbe rappresentato la eternità per cui renunziando alle cose terrene si sarebbe sentito come attratto alle celesti: solo per lasciare più libero il re nei suoi esercizi ascetici si sarebbe egli Papa sobbarcato al carico di governare per lui il suo regno in questo mondo; il numero quattro come quadrato denota la costanza necessaria ad ogni re stabilita sopra le quattro virtù cardinali; la materia aurifera rappresenta la sapienza preferibile ad ogni bene; e come l’oro rappresentasse la sapienza il Papa non lasciava intendere; lo zaffiro indica la fede, lo smeraldo la speranza, il rubino la carità, il topazio le buone opere; per tutte queste ragioni era chiaro come l’inchiostro, che Giovanni senza Terra doveva lasciare, anzi ordinare, che i suoi sudditi pagassero il danaro di San Pietro, e permettere, che il Papa eleggesse vescovi in Inghilterra cui meglio gli garbasse; e poichè Giovanni senza terra uso a rubare per sè, ed anco un tantino ad ammazzare per questo fino i nepoti ebbe torto di non arrendersi alla forza del ragionamento papalino, Innocenzio scomunica Giovanni, lo condanna alla perdita del trono, e commette a Filippo Augusto re di Francia eseguisca la sentenza; il quale ci si ammannisce di buono; senonchè il Papa pensandoci su conobbe come Filippo fosse uomo da levare il regno a Giovanni, non però di darlo a lui, e allora si accomoda con Giovanni a patto, che questi si dichiari feudatario della Chiesa pagando mille marchi di argento di annuo tributo, di cui 700 per la Inghilterra, e 300 per la Irlanda; Filippo di Francia rimase a Dover come più tardi aveva a rimanere Vittoria d’Inghilterra in Crimea, e così per un tempo la Brittannia ebbe la onoranza insigne di essere feudo romano; onore di cui sembra, che si rammenti, e voglia mostrarne a Roma la sua gratitudine. La sarebbe lunga chiarire qui come la Chiesa cattolica appaia rimpannucciata di spoglie pagane. Lasciamo di Maria; come i pagani avevano gli dei maggiori o consenti, e minori, superi, inferi, e mediossumi così i cattolici possiedono santi maiuscoli, e scadenti, troni, potenze, dominazioni, e cherubini, e serafini, ed angioli, ed arcangioli, tutto un esercito, dal capitano generale fino al tamburino; i pagani veneravano gli dei tutelari dei popoli e gli dei patroni delle città e delle provincie, a mo’ di esempio Iside ed Osiride dello Egitto, Belo degli Assiri, Quirino di Roma, Apollo di Delo, Venere di Citera, Minerva di Atene e via discorrendo, e a posta loro i cattolici adorano San Luigi protettore di Francia, Santo Stefano di Ungheria, San Patrizio d’Irlanda, San Giacomo di Spagna, e poi San Petronio in Bologna, in Roma San Pietro, a Milano Santo Ambrogio, San Gennaro a Napoli, San Francesco a Livorno, che la sua protezione si spartisce con Santa Giulia, e non ricordo con quale altra Santa; lo stesso dicasi degli dei presidi dei tempii e degli altari: presso i gentili e presso noi pari i santi pei trivi, in capo alle strade, per le case, e per le stalle. Santo Antonio procuratore generale delle bestie tiene per suo segretario generale un porco; e ci hanno male lingue le quali affermano cotesta pratica avere trovato buona certi ministri di un certo regno di questo mondo, e per proprio uso imitata; la quale cosa io nego ricisamente, però che il porco troviamo almeno buono morto: il cattolicismo come il paganesimo ha assegnato ad ogni santo un malanno per suo campamento; così egli dava a Santa Barbara in dote gl’incendii e le saette, le cascate a San Venanzio, i tuffi nell’acqua a San Giovanni Nepomuceno, i terremoti a Santo Emidio, i ladri a San Niccola, gli avvocati a Santo Ivone, a Santa Anna i parti, a San Cristoforo dalla testa grossa il mal di capo e i prigionieri, a Santa Lucia il mal di occhi, a Santa Apollonia quello dei denti, a Sant’Agata quello delle mammelle, a San Biagio la gola, reni a San Liborio, le gambe a San Mauro, la peste a San Rocco, i cani arrabbiati ai Santi Piero Crisologo, Quintino e Domenico Soriano. La festa della nascita di Gesù che casca in Marzo trasportarono ai 25 Decembre perchè in cotesto e nei giorni seguenti i pagani celebravano il Natale di Saturno costumando, giusto come pratichiamo noi, darsi alle commessazioni e ad ogni maniera stravizi. Il tempio in Roma dedicato a Quirino dove le madri per l’annovale della nascita dei loro figliuoli andavano a posarli tutti azzimati sopra l’ara, oggi col nome di San Teodoro serve per l’uso medesimo; pagana l’acqua benedetta, pagani i ceri, i timiami pagani: le ceremonie per la più parte cavate dalle antiche: tutto il cattolicismo gronda paganesimo; a Roma il tempio di Vesta la dea del fuoco fu tramutato in Chiesa della Madonna del Sole; quello di Remo e Romolo gemelli in Chiesa dei Santi Cosimo e Damiano gemelli; quello della Salute in Chiesa di San Vitale; su la sponda del lago Numicio, ove è fama si annegasse Anna Perenna sorella di Didone, adesso sorge un sacello consacrato a Santa Anna Petronilla. Nel foro boario presso l’ara massima dove giuravano: mehercle! adesso occorre la chiesa di Santa Maria Cosmedin vocata di Bocca della Verità; Caio Mario trionfando per la vittoria cimbrica consacra un tempio alla vittoria; questo tempio convertito in Chiesa sta tuttavia in piedi, e sapete voi quale nome le hanno posto? Santa Vittoria. Il Panteon di Agrippa aveva la cupola fasciata di metallo corintio ed una iscrizione nel frontone la quale sonava così: «a Giove e a tutti gli Dei.» Urbano VIII dei Barberini leva il metallo e non ci surroga niente; alla seconda Bonifacio IV comecchè fosse più agevole e manco costosa sostituì la leggenda: «Alla Benedetta Vergine, e a tutti i Martiri.» Sisto V, che fu pei santi pagani quello che Francesco IV di Modena si mostrò pei liberali, tuttavia fece grazia alla Minerva del Campidoglio a patto che alla lancia surrogasse un crocione che si vedeva da lontano un miglio. Si trova scritto che a Narbona per tempo lunghissimo dai Cristiani si celebrasse la festa di Flora proprio a mo’ dei pagani con giochi, e femmine ignude: nel 1551 un Concilio provinciale condannò riti siffatti, i quali comecchè indarno già da nove secoli erano stati difesi: e tanto in cotesta provincia si poterono poco le vecchie usanze pagane abolire, che nel 1645 un monaco amico di Gassendi stampò certo libretto col titolo: «Lamento sopra i costumi anticristiani del popolo di Provenza.» Il nome di luoghi hanno mutato in Santi; il monte Soracte diventò Santo Oreste; gli antichi ebbero lo Ancile scudo sacro piovuto dal cielo, e noi non so nè manco io le tante cose sacre diluviate dal cielo sopra la terra; credevano i pagani le isole avessero viaggiato come Delo, e i tempii, e gl’idoli, e noi crediamo San Dunstano traversasse la Manica sopra certo isolotto; vola per l’aere la casa del Loreto al pari di una rondine; la nostra Madonna di Montenero uggita di starsi in Eubea incastrata dentro una rupe un bel giorno lascia lì sacco e radicchio e viene a domiciliarsi a Livorno, e il Capitano Corpi che navigò per coteste plaghe riscontrava il buco lasciato dalla Vergine randagia nelle pareti del monte; così afferma il Padre Oberhausen nella sua monografia del tempio di Montenero. A Roma parlarono i bovi nella seconda guerra punica, appo noi favellare asini e bovi diventò cosa comune, sicchè non ci entra più miracolo. Il Parlamento Italiano informi. Apparizioni di là, ed apparizioni di qua. Venere, Minerva, Marte ogni tantino in terra, ed anco Nettuno di cui ufficio è governare il mare, che governava ad un bel circa come i ministri presenti governano la Italia; tra noi Gesù Cristo sempre in viaggio per comparire alla presenza dei suoi devoti, e per lo più in forma di bambino come a San Cristoforo, a Santo Antonio, ed a Santo Agostino; anzi taluno afferma, che Gesù Bambino si presentasse a questo Santo quando meditava il trattato della Santissima Trinità quì per lo appunto a Santo Jacopo dove il signor Palmieri ha fabbricato i suoi bagni; e questo avverto perchè ci pensino quei signori, e quelle signore che vanno costà per bene altro, che meditare sul mistero della Santissima Trinità: altri all’opposto sostiene che siffatto miracolo avvenisse lungo la spiaggia di Corneto; intorno alla quale disputa confesso dopo molte ricerche trovarmi incapace più di prima a decidere. — Miracoli inauditi da una parte e dall’altra, tamen di assurdità meno strepitosa presso i pagani; chè il baratto del cuore di un Dio con quello di una femmina scema non arrivarono i preti pagani a immaginare. Ai miracoli, che sono oltraggio non dirò alla ragione umana, la quale è avvezza a bevere balene, bensì alla nozione della Divinità, non vo’ aggiungerne altri in aumento di quelli che già registrai nell’Asino; solo mi giova trascrivere certa notizia letta a questi dì sopra taluni giornali per istudio, che altri la conservi: dentro parecchie chiese e cappelle occorrono 63 dita di San Girolamo; e non ce ne voleva di meno per questo benedetto Santo che ha scritto tanto; — tredici braccia di Santo Stefano, che bisogna dire fosse un solenne poltrone se con tredici braccia sì lasciò lapidare; 1600 ossa di San Pancrazio, e non ce ne voleva meno per fare onore al proprio nome, che significa pugnatore co’ piedi e con le mani; comunque santo Ignazio di Antiochia divorassero i leoni ciò non toglie, che ci avanzino di lui tre corpi di tutto punto interi, oltre sette gambe e diciassette braccia; e poichè mi sta su la punta della penna lascio cascare sopra la carta come in Ispagna abbiano fabbricato un San Viar, santo miracolosissimo, massime per le donne gravide, a questo modo: sopra un marmo miliario trovarono inciso: S. Viar e il santo fu bello e fatto; dopo qualche secolo certo archeologo miscredente dimostrò coteste lettere frammento di iscrizione corrosa; le quali intere sonavano Prefectus Viarum; così un soprastante di strade romano si trovò di botto tombolato al fianco di S. Luigi Gonzaga; e per la quale cosa anco i Signori Susani, Bastogi, Ricasoli, Cini, Corsi, e compagni impresari, e amministratori di strade, dopo di essere stati in questo mondo Cavalieri dei Santi Maurizio e Lazzaro ponno sperare di trovarsi colleghi dei medesimi nella gloria eterna del paradiso. In certa cronaca cattolicissima si legge narrato come avanti la venuta di Gesù Cristo la reina Bellisea il giorno della Pentecoste si recò a messa nel Duomo di Fiesole!!! Io non saprei accertare se il cardinale Bembo, o Giulio II, o Leone X dicessero: — questa favola di Cristo ci fu un podere in Chianti — quello, che so veramente si è che il Poliziano si lamentava forte col magnifico Lorenzo perchè quella benedetta donna di sua moglie Clarice non si vergognasse di dare a leggere il salterio al suo figliuolo Giovanni, che poi fu papa; e il cardinale Bembo ammoniva il Sadoleto si astenesse da leggere l’epistole di San Pietro se pure non voleva imbarbarirsi lo stile: «lascia, gli scriveva, da canto coteste baie indegne di uomo grande.» Dettando lettere latine, il dabbene cardinale a mo’ dei pagani chiamava il Collegio dei cardinali collegium augurum; per lui celebrare la messa dei morti significava: litare diis manibus; morendo San Francesco: in numero deorum receptus est; un moribondo, che si affretta acconciarsi dell’anima co’ sacramenti: «deos superos manesque placavit.» Del simulacro d’Imperia meretrice collocato nel Panteon già favellammo. La Chiesa da prima fu pagana per arte volendo che in certa guisa i gentili si trovassero ad avere mutato religione quasi senza accorgersene; poi nei gusti, nelle usanze, e perfino nel linguaggio del paganesimo si mantennero per vaghezza d’imitazione, e per conformità di costume. Certo il Vescovo di Roma mutando modo di elezione aveva acquistato non poco, però che togliendola al popolo, il quale si trova sempre presente, l’aveva messa in mano ad uno imperatore lontano, spesso troppo impacciato in casa, per istare a canna badata fuori; ma venuti i barbari, massime i Goti, in Italia si erano tolti per loro questa suprema facoltà, onde senza averla perduta o renunziata gl’imperatori greci intendevano essi a posta loro esercitarla in proprio benefizio. I Papi non volendo dare del capo nel muro incocciandosi a progredire per la via retta attesero a pigliarla di scancio, e papa Bonifacio II dopo avere vomitato fiamma e fuoco contro le elezioni simoniache dei Papi si attentò eleggersi il successore, ma non approdò; anco Felice IV tanto per mettere il primo piolo alla scala chiese ad Amalasunta la facoltà di giudicare in prima istanza le cause miste fra chierici e laici, e la ottenne: di qui il mal seme dei tribunali chiesastici onta, e dolore della stirpe umana. Ora incomincia a colorirsi la tremenda industria posta dai Papi di percotere l’uno contro l’altro i potentati del mondo e romperli, o incrinarli a vantaggio proprio; finchè durarono i Goti i Papi non andarono lieti di avere carpita la elezione dei sacerdoti al popolo, dacchè se ne vollero mescolare Odoacre, e Teodorico; allora i Papi, quasi per rifarsi nell’apparenza di quanto scapitavano nella sostanza, ovvero perchè con le apparenze intendessero disporre gli animi a favore dello ambito primato, aggiunsero alla mitra la tiara, assunsero vesti solenni per foggia, e per ricchezza; però che sia novella quanto narra Papa Innocenzo III nel sermone intorno San Salvestro, del rifiuto di costui alla corona profertagli in dono da Costantino per rispetto alla tonsura; di fatti o perchè la corona sconcerebbe la tonsura, e la mitra no? Onofrio Panvinio, che se ne intendeva afferma, che la tiara non adoperarono i Papi prima del sesto secolo: quanto al triregno è trovato più moderno assai; lo immaginò Paolo II veneziano nel 1474 per simbolo dell’autorità spirituale nel cielo, nello inferno, e sopra la terra; come vedete e’ ci entra ogni cosa. Dai, dai favorendo l’abiezione dei popoli conquistati e la barbara ignoranza dei conquistatori i Papi già toccavano il dominio temporale, arnese necessario per primeggiare, quando ecco in contrario un duro intoppo nei Langobardi, mentre quasi erano giunti a scivolare di sotto agl’imperatori greci non senza però, che chi primo stese le mani non le ritraesse scottato; così vero questo che Martino I essendosi attentato a farsi consacrare senza il consenso dello imperatore, e di più avendo di propria autorità convocato un Concilio in Laterano lo imperatore Costante lo mandò in esilio a Chersona dove gli venne meno la vita: costui fu ribelle, e lo ciurmarono santo: nè di ciò troppo ci preme; solo ci giova avvertire, che non sempre la Chiesa romana tenne fermo il precetto di obbedire alle potestà civili comecchè discole, e di ciò abbonderanno, fra non molto, conferme. Vitaliano Papa caldeggia le parti di Costantino Pogonato contro Mecezio; e poichè la morte gli toglieva il modo di esigere il prezzo del favore largito a Costantino, i successori suoi Agatone, e Benedetto II tanto lo importunarono, che quegli ne ottenne la dispensa di pagare i tre soldi di oro per la conferma della sua elezione, questi facoltà di pigliare possesso del suo officio senza l’assenso imperiale; più avventuroso di tutti Costantino papa il quale non rifuggì da mettersi al repentaglio di andare fino a Costantinopoli a salutare il ferocissimo Giustiniano II, dove con arte, ignorasi se buona o rea, si adoperò ad ottenere da costui la conferma dei privilegi della Chiesa romana, mentre costumando come il buon marinaro, che ormeggia il suo naviglio a più cavi, Giovanni VII la medesima conferma aveva già riportata da Ariberto II re dei Langobardi. Parve finalmente a Leone II Papa avere la Chiesa romana acquistato tanto di potenza da palesarsi intera, e dire: voglio e posso regnare sola. — Regnava a Costantinopoli Leone Isaurico rude montanaro a cui saltò nel cervello la bizza di movere guerra alle immagini: a quanto sembra, eccetto questa fantasia, altra causa del suo odio non la possiamo rinvenire; ma così siamo avvezzi a conoscere complesse le cause delle azioni umane, chè nè ad una sola, nè alla più semplice crediamo, anzi quanto più apparente, screduta; tuttavia il senso di religione agita profondo le menti umane quanto più barbare, e l’Isaurico allevato per le montagne, usando co’ monsulmani, e co’ giudei potè ottimamente concepire odio immortale contro le immagini, le quali che altro sono mai tranne infelici segni d’idolatria così dallo antico come dal nuovo testamento detestati e reietti? Manuzio Felice cristiano del terzo secolo, il quale viveva in Roma ai tempi di Caracalla, dettò un dialogo in difesa della religione cristiana dove introduce a favellare due amici suoi, Ottavio Gennaio convertito alla fede di Cristo, e Cecilio Natale rimasto pagano; tra le altre accuse, che questi appone ai cristiani vi ha che essi si celano, aborrono mostrarsi, non possiedono altari, non tempi, non immagini. Ai quali appunti Cecilio risponde: che tempii? Che altari? Che sacrifici? Che immagini? L’uomo è immagine sincera di Dio; suo tempio il mondo; la vita pura ed i costumi santi il vero sacrifizio; — e tale era la sentenza di Origene poco dopo di lui, e innanzi a lui la professò Clemente di Alessandria. Se vuoi autorità di Papa contro le immagini, te la somministra Innocenzio III: «i tempii e gli altari, egli dice, spettano al culto della latria; — a Dio solo voglionsi consacrati non ai santi per paura, che invece di servire a Dio i fedeli non caschino nella idolatria.» Se all’opposto ti garba meglio la opinione di un santo ecco che san Gregorio di Neocesana ti afferma: «la religione pagana sola inventrice e madre delle immagini.» E venendo giù fin presso al Concilio di Trento ti occorre Giorgio Cassandro dottissimo teologo, il quale nel consulto intorno le controversie dei cattolici, e dei protestanti dettato a petizione degl’imperatori Ferdinando e Massimiliano confessa pagano l’uso delle immagini... ed oggimai fatto esorbitante e scandaloso acconsentendo agli errori del volgo e piuttosto esagerando, che temperando gli eccessi della pagana follia. E strano poi egli è che i Concili stessi dannando il culto delle immagini dessero ragione a Leone; di fatti il Concilio di Costantinopoli convocato dal figliuolo suo Costantino Copronimo composto di bene trecentotrentotto vescovi dichiarò espresso il culto delle immagini rinnovatore del paganesimo; alla purezza della fede fuormisura molesto: che se taluno obiettasse scismatico Concilio quello, e al tutto dannato, allegherò il Concilio di Francforte convocato da Carlomagno per abolire il culto delle immagini, dove insomma si accolse la dottrina di Gregorio il grande, il quale scrivendo a Sereno vescovo di Marsiglia dichiarava le immagini si avessero come libri per gli idioti, non già oggetti di venerazione religiosa. Presenti erano i legati del Papa; gli atti di questo Concilio furono spediti ad Adriano, il quale per non venire in iscrezio col potente imperatore lasciò correre tre pani per coppia; morto Adriano I, e Carlomagno, Adriano II fomenta il culto delle immagini approfittandosi della superstizione vulgare a danno di Ludovico figlio di Carlomagno. Ad ogni modo, postochè tu voglia accettare la dottrina del Concilio di Trento, la quale prescrisse doversi tenere nelle chiese le immagini di Cristo, della madre sua, e dei santi non perchè abbiano in sè divinità alcuna, ma sì per onore alla cosa rappresentata, le immagini non potevano nè dovevano accendere così vasto incendio. Ma l’astuto Gregorio notando come in oriente per le immagini abolite andasse ogni cosa a soqquadro, massime per le furie delle donne, nelle faccende di amore come in quelle di religione piuttosto vesane che accese, di un tratto si manifesta nemico a Leone; in Italia i decreti imperiali non meno esosi che in oriente; anco qui Greci ed Italiani in armi per resistere; tumulti e stragi; l’esarca di Ravenna, il governatore di Napoli, ed il figliuolo suo a rabbia di popolo lacerati; gli editti, e le immagini di Leone arsi; divampa la ribellione e già vogliono eleggere nuovo imperatore, e condurlo fino a Costantinopoli. Gregorio a cui i popoli ricorrono come a persona, che se vuole può difenderli, li ricovra sotto il manto pontificale, ed in palese li conforta a posare gli animi, da nuove violenze astenersi, rimedierebbe per le buone egli; poi respinge gli editti imperiali dando dell’ignorante allo imperatore quanto poteva desiderarne: e poichè questi gli minaccia esilio, egli risponde: non istimarlo un lupino, e temerlo meno; chè se gli dava 24 ore di tempo gli bastava, e gli rifaceva il resto, per uscire dalle terre sottoposte al dominio di lui; invano ostinarsi a spuntarla, piuttosto che cedergli perderebbe la vita. Queste le aperte offese, troppo peggio le segrete con le quali spingeva i popoli a farsi forti su le armi, a negare il tributo onde i Greci mantenevano i soldati in Italia; mentre per altra parte le milizie stesse incitava a disertare dalle bandiere, e gli veniva fatto anco troppo, girandovi dentro danaro come l’esca per pigliare i pesci. Lo imperatore infellonito confisca i beni, che possiede il Papa nelle Calabrie ed in altre provincie dello impero. Gregorio a posta sua scomunica Leone, scioglie dal giuramento i Romani cui conforta con tiro pretesco a costituirsi in repubblica; egli contento di proteggerla col titolo di presidente. — Di qui tu lettore argomenta, che la potestà temporale del pontefice è fondata sopra la ribellione a cui per dare colore di diritto il prete astuto chiamò in soccorso il popolo,unico, vero e perpetuo signore della terra, la quale egli formava per la massima parte con la cenere dei suoi padri. Ad arruffargli i disegni non chiesti, e manco desiderati compagni, ecco accostargli i Langobardi dai Pontefici vigilati con sospettosa inquietudine difficile nascondersi a cui brama il medesimo fine di te. Con industrie sottilissime il Papato impediva i Langobardi si allargassero in Italia; molestamente patì che si voltassero al cattolicesimo, e quantunque nella congiuntura del figlio partorito da Teodolinda ad Agilulfo catecumeno novello con magnifici doni li presentasse non attese meno alacre ad attraversarli occultamente; quando poi Agilulfo, incoronando il figlio incise intorno alla corona la leggenda: «Agilulfo per la grazia di Dio uomo e glorioso re, di tutta la Italia offre a San Giovambattista nella Chiesa di Monza» il Papato se la legò al dito, e certo pensò «prima che questo accada ci voglio essere anch’io.» Il Papa presagiva, e per quanto stava in lui provocava l’anarchia universale, sapendo come in siffatte occasioni il corpo più ordinato degli altri (e basta eziandio meno disordinato) s’impadronisca del moto; però la dominazione langobarda non che emula ma nemica detestava; nondimanco Liutprando pure queste cose sapendo col mostrarsi quanto il Papa, e più del Papa, svisceratissimo della purità della fede cattolica assaliva l’esarca a Ravenna e lo costringeva a consegnargli la terra donde poi gli sarebbe fatta facoltà di conquistare la rimanente Italia. Chi si tolse il peso enorme di scolpare il pontificato avverte come il Papa si oppose a che Liutprando usurpasse Ravenna, ed anzi non quietò se prima con esortazioni, e con profferte di soccorsi non ebbe mosso Orso doge di Venezia a ripigliarla ed a restituirla all’esarca; la quale cosa intendendola come si manifesta menerebbe alla conclusione, che il Papa dannava in altrui quanto per sè sosteneva buono; il panno mostra la corda; egli non pativa aumento di potenza nei Langobardi, e poichè per allora non la poteva pigliare per sè procurava la rendessero al greco imperatore, come quello a cui debole essendo e remoto si poteva con più agevolezza a tempo ed a luogo cavare di mano. Perché i Veneti non si tenessero Ravenna non fie difficile indovinare; fatti i conti più volte, essi avranno trovato che cavavano più utile dare, che tenere Ravenna a cagione dei traffici loro in oriente, i quali avrebbero sofferto forse irreparabile danno se si fossero accapigliati co’ Greci: lo interesse, ch’è la più salda canapa per filare legami fra gli uomini, in cotesto tempo teneva stretti insieme Veneti e Greci; di vero Gregorio si pose in balìa ai Veneti per disperato, essendo prima ricorso a Carlo Martello, che al non volere (stando egli allora in procinto di rompere guerra ai Salici ed agli Aquitani) dava colore onesto di non potere, però che Liutprando gli avesse salva la vita sul campo di battaglia e per giunta adottato il suo figliuolo Pipino, onde Gregorio III successore di Gregorio II, il quale di coteste lustre s’intendeva, appena seppe Carlo Martello sviticchiato dalla guerra salica, ed aquitana, lo tentò da capo mandandogli solenne ambasceria con lettere, e doni. Ancardo preside degli oratori lo avrebbe chiarito meglio a voce; fra i doni, le catene, e le chiavi di San Pietro; fiero e pure unicamente verace simbolo di quanto il Papato operò per la Italia, fornì le catene allo straniero onde la incatenassero: chè le chiavi poi fossero consegnate a San Pietro per serrare e disserrare il cielo e lo inferno le sono novelle, ma che con esse in mano il Papa ricordi avere sempre aperto, funesto portinaio, e maligno le porte della nostra Patria allo straniero è verità: infamia immortale a cui il Papato ebbe compagni Eufemio di Messina, Ludovico il Moro, e il conte di Cavour. Le lettere sonavano in questa sentenza: «Noi siamo afflitti vedendo come la poca sostanza avanzata pel sostentamento dei poveri, e per le luminare delle Chiese, ormai sia dispersa per la violenza di Liutprando, e d’Ildebrando suo nipote, i quali tutti i poderi di San Pietro devastarono, il bestiame si portarono via.» Tanto profonda si radicò nei preti la tenerezza del bestiame che Papi, Vescovi, e Curati non altramenti si adattino a chiamare i fedeli, che col titolo di gregge. Ciò la prima, la seconda lettera diceva questo altro: «I Longobardi ci pigliano a scherno irridendo: o non avete chiesto aiuto a Carlo? Venga egli via a trarvi di affanno; e questo ci accuora meno per noi, che per voi considerando come sì potente figliuolo non si avacci a sovvenire la sua madre spirituale, la Santa Chiesa. Caro figliuolo, sappi che il principe degli Apostoli potrebbe molto bene difendere la sua Chiesa e vendicarsi dei suoi nemici da sè, ma se ricorre a te lo fa proprio per mettere a prova il cuore di un suo figliuolo. Qui bisogna scegliere tra San Pietro, e Liutprando: ora all’amicizia del principe degli Apostoli vorrai tu preferire quella del re dei Langobardi?» Quanto alle segrete profferte di Ancardo si ha per certo, che si versavano sul cacciare via d’Italia ogni traccia di subiezione allo imperatore, conferendo a lui Carlo col titolo di Consolo la protezione di Roma. Che cosa Carlo avrebbe deliberato ignoriamo: secondo la natura dei Franchi vuolsi credere che potendo fare senza danno, all’opposto con profitto, sariasi mostrato sconoscente, ma la morte lo colse, e dopo lui, indi a breve, Gregorio III. Zaccaria Papa su i primordi del sacerdozio sfidato degli aiuti franchi si umilia a Liutprando, che stanco anch’egli dalle fatiche, e rotto dagli anni per ottenere pace concede al Papa i patrimoni della Sabina, di Narni, di Osimo di Ancona, e la Valle grande nel territorio di Sutri con altre grazie non poche; e promette sospendere la guerra contro Ravenna. Morto Liutprando succede Rachis, e questo sobillarono i preti così che ormai lo adoperavano dolcissimo arnese ai loro disegni: però i preti non appresero mai l’arte di seminare con la mano, e non col sacco, onde per indiscretezza guastano il gioco, e ciò appunto accadde con Rachis, il quale si rese monaco a Monte Cassino scappando dai roncigli del prete per la porta della religione; gli successe il fratello Astolfo, che subito si palesò terreno da non piantarci vigna: allora Zaccaria, prevedendo da lungi la mala parata, si volta a Pipino col quale la fortuna gli ammannisce occasione capitale. Pipino figlio di Carlo Martello per renunzia di Carlomanno, e per violenza esercitata da lui in danno di Grifone entrambi germani, si fa signore del reame dei Franchi; la cosa gli desta l’uzzolo del titolo, come in altri il titolo mette il prurito della cosa; vuole essere re; e poi vivendo la schiatta venerata dei veri re, come non sono ereditari il valore, e la sapienza, così nè manco codardia, e stoltezza, così ci era da temere, che un qualche generoso spuntasse fuori da cotesta schiatta a mettere il tallo sul vecchio; avanzava la morte, ma subita, perchè tenendo in mano l’aspide intirizzito non sai quando rinfocolato ti arriverà col morso: pigliano vizio gl’indugi. Ostava alla deposizione di Childerico III la fede dei Baroni che gli si reputavano, ed erano legati per giuramento; Pipino propone mandisi a consultare il Papa, inclito per fama di sapienza; nella ignoranza universale chierico voleva dire sapiente; e come la presenza diminuisce la reputazione, la lontananza l’aumenta, però i responsi di Roma tenuti per giunta ai precetti del decalogo; piacque il partito e si spedirono a Roma san Burcardo vescovo di Visburgo, e Fubrado cappellano del palazzo. Il quesito questo: «chi ha da essere re di un popolo, o quegli che avendo il titolo non ne possiede la capacità e la potenza o viceversa?» Naturalmente il Papa non fu col diritto, bensì con la forza; anzi per appiccare lo addentellato invece di parere il Papa dettò un decreto, ed invece di parole declarative egli le adoperò imperatorie; chiesero un consiglio ed egli diede un permesso; ci aggiunse per fare vie più solenne l’atto la necessità della consacrazione, e di vero una volta consacrò Pipino a Soissons con la moglie Bertrada san Bonifacio arcivescovo di Magonza; e notai a posta una volta, perchè come se il chiodo non reggesse lo ribadirono con una seconda consacrazione. Reca conforto a cui scrive storie considerare come le offese fatte alla giustizia sebbene approdino da prima, e poi per certi fini a coloro, che le commettono, tuttavia contengano in sè il seme di futura vendetta: se ciò preordini la Provvidenza, o porti seco la natura delle cose mi è ignoto, però si vede espresso come nel mondo fisico del pari che nel morale non possano disprezzarsi certe norme senza pericolo di ruina di concetti e di opere: così Pipino chiedendo la consacrazione della sua colpa al Sacerdote venne a farglisi soggetto, e gli diè il bandolo a creare la enorme dottrina che al Papa spettasse concedere, e torre le corone; il Papa poi non pensò che un giorno in virtù della sua sentenza avrebbe perduto il dominio temporale, che si augurava confermare con quella. Di vero, se i difensori del Papato si avvisano chiedere con qual diritto presumete togliergli il governo dei popoli, e voi rispondete: con quello medesimo onde Zaccheria ne spogliò Childerico: e notate che nè manco gioverebbe la ragione, che non è eterno un Papa, e morto uno sciagurato gliene surrogano altro virtuoso, imperciocchè lo stesso poteva succedere nella stirpe di Childerico, la quale non si spegneva mica con lui, al contrario egli aveva un figlio per nome Teodorico, ed entrambi deposti furono chiusi in carceri separate; negò il sospetto la consolazione di starsi uniti ai miserrimi; il primo nel monastero di Siziù, il secondo in quello di Fontanelle; allora prigioni i monasteri, soprastanti i frati. Il Papa (era morto Zaccheria, e successogli Stefano II, ma non fa caso) nonostante le carezze franche non ottiene schermo contro Astolfo, eccetto parole, e questo re dalle mani grifagne, rotta la tregua stabilita coll’imperatore assalta Eutichio esarca di Ravenna alla sprovvista; gliela piglia; poi lo esarcato, nè si ferma lì, chè cercando briga con Roma la intima a pagargli come a signore di Ravenna il tributo del soldo d’oro a testa: nicchiando i Romani a suggestione del Papa egli muove con lo esercito a Roma, occupa il contado, i poderi pontifici devasta dopo averli insieme con gli altri saccheggiati. Stefano con molte lamentazioni si volta a Costantino Copronimo, figlio di Leone scomunicato, e maledetto come eretico perchè continuatore dell’odio paterno contro le immagini: ma necessità non conosce legge, ed anco per meno la Chiesa smette l’ira non l’interesse; il Copronimo tribolato dai Bulgari invece di soldati manda oratori; al malcondotto Papa non avanzano che i soccorsi di Francia, ma nè i Romani memori della barbarie del vetusto Brenno li volevano, nè i Franchi consentivano venire; allora apparve il sommo delle sacerdotali arti; preci solenni a cafisso, e processioni, e tutti i santi avvocati, il Papa attorno scalzo con su le spalle certa immagine di Gesù dipinta proprio in paradiso dagli angioli a tempo avanzato, e il popolo dietro anch’egli scalzo, gemendo, e pregando, tutti coperti di cenere, quantunque non sia mai rimasto chiarito che abbia che fare la sordidezza con la misericordia di Dio; la pace rotta da Astolfo pendeva da un braccio della croce come il rospo che il villano impicca ad un ramo di fico. Dopo questo ammanimento Stefano ruppe in una predica, appo cui le scapigliate arringhe dei nostri agitatori del popolo parrebbero tisane di camomilla, alla quale la perorazione questa: «Dio volere ad ogni costo si ricorresse per soccorso a Pipino.» Mosse l’ambasceria romana per Francia con lettere ortatorie punto meno veementi alla Baronia di Francia, perchè venisse a difendere la giustizia di Cristo; di promesse, e soprattutto di benedizioni non faceva a risparmio, per la rimessione dei peccati non ci era nè anco da pensarci, solo che venissero in Italia alla difesa del Papa tornerebbero innocenti come se uscissero allora allora dall’alvo materno; per ogni scudo speso in questo mondo in pro della santa Chiesa nell’altro ne riceverebbero centomila, e più. A Brottegando abate di Gorza caporale degli oratori il Papa commise in segreto, caso mai Pipino non potesse venire mandasse egli inviati a pigliarlo affinchè non lo impedisse Astolfo: a voce si sarieno messi più facilmente d’accordo. Intanto arrivano i nunzi dello imperatore a cui era preposto Giovanni Silenziario, i quali in compagnia di Stefano si fanno a trovare Astolfo in Pavia, ed insieme gli chiedono renda Ravenna, e le terre dell’esarcato e della pentapoli ghermite; gli si rimborseranno le spese della guerra. Astolfo con grande sdegno rinfaccia il Papa, che intimando altrui a rendere terra si tenga Roma principalissima delle italiche ville: che pietà nuova pei Greci la è questa? Forse Liutprando, ed egli Astolfo non avere combattuto contro i Greci per irrequieta ressa di lui Stefano, e degli antecessori suoi? Ponessero giù ogni speranza; non volere rendere un filo di paglia, e tregua alle parole. Sopraggiunsero i messi franchi Crodegando vescovo di Metz, e il Duca Ottavio, nè approdarono meglio; allora costoro con molta destrezza domandarono ad Astolfo salvocondotto per condurre Stefano in Francia; anco a lui gioverebbe tenerlo alquanto di tempo lontano: Astolfo rispose non avere impedito mai il Papa dallo andare e dallo stare; ma poi chiamato Stefano con grande querimonia si dolse della presa risoluzione tentando distorlo; e c’intromise eziandio altri autorevoli personaggi, ma il Papa stette sodo, e Astolfo non si potendo disdire lo lasciò andare. Colà il Papa cosparso di cenere, stretto i fianchi di cilizio si prostrò ai piedi di Pipino scongiurandolo in nome di Dio, e dei santi a salvarlo dalle mani dei Longobardi, nè volle levarsi da terra se il re steso prima la mano non lo assicurava di scampo, ma correndo la stagione iemale inviò a stanza il Papa nel monastero di San Dionigi. Prima di dividersi, Pipino incerto della permanenza della corona nella propria famiglia domandava i suoi figliuoli Carlo e Carlomanno da lui si consacrassero suoi successori, e il Papa: magari! a patto che l’esarcato ai Longobardi si togliesse, ed alla Chiesa si donasse: ciò stabilito Pipino convoca l’assemblea dei Baroni a Quierus per bandire la guerra al re Astolfo; nè questi si rimase con le mani a cintola, che persuase l’abate di Montecassino a concedere, che Carlomanno uscisse dal convento, e si recasse fino lassù a sconsigliare la guerra; il quale andato dimostrava poco contado avere perduto il Papa, glielo renderebbe Astolfo; l’altro spettare al greco imperatore; ora che scese di testa erano quelle smaniarsi per ciò, che era di altri e questi non chiedeva? Se chi si pone di mezzo paciere sapesse che non vi ha cosa, la quale tanto arrovelli cui intende commettere ingiustizia quanto udire favellare di giustizia vado sicuro, che manderebbe la lingua al beccaio: la guerra fu dichiarata, Carlomanno chiuso nel chiostro di Vienna: non passò l’anno che lo calarono nel sepolcro; i suoi figliuoli scompaiono: come perirono essi? Vorrei dirti: domandalo alla tomba, se la tomba parlasse. Delitti, e religione bugiarda. Cristo e il Diavolo legati in un mazzo. Stefano infermo, o finge per ammanire la guarigione miracolosa, la quale egli affermò essere accaduta in questo modo: gli erano comparsi davanti i santi Pietro, Paolo, e Dionisio col diacono e suddiacono; uno tiene la palma, l’altro lo incensorio. Dopo ricambiatesi non so quali cerimonie, Dionisio invitava Pietro a sanare il suo rappresentante in terra non senza adoperarci qualche parola risentita facendogli specie avesse mestieri dimando; e san Pietro punto dal rimprovero tingendosi un po’ in rosso per vergogna annuì: la guarigione si fece in meno, che si mette a recitare un Gloria Patri, e san Dionigi accomiatandosi da Stefano gli suggeriva: — sia con te pace; non temere. presto tornerai alla tua chiesa; ma prima fa di consacrare un’altare in voto ai due santi apostoli, e vi celebrerai una messa in riconoscenza della grazia ricevuta. Parve devozione, ed era alzata d’ingegno affinchè i popoli vi traessero in copia; mossi dalla novità della cosa, e come avvisarono accadde: colà fra la moltitudine delle turbe calcate, in mezzo alla universa baronia di Francia Stefano consacrò da capo Pipino, e la sua moglie Bertrada, e insieme con loro Carlo, e Carlomanno figliuoli; dalla parte di San Pietro scomunicando i Francesi tutti qualora si attentassero eleggersi altri re fuori della stirpe di Pipino. Avvertenza che i Francesi odierni avrebbero dovuto tenere dinanzi la memoria per non incorrere nella scomunica nel frequente loro barattare di re. Nè quì si rimase il Papa, che eccetto la donna dichiarò tutti patrizi romani, e dicesi ancora che battezzasse Carlo, e Carlomanno; nè meno generoso Stefano volle mostrarsi co’ Francesi, però che in prima lasciasse il suo pallio alla badia di san Dionigi, e poi insegnasse loro a non stonare quando cantavano: per la quale cosa importa che i Francesi si ripongano bene in mente, che se oggi cantano il Miserere in regola lo devono proprio al Papa; ma per avventura e’ ce lo tengono più che non penso, ed è senz’altro per questo che grati al Papato così tenacemente da ogni jattura il difendono. Le storie ricordano, e non si nega da noi, che a persuasione del Papa, Pipino spedì fino a tre volte ambasciatori ad Astolfo perchè consegnasse le torre occupate, e ciò non mica per istudio, che sangue cristiano non si versasse, ma sì perchè le guerre così si possono vincere come perdere, ed è prudente tentare ogni via di venire a capo dei desiderii a man salva, e poi non andava il Papa esente dal sospetto di cacciare un diavolo con un altro; ma Astolfo tenne sodo, allora scese le alpi Pipino, ed assediò Astolfo in Pavia col quale presto venne a patti e furono: restituisse l’esarcato, e le giustizie di San Pietro, giurasse eseguire l’accordo, in pegno dello adempimento desse ostaggi; ottenuto tanto, invano supplicato dal Papa egli tornavasene in Francia. Oltre il naturale talento che ha l’uomo di rifarsi, cruciava Astolfo il pensiero del tiro del prete, e della ingratitudine di Pipino; i suoi antecessori, ed egli per virtù di armi avevano conquistato le città italiche contro l’imperatore greco, ed ora costretto di consegnarle al Papa conosceva avere messo sangue, e sostanza a repentaglio per avanzare altrui: per maggiore cordoglio questo gli veniva per opera di tale a cui Liutprando aveva salvato il padre in battaglia, e lui stesso adottato per figlio: però agevole prevedersi che egli non avria levato la mano finchè gliela reggevano; di fatti, volte appena le spalle Pipino, Astolfo tempestando muove a Roma fiducioso di trovare favorevoli i Romani; e s’ingannò; i Romani sostennero lo sforzo delle armi dei Langobardi confidando essere soccorsi in tempo da Pipino. Ora se il Papa battesse mani e piedi perchè costui tornasse non è da dire; scritta una prima lettera gliela manda per l’abate Fulbrado: invocansi Dio, la Vergine, e i Santi; lasci ogni cosa e venga via di rincorsa; se ricusa, o se tarda nel dì del giudizio si aspetti a rendere i conti, ed ahi! quanto tremendi, imperciocchè Dio nella sua prescienza creasse proprio apposta lui Pipino onde difendesse lui Stefano, e cui Dio predestinava chiamò, e i chiamati sono giustificati. Poteva essere giunto a mezza strada il messo, che gli spedisce dietro Vilcano vescovo di Nomenta con la seconda lettera, dove ripetute le esortazioni, e minacce medesime aggiunge: avere obbligo verso i Santi della difesa del Papa; verso Dio dacchè egli poteva ottimamente provvedere al fatto suo in cento altre mila guise; ma poichè egli aveva scelto proprio lui Pipino a questo intento egli non se ne poteva scansare: verso gli uomini a cagione dell’aperta promessa alla quale venendo meno stesse sicuro, che gliela squadernerebbe in faccia San Pietro, ed a difendersi non gli basterebbero arzigogoli. Il Papa tirava, Pipino tentennava, Astolfo picchiava a doppio; allora Stefano invia la terza lettera con gli oratori Vescovo Giorgio, Conte Tomarico, ed Abate Verniero; pianti, omei, supplicazioni, e minacce non mancano; ma per mettere in opera stimolo nuovo, Stefano s’industria spunzicchiare l’orgoglio franco scrivendo come i Longobardi jattanti vadano attorno beffando: «vengano via quei di Francia a liberarvi dalle nostre mani!» e poi tra un turbine di accuse scappa fuori con questi due appunti: «i Longobardi dopo essersi ripinzi di vino, e di cibo mangiano le ostie consacrate, ed hanno ammazzato e portato via tutto il bestiame della Santa Sede! Ma Pipino non veniva: ormai di argomenti umani il Papa era giunto al verde; e’ fu mestieri ricorrere ai soprannaturali, che non riescono mica difficili come ordinariamente si crede; su questa strada basta avere il coraggio di movere un passo che poi si va innanzi a miglia senza nè manco accorgersene: il Papa smette pertanto di scrivere, e comincia San Pietro. Questi piglia le mosse coll’affermare sapersi nell’universo mondo presente e in quell’altro essere i Franchi suoi figli adottivi, e primo fra tutti i popoli fino alla consumazione dei secoli; nè egli parlare in suo nome solo, bensì anco in quello della Vergine, degli Angioli, dei Troni, delle Dominazioni, dei Martiri, dei Confessori, di tutta insomma la milizia celeste; e non parla unicamente al re Pipino, ma bene anco ai baroni, vescovi, abati, preti, monaci, governatori, all’universo popolo senza pure ometterne uno solo, e impone a quanti sono, che badino bene di non lasciare manomettere il gregge di Cristo, il popolo d’Isdraele, altrimente non ci ha rimedio, le anime loro andranno perdute nel fuoco eterno, ed egli saperlo di certo; nel regno dei cieli bisogna renunzino a entrare perchè così aveva disposto la santissima Trinità, e ad ogni modo era forza fare i conti con lui, che teneva le chiavi del paradiso, e ci pensassero bene. Infami e peggio anco a mente degli scrittori ecclesiastici, imperciocchè la Chiesa sia tolta in cotesta miserabile menzogna a significare non già l’assemblea dei Fedeli, ma i beni temporali uniti al Papato, il gregge di Cristo non accenni ad anime, sibbene a corpi, le promesse materiali della legge antica vadano confuse con le spirituali del Vangelo, la religione con l’interesse; e quello che per avventura estimo peggio di questo, affogano scientemente nello errore gl’intelletti, i quali Dio commetteva al Sacerdote per incamminarli sopra la via della verità. A cotesti tempi non si sospettavano frodi, o da pochi; però se dannoso crederle, più esiziale discrederle, che tra i pazzi è pazzo il savio; ma forse ci prestava fede Pipino, nè diverso da lui nel credere fandonie Astolfo, però che si narri ch’ei si raffidasse vincere la impresa, come quello che portando seco copia di corpi santi dei suoi stati, e raccolti eziandio dalle terre nemiche immaginava avere sprovvisto il Papa degli dei tutelari, ed assicuratili a sè. Tornò in Italia Pipino, vinse da capo Astolfo, e da capo l’assediò in Pavia: quivi si fece accordo; in mezzo ai negoziati ecco comparire i nunzi greci Gregorio primo segretario, e Giovanni Silenziario, ed esporre il greco imperatore legittimo sovrano dell’Esarcato, e della Pentapoli, a lui averli rapiti con violenza i Longobardi, e poichè riparatore d’ingiustizie ei si mostrava al mondo non le rincappellasse col dare al Papa, levandolo allo imperatore, quello che non gli apparteneva. Pipino rispose, che il principe il quale non basta a difendere il suo stato ne perde il dominio; ed in questo aveva ragione; egli poi non essersi mosso per lo imperatore ma per San Pietro a cui aveva fatto voto di donare tutte le sue conquiste in isconto dei peccati commessi e per la salute dell’anima sua. Dura fu la legge del vincitore che Astolfo ebbe a cedere l’Esarcato, la Pentapoli, ventidue città, Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Cesena, Sinigaglia, Jesi, Forlì, Forlimpopoli, Castrocaro, Montefeltro, Areragio, che ai dì nostri non sappiamo dove giacesse, Mente-lucano, forse Nocera, Serravalle, San Mariano, Bobio, Urbino, Cagli, Luceolo, Narni, e Comacchio; le spese della guerra, la terza parte del suo tesoro, e torni a pagare al re dei Franchi l’annuo tributo di 12000 soldi di oro di cui la gente langobarda si era affrancata, regnando Clotario II. Folbrado abate ricevute le chiavi di queste ventidue città le portò sopra la pretesa tomba di San Pietro con la facoltà di usufruirle; e ciò pongasi bene in sodo: la Chiesa dal dominio utile in fuori su la donazione di Pipino niente altro ebbe, e così da Carlomagno fino ad Enrico III. Anco dopo il mille la potestà temporale, donde i Papi ricavano adesso fondamento alla libertà del potere spirituale della Chiesa, non occorre stabilita, epperò eziandio il piissimo tra i cattolici ha d’accordarsi in questo con noi, o che il potere temporale non è necessario alla libertà spirituale della Chiesa, ovvero che per i dieci primi secoli interi la Chiesa non fu libera; nè cavillare qui giova, delle due cose l’una; il cattolico scelga. La rabbia crebbe nel re langobardo alla stregua, che la potenza scemò; Ferrara, Ancona, e Bologna contro la religione dei patti non restituiva, serbandole per addentellato a futura vendetta, od a suo totale esterminio; la morte amica gli troncò il travaglio di sopportare vita umiliata e cotidiana ignominia; lasciava ai successori una fiera eredità; nè gli eventi smentirono i presagi. — Sorse ad ambire la corona langobarda Desiderio duca di Toscana; gli emuli gli oppongono Rachis; ma la consegna delle tre città desiderate a patto che ricacci l’infesto monaco in convento: si compie l’accordo, e il monaco reale si rincantuccia, ma la morte irrigidisce la mano a Stefano mentre ei la sporge per agguantare la mercede; allora Desiderio al nuovo Papa la nega, o non si estimasse obbligato a mantenere a Paolo le promesse fatte a Stefano, o come credo piuttosto, perchè passata la festa si leva l’alloro. Ribollono le ire sacerdotali e non potendo ricattarsi con le armi, si dà mano alle frodi, arti nei principi, nei preti poi arti ed istinto, e riescono; sobillati i duchi di Spoleto, e di Benevento ribellansi; Desiderio discernendo il sasso dal balestratore si apparecchia a vendicarsi su Roma; il Papa spaventato ricorre da capo per sussidio a Pipino; ma questi reso inerte dagli anni non risponde, Paolo ne muore di rabbia; gli va dietro Pipino. Nuovi attori, e dramma medesimo. Totone, e Passivo duchi langobardi accorsi a Roma fanno eleggere Papa il fratello loro Costantino; ne piglia ombra Desiderio, il quale cospira con Cristoforo primicerio, e Sergio sacellario della sede pontificia; per tradimento di Grazioso custode delle carte Raciperto entra in Roma con la gente langobarda, e mettono le mani addosso a Costantino ed ai fratelli; i Romani riputandosi liberi aizzano a fare da Papa un pretocolo, Filippo, menandolo alla basilica lateranense in mezzo agli urli: «San Pietro lo elesse!» Può addirittura affermarsi che San Pietro non ci entrava per nulla, e così anco credè Sergio, il quale postosi davanti a Filippo gli disse: «che se non si riduceva al suo monastero e subito, guai a lui!» E l’altro mogio mogio rifece i passi verso il convento e più non parve fuori; allora dopo un gran tramestio fu eletto Papa Stefano siciliano figliuolo di Olivio, il quale cominciava a dimostrarsi vicario di Cristo strappando gli occhi e la lingua a Teodoro vescovo fautore di Costantino, e poi lasciandolo morire di fame e di sete nel monastero del monte Scauro; anco a Passivo svelse gli occhi; gli occhi e la lingua a Gracilis tribuno di Alatri amico al Papa deposto; Valdiperto sacerdote, che aveva messo su prete Filippo a farsi avanti pel papato, ebbe a scontare la colpa con la perdita della lingua, e degli occhi. Nè Costantino stesso la passò più liscia; a lui pure strapparono gli occhi, e moribondo per l’orrendo strazio lasciarono a rotolarsi nel sangue nella pubblica via. Il Fleury nella storia ecclesiastica ci assicura che questo Papa dabbene era stato in certa guisa alunno di Papa Gregorio III; se lo avesse avuto in delizia il carnefice che mai di peggio egli avria potuto commettere? In Francia a Pipino succedono i figliuoli Carlo, che poi fu detto magno, e Carlomanno. Stefano chiede a Desiderio le città promesse, e questi gli fa capire che innanzi di avere si ammannisca a rendere; allora Stefano si volta da capo in Francia, ma quinci tira un vento, che arruffa ogni suo concetto, imperciocchè i nuovi re, come suole, procedessero tra loro piuttosto avversi che emuli: affermano, che Desiderio facendo fuoco nell’orcio attendesse a mettere male fra loro e sarà, chè certo Desiderio stinco di santo non era; Bertrada madre, pensosa del presente, e spaventata del peggio si adopra ad accordare gli animi per via di maritaggi; abbia Ermengarda, figlia a Desiderio, Carlomagno sposa, e Adelchi, figlio di Desiderio, conduca in moglie Gisla sorella di Carlomagno; Papa Stefano puntando a mandare a monte ogni cosa notava simili nozze opera del demonio; contennenda e vile la stirpe langobarda, indegna imparentarsi con la illustre casa di Francia, odiosi a Dio i connubi con gente straniera male invocando la legge mosaica regolatrice della Chiesa di Cristo; e poi, egli aggiungeva, è celibe Carlomagno, ovvero vedovo? non è detto: che quello che Dio congiunse non deva separare l’uomo? Tuttavia il matrimonio di Adelchi giunse a frastornare il prete, questo di Carlomagno no; ormai le consuete minaccie, e i tiri pure consueti di scomuniche, di salute eterna perduta, di San Pietro supplice o riottoso non provavano più: ogni cosa si logora nel mondo, la paura ugualmente che il coraggio. Nemici potenti contro Desiderio erano presso il Papa Cristoforo e Sergio, come vedemmo promotori della elezione di Stefano, nè posavano un momento da assillarlo perchè Bologna, Ancona, e Ferrara consegnasse il re langobardo a Roma, il quale avendo per pecunia vinto Paolo Afiarto Camerario questi rese coi suoi tranelli sospetti Cristoforo e Sergio, per altra parte venuti a tedio al Papa per la troppa protervia loro: forse anco vegliava su cotesti capi la Provvidenza invendicata. Afiarto per terminare di abbattere gli emuli già crollati persuade a Desiderio venisse a Roma sotto colore di visitare la chiesa e la tomba dei santi apostoli extra muros. Desiderio accompagnato da fanti e da cavalli, dopo venerata la sacra tomba, fa ressa di essere accolto. Cristoforo, e Afiarto intorno al Papa; quegli per respingerlo, questi per ammetterlo; ciondolando il Papa l’uno e l’altro apparecchia le armi per isgararla di forza; il Papa di un tratto si consiglia recarsi egli medesimo a conferire con Desiderio fuori delle mura, e, invano dissuaso dal Primicerio, va: mentre favellano insieme querelandosi scambievolmente, il primo per la ingiuria della diffidenza mostrata, il secondo pel danno delle città non restituite, ecco giungere novelle che il Primicerio e il Camerario si accapigliano: nè la vittoria poteva pendere incerta parteggiando i Romani pel Camerario come quello, che inteso ad accordarsi con Desiderio sembrava assicurare a Roma anni di pace; il Papa agguindolato da Desiderio rientra sbuffando in Roma, ed intima a Cristoforo e a Sergio chiudansi in monastero o vadano a giustificarsi al cospetto suo e del re dei longobardi; poi gli abbandona in mano di Afiarto, che gli accieca; il padre ne muore, sopravvive il figliuolo per discendere nel sepolcro con morte più infelice in virtù del sacerdotale odio di Afiarto. Veramente Cristoforo e Sergio pagarono la pena del taglione, nè meritavano meglio; tamen i Papi sogliono in ogni caso e sempre manifestare a quel modo la propria gratitudine. E’ fu in mezzo al gaudio della lusinga di riavere le tre città ricordate, ed anco per ovviare ogni rinfacciamento a cagione dello strazio del Primicerio devoto alla Francia, che Stefano disdicendosi scriveva ai figliuoli di Pipino, Desiderio essere stato suo refugio, e porto di salvezza contro le macchinazioni del Primicerio, e degli aderenti suoi; Adelchi principe eccellentissimo; diritto nelle vie del Signore, che Dio conservi, avere puntualmente restituito alla Chiesa di Roma le giustizie di san Pietro. Però ei si era affrettato troppo a cantare alleluia, che Desiderio immaginando avere con la morte del Primicerio, e del figlio messo tal bietta tra Francia e Roma da non potersi cavare più si rifiutava alla consegna delle sospirate città; onde il Papa, tenendosi per uccellato, disdette le lodi, tornava ai vecchi oltraggi aggiungendone parecchi di nuovi. Il mondo è tavoliere dove la fortuna gioca le partite mutando ogni tantino i pezzi; muore Stefano, muore Carlomanno. Al Papa ostile ai Franchi subentra Adriano parzialissimo loro, e segno manifesto di mutata temperie fu prima richiamare dallo esilio, e restituire in libertà gli avversari dell’Afiarto; poco dopo bandiva gli amici di questo, quindi sotto pretesto di ambasceria spediva Afiarto a Desiderio, ma giunto a Ravenna ordinò lo sostenessero; colà lo processarono, e condannarono; Adriano, scrivono gli storici ecclesiastici, aborrendo dal sangue mandò celeri messi affinchè gli salvassero la vita, i quali non attesi da Leone arcivescovo di Ravenna mise a morte l’Afiarto con inestimabile amarezza di Adriano: ipocrisie vecchie non credute mai, e rinnovate sempre; i trasgressori si riprendono, e premiansi; qualche volta punisconsi per fingere meglio; ma a iniquo comando non mancò mai esecutore pessimo, che cupidità vince esperienza, e il fato che minaccia tutti nessuno teme per sè. Intanto volto appena l’anno Carlomagno repudia Ermengarda o per talento di nuove nozze, o, come si disse, per insanabile infermità della donna; al tempo stesso stende la mano sul capo dei nepoti dichiarando proteggerli; alla madre loro parve vedere in cotesta mano gli artigli di uccello grifagno, e fuggissi ricoverando co’ figliuoli nelle terre langobarde, e seco va Kunaud duca di Aquitania ribelle al re: inoltre o volontario o costretto Carlomagno in quel torno si travagliava nella guerra di Sassonia; questi tre successi forniscono a Desiderio causa, ed opportunità di vendetta, sicchè propone ad Adriano consacri re di Francia i figliuoli di Carlomanno, stringano lega insieme, e si abbia finalmente in premio Ferrara, Ancona, e Bologna. Adriano non dà nella pania, ed era cosa vulgare guardarsene: senza fede Desiderio, vicino, e cupido di primato sopra la universa Italia, Carlomagno lontano, cupido anch’egli, ma travolto in perpetue imprese, e distratto dalle cure di vastissimo impero: Adriano preferì questo, ed inviò messi a Carlomagno svelandogli le insidie; profferendosegli isvicerato, e forte eccitandolo a scendere in Italia per tutela della Chiesa, e di sè; Carlo commosso dal pericolo raccolto l’esercito si presenta allo sbocco delle Alpi, che trova sbarrato alle Chiuse di Susa. Qui tradimento vinse virtù. Che approdò ad Adelchi armato di mazza di ferro avventarsi sopra l’esercito dei Franchi menandone strage? E che avere ridotto Carlo a tale che ormai disperato di superare le Chiuse pel giorno prossimo deliberava la partenza? Martino diacono di Ravenna perigliandosi traverso le Alpi giungeva in tempo per additare ai Franchi un sentiero sconosciuto e indifeso; di lì passò parte dello esercito nemico, il quale colto i Longobardi alle spalle, mentre gli altri gli assalivano di fronte li mandò in rotta. Vel dissi già e lo ripeto adesso, se le chiavi del Papato valgano ad aprire il paradiso ignoro, o piuttosto so che non l’aprono, ma questo altro è certo, che la tradita Patria esse aprirono allo straniero; lascio le chiamate dei Papi che non contenti di aprire le porte ai Franchi, c’intromisero le bestie di Lamagna, e perfino i Saraceni; ma oltre Martino diacono guidatore dei Franchi per le Alpi la storia rammenta un Patriarca di Aquileia, e il vescovo di Bressanone entrambi scorta nequissima dei duchi di Austria nel Trevisanato, e nel Cadore. La corruzione, e l’astio d’accordo col tradimento minarono il dominio langobardo. Desiderio preso a Pavia mandasi prigione al monastero delle Corbie in Francia; Adelchi scampato alle armi franche, ed alle insidie più mortali dei suoi ripara in Costantinopoli; cascano in mano di Carlo la cognata, e i nipoti; nè altro fu udito di loro; agli storici tutti cotesto silenzio sa di sangue; solo al Manzoni tenerissimo di Carlo perchè pupillo del Papato piace diversamente; mostrando ignorare ch’è grande l’ombra del trono per coprire delitti; e il tremore tace, mentre la piaggeria per poco che ne abbia argomento india i potenti anco scellerati. Carlo richiesto di confermare la donazione di Quierey lo fece riservandosi l’alta sovranità sopra le terre donate alla Chiesa; non che il diritto di confermare la elezione del Papa. Gli storici chiesastici sostengono questa seconda donazione più ampia della prima, e non pare, almeno a giudicarne dalle lettere di Adriano a Carlo nelle quali muove perpetua querimonia ora di città non consegnate, ed ora di signoria angusta, e contesa. Il Papa, non più era Adriano, bensì Leone, ma non fa caso; mutansi Papi come cavalli di posta, il carro prosegue il suo viaggio. Contro lui si levano i nipoti di Adriano chiamandolo a morte; per ventura, malconcio e rotto della persona, ripara nel convento di santo Erasmo; quinci cauto si parte, e va in Germania i suoi devoti artatamente spargono il grido che privo dai nemici di occhi e di lingua per divina intercessione gli aveva ricuperati. Leone e Carlomagno conferirono insieme a Paderborn, e stabilito quanto era da farsi tornano di conserva in Italia: da prima il re convocati i Romani intima loro ad esporre le accuse contro Lione, e giudicarlo; di faccia ai ferri parati a tagliare la gola a cui si attenta dire, gli accusatori tacciono, i giudici dichiarano non potere giudicare chi Dio pose giudice a tutti; ma Leone con gran voce esclamò: aborrire ogni privilegio volersi purgare, l’avria fatto il dì veniente; alla dimane salito in bigoncia stese la mano su gli evangeli e si affermò innocente delle colpe appostegli dai Romani. Tanto bastò, e pel: rotto della cuffia E’ se ne uscì più chiaro della stella. I preti intonarono le litanie, laudando Dio, la Vergine, e i Santi. Venuto il giorno di natale il re dopo avere udito messa si conduce a piè dello altare per farci orazione (non si sa chi lo impediva di pregare Dio dal suo posto); mentre sta per rialzarsi il Papa gli pone sul capo la corona gemmata, e sopra le spalle il manto di porpora dando la intonatura al popolo che con triplice grido esclamò: «A Carlo Augusto coronato dalla mano di Dio, grande, e pacifico imperatore dei Romani vita, e vittoria.» Dopo gli urli il Papa gli si buttò in ginocchioni davanti e lo adorò riconoscendolo per suo sovrano, poi lo unse, insieme al suo figliuolo: Carlomagno offerse subito a san Pietro due tavole di argento, e calici, e patene con altri arnesi di religione, che valsero un tesoro; e per istare in pace con tutti di preziosi doni presentava altresì san Paolo, san Giovanni Laterano, e santa Maria maggiore. Eginardo nella vita di Carlomagno racconta, ch’ei fu colto alla sprovvista; della sua incoronazione sapeva nulla; se avesse potuto addarsene saria rimasto piuttosto senza messa; nè sonano diverse le altre vite di Carlomagno, chè gli uomini quantunque storici, anzi soprattutto gli storici appaiono pecore per andare uno dietro l’altro senza nè sapere, nè curarsi sapere lo perchè. Carlomagno grandissimo tra i potentati del suo tempo non sembra che avesse a contentarsi di dignità inferiore ad altro principe; questo sempre molestamente avrebbe patito, ma poichè buona parte di terra aveva acquistato a danno dello emulo nè anco era prudenza non mutare sembianza all’autorità; il Papa eziandio trovava vantaggio nel baratto, chè di vassallo diventava quasi pari, e il tempo, e la occasione gli avrieno fornito il destro di levare il quasi: cose ventilate o ferme erano quelle fino da Paderborn; e di vero non si comprende come a Roma, stanziandoci Carlomagno, si fosse potuto mandare a partito il senatoconsulto per eleggere costui imperatore di occidente tra clero, senatori, e popolo romano senza che egli ne pigliasse fumo; e se impreparato era come presentò subito san Pietro e gli altri con doni solenni premio di eccelso favore, molto più che altri afferma la mercede due cotanti più ricca e parla di 500 lib. di oro donate a san Pietro, una corona di 50 lib. di oro tempestata di gemme la quale mercè di catena parimente di oro appese davanti l’altare del medesimo santo, calici di oro di lib. 22; dello argento non si parla nè manco. Il Papa si genuflesse una volta onde altri gli s’inginocchiasse sempre; vendicò la umiliazione di essersi prostrato ai piedi altrui col costringere gli altri a baciare i suoi. Su questo fatto più tardi aggiungeremo parole; intanto mira sotto il piviale del Papa coprirsi la usurpazione di uno zio delle sostanze degli orfani nipoti, e la ribellione di un prete contro il suo legittimo principe. La Chiesa esaltò fino al cielo Carlomagno, anco lui ebbe nome di vescovo dei vescovi; morto lo scrisse sopra l’albo dei santi; vagliamolo, e miriamo un po’ che rimanga di lui dinanzi la storia; egli persecutore del suo sangue, ladro, forse assassino dei proprii nipoti: sotto pretesto d’infermità rimanda a vituperio Ermengarda; e ch’ei fosse mendace lo manifesta Adelardo suo cugino germano, il quale sdegnato del ripudio della innocente Ermengarda, e mal patendo vedersi dinanzi agli occhi un’adultero imperiale si ridusse frate nel monastero delle Gorbie: rotto alle libidini così, che non pago di quattro mogli traeva seco anco quattro concubine: che più? Lo dico, o lo taccio? Lo dirò perchè vie più la gente apprenda che pelo abbia vestito sempre il prete di Roma; correva fama nella sua propria corte ch’egli con incestuosi concubiti si mescolasse con le proprie figliuole; che da lui si dilungassero non pativa, qualunque partito di nozze respingeva, e perchè non le pigliasse il tedio con infame connivenza tollerava che di ogni sozzura si contaminassero. Tanto narra Eginardo nella vita di Carlomagno quantunque segretario di lui. Papa Leone si prostra dinanzi a Carlomagno e parve vile; più tardi il Papa ordinò la gente gli baciasse genuflesso il piede, e fu superbia satanica: afferma il Baronio cotesta essere costumanza antica nella Chiesa fino dall’anno 204 dopo G. C., e non è vero niente; se Maria Maddalena unse i piedi a Cristo, e lo adorò, essendo stata costei di professione meretrice non poteva mai umiliarsi troppo; ed anco per lei l’atto fu giudicato soverchio, nè tale che da Gesù dovesse patirsi, e non lo tacquero; il Papa ne prese l’uso dalle cerimonie, che i Romani inschiaviti adoperavano verso gl’imperatori; di vero Plinio nel Panegirico ricorda come fosse lodato Traiano perchè baciasse amorevole i senatori, mentre i suoi predecessori davano loro a baciare i piedi: forse temendo, che qualcheduno reluttante negasse curvarsi al bacio, il Papa sovrappose la croce alla scarpa; e così sempre la croce manto a coprire ogni reo intento; la croce calce ad imbiancare senza posa il sepolcro. E più di questo merita nota il modo stabilito da Carlomagno per la elezione del Papa, il quale veramente altro non fece che confermare l’antico quando gl’imperatori greci dominavano Roma; il popolo e il clero lo eleggessero, lo imperatore approvasse, e poi si consacrasse; ma così ustolava il Papa per la voglia di stendere le mani, che Stefano IV succeduto a Leone senza attendere la conferma dello imperatore pigliò possesso della sua dignità; biasimato, incolpava la impazienza del popolo; ma Pasquale che gli subentra adopera nella medesima guisa, ed ammonito con la scusa medesima si difende; ma tanto è, di lì aveva a passare; e quantunque Eugenio II e Valentino Papi avessero ad ottenere prima della sagra l’approvazione imperiale tuttavia nella formula del giuramento di fedeltà, che in cotesta occasione pronunziava il popolo verso lo imperatore posero di straforo la clausula: «salva la fedeltà promessa al Signore Apostolico.» Di questa clausula messa lì come un serpe assiderato si valse Papa Gregorio IV aizzando i figliuoli di Ludovico il Pio contro il padre loro, in ispecie Lotario; gli contaminò l’esercito, lo costrinse a fare pubblica penitenza, confessando certa lista di peccati, dettata dal Papa, gli tolse il nome e l›autorità e d›imperatore; da ciò Sergio II trasse argomento di emanciparsi facendosi consacrare senza la conferma di Lotario, il quale sovrano essendo, bene intendeva lo sovvenissero i preti a ribellarsi al padre, non intendeva i preti si ribellassero a lui: ond›ei mandò l›esercito a Roma col suo figliuolo Luigi per mettere il Papa a partito; che su le prime voleva fare e dire, ma trovato il terreno duro ebbe a scolparsi davanti al concilio, il quale dopo lunga ambage ne confermava la ordinazione a patto, che egli, e il popolo rinnovassero il giuramento di fedeltà a Lotario. I discendenti di Carlomagno, come se eredi del peccato dei padri dovessero portare il peso delle loro iniquità, si odiavano a morte, l›uno contro l›altro combattendo si dilaniavano, il Papa in mezzo, ora soffia di qua, ora di là e mangia i frutti del mal di tutti; della debolezza altrui ingagliardendosi, mettendo il piè dove altri lo ritraeva, intero, fermo, procedente come il destino inflessibile in breve troviamo avere condotto tanto oltre l’edifizio della sua prepotenza, che ormai più poco gli manca a mettere il tetto. Niccolò I 15 anni dopo Sergio bandisce potere la Santa Sede disporre a suo libito delle corone però che i principi non fossero atti allo esercizio della loro potestà senza la sagra del Papa; vietava al clero giurare vassallaggio nelle mani al principe; la Chiesa romana si affermava giudice universale: 1. in materia di scritti — 2 — in tutte le cause ecclesiastiche dell’universo in prima istanza ed in appello — 3 — su le leggi civili da approvarsi in quanto si accordavano co’ canoni, se no da respingersi — 4 — intorno alla condotta dei principi a fine di laudare gl’incolpevoli, e deporre i rei. E’ fu in grazia di siffatta potestà venutagli proprio da sè, che intimava il re Lotario ripigliasse a sua legittima sposa Teutberga, e ripudiasse Valdrada non moglie ma adultera; rispondeva Lotario avere licenziato Teutberga avendone ottenuta licenza da due concili di Aquisgrana, e di Metz, i quali non solo ne avevano conosciuto, ed approvato le cause, ma la stessa Teutberga, più volte liberissima, e scongiurata di palesare il vero lo confessava; e le cause erano gravissime; prima di tutte avere ella commesso incesto con Uberto suo fratello chierico di perduti costumi: anzi ella medesima mandava lettere al Papa con le quali protestava sentirsi sazia del mondo, volere ridursi a vita di continenza; le nuove nozze del re con Valdrada di suo pieno consenso; perchè le sturberebbe ella per lunga prova infeconda? avere fatto disegno di recarsi a Roma per aprire al Papa i suoi segreti affanni. Questa ultima profferta e’ sembra che avesse dovuto accettarsi come il miglior partito per iscoprire il vero; ma non fu così; Niccolò riscrisse: la sua testimonianza non valere niente; non permetterle il viaggio di Roma; il suo posto allato al marito; la sua sterilità non dipendere da lei, bensì dal marito (il Papa, non potendo egli trovarsi sotto il letto degli sposi, lo avrà ricavato dallo Spirito Santo). Ad ogni modo se desidera vivere in continenza non le si nega; basta, che Lotario prometta osservarla egli stesso cominciando dal rimandare Valdrada. I concili di Aquisgrana e di Metz come conciliaboli dannò, dei vescovi, che ci avevano preso parte, alcuni ritolse in grazia, altri punì. Morto Niccolò e subentratogli Adriano, Lotario gli si volse umilmente supplicandolo essere accolto nella comunione dei fedeli, gli concedesse l’andata a Roma: ottenuta licenza, andò: veruno gli si si fece incontro, e fu costretto (questo ricordano gli storici chiesastici con esultanza) a ripararsi dentro certo albergo assegnatogli fuori delle mura, vicino alla Chiesa di San Pietro, il quale non era stato manco spazzato: negarongli la messa; solo dopo alquanti dì il Papa lo ammise dentro Roma, e dicono, gli amministrasse la eucarestia unicamente dopo che gli ebbe fatto giurare, che aveva osservato il comandamento del Papa Niccolò di astenersi da ogni commercio con la concubina Valdrada, ed essere risoluto di ora in avanti di rompere qualunque vincolo con lei; dicono altresì che Lotorio giurasse; e se questo accadde merita biasimo meno lui che lo pronunziò, che quello il quale lo costrinse a prestarlo. — Nè verosimile era per altra parte, che Lotario si fosse astenuto da conversare con Valdrada; le cose vietate tanto più appetite; e tranne il divieto del Papa lontano chi valente a impedire il re? Gli stessi vescovi del suo regno affermavano il divieto papale tirannide; la prima moglie non dissentiva le seconde nozze a Lotario. Ora quello intimargli alla sprovvista in pubblico così strano giuramento sotto la impressione della paura di trovarsi respinto di chiesa o non è vero, o fu estorto per potere infierire sopra la memoria del re, che morto indi a breve in Piacenza di febbre maligna Adriano bandì ciò essere avvenuto per castigo di Dio dello spergiuro commesso poco anzi da Lotario prima di ricevere l’ostia consagrata. Lo scisma della Chiesa di Oriente prese inizio nel pontificato di Niccolò, in quello di Adriano crebbe, nè mai più le Chiese in modo durevole accordaronsi, nè possono: cause apparenti, e fino ad un certo punto vere, la cocciutaggine greca a non consentire la procedenza dello Spirito Santo dal padre, e dal figliuolo; le nozze legittime vietate dal Papa ai preti; la disputa se Dio il pane azzimo o piuttosto il lievitato aborrisse; il digiuno settimanale; il sangue degli animali per cibo agli uomini reietto o no; i latticini permessi o vietati la prima settimana di quaresima; l’anello, la barba; il battesimo amministrato mercè la effusione dell’acqua, o per via d’immersione, ed altre cosiffatte cianciafere, arzigogoli, e ciammengole; e così affermo; perchè eccetto il celibato, ch’è cosa seria, delle rimanenti parrebbe avesse dovuto reputarsi dal Papa faccenda suprema quella dello spirito santo, e non ne fu niente, imperciocchè la disputa non si accese mica subito tra i Greci e i Latini, bensì tra Greci e Franchi. Leone III lasciava, e persuadeva Carlomagno a lasciar correre; ma Carlo qui si palesava prete, Leone uomo di stato: troppo più della procedenza dello spirito santo premeva a lui che i Bulgari si dichiarassero soggetti alla romana, e non alla greca giurisdizione; proprio per non guastarsi per causa di lana caprina Leone concesse che al Credo aggiungessero il filioque; ma questo si ponga in sodo che non prima del 1274 il concilio di Lione ordinò che il filioque ci aveva a stare come articolo di fede; e chi negasse: allo inferno; e così sia, ma tu pensa, che per 1274 anni i Cristiani andarono in luogo di salute senza credere che lo spirito santo procedesse anco dal figliuolo, ovvero traboccarono a casa del diavolo per colpa dei Papi che avevano a parlare chiaro, e invece gingillarono quasimente 13 secoli senza sapere che pesci pigliare. Causa vera dello scisma l’odio antico dei due popoli, impazienti entrambi di servire, entrambi cupidi di dominare; l’uno superbo dell’antica, e l’altro della nuova sede imperiale; ambedue guasti dalla vana scienza donde la presunzione, e il sofisma. Da prima a Costantinopoli prevalse Ignazio amico a Roma, poi Fozio infestissimo; da capo Ignazio galleggia con esultanza infinita di Adriano II, il quale bandisce Ignazio santo e lo imperatore Basilio scellerato omicida del suo benefattore, Michele III non ascrisse all’albo dei Santi, ma ci mancò un’ette; e così durò finchè egli visse; lui morto torna in fiore Fozio per tracollare senza riaversi più una seconda volta: ma o corte, o popolo, o Ignazio, o Fozio accordavansi tutti nel respingere il primato latino: i ministri del Papa furono vilipesi e sostenuti in carcere; la Bulgaria congiunta alla Chiesa di Bisanzio; di Spirito Santo non si parlò più; i Papi arrovellandosi ingrossano i bargigli; alla stregua inviperiscono i Greci; di contumelie un diluvio. Quando l’accetta dei Normanni si piantò diritto nel cuore della Puglia, e Roma si accordò con loro ad ungerla coll’olio santo a patto di fare a mezzo, il Patriarca Michele Cerulario greco ebbe a sgombrare da cotesta contrada; ma in partendo ammoniva il gregge ad aborrire le romane eresie; il Papa di rimbecco spedì fino a Costantinopoli i suoi legati per iscomunicare il Cerulario, i quali di fatti andarono e deposero l’anatema sopra l’altare di Santa Sofia; le formule si conoscono; oggi mettono la gente di buono umore, allora facevano drizzare i capelli; dopo coteste ingiurie atrocissime, talora, secondo la necessità stringeva, Roma si accostava a Costantinopoli, o questa a quella, ma ognuno stava fisso al chiodo, massime poi, che la temeraria improntitudine dei Papi contro i Reali di Lamagna sbigottì i Reali di Costantinopoli. Nè sotto questo Papa audacissimo la scomunica si tenne nel cerchio delle cose spirituali; bensì proruppe fuori fino a scomunicare Carlo il Calvo là dove si fosse attentato impadronirsi del regno del suo nipote Lotario; ma gli si rivoltorno contra con maniere e più con parole acerbe parecchi vescovi francesi, tra i quali Incamaro arcivescovo di Reims lo riprese con questi sensi, che voglionsi raccomandati alla meditazione di chi legge: «la conquista dei regni della terra si opera in virtù di armi, e di vittorie non già con le scomuniche dei vescovi e dei Papi; nè tu puoi essere ad un punto vescovo e re e i predecessori tuoi hanno retto la Chiesa non già lo stato.» Ed aggiungeva per ultimo: «il Papa non ci darà mai ad intendere, che ce ne andremo allo inferno se respingiamo il re ch’ei ci vorrebbe imporre sopra la terra.» Ma il Papa vie più s’intorava, e ribellava il vescovo di Laon contro Carlo suo zio, nè, secondo il costume, osservando regola o misura il proprio figliuolo gli aizzava contro; a questo modo infranti i vincoli che la natura e Dio posero tra gli uomini di un tratto il Papa si volge blando allo scomunicato e si profferisce pronto a riconoscerlo imperatore. Donde la causa della stupenda voltabilità? Luigi II cadeva infermo di male di morte; niente più Adriano aveva a sperare da lui; tutto a temere da Carlo: qui il panno mostrava la corda; di Cristo non già, di Mammone vicario il Papa. Il fine a cui mira questo epitome delle usurpazioni ecclesiastiche non desidera la storia di Giovanni VIII, che per danaro incorona Carlo il Calvo imperatore; non delle guerre tra Carlo e Carlomanno figliuolo di Luigi il germanico; non delle violenze esercitate dal Papa a’ danni della stirpe di Carlomagno benefattore dei preti; e non delle troppo più maligne insidie di lui; solo avverti come Giovanni, mentre atterrito dalle armi di Carlomanno lascia a precipizio Roma per ripararsi a Troyes, e colà raccolto un Concilio promuove la dottrina del primato del Papa, e dei vescovi sopra tutti i principi della terra, con supplicazioni raumilia Carlomanno, ed ottiene da lui l’ufficio di vicario imperiale nella Lombardia. Passano parecchi Papi senza infamia; unico vanto; viene Formoso scelleratissimo, il quale oltre i Saraceni chiamò in Italia Arnolfo alemanno per contrapporlo a Berengario; dopo morto, i suoi nemici ne cavano dallo avello il cadavere, e spogliatolo dello ammanto pontificio, e mutilato delle dita lo precipitano nel Tevere, donde lo estrae Gregorio IX, e lo restituisce alla cristiana sepoltura. Stefano VI, che menò strazio sì disonesto di Formoso è strangolato, poi a sua posta torna in onore, mercè Sergio III. Corriamo in fretta, ed in punta di piedi su questo moticcio di fimo, e di sangue, che si chiama papato; invano l’ornarono, anzi l’oppressero di titoli santi, e di cerimonie splendidamente religiose; egli è uno spargere acqua nanfa nella stanza mortuaria. Due meretrici danno, e tolgono il pontificato ai loro bertoni, e talora col pontificato gli tolgono la vita. Benedetto IV regna pochi mesi; pochi giorni Leone V, cacciato da Cristoforo, il quale a volta sua, dopo sette mesi, si trova sbandito; e non è il peggio. Marozia consacra papa Sergio III, e Teodora Giovanni X; ma la Marozia soffoca co’ guanciali Giovanni bagascione della madre Teodora: e dopo Leone VI e Stefano VII ovvero VIII di così brutte ferite cincischiato dai Romani, che egli per colpa della sua deformità non si attentava di comparire in pubblico. Marozia con le sue benedette mani accomoda sopra la cattedra di san Pietro il proprio figliuolo Giovanni avuto da lei adulterando con papa Sergio III: e fu infelice consiglio per ambedue, imperciocchè Alberico figlio legittimo di Marozia, lei e il turpe fratello imprigionati, quantunque non papa regge da principe Roma. Nè questo Alberico si contenta disfare Papi, ma presume farli altresì; di vero suo figlio Ottaviano, che primo mutò nome, fu eletto papa e si chiamò Giovanni XII; di lui sappiamo questo, che fino di Sassonia aizzò contro Berengario re d’Italia lo imperatore Ottone; questi però, nonostante la grazia in cui teneva Giovanni commosso dalle molteplici e tutte infami accuse, raduna una sinodo a Roma e lo cita a comparirvi per dire sue discolpe; ma costui fugge in Anagni, e s’inselva a guisa di fiera. La Sinodo lo depose: moltissime le accuse fra le quali precipue, avere ordinato un diacono nella stalla, ed un vescovo di dieci anni, come pure celebrato la messa senza comunicarsi; vivere in concubinato con tre donne, una delle quali già concubina del padre suo; tolto gli occhi a Benedetto compare, i genitali a Giovanni Cardinale; darsi a cacce come selvaggio; comparire di tutt’arme armato al pari di masnadiero; sprofondarsi in commessazioni in compagnia di male femmine; bestemmiare peggio di un’eretico: il matutino omettere, le ore canoniche non recitare!.. E così durò, finchè Ottone rimase, voltato, ch’ebbe le spalle; Giovanni rientra in Roma; una sinodo, aveva deposto lui, un’altra sinodo depone Leone, che fugge senza voltarsi indietro per riparare presso Ottone; quivi muore, e gli va dietro Giovanni Papa, morto come si disse di una solenne batosta sul capo datagli dal demonio; ma come fu vero da un marito, il quale coltolo nel letto con la propria moglie gli spaccò il cranio. Benedetto V eletto senza licenza di Ottone si confessa in fallo, e risegnato l’ufficio fugge via; col favore di Ottone torna Giovanni XIII ferocissimo, il quale per vendicarsi del bando a cui lo avevano condannato i Romani decapita il prefetto, e dodici tribuni, con atroci strazi lacera parecchi maggiorenti fra i cittadini; lui cessato ritorna in ballo Benedetto per farsi strozzare da Bonifazio VII, il quale all’omicidio aggiungendo il furto spoglia le chiese di Roma, e va in Costantinopoli, donde partitosi in breve mette le mani addosso a Giovanni XIV assunto al pontificato nella lontananza di lui, e lo fa morire di fame. Ora i Romani, vinta la pazienza, condotti da Crescenzio, si ordinano a repubblica; lui eleggono console; Gregorio V rimena in Italia Ottone tedesco, e disfatta la repubblica, tronca il capo a Crescenzio; contra la religione del patto di morte atroce fa morire Giovanni, assunto papa mentre egli stava lontano a macchinare col tedesco Ottone la servitù della Patria. Siamo giunti al decimo secolo, e vedemmo fin quì come i diritti della Chiesa altro non sieno se non delitti; e tuttavia qui pongono i preti la sorgente del carico divino di reggere il mondo, ed imperare su Roma, per cui cedere un’iota, o comporsi in pace con la cessione della minima tra le prerogative loro non possono: bene reputano i preti i nostri uomini di stato ignoranti, nè veramente hanno torto (almeno ai dì nostri); in antico era diverso, però Napoli, in Toscana, e a Parma, in Torino no, dove per piacere al prete di Roma si dannava a morire in carcere Pietro Giannone proditoriamente arrestato, e iniquamente tenuto. Pronunziando Baronio cardinale alla santa sede devotissimo la sentenza di questi primi dieci secoli dichiara così: «avrebbero meritato il diluvio di fuoco di Sodoma;» e poc’oltre, come chi da necessità costretto confessa a malincuore, soggiunge: «mostri i Papi, o piuttosto falsi Papi, di cui i nomi rammentasi per non lasciare lacuna nella sequela dei Pontefici, però non si creda mica, che la Chiesa restasse senza capo; mai no; Gesù Cristo stesso la regolava» Così il dabbene cardinale parlando a questo modo si dà della zappa su i piedi; imperciocchè verrebbe a persuaderci due cose; la prima, che quando Cristo prende da sè le briglie in mano non vanno meno peggio le faccende dei preti, ch›è quanto dire non potersi in guisa alcuna governare la Chiesa; e l›altra superflui, anzi dannosi alla Chiesa i sommi Pontefici, se pure è vero che Cristo governa quando escono Papi o scellerati, o ciuchi. Ma ora chiariremo se la sentenza del Baronio accordi con la verità. I costumi, e le arti della meretrice Marozia sembra, che assai si confacessero alla Chiesa di Roma, però che la sua discendenza cestisse ottimamente in mezzo a lei. Dalla sua famiglia nacque Benedetto VIII, il quale non potendo in altro modo vincere il fratello, e il figliuolo di Crescenzio, restauratori della repubblica romana ricorse ad Arrigo di Baviera, barattando la incoronazione di e costui a imperatore con la servitù della Patria; pessimo costui in tutto così, che corse fama in quel tempo essere stato sempre vivo dannato alle pene eterne dello inferno. San Piero Damiano nella vita dello abate santo Odilone racconta, che dopo morto, fu vista la sua anima da un santo vescovo cavalcare sopra un cavallo nero per luoghi romiti, e domandandole questi perchè cagione così dopo morto andasse sopra il cavallo nero cavalcando, quello rispose: il danaro sparso per elemosina ai poveri non avergli approdato avendolo con rapina raccolto; ne troverebbe il santo vescovo altro in certo luogo nascoso, lo pigliasse, e lo donasse per amore di Dio, e questo gli avrebbe fatto gran bene però che da buona fonte venisse. — Anco i santi non isgabellavano papa Benedetto VIII; nè di lui migliore il fratello Giovanni XIX, che gli successe comprata a bei contanti la Vicaria di Cristo, e questo attestano non che altri gli stessi scrittori chiesastici: egli incoronò imperatore Corrado il Salico, e gli fu servo per dominare spietato; sempre con l’oro, e per questa volta, anco con un po’ di violenza: a Giovanni successe il nipote Benedetto IV fanciullo di anni, e d’infamia provetto; cacciato dai Romani, che eleggono in sua vece Silvestro III, egli rientra in Roma per forza di arme, dove dimorato alquanto, trovando increscioso il papato, anch’egli a sua posta per ridursi a vita quietamente vituperevole vende vicariato di Cristo, doni dello spirito santo, infallibilità, e ogni cosa per un sacco di ossa a Gregorio VI. Dunque da ciò arguisci, che vissero eziandio Papi i quali non che cedessero parte dei male acquistati beni venderono altresì il sacerdozio; ed anco questo si confessa dagli storici cattolici, solo si aggiunge, che in pena dello errore commesso, la giustizia eterna dannasse l’anima di Benedetto a vagare sopra la terra in sembianza mostruosa e piena di spavento; su di che mi stringo a dire come anco questa la racconti san Piero Damiano; e i santi godono il privilegio di misurare le melensaggini con lo stato. Dicono, che Gregorio non sapesse fare nè manco un’o con la canna, e questo è poco male; peggio questo altro, che anch’egli assai si dilettasse usare il breviario del cardinale di Retz: fatto sta, ch’ei si tolse un coadiutore; perciò, oltre il coadiutore, Roma si godè ad un tratto tre Papi, Benedetto IX, Silvestro III, e Gregorio VI; i Romani potevano lamentarsi di manco di pecore, non già di pastori. Dopo parecchi Papi giunge al pontificato Leone XI nel quale riarde il concetto della primazia sopra tutti i petenti della terra; costui fu tedesco, e mandato dallo imperatore Arrigo a reggere Roma; per arruffare ei piglia il partito dei vescovi francesi convocati a Reims contro il re Enrico; poco dopo si conduce a combattere contro i Normanni; le profferte di questi respinge, ed ingaggiata battaglia prova nemica la fortuna del giorno; di tumido fatto codardo piange, e trema: ai Normanni par bello, forse anco utile,possedere consacrata dal vicario di Cristo la terra rapita a taglio di spada. Qui facciamo sosta ai racconti ed ai fatti esposti ingegniamoci cavare alcuna considerazione profittevole al nostro assunto; e innanzi tratto raccomando al lettore tenersi sempre a mente come per me si ricerchino gli annali ecclesiastici pel fine di chiarire quale abbia davvero il Papa diritto sopra le terre che accora con la mala signoria, e se cotesto suo non possumus concedere che i popoli rimangano consolati da meno reo governo sia tanto bugiardo quanto stupido. Non si nega, che principi barbari ricorressero a Roma meno per decidere piati, che per santificare delitti; e questo i Papi fecero sempre purchè il colpevole fosse il più forte, e nel pagamento della consacrazione del misfatto non istesse su lo spiluzzico. La primazia usurparono i Papi con fraude, e con menzogna non già con luce d’intelletto, Roma antica vinse col ferro proprio, Roma papale col ferro altrui, e l’aspersorio di proprio: che scienza ebbe Roma? Certo superiore a molti barbari, ma non a tutti; e poi ella usò la scienza per rabbaruffare la gente in un pruneto di errore. Nulla in lei viene dal cielo, e nulla dalla potestà terrena, quando mai questa ultima valesse a vendere, o a donare popoli come greggi, la quale cosa risolutamente si nega. Circa a fede, il Papa, in questo successore genuino di San Pietro, ne dubitò, rinnegò Cristo, e non confidando più nella virtù della dottrina (noi lo mostrammo) si appoggiò alle daghe di Costantino, nè a lui solo ma bensì ad altri come Teodosio il grande, e Valentiniano III, entrambi i quali misero il catechismo nelle mani ai littori, e reputarono la carcere più efficace a convertire del pulpito. Non contenti di tanto i Papi (anco questo abbiamo detto) fecero condannare a morte chiunque non credesse come loro. Dice bene il de Maistre, che il Papato nei secoli di mezzo tramandò luce; però tacque ch’ella fu luce di fascine. Da Costantino è menzogna che il papa avesse doni; nè si prova gli avesse da Pipino, e da Carlomagno; almeno documenti scritti, e conosciuti autentici s’ignorano: ad ogni modo non gli conferirono assoluto dominio; di fatti Carlomagno ed i suoi successori vediamo esercitare nelle provincie pretese donate al Papa sovrana autorità, come crearci giudici, ed annullare confische decretate dal Papa. La Chiesa di Roma prima lusinga i greci imperatori, poi li tradisce, e sè avvantaggia; sta un pezzo co’ Longobardi, e quando li teme, dentro li scalza con la ribellione, di fuori spinge loro addosso i carlovingi; balenando questi, si volta ai tedeschi Corrado, ed Enrico. E se i Papi poterono mostrarsi riottosi contro i degeneri re dei Franchi fino a deporre i vescovi eletti da questi, ed altri eleggerne a modo loro, e se di fronte agl’inviliti carlovingi farsi dichiarare dal Concilio di Reims sovrani assoluti della Chiesa universale deve attribuirsi a questo, che l’imperatore Enrico tenendosi sotto come vassallo il Papa riputava tornasse in pro suo il credito che egli si andava, come suo vassallo, acquistando; e veramente per un tempo fu così. Nelle costituzioni imperiali occorre un’atto in virtù del quale il diritto di Carlomagno a eleggersi un successore, e a nominare i Papi di Roma si trasferisce insieme agli altri, in Ottone, e negl’imperatori tedeschi; tale documento per giudizio universale si reputa apocrifo; e sembra, che gl’imperatori abbiano voluto contrastare ai Papi il privilegio di fabbricare carte false; ma se apocrifo hassi a tenere cotesto atto, certo è poi (e fu accennato poco anzi da me) che Enrico nella sinodo di Sutri depose tre Papi e promosse al pontificato il vescovo di Bamberga; certo del pari è, che lo imperatore pregato o no designava il Papa, e certo altresì che quattro Papi tedeschi uno dopo l’altro per suo comandamento furono esaltati alla sede apostolica, senza pregiudizio della parte, che come di ragione, deve averci preso lo spirito santo. Clemente II di Bamberga, Meone IX dei conti di Daipurg, Damaso II e Vittore II bavarese. Grande l’autorità degl’imperatori però che essi eleggessero a tutti gli uffici ecclesiastici: ed era costume dei capitoli, cessato il superiore, rimandare l’anello e il pastorale al principe, che li consegnava in simbolo della autorità ecclesiastica al nuovo scelto; sovente lo imperatore come colui che poteva, o credeva potersi fidare in uomini a lui devoti, gli armava di autorità temporale che unita alla spirituale forniva maraviglioso fondamento alla propria potenza. I Papi ci si accomodavano e, come suol dirsi, bevevano grosso, perchè co’ Tedeschi andava un nugolo di monaci e di frati che nei paesi conquistati rizzavano su fondaco di religione dando in baratto di poco bene terreno fattorie e poderi a bizzeffe nei regni sterminati del paradiso: vescovi e abati acquistavano titolo, e dritti di conte ed anco di duca; non più si dichiarava i beni ecclesiastici formare parte delle contee, ma sì all’opposto le contee parte dei vescovati; nella Italia settentrionale le città quasi tutte governate dai visconti dei Vescovi. — Ora questo stato di cose non poteva durare, chè non si vide mai mantenersi vassallo chi, volendo, può diventare signore, e la spada messa in sua mano perchè ti difenda presto o tardi egli adopererà per soverchiarti; così mostra la esperienza a tutt’oggi; se fie per mutare domani staremo a vedere. Sotto Leone riarse (e non poteva fare a meno avendo al fianco consigliere il monaco Idelbrando da lui promosso al cardinalato) lo scisma di oriente; molte le cause, tra cui comparisce massima quella di comunicare col pane lievitato, ma in fondo tutte erano velo alla cupidità del Papa e del Patriarca di soperchiare l’uno l’altro; però secondo possiamo conoscere sembra, che il Patriarca Michele Cerulario si contentasse essere lasciato messere e donno in casa sua; ma Papa Leone non glielo consentiva; nè a torto però che i suoi predecessori avessero fatto tanto tramestio per conseguire il primato, che ormai gli pareva non gli potesse essere più contradetto; si reputava dentro una botte di ferro, e su l’orizzonte papalino incominciava a spuntare il non possumus famoso. Certo la tristezza congiunta alla ignoranza avevano spinto il Papa a costituirsi arbitro supremo di tutto il mondo; ma noi pensiamo: se il Vicario di Cristo avesse atteso meglio ai precetti di Cristo non si sarebbe lasciato traviare nei passi della iniquità; non avrebbe sparso il crisma sul sangue; avrebbe accolto sotto il manto l’orfano e il pupillo, e non dato mano a spogliarli e forse a trucidarli; molto meno avrebbe dallo inchino interessato del ladro desunto argomento per costituirsi giudice del genere umano; e sì che i santi Agostino, e Bernardo, e Ivone camotense gravemente avevano ammonito la Curia per queste sue improntitudini; anzi tu nota che a favellare più forte li riteneva la fede, che le Decretali fossero genuine sostenute come apparivano dall’autorità, quantunque falsamente invocata, di nove Papi, Anacleto, i due Sisti I e II, Fabiano, Cornelio, Vittore, Zeffirino, Marcello e Giulio; che mai avrebbero detto se le avessero sapute false? La libertà di appellare sempre, e ogni punto della causa al Papa troncava i nervi alla disciplina; gente perduta, preti di malo affare si procuravano a quel modo la impunità; il Papa agguindolato, e indotto in errore; chiarito poi, o si ostinava nella sentenza ed era iniquo, o la emendava, e allora per lo spesso correggersi perdeva il credito; chi doveva pagare le debite pene costantissimo nelle difese; chi sostenere le accuse cagliava e dalle molestie infinite annoiato lasciava correre con danno inestimabile non pure della religione, ma della comunanza civile altresì. Intanto il Concistoro dei Cardinali mutato in tribunale tutto dì intento a giudicare cause; il Papa preside, la curia piena di avvocati, di procuratori, e di litiganti rissosi, interessati, e mascagni: non casa quella del Vicario di Cristo, bensì della Discordia. I Legati di Leone non si potendo accordare col Patriarca Cerulario penetrati nella chiesa di Santa Sofia nella ora terza del 16 luglio 1054, mentre celebravasi la messa, depositarono l’atto di scomunica sopra l’altare maggiore; il Cerulario a volta sua scomunicò il Papa ed i Legati, e così di male in peggio le faccende di oriente: da una parte e dall’altra odio di prete, che non perdona mai. Levati di mezzo Papi, e papassi forse avverrà che un giorno i popoli si riuniscano: in Dio. In verità io credo, che Gregorio VII, santo dalla parte della Chiesa, ed eroe da parte di parecchi scrittori, altro non fosse che un frate impronto, ed ignorantemente temerario: ingegno scolastico, e pedantesco, avremmo a lodarlo di costanza dove la esperienza non c’insegnasse come sorella della costanza sia la cocciutaggine dote delle femmine, e dei fanciulli; costui pigliando i partiti, che per tempo sì lungo sconvolsero la cristianità se ne previde gli effetti perverso fu ad un punto, e stolto; se non li presagì fu solo stolto. Per altra parte poi male si apporrebbe chi reputasse inusitati o nuovi i concetti di Gregorio, imperciocchè noi li vediamo attecchire e germinare nella Chiesa prima di lui; egli più degli altri stese le mani perchè i tempi lo secondavano meglio, e di natura fu avventato. Questo il complesso della sua dottrina ricavato dal Concilio lateranense del 1074, dalle epistole, e dalla raccolta, che ha nome: i dettati del Papa: chi gli successe la tenne per regola, la ragione non giunse mai a deviarne i preti; qualche volta la forza, ma per breve tempo, che più insistenti delle formiche essi tornarono quasi subito nel consueto cammino. La Chiesa, sentenzia Gregorio, ha dritto dominare su tutto perchè giudicando ella delle materie spirituali, che sono le più perfette, tanto più deve giudicare le temporali, le quali proviamo imperfette. Lo stato regio non si parte per niente da Dio, all’opposto lo creò con le sue proprie mani l’orgoglio: il cristiano devoto alla religione cattolica deve reputarsi più re del re irreligioso, però che il re scevro di religione che cosa è mai se non tiranno? Così essendo sta al Papa distribuire corone, giudicare principi, e questi, quanti sono, hanno a confessarsi vassalli di santa Chiesa cattolica, e dopo giuratole fedeltà pagarle il tributo. Non diverso a Gregorio aveva dichiarato Niccolò I due e più secoli innanzi, e scrivendo al vescovo Advenzio il quale lo consultava intorno alla obbedienza da prestarsi ai principi, lo ammoniva così: «sicuro! lo Apostolo lo ha detto e non si nega: obbedisci al tuo re come superiore, ma tra re e re ci corre; tu l’obbedirai se eletto dirittamente, e se governa a modo, e a verso, perchè l’Apostolo ha detto altresì: obbedite al re per cagione del Signore non già contra Dio; e sappi al re tristo contrastare a merito.» Il quale concetto rincalza il Concilio di Toledo col Canone: «il vocabolo re tira origine dal retto governare, però se opera con giustizia possiede diritto a reggere, se no, lo perde.» Allora l’altro testo di san Paolo, che anco ieri allegava Pio IX perchè i Polacchi allungassero il collo alle mannaie russe: «voglionsi obbedire i principi comecchè discoli;» o non si conosceva, o si dissimulava. La barca di san Pietro dal Testamento vecchio e nuovo piglia le vele per navigare con ogni vento. I dettati del Papa sonano così: «Non vi ha al mondo che un solo nome, quello di Papa: egli solo può valersi degli ornamenti imperiali; a lui devono tutti i principi baciare i piedi; egli unicamente possiede facoltà di nominare e deporre i vescovi, presiedere, e sciogliere i Concili: veruno può giudicarlo: la semplice elezione lo fa santo: egli non erra, non errò, e non errerà mai: a lui spetta deporre i principi, e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà ec.» A rendere più terribile la scomunica, ed operativa di sconvolgimento universale Gregorio ordinò, che in virtù di lei lo scomunicato perdesse la proprietà dei beni, e dei servi, l’autorità su i figliuoli. — Nel Papa solo il diritto di conferire imperio, regni, ducati, marchesati, contee, insomma tutto quanto gli uomini possono ricevere o dare. Chiunque accetterà dal re vescovato, od abbazia, ovvero officio ecclesiastico sarà deposto, ed ogni principe, che darà le investiture escluso dalla comunione dei fedeli. Nè basta: Gregorio prescrisse, che il culto religioso non dovesse essere compreso dal popolo però che questi quanto meno intende, e più adora. Comecchè il divieto delle nozze dei preti si partisse da Niccolò II, tuttavia cotesto Papa lo fece ad istanza d’Ildebrando, il quale diventato pontefice non rifiniva da perseguitare i preti ammogliati infamandoli eretici, aizzando loro addosso il volgo, facendone calpestare le ostie consacrate come esecrabili. La temerità sacerdotale ricevuta siffatta spinta ruzzola giù a mostruose pretensioni offendendo nel suo rovinio uomini od instituti dentro i quali viene a cozzare. Bonifazio VII in suono affettuoso avverte Filippo il Bello:«tu hai da sapere, figlio mio, che ci sei suddito nelle cose spirituali; nè a te appartenere la collazione dei benefici, e delle prebende, e chi altramente crede casca nell’eresia.» A scanso come sembra, di qualunque equivoco, questo Papa curiale pubblicò l’Editto perpetuo dove si leggono le seguenti peregrine cose: gl’imperatori, i re e gli altri principi tutti sono tenuti a comparire alla udienza nel palazzo apostolico come gli altri uomini quando sieno regolarmente citati. Nella solennità del Giubbileo vestito di ammanto imperiale egli comparve davanti i popoli accorsi con due spade nelle mani e bandì all’universo: «un solo Cesare, un solo re dei Romani vivere al mondo, e questi essere il sommo Pontefice.» Con Innocenzio III la superbia diventa delirio, ed è ragione però che sentisse fuggirgli di mano le passate enormezze, ond’ei si arrovellava quanto meno era potente a ritenerle; per vaghezza leggi quello che il giocondo uomo decretava nel Capit. Solite: tanta corre distanza tra il Papa, e il re quanta tra il sole e la luna. — La glossa tirato il conto di questa differenza sommando trova come il Papa superi il re 47 volte; ma un canonista perfidia il calcolo sbagliato, e rifacendolo a modo suo dichiara l’autorità pontificia 7744 volte maggiore a quella dello imperatore, e del re, — e lascia andare i rotti. — Jacopo Leone, dal quale in parte ricavo questi fatti, consultati i 21 volume della Biblioteca massima pontificia ne stralcia questi assiomi da disgradarne per la giustezza loro quelli di Euclide. «1. il Papa una volta eletto, comecchè un minuto prima fosse ribaldo da galera, è un vero Papa. «2. il Papa stando a cavallo al diritto non pecca mai, nè può offendere la legge; anzi ha potere di dispensare dal diritto positivo.» «3. il Papa non può abusare della sua potestà, e sia scandaloso, o simoniaco gli si ha ad obbedire: i disobbedienti atei, o per lo meno eretici.» «4. al Papa devono obbedire tutti i re.» «5. il Papa quanto a potestà scavalca i santi, e perfino gli Angioli» «6. quello che fa il Papa, Dio fa.» Le glosse ampliando affermano il Papa facultato a dispensare contro il Vangelo, gli Apostoli, e il diritto naturale; il Rubeo addirittura ogni più scapestrata enormezza compendia in questo aforismo: «il Papa può tutte le cose fuori del diritto, sopra il diritto, e contra il diritto.» — Ma non ci ha mestiero glosse quando un Papa, Innocenzio III ti spiattella: «credere facilmente, che Dio permetta al Papa di potere fare cose contra la fede.» E dev’essere proprio così, poichè il Papa ne ha fatte tante senza che Dio se ne risenta! Per ultimo Urbano II a certo vescovo che lo consultava intorno alla penitenza da darsi all’uccisore di uno scomunicato rispondeva: «noi in coscienza non estimiamo omicidi quelli che ammazzano per zelo della madre chiesa cattolica.» Leggendo questa dottrina anco noi abbiamo tenuto per fermo, che il signore della Rovere Ministro della guerra deve avere appreso ai giorni nostri umanità alla scuola di Papa Urbano. Ogni uomo può immaginare agevolmente a che menassero di siffatta ragione premesse; tuttavia ne riporterò qualcheduna. Salomone re di Ungheria cacciato dal regno si raccomanda al suo cognato re Enrico di Alemagna profferendosegli vassallo se lo rintegra nel regno; di ciò inalberando Gregorio manda a Salomone: il tuo regno è mio, chè gli antichi re lo donavano a san Pietro. Di più lo imperatore Enrico il nero, dopo avere acquistato cotesto regno, offerse alla tomba del principe degli Apostoli, una lancia, ed una corona, quindi è chiaro ch’ei glielo volle donare: i regni devono mantenersi liberi da ogni signoria straniera per assoggettarsi unicamente alla Santa Sede. Un barone vocato Vezelino recando molestie al re di Dalmazia, il Papa lo ammonisce, che cessi, però che cotesto re ci sia posto per autorità della Santa Sede, e offendere lui sarebbe come offendere lei: da parte di san Pietro deponga le armi, e se ha ragioni vada a Roma e le faccia valere. A Demetrio tzar, o kan, o chi altro si fosse dei Russi scrive questa lettera, la quale per essere vera non ci appare meno inverosimile e strana: «tuo figlio venendo a visitare il sepolcro degli Apostoli ha dichiarato volere ricevere il regno dalle nostre mani come dono di san Pietro, e noi glielo abbiamo conceduto.» Circa allo impero, tostochè per diventare imperatori avevano con parole e co’ fatti confessato necessaria la consacrazione del Papa, egli era chiaro, che come ei li faceva così poteva disfare, donde per conseguenza in lui il diritto di volerli e l’obbligo negli imperatori di essergli vassalli. Quanto alla Sassonia, l’universo sapeva Carlomagno averla donata alla Santa Sede: non importa avvertire che eccetto il Papa veruno aveva udito far motto di simile donazione. Ai Legati in Francia commetteva Gregorio facessero pagare a capo di ogni anno almeno per ciascuno uomo un danaro a san Pietro secondo l’antico costume se tanto è che lo venerino padre e pastore: nè dovere ai Franchi sembrare grave il balzello però che nei libri conservati nello Archivio di san Pietro si legga qualmente lo imperatore Carlo raccolte ogni anno 1200 libbre di argento da soli tre luoghi, Aquisgrana, Pui, e Santo Egidio le offerisse alla Chiesa. Anco quì non occorre dire come nei Capitolari, nelle storie, e nei documenti del tempo di simile donazione non si trovi parola. Quanto alla Inghilterra tirarono i Romani Pontefici tanto la corda, che alfine si ruppe; imposero, e lo ricordammo altrove, al vile Giovanni senza terra la tenesse in feudo dal Papa; e così fa, onde per modo ci si annidava il prete, che il danaro di San Pietro ai giorni di Enrico III si stimava metà delle entrate del regno; di che non contentandosi il legato Martino, Enrico lo cacciò via; dopo la cacciata del quale fatta cercare più sottilmente dai ragionieri la cosa trovarono, che dibattuto il danaro di san Pietro al re avanzava non bene dell’entrate intero il terzo; gli altri due terzi avvantaggiati a Roma. La Spagna sua; occuparla in parte i Saraceni, in parte i cristiani, ma per lui essere tutt’una, e bene crivellata ogni cosa, egli amava meglio andasse in mano ai Saraceni che stesse in mano ai cristiani contumaci della santa madre Chiesa. Quest’altra più immane; Gregorio scrive ad Orzoco giudice di Cagliari intimandolo a pagare il danaro di san Pietro con gli arretrati, e lo facesse presto perchè gli stavano alle costole Normanni, Toscani, e Lombardi, i quali gli profferivano larghissimi partiti fino a lasciargli la metà della rendita contentandosi dell’altra metà s’egli consentiva loro la conquista della isola: non tardasse dunque a rispondergli se non voleva esporre l’isola al saccheggio, e agli altri mali della invasione: per ultimo (mirabile a udirsi!) commetteva al medesimo Orzoco ordinasse a Iacopo arcivescovo e a tutto il clero a radersi la barba; dove negasse tutti i beni loro confiscasse. Ora ecco il Papato, che strisciando, e servilmente obbedendo gl’imperatori romano-greci, i franco-carlovingi, ed i tedeschi aveva acquistato come vassallo potenza! intende all’improviso passeggiare su le teste di tutti. Industria somma, perseveranza inaudita, arti moltiplici furono adoprate per venire a capo di questo, ma insipiente ne fu il concetto: chiunque crea instituti per costringere lo spirito umano edifica sopra l’arena, peggio chi lo respinge; a riuscire pel momento giovarono al Papa la minorità di Enrico, e la ribellione dei feudatari alemanni: quanti ribelli, tanti collegati al Pontefice: di fatti i baroni molestati dalla soverchia potestà dello Impero si affaticavano a diminuirla, onde parve bello, ed opportuno avere nella impresa compagno il Papa; avendo a camminare lungo tratto di via insieme non videro, o almeno non vollero vedere il punto dove si sarieno divisi: per la strada, suol dirsi, si assestano i basti, e questo talora proviamo vero, tale altro no: quì si sconciarono. Importa notare come il Papa da prima tolse il diritto di conferire i benefizi al popolo per darlo allo imperatore; adesso intende spogliarne lo imperatore per dividerselo co’ baroni; più tardi manderà allo inferno i baroni se si atterranno a conservarlo. La origine democratica del Papato, e la sapienza concessero facoltà a Roma di farsi sovrana del mondo, come altra volta le valsero pel medesimo fine la tenace aristocrazia, e la spada; ma la virtù democratica adoperata per fondare la più molesta di ogni tirannide, e la sapienza per abbuiare le menti nello errore perpetuo dovevano per necessità ritorcersi contro di lui. Sorse la stampa e fu come il sole che assorbe il lume della lucerna accesa a vegliare il morto; la democrazia inasprita di avere tirato, senza addarsene, per tanto tempo l’alzaia alla tirannide ruppe il freno, e prese a darle de’ calci; i medesimi partiti messi in opera per tenere su ritto lo immane edifizio contribuirono, e non poteva fare a meno, ad atterrarlo, come quelli, che violentissimi erano e stemperati; e’ fu mestieri possedere milizie fedeli, epperò i matrimoni proibiti, i monaci moltiplicati; ancora, ci vollero danari, e di molti, così per regnare, come per sopperire agli strani appetiti compagni inseparabili della sua potenza. La gente si strascinava in paradiso ammanettata come reo al supplizio; condannati erano i fedeli alla vita eterna come a’ lavori forzati. Non lo tento nè manco, e tentando non ne verrei a capo, di noverare le industrie romane per raccogliere danaro; la più spedita era quella di levare sangue addirittura dalla vena pigliando, come in Inghilterra, di schianto i due terzi delle entrate; ciò non potendo durare, alla lancetta surrogavano le mignatte; e allora espiscarono le riserve, le aspettative, le annate, le indulgenze, le decime, le bolle per fondazioni, conferme, dispense di genere infinito, per benefizi, e simili. Tutto a Roma si vende, tutto; onde Cristoforo Colombo, il quale fu piuttosto pinzocchero, che religioso, ingenuamente lasciava scritto, che coll’oro si compra anco il paradiso: dall’altro lato si ruzzolò giù fino alla mannaia ed al fuoco. Nell’anarchia del mondo in parte proveniente da cause estranee al Papato, ed in parte promossa da lui, egli ordinato poderosamente doveva restare padrone del campo: ancora, il Papato opponendo la croce al corano, e al paganesimo contrastava la barbarie, i quali vinti, dai popoli affrancati naturalmente come instituto divino si riveriva quella potestà, che aveva loro dato di essere civili: quindi al Pontefice cascavano quasi in mano scettri, che egli poi non bastava a tenere, e fu visto concedere il regno in feudo al re d’Inghilterra, al re di Sicilia, e via discorrendo, nè più nè meno di quello costumasse Cesare coi re, che gli amici suoi gli raccomandavano. E tuttavia i disegni di Gregorio continuati dai Papi, e non ismessi nè anc’oggi, nascevano viziati da tale peccato di origine, che per battesimo non si scancella: rompere catene per mettere in servitù, eccitare alla rivolta per pretendere obbedienza assoluta, religione antica unita a fraudolenza nuova, santità di costume e depravazione non mai più vista in Roma nè anco ai tempi di Eliogabalo, la tonaca del frate e lo ammanto del Papa: co’ digiuni, con le astinenze, e con le meditazioni solitarie apparecchiarsi alle ribalderie del cortigiano, aprire le porte del cielo senza chiudere quelle dello inferno; san Francesco che predica ai lupi, e appella le rondini sirocchie venuto al mondo ad un punto con san Domenico sintesi beatificata di quanti carnefici vissero nel mondo; la pietà stessa feroce, però che sovente giungessero a ridurre in tocchi qualche povera creatura reputata santa solo pel sacro furore di possedere una reliquia di quella. Considera la fede portentosa dei Campioni di Cristo, i quali alla vista di Gerusalemme piegano la fronte nella polvere, piangono dirotti, si picchiano il petto con percosse capaci di sfondare una porta di città, e poi tale menare dispietata strage, che il Cronista di quel gesto afferma, il sangue nel tempio levarsi all’altezza del ginocchio degli spietati. Su questo argomento tornerò più tardi: adesso della necessità che quello che accadde doveva accadere con le altre conseguenze le quali speculando si presagiscono, dacchè regola il mondo morale la medesima dinamica del mondo fisico: colà a scoprirsi questa legge più difficile che qua, ma le leggi ci sono. Spirito, che sia parmi impossibile significare, ma neppure negherai l’uomo risultato di materia e di spirito. — La materia diretta dallo istinto e legata a quello serva sempre degli appetiti fisici, e come serva costretta; lo interesse proprio le tiene corta la cavezza: però negativa, ripiegata in sè stessa, agevole preda a cui impera; molto su lei può l’agonia di possedere, molto altresì la facoltà di acquistare, più che tutto il terrore; ma a mano a mano che l’uomo leva in alto il capo perde la vista del campo circoscritto della terra e spazia per le regioni sconfinate del cielo: la parte divina agitandosegli dentro si sente frazione di Dio; aspira ad una Patria, che non è la terrena; impaziente egli non posa mano, agita le braccia per tentare se può servirsene a modo di ale; la scienza gli scotta co’ suoi carboni ardenti le labbra; ma dentro lui fu accesa la vista intellettuale, che cresce, e comprende quanto la materiale si appanna, e si restringe; della crisalide avanza la spoglia spregiata quando la farfalla batte l’ale. — Ora la Chiesa cattolica doveva mettersi sul confine dello infinito se pure desiderava durare, e posto che qualche spirito temerario avesse voluto allora spingersi oltre, dopo dolente errore in mezzo a regioni per soverchia luce fatte tenebrose saria tornato a pigliare conforto, e a cercare pace nel suo seno; imperciocchè noi usi a non vedere fattura senza fattore troppo più ci affatichiamo a negare, che a confessare Dio; ma come, dove esista, e le ragioni della sua esistenza alla debolezza dello intelletto nostro non è dato comprendere. Ma poichè la Chiesa cattolica ha posto il suo termine nel materiale, e nel finito forza è, che da ogni lato l’onda dei tempi la soverchi; poco importa, ch’ella perfidii a proseguire anco lo spirituale, chè ormai lo interesse terreno le ha tolto il credito, ed ella non può bastare all’anima: la rete mistica dello apostolo si è convertita in una brava e vera rete da pescare pesci, e arrostirli; nel naufragio del cattolicesimo la fede di Cristo, io per me giudico, che si salverà: forse egli è appunto per questo, ch’egli le insegnava di restare a galla. Lasciando i presagi, e tornando alle considerazioni dei tempi succedentisi, ecco come lo stravincere nocque al Papa; per cui stava di mezzo, opprimendo troppo lo impero, e’ fu piuttosto necessità che scelta appoggiarsi sul pontificato; ma quando conseguita potenza lo provarono due cotanti più grave dello impero gli si voltarono contra: di fatti al berroviere in terra egli aggiunse san Michele, tipo vero di giandarme in paradiso; di quà fuoco di stipa, di là fuoco d’inferno; da un lato agguantava il pane del corpo, dall’altro rapiva la salute dell’anima: ma soprattutto quanto a quattrini senza pari il prete per farti la barba, e il contrappelo. Di quì una maniera di altalena tra imperatore e Papa secondochè i feudatari puntavano per una parte o per l’altra; ci era il popolo ma in cotesti tempi veruno se ne giovava; di fatti troppo procedeva salvatico, e feroce; egli non proseguiva un fine politico o sociale, ma sì come belva, rotta la catena, sbranava; e tali apparvero in Inghilterra, ed in Francia i rimescolamenti delle plebi. In Italia all’opposto il popolo ordinatosi a municipio diventò accorto, sopra i feudatari sagace e potente, anzi sperperò intorno a sè i feudatari, e li costrinse a riparare in città; in questo modo i municipi si trovarono condotti ad avversare naturalmente l’impero come quello, che dava vita ai feudatari, ed il Papato trovando nei municipi una forza da valersene alla occasione ora secondochè gli tornava li benedisse, o gli scomunicò; gli oppose allo impero, o li tradì, e perse credito non acquistò forza: la quale fu ridotta al verde dalla empia virtù degli scismi cui non valse più a torre di mezzo la fede; la Chiesa imbelle e screditata ebbe a limosinare il soccorso dell›autorità laica affinchè cessasse gli scismi ond›era lacerata. — Durarono, e durano tuttavia alla Chiesa le reverenze esterne; sempre verso lei si appunta il volgo delle femmine, e delle moltitudini, che alla parte plastica delle religioni si affezionano; qualcuno persevera a baciare il piede al Papa; il Papa continua a benedire: la barca va, ma per impulso dell›ultima vogata, sicchè ogni istante il moto si fa più languido; nè la volontà dell›uomo per quanto potente egli sia basta ad impedire il fato; così se la voce di un monaco vale a rimescolare la Europa contro l›Asia, tre secoli dopo, Pio II muore di dolore non potendo stringere in lega i Principi Cristiani, contro i Turchi irrompenti ai danni della umanità. Leone X renunzia a favore di Francesco I la facoltà di eleggere vescovi e beneficiati superiori per conservare la quale Gregorio aveva mandato tutto il mondo a catafascio. La opposizione non si manifestò meno pertinace nella Germania; e colà anco più ardua a domarsi perchè mossa da un nugolo di Principi; — si andò di concordato in concordato; le nuove decime ributtaronsi: nel 1500 furono permesse le prediche per le indulgenze, le vendite di queste, e le questue a patto, che per due terzi andassero allo imperatore, e per un terzo al Papa; di vero, se come Roma affermava, le dovevano servire alla guerra contro il Turco, lo imperatore, che lo aveva in casa, sapeva meglio di ogni altro, e sopra ogni altro lo premeva l›interesse di bene adoperare il danaro; così il prete rimase preso alla tagliola rizzata con le proprie mani. — In Inghilterra anco peggio; senza concordato il re propose i vescovi: invece di continuare la contribuzione del danaro di San Pietro, Enrico VII portò via la metà delle annate a Roma. Nel mezzogiorno il contrasto non meno gagliardo che nel settentrione; colà oltre la nomina ai vescovati, il re d›accordo coi frati, instituì la inquisizione, arnese politico larvato di religione, il quale sovente si oppose a Roma, e ne perseguitò i devoti, e tanto arrivò di prepotenza che giunse a minacciare Sisto V quando volle pubblicata la versione italiana della Bibbia. Il Prescott nella vita di Ferdinando e d›Isabella assai lungamente favella di simili screzii; nè il Ranke ne tace nella sua storia del Papato. Così del pari in Portogallo la Corona s›impadroniva dei beni degli ordini militari, e religiosi: si ritenne il terzo delle crociate, e pose le mani sopra le decime ecclesiastiche. Insomma da per tutto cede la Chiesa, pari all’onda iemale la quale, per essersi spinta impetuosa troppo e proterva, rotta in isprazzi adesso le tocca a stornare. Ormai la stagione del crescere si conchiuse per sempre, tanto più quella di allagare unica padrona; adesso entriamo nel periodo di conservazione: forse era tempo per lei di risorgere con la fede; ella non volle, o non ci credè; più tardi la vedremo tentare anco questa via, ma con tali argomenti da consumare la poca lena avanzata da tante prove: intanto ecco quali gli umori della Chiesa adesso palesati nel Concilio di Basilea da uno dei padri più autorevoli, che quivi sederono: «forse un dì sarebbe stato spediente separare affatto la potenza temporale dalla spirituale; ma pel tempo, che corre virtù senza potere è ridevole, onde il Papa romano scevro del patrimonio della Chiesa diventerà davvero: servo dei Servi di Dio.» Indi in poi la Chiesa fruga nei suoi annali per trovare lo scampolo a rattoppare il manto; con frode, o con violenza ripiglia Imola, Faenza, Forlì, Urbino, Rimini, Pesaro, Ferrara ed altre più terre, e ciò con tanta maggiore acerbità quanto, che la paura di rimanere in camicia si manifesta due cotanti più apprensiva della cupidità di acquistare. — Le cerchia dell’interesse mano a mano si stringono per modo che nel dubbio di avere un giorno a cedere il dominio temporale ogni Papa pensa ai casi della propria famiglia e strappato un gherone del manto papale lo butta sopra le spalle ai nepoti; mosso da questo concetto Sisto IV concede ai Riario Imola, e Forlì, Giulio ai della Rovere Urbino, Paolo ai Farnese Castro Camerino e Nepi prima, poi Parma e Piacenza, e così di seguito; se non che considerando i Papi sorvegnenti come simili principati generassero troppa invidia onde sovente i nepoti con la sostanza perdessero la vita ritagliano più a minuto; invece di principati donano poderi, o benefizi, o pecunia. Essendo questo epitome non già dei gesti universi della Chiesa, bensì dei fatti sopra i quali ella fonda il diritto di dominare su i popoli e noi il diritto del popolo a torle la signoria, dobbiamo rifare i passi, e considerare, come sul declinare del secolo decimosecondo il Papato combattuto in casa (reggendosi Roma a repubblica) ed oppresso fuori dagl’imperatori germanici, Adriano IV si gratifica il popolo: e fu consiglio astuto imperciocchè stando col popolo egli difendesse con l’altrui la propria libertà, mentre col Tedesco avrebbe saldato catene allo altrui polso ed al proprio; forse se Federigo Barbarossa consentiva ad accettare lo impero come un benefizio romano ogni screzio cessava fra loro; ma dura cervice a piegarsi era lo svevo, e al Papa toccò durare nel molesto amore del popolo, dacchè alla Dieta di Roncaglia i giureconsulti di Bologna dichiarassero niente meno lo imperatore padrone dell’universo: la quale dichiarazione parve immane al Papa, perchè non era stata fatta per lui. Di qui la lega lombarda, e le mirabili vittorie del popolo, e la troppo più mirabile fede. Molti mettono in dubbio la verità del fatto, che Alessandro del piè calcasse il collo al Barbarossa mentre recitava le parole del salmo: «sopra l’aspide, e il basilisco passeggerai, il leone, e il dragone calpesterai.» A cui il Barbarossa rispose: «non a te ma a san Pietro.» Nè io mi affaticherò a chiarirlo, che comunque la cosa stia, grande fa la prevalenza acquistata a cotesti giorni dal Papato sopra lo impero per virtù del popolo: però Alessandro non indugiò nè manco un momento a voltare il nuovo rigoglio contro il popolo, e presto accordato col tiranno ricusò tornarsi a Roma se prima il senato non gli giurasse fedeltà, restituirgli la pristina signoria, lui e i cardinali difendere dai nemici. Naturale cosa è, che quegli il quale ora su questo ora su quell’altro si appoggia per tradire tutti, eserciti travaglioso imperio, e sbattuto da perpetua fortuna ad ogni tratto accenni sommergere; di vero più, che mai si drizzano ora minacciosi contro il Papato le ire del popolo, il rancore dello impero, ed uno spirito nuovo sorge ad arruffargli i disegni: ai primi pericoli i Papi pensano provvedere con le crociate: molte le cause di questo rovesciarsi dell’occidente sopra l’oriente; e prima di tutto vuolsi attribuire ad una misteriosa corrente che vuole così: verso le contrade del sole due volte s’incamminarono i Greci condotti da Agamennone, e da Alessandro macedonio, poi i Romani, poi i Crociati: oltre questa spinta naturale colà li chiamava la copia dei beni della terra, che genera ricchezza; la facile vittoria, che in coteste terre il nemico più metuendo sia il cielo inclemente: molto altresì, e sarebbe vano negarlo, la devozione, e per me giudico, che con queste, e sopra queste cause stringessero il consiglio, e l’opera dei Papi di affrancarsi dagli ostacoli così popoleschi come baronali per ricuperare la scemata primazia; nè l’effetto i Papi provarono dispari dai concepiti disegni, imperciocchè di tanto crebbero in potenza quanto ne persero gli avventurosi crociati, e quindi a breve Lucio III perfidia per le immunità ecclesiastiche dagli obblighi feudali; Urbano III intendo restituiscansi i duchi di Sassonia, e di Baviera ribelli allo impero; nega il crisma ad Enrico IV, e torna su la pretensione del retaggio della contessa Matilde. Più temerario di lui Celestino III, che vieta ad Enrico la eredità siciliana della moglie Costanza; condanna Filippo Augusto a ripigliarsi Ingelberga dalla quale si era dipartito col pretesto d’incestuose nozze; ordina ad Alfonso re di Leone si separi dalla cugina figlia del re di Portogallo da lui condotta in moglie. Finalmente comparisce Innocenzo III ramo vero dello impronto Ildebrando; in mal punto eletto tutore di Federigo II si approfitta della minore età del pupillo; al mandato imperiale dei Prefetti surroga il proprio; patteggia co’ Toscani perchè non riconoscano re od imperatore senza il consenso della Chiesa: intima Ottone a rendergli il retaggio della contessa Matilde, e poichè lo trova restio, gli sguinzaglia addosso Federigo II. Dopo scomunicata la Francia tutta, e Filippo Augusto, il quale invece di obbedirgli e ripigliarsi Ingelberga sposa Agnese di Merania, lo scomunicato blandisce, e lo avventa contro Giovanni senza terra, perchè gli tolga il regno; quando poi cotesto codardo gli s’inginocchia davanti profferendoglisi vassallo, lo arresta a mezzo: guai a lui se si attenta torcere pure un capello al re d’Inghilterra feudatario di Santa madre Chiesa! Oltre la opposizione temporale aveva di già da lieve principio preso le mosse uno spirito di rivolta, il quale non solo accennava a riforme di costume, bensì si proponeva alterare le dottrine, e perfino i dogmi della Chiesa: fino dai principii pauroso; ora che mai diventerà crescendo? Più famoso degli altri novatori Arnaldo da Brescia; lo avevano precorso Pietro di Brais in Narbona che fu bruciato vivo a Santo Egidio in Linguadoca sul cominciare del secolo duodecimo; il monaco Enrico che perseguitato ferocemente dal vescovo di Mons, dallo abate di Cluny, e da quello di Chiaravalle san Bernardo menò vita insidiata sempre e randagia; e Tichelmo della estrema Zelanda cui per comando del Papa furono spenti a ghiado; ingegno, per autorità, per audacia di gran lunga superiore a questi Arnaldo; e seco andava il popolo: la sua cattedra piantata nel cuore del cattolicismo, Roma: egli predicava contro le lussurie della corte papalina, e le dovizie, e i beni terreni; veniva ricordando la povertà del Nazzareno, ed affermava la rilassatezza cagione dei danni presenti, e della ruina futura. In cotesto tempo non meno acerbo procedeva san Bernardo contro il costume romano, e ne fanno fede gli scritti; però troppo diversi i fati di Bernardo e di Abelardo, e la ragione è manifesta, che Bernardo rimorchia la Chiesa come persona venuta in iscrezio con l’amante, mentre, Abelardo la vuole tosata, e scalza; donde nacque, che Bernardo venerato in vita fu in morte scritto sopra l’albo dei santi, ed Abelardo commesso alle fiamme. Il Sacerdote pensò disperderne la memoria col gittarne via le ceneri, e s’ingannò; coteste ceneri sparsero nello avvenire tale seme di cui la messe intera germoglia sempre, e non finisce mai. A combattere questo spirito nuovo i Papi crearono gli ordini religiosi dei Francescani, e dei Domenicani, barbacani, secondo il sogno di Papa Onorio, della Chiesa ruinante; adoperaronci esortazioni, ma più ferro e fuoco, soprattutto fuoco, e non valsero, e non valgono; il fuoco accende il pensiero, che non si consuma; per la quale cosa continua lo spirito di Libertà ora in Germania, ora in Francia, ora in Italia, ed ora in Inghilterra. Affermano come in Italia fosse suscitato il desiderio di riforma dallo studio dell’antichità; e ciò troviamo falso sia quanto ai tempi, sia quanto alle cause, corre fama che pensatori piuttosto temerari che liberi fossero Federigo e Manfredi; lo stesso Guido Cavalcanti è rimproverato da Betto Brunellesco di aggirarsi fra gli avelli meditando, che Dio non è; rispetto poi alle cause, la imitazione dello antico certo contribuì alla rilassatezza; che abbassato un po’ il cielo verso la terra, ed un po’ vestito di spoglia decente il vizio si compose tale una mistura che maomettana non era e cessava di essere cristiana; ma la Chiesa Romana soprattutto fu combattuta dallo spirito. Il Savonorola, il Burlamacchi, il Paleario, i Soccini, il Carnesecchi, il Bruno, ed altri, che non nomino, senz’altro non mosse libito di senso. Piuttosto giudico, che come s’industriano sempre le tirannidi prostrare gli spiriti, così la Chiesa s’ingegnasse annegare lo intelletto nelle voluttà, che la imitazione degli antichi fece eleganti e desiderabili anco ai più schivi; e tuttavia andò fallito il disegno, imperciocchè dallo studio del piacere si generasse il tedio della disciplina, la inverecondia del costume, e con essi l’odio dell’autorità. Providenza di Dio immediata, o predisposizione di ordine stabilito da lungo tempo vuole che ogni tirannide nello scavarsi il fondamento ci getti il seme della cosa, che la sovvertirà; e in questo modo Leone papa mentre co’ sollazzi s’industria assopire le menti indebolisce l’autorità, e Cosimo nipote di lui mentre tenta impoverire lo ingegno toscano nelle quisquilie della grammatica, crea custode della Libertà la lingua. Altresì giudico che le sette diverse nocessero sì all’autorità della Chiesa, ma nel medesimo punto di poco avvantaggiassero lo svolgimento dello spirito; e la ragione è chiara, però che lo liberassero da un viluppo per intrigarlo in un’altro, il quale posto ancora, che fosse men reo del primo, tuttavia è vincolo, o cerchio, mentre lo spirito batte sempre le ale, ed irrequieto si appunta nello infinito. Anco nel secolo passato al progredire dello spirito pregiudicarono la scuola degli Enciclopedisti, e il Voltaire, però che, a mio parere, lo affaticassero a fini di odio, e di contesa, mentr’ei non si pasce di negazioni, nè sono i suoi trionfi ruine; con ogni umano istituto, con la dottrina di tutte le religioni, con la sapienza dei secoli lo spirito ripiuma l’ale per durare all’eterno volo. Intanto i Papi oltre le Crociate, la Inquisizione, e i Frati per apporre argine che valesse a trattenere le acque irrompenti stabilirono la meno dispendiosa, e la più sicura di quante polizie sieno al mondo, la confessione. Trovato questo non nuovo, e non inutile anco in antico, però che il colpevole nei misteri dei Numi, massime di Cerere eluisina, confessasse i falli, e a patto di certe penitenze rimanesse assoluto; ed a me parve cosa che anco la civiltà di oggi potrebbe avvantaggiarsene e non poco, là dove a udire, e a consigliare si preponesse il vecchio discreto, esperto delle umane passioni, ed uso a guarirle: bene intesi però, che simile ufficio si avrebbe ad esercitare sopra le menti giovanili quando una gomitata basta a farle rientrare nella pesta: all’opposto poi quando l’uomo ha messo il tetto lo ammonimento a che giova? Torna lo stesso che predicare ai porri. — La Chiesa Romana instituendo la confessione ebbe in mira di intromettersi nel penetrale delle domestiche pareti, d’insinuarsi tra padre e figlio, tra marito e moglie, e fatto padrone delle coscienze e dei segreti, vendicarsi, o arricchirsi secondo le occasioni. Altro partito a crescere di potenza fu la mutata elezione del Papa, e degli altri principali offici, la quale di popolesca fu di mano in mano tirata al tirannico. Nei primi secoli del cristianesimo eleggeva i Papi la Chiesa, o vogliamo dire la universalità dei fedeli, vescovi, sacerdoti, chierici di ogni ragione, e plebe. Così ce la descrive San Cipriano nella epistola 52, discorrendo della elezione di Papa Cornelio: «fu eletto vescovo Cornelio da parecchi nostri colleghi, che allora albergavano in Roma col giudizio di Dio, e di Gesù Cristo, col testimonio dei chierici, coll’assenso dei vecchi sacerdoti, e col suffragio della plebe intervenuta.» Ai tempi di Costantino magno questi modi di elezione occorrono inalterati; e la elezione si eseguiva nelle Basiliche di Roma; per lo più nella Lateranense; nel 1059 il Concilio statui che vescovi, arcivescovi, basso clero, e popolo concorressero alla elezione del Papa, per evitare contese. Le medesime regole si praticavano nelle elezioni dei vescovi fatte dal capitolo, dal clero, e dal popolo della Diocesi, ed altresì in quelle dei vicari e dei parrocchi nominati dal clero, e dal popolo della parrocchia. Progredendo nel tempo in virtù della bolla di Alessandro III rimasero esclusi tutti, eccetto alcuni pochi assistenti al soglio pontificio, che ebbero nome Cardinali da cardine, quasi fossero cardini o barbacani della Chiesa. Dopo ciò i Papi arrogaronsi il diritto di eleggere vescovi, e parrochi, donde sorsero le guerre di che abbiamo detto, e i concordati, i quali chiariscono quanto menzognera sia la dottrina del non possumus, dacchè i Papi in tutto e per tutto possono quando li pongono nello strettoio: pari alla Pitonessa, allorchè incontrano un’Alessandro magno, che gli attanagli a mezza vita esclamano: «figliuolo mio, tu sei invincibile!». Per me credo, che ogni principato tiri la sua origine dalla violenza, o dal voto universale; ma per parecchi il primo principio si perde nella notte del tempo, non così pel pontificato, dove avanzano testimoni solenni del diritto del popolo usurpato da Roma; e se principati vetustissimi di cui s›ignora lo inizio pure consentono a ritemprarsi nel suffragio universale, perchè e come ci si rifiuterebbe il pontificato di cui la usurpazione è palese? Il Papa che sè vanta rappresentante e vicario di quel Dio, che disse: «rendete a Cesare quello ch’è di Cesare,» come si augura potere con giustizia negare al popolo quello, ch’è del popolo? Narro di Federigo nipote del respinto Barbarossa, e di Gregorio IX: costui che compose il libro delle Decretali, congerie informe di rescritti emanati per casi speciali, e da lui promossi alla dignità di leggi, atti però a stabilire la monarchia romana, massime nelle materie beneficiarie, costui, dico, fu tenace a stringere, cupido di recuperare. Ora temendo non potere allungare le mani rapaci finchè gliele badasse Federigo, lo agguindola così, che gli è forza rendersi crociato; ma mentre sospettoso di qualche tranello Federigo tentenna di recarsi a Gerusalemme, il Papa infellonito per la paura di trovarsi deluso lo scomunica: finalmente parte: allora Gregorio palesa le insidie aizzandogli contro il socero Giovanni di Brienna, commettendo ai Domenicani ed ai Francescani ribellargli i popoli, e fino nell’oriente lo circonda di lacci mortali; ma Federigo vince, ed entrando in Gerusalemme, poichè i preti nicchiano a incoronarlo, ei s’incorona da sè; poi fatta pace col Sultano sollecita il ritorno. Di ciò spaurito Gregorio, e arrovellato, dichiara lo imperatore empio, gli rinnuova gli anatemi con la giunta di sciogliere i sudditi di lui dal giuramento, e concedere il regno a cui prima lo pigli; nè commosso, nè infievolito da armi cosiffatte Federigo viene, e vince; il senato e il popolo romani gli spediscono oratori per congratularsi della sua buona fortuna; allora il Papa torna amico allo imperatore, e poichè stanno in lega per non oziare nel male gli propone svellere cosa ad entrambi funesta, lo spirito di libertà; e quegli acconsente. In virtù di simile accordo nel 1233 per la prima volta fu arso un paterino a Milano; e il Prete romano con un piè sul collo alla natura comandava ai figliuoli di Ezzelino di consegnare il proprio padre alla Inquisizione. Dopo breve spazio secondo la infida lega degl’improbi, tornano alle offese costoro, e Federigo in pena di avere sovvenuto il Papa nella snaturata richiesta contro gli Ezzelini, mira con orrore insidiargli la vita il figliuolo Enrico sobillato dal mal prete: parve provvidenza e forse fu; peccato che questa provvidenza non tenga dietro ad ogni misfatto, o si riveli meglio agli occhi mortali! Gregorio mette mano da capo alle scomuniche, muove contro Federigo Genova e Venezia; e dubitoso, che le possano far breccia va fino in Francia secondo il consueto, a trovare puntelli alla immane improntitudine sua. Viveva a cotesti tempi sul trono di Francia san Luigi, e dicono per senso di giustizia impedisse l’andata al suo fratello Roberto, e forte riprendesse il Pontefice; ma santi o no io per me credo e vedo, che re di Francia, e Francesi non abbiano mai reputato ingiustizia pigliare quello degli altri: di vero o perchè san Luigi concesse a Carlo altro fratello quello, che a Roberto negò? Forse perchè Carlo non ebbe bisogno di aiuti da lui, ed anco perchè altro era nimicarsi Manfredi re di Sicilia, ed altro Federigo imperatore. Il Papa sbuffando disegna con perverso consiglio bandire la Crociata contro Federigo; ed a questo scopo convoca i prelati del mondo cattolico a Roma: quei di Francia essendosi ridotti a Nizza il Papa manda le galere genovesi a levarli; lo imperatore contrappone a loro i Pisani, guelfi e ghibellini incontransi alla Meloria e per questa volta vincono i Pisani per rimanervi più tardi intieramente distrutti. Gregorio dopo abusato le cose divine, spinto i popoli italiani a guerra fratricida, da capo offerto dare la Patria in balìa dello straniero muore; ma non con lui muore il Papato. Già dissi il Papato immondo boa che traversa i secoli; di fatti a Gregorio essendo, dopo il subito scomparire di Celestino IV, succeduto Innocenzio IV, questi di amico che era a Federigo gli si volta nemico, e, come più astuto, più implacabile di tutti; costui rinfocola la Crociata già bandita da Gregorio; Francescani e Domenicani sguinzaglia contro Federigo; gli tramano insidie, sottosopra gli cacciano lo impero infatigati, innumerevoli come le formiche: convocato il Concilio a Lione vi narra dei Tartari invasori della Moscovia, della Pollonia, e della Ungheria, dei Mongolli minaccianti la Europa, dei Carasmiani oppressori di terra santa, lo impero latino ridotto alle mura di Costantinopoli, e con fronte di bronzo tutti questi mali riversa sopra Federigo; Piero delle Vigne, e Taddeo da Sessa difendendolo invano, dal Concilio si depone e si scomunica lo imperatore, il quale sia per gli anni, e l’ira, e i pensieri torbidi di vendetta travagliato cessa. Non mai vita di figlio fu salutata così caramente come la morte di Federigo da Innocenzo, che già stende le mani rapaci sopra il reame di Sicilia: chi lo parava? Manfredi debole, e senza seguito; ma fra la mano e il frutto venne a mettersi Corrado figliuolo di Federigo: se il Prete riardesse di rabbia sel pensi chi sa quanta l’avidità sacerdotale, o l’ira che suscita l’ostacolo impreveduto, e la impotenza di rifarsi da capo: poichè pertanto il Papa venuto al verde per sè non poteva prendere si arrovella a cacciarne Corrado vicino trapotente, ed offeso, e tu lo vedi andare in volta, ed offerire la corona che gli scappava di mano al fratello, al figlio di Enrico III d’Inghilterra, e a Carlo fratello del re di Francia; allo improvviso Corrado muore; allora Manfredi raccomanda al Papa il nipote Corradino; padre gli sia, e protettore; Innocenzo muove come saetta volante a Napoli a fare da padre come costumano i preti: domina più che signore tiranno e insacca più che padrone predone; Manfredi custodito quasi prigioniero si salva ed allestisce armi ed armati per combattere il Papa, il quale adesso sentendosi in fine di vita i congiunti lacrimanti intorno al letto rampogna così: «perchè piangete voi altri? Forse quanto più poteva non vi ho empito di beni?» E furono parole di prete senza cuore ed avaro. Viene Alessandro IV a cui talentando meglio la spada del pastorale durando la contesa con Manfredi perde la Puglia, e la Terra di Lavoro; in Palermo, su gli occhi al suo Legato, inalberano la bandiera sveva. — Per questo Papa si conobbe quanta la potenza del pontificato su le faccende della religione, e sul popolo quando ordinava cose, che camminavano coll’umore del secolo, e quanta poca quando procedeva al ritroso; la Francia fu da costui felicitata della Inquisizione; cotesto ardere la gente di fede diversa parve nuovo in Francia, e come nuovo piacque ed attecchì. Avendo questo Papa bandito in Lombardia la crociata contro Ezzellino da Romano trucissimo tiranno di Padova, caduto in mano ai popoli per virtuosa battaglia periva di fame: per lo contrario tanto Alessandro quanto il successore Innocenzo mentre si attentano passare il segno in Roma, i Romani a tutela della pubblica salute eleggono Dittatore Brancaleone di Andalò bolognese, cui non rifinano insidiare, e poi giungono a bandire legatisi co’ nobili; ma indi a breve il popolo ripreso il sopravvento lo richiama, e per questa volta osteggiando senza rispetti il Papa, lo assedia in Anagni, e lo costringe a sottomettersi al popolo. Urbano IV ebbe il vanto infelice di schiantare dalla Italia la stirpe sveva, anch’essa discesa dagli oppressori, e venutaci di Lamagna, ma ormai naturata fra noi: poichè costui spavaldo sfidò Manfredi, e rimasto vinto si volse alla Francia semenzaio sacerdotale di tiranni per la Italia: la tragedia di Manfredi, e quella più pietosa di Corradino vanno famose pel mondo; il quale tuttavia rammenta come il Papa mettesse tradimenti, e scomuniche in combutta con gli stocchi, e le mannaie di Carlo di Angiò. — Ora escono dal buio alcuni Papi, che passano a guisa di fantasime traverso il secolo per immergersi da capo nel buio; alfine viene Niccolo III degli Orsini, il quale dove avesse posseduto la potenza pari alla superbia tornavano in fiore i tempi dei Gregori; ributtate le nozze richieste del suo nipote da Carlo, con le parole atroci: «e perchè porti calzare rosso la tua signoria non è retaggio,» congiurando nuoce altrui, se non vantaggia. — Da lui si ordirono, o assai si promossero i Vespri Siciliani sia che si operassero per la virtù di Giovanni da Procida, o per maggiore virtù di popolo come credo anche io, chè dove il popolo non secondi il singolo o non può o mal può, e il popolo quando ha voglia di mettere al sole le barbe della trista signoria il suo capo trova sempre; non sempre, anzi rado, il singolo trova il popolo. Affermano questo Papa essere stato il primo, che mosso da soverchio e non diritto affetto oltre il dovere arricchisse i nipoti a danno della Chiesa: e ciò mi riesce malagevole a credere, dacchè Innocenzo non procedesse punto diverso da lui, e il desiderio di avvantaggiare i suoi nasce con l’uomo, il quale cresce naturalmente quando la tua famiglia salita in altezza per fortuna, o per virtù tue, tu comprendi, che, al tuo sparire, diventerebbe per inopia contennenda; onde chi può non benefica i suoi piuttostochè superiore agli uomini parmi assai vicino alle bestie: tutto sta in questo come nelle altre cose procedere con discrezione; quindi per me penso, che Niccolò si mostrasse in questa faccenda non primo a tutti, ma più stemperato di tutti. Quando dopo la morte di Clemente IV la sede pontificia rimase per bene tre anni vacante Gregorio X ordinò la elezione del Papa in conclave con l’obbligo di scemare il cibo ai Cardinali fino a ridurlo al pane ed all’acqua, e ciò perchè cotesto stroppio non si rinnovasse: e’ sembra, che a quei tempi il Pontefice non fosse infallibile nei suoi partiti; difatti, morto Onorio IV per dieci mesi non fu eletto Papa, e prima di promovere al pontificato Celestino V la sede vacò due anni. Costui rinunziava dopo cinque mesi, e nove dì: scrittori guelfi raccontano come Benedetto Gaetani, che gli successe mediante cerbottana comandasse a cotesto semplice renunziasse al Papato dandogli ad intendere poi gli avesse proprio favellato Dio, e narrano altresì, che si gratificasse il re di Napoli dicendogli: «il tuo Papa Celestino ti ha voluto e potuto servire, ma non ha saputo; io vorrò, potrò, e saprò;» per la quale cosa il re commetteva a dodici Cardinali suoi divoti dessergli il voto. Il signore Luigi Tosti monaco di Montecassino nella vita di Bonifazio VIII nega tutto alla ricisa, e va bene, egli esercita il suo mestiere: noi ci stringeremo a credere, che il Villani contemporaneo di Bonifazio VIII potesse essere meglio informato del monaco Tosti, molto più che il Villani faceva professione di guelfo. Il monaco Tosti nega eziandio la strage di Celestino operata col conficcargli un chiodo nel cranio per comando di Bonifazio VIII; nè io potrei contraddirlo in questo; solo noto, che la testimonianza del Villani mette innanzi quando egli scrive, che faceva custodire il povero vecchio Celestino in onesta prigionia a Fumone, e lo ributta quando racconta della parlata a Celestino per via della cerbottana, e degli accordi simoniaci con Carlo d’Angiò: questa maniera di dettare storie, se male non mi oppongo, corrisponde ad arare coll’asino e col bue: e ciò messo da parte parmi degno di considerazione come nella Bolla con la quale Clemente V canonizzò santo Celestino si affermi con ischiettezza laudabile: «imperito di reggere la Chiesa come colui che dalla puerizia erasi consacrato interamente al culto delle cose divine.» dunque la si tenga per giudicata sopra l’autorità di un Papa, chi troppo osserva Dio non è capace a governare la Chiesa! Opinano gli scrittori Bonifazio VIII avere segnato l’apice del dominio temporale, donde, non potendo più sorgere, gli fu mestieri calare; questo a me non sembra, e non è; piuttosto parmi vera quest’altra sentenza, Bonifazio rappresenta l’ultimo sforzo papesco di riagguantare la immane primazia, come del pari l’epoca sua dimostra il duro, e insuperabile talento dei principi di resistere. L’almanaccare irrequieto di Bonifazio a taluni pare intelletto divino, e a me anfanamento di curiale appaltone. Giacomo di Arragona, chiamato in Ispagna per la morte del fratello Alfonso, abbandona la Sicilia; i Siciliani gli surrogano il fratello minore Federigo come quelli che circuiti essendo di nemici potentissimi abbisognavano di prode e solerte principe che vigilasse alla tutela loro, mentre Bonifazio li desiderava deboli, epperò sottoposti a signoria lontana. Dio è in alto, e il re è lontano, solevano dire i Vicerè di Sicilia quando i sudditi angariati minacciavano richiamarsene al re di Spagna; in questo intento il Papa sobilla Jacopo a ripigliarsi la Sicilia; difficile è credere, ch’egli aborrisse da guerra fratricida: piuttosto temendo di esito incerto cacciare per forza Federigo di Sicilia s’industria abbindolarlo spingendolo alla recuperazione dello impero di Costantinopoli testè perduto da Baldovino; gli promette il sussidio di cento mila once; per giunta gli dona Corsica, e Sardegna; veramente ci dominavano i Pisani; ma ciò non fece ostacolo allora nè poi ai Papi, solo il dono era condizionato allo andarselo a pigliare, e poichè Federigo ricusa, lo assalta secondo il consueto, e respinto secondo il consueto ei chiama di Francia Carlo Valesio: difettando di pecunia immagina il Giubbileo guazzabuglio del costume ebraico mediante il quale gl’Israeliti in capo a cinquanta anni, per sette settimane scioperando un anno intero lasciavano in maggese le terre, i servi affrancavano, i beni impegnati restituivano, i debiti rimettevano, e dell’anno secolare dei Romani; il Papa sbraciava indulgenze a carra, saldo di peccati vecchi e nuovi, ed anco ospizio ai pellegrini, di che fanno le meraviglie gli scrittori chiesastici; ma in cotesta come in ogni altra bisogna, il prete dava un’uovo per avere un bove; le mani non bastando, i chierici dabbene ci adoperavano il rastrello col quale rastellabant pecuniam infinitam, dice la Cronaca e Giovanni Villani, che vi si trovò, conferma con queste parole: «e della offerta fatta per gli pellegrini molto tesoro ne crebbe alla Chiesa, e’ Romani per le loro derrate furono tutti ricchi.» Carlo Valesio, esercitate prima le armi di Giuda in Firenze, dove abbattè i Bianchi esaltando i Neri, passa in Sicilia: combattuto dall’aere, e dagli uomini cala agli accordi; con esso i reali di Napoli per colpa di fortuna, e più per manco di virtù volti al basso. Da questa parte non ci era da sperare più nulla, e poi in Francia vivea Filippo il Bello uso a volere del soldo i due quattrini per sè, e Bonifazio VIII nè anco si sarebbe chiamato contento di tanto. Di vero con la costituzione Clericis laicos rimette in ballo le gregoriane pretensioni; i Colonnesi scomunica, e condanna alla dannazione nell’altro mondo, allo esterminio in questo con la Bolla Lapis abscissus; sopra le terre di Romagna restringe il freno; pei mali consigli di Guido da Montefeltro sovverte Palestrina forte, e bello arnese dei Colonna; due cose nuove comparvero con Bonifazio nella Chiesa, la prima furono i Cardinali vestiti di cappe rosse, e la seconda l’assoluzione anticipata al peccato che sta per commettersi. Federigo prima scomunicato ora torna in grazia di Dio. La costituzione Clericis allunga le mani; l’arcivescovo di Narbona pretende avere per vassallo il visconte, che ricusa omaggio sè confessando uomo del re: Bonifazio naturalmente per l’arcivescovo, pel visconte il re: poi ci fu la disputa per la contea di Melgueville; il Papa tira l’acqua al suo mulino, il re faceva lo stesso. Il monaco Tosti scrive la pretensione del re essere impertinenza; e non crediate mica, che tale opinione mettesse fuori il frate in cotesti tempi a Roma; egli ai dì nostri compone libri in Italia, e la nostra mente resta sbalordita pensando come il Ricasoli barone avesse tolto le costui dottrine a norma per regolare le faccende della Chiesa con lo Stato. Bonifazio invia in Francia legato il vescovo di Pamiers a sostenere le sue ragioni; Filippo lo agguanta, e lo condanna reo di maestà, e manda a notificarlo al Papa perchè gli rifaccia il resto. Chi dei due iniquo? Bonifazio capace di servirsi della opera di un fellone, Filippo attissimo ad apporre false accuse, entrambi per voglia d’imperio smaniosi. Se s’inalberasse a’ cotesta notizia il Papa non importa dire. Mandò: «sopra il divino diritto, e l’umano dei chierici niente potere i laici; rendesse libertà, e beni, ed onori al legato: avvertisse essere incappato nelle scomuniche stabilite dai Canoni contro i percotitori dei chierici; si mostrasse più timoroso di Dio, il quale tanto lo aveva beneficato fin lì.» Subito dopo di rincalzo pubblica la bolla Salvator mundi spedita al re con la lettera che comincia: Nuper ex rationalibus causis, mediante la quale sospende ogni privilegio (così ei diceva, ed erano diritti usurpati dalla improntitudine pretesca) concesso dalla Chiesa al re finchè la causa del vescovo di Pamiers non fosse stata giudicata dai chierici francesi raccolti in sua presenza. — E come se tanto non bastasse indi a breve pubblica l’altra bolla Ausculta filii. In cotesto documento, modello dello idropico vaniloquio della Curia romana, messo a rifascio Dio, Cristo, la Madonna, la Chiesa unica perchè unica sposa di Gesù, il quale ebbe sempre in orrore la bigamia, ed unico il suo capo messo da Dio a giudice dei vivi e dei morti: insomma la Chiesa non patire moltitudine di capi; lui papa Bonifazio comecchè indegnissimo pure preposto da Dio per ragione dello ufficio apostolico ai re, e ai regni in generale, ed in particolare sopra lui Filippo, e sopra il suo regno per distruggere, e ricostruire, stiantare, e piantare, disperdere, e raccogliere, e via di questo gusto: dunque non presumesse di sgattaiolargli di sotto; si lasciasse tosare, e spellare di buona grazia; averlo già ammonito parecchie volte invano; piangergli l’anima (le paterne viscere non pare che usassero ancora) nel mirarlo precipitare ogni giorno più a rotta di collo nelle colpe, che ormai sembravano tramutate in costume; e poi venendo alle strette dichiarava in lui Papa stare la suprema potestà su i benefici dentro e fuori la Curia romana, ed egli re non avercene alcuna; invece attentarsi con empio consiglio usurpare ogni cosa, e poi giudicando sostenere le parti di giudice e parte, laici e chierici mettere ad un mazzo; niente voler sapere di tribunali chiesastici; i giudicati loro reputare anco meno che niente, anzi revocarli, impedire che altri gli osservasse; i beni laicali, o clericali tenere per feudi dependenti dalla Corona; nelle Chiese, e nei monasteri entrato in aspetto di guardiano per sottometterli ad incomportabile servitù; divorarsi le rendite delle sedi vacanti; vietare che alcuna particella se ne mandasse fuori di Francia; della falsata moneta tacere, della oppressione dei sudditi, e di altre nefandità. Ora poichè per ripigliarlo era divenuto roco, forse avrebbe dovuto addirittura porre mano ai gastighi, ma non volerlo fare se prima non avesse tentato uno sforzo supremo per ridurlo a partito: per le quali cose egli intimava una Sinodo a Roma dove egli re o di persona, o mediante suoi oratori, comparisse, ci mandasse quanti abati, vescovi, ed arcivescovi gli piacesse, a patto che a lui Papa fossero grati ed accetti; intanto cacciasse via dalla reggia i falsi profeti, i seminatori di scandali; breve, tutti i facinorosi che lo stornavano dal darsi co’ piedi, e con le mani accaprettato in balìa della madre Chiesa, e di lui padre Papa, che lo arieno acconciato pel dì delle feste. Il monaco Tosti, scorta fidata del Ricasoli barone, trova questa bolla temperatissima, una maniera di bianco mangiare, tutta in regola; poichè trattando di collazione di benefizi, d’immunità di chiese e di monasteri, di rendite da mandarsi a Roma e via discorrendo sta sempre nello spirituale; forse si possono dire faccende temporali il mal governo dei sudditi, e l’alterata moneta; all’opposto il monaco Tosti dichiara insolenza temeraria e peggio quello che rispose l’oratore francese La-flotte al Papa: «la tua è spada di parole, quella del mio Signore è di ferro»; per ultimo sostiene falsa certa lettera scritta da Bonifazio a Filippo, la quale in somma ripete con parole più modeste quello che si contiene nella bolla Ausculta. La bolla Ausculta rimescolò tutti in Francia così laici come chierici; il conte di Arras strappatala dalle mani del legato la buttò sul fuoco. Il monaco Tosti rammenta le arsioni delle bolle papali essere state due, questa di Filippo, e l’altra di Lutero, in Francia la prima, la seconda in Allemagna; giova rammentare che in Italia non fu bruciata perchè Barnabò Visconti costrinse il legato a mangiarsela. Filippo bandì il legato, e vietò, che preti, e quattrini di Francia andassero a Roma: il Papa quanto a’ preti avria per avventura lasciato correre; quella poi dei quattrini gli passò il cuore. Banditi i legati convocavasi un’assemblea nella chiesa di nostra Donna di Parigi; laici, e chierici respinsero le immani improntitudini papali; se autentica o no la lettera che si dice scritta in cotesta congiuntura da Filippo a Bonifazio ignoro, e dubito, tamen assai bene riporta la qualità degli umori del tempo: abbila quì lettore volta dallo idioma latino nel volgare nostro. «Filippo per la grazia di Dio re dei Francesi a Bonifazio che la fa da sommo Pontefice invia salute poca, anzi punta. Sappia la tua massima demenza come noi nelle cose temporali non sottostiamo ad alcuno; a noi per diritto regio appartengono la collazione delle chiese e delle prebende vacanti, e la percezione dei frutti di quelle; la collazione che noi ne facemmo e faremo saranno valide nel presente, e nel futuro, e per noi andranno virilmente difesi i possessori di quelle contro ogni persona; e a chi altro non crede noi mandiamo patente di grullo, e di matto. Dato a Parigi. Così allora la pensavano in Francia re, baroni, e prelati rispetto al Papa; adesso dopo oltre cinque secoli e mezzo cotesti Francesi fanno di cappello al Papa, reputano piccolo omaggio baciargli i piedi, dicono non poterne fare a meno, e poichè non ponno astenersene essi lo tengono sul collo a noi come un giogo di ferro; — e poi la Francia, proprio lei, presume nella processione della civiltà umana portare innanzi il gonfalone! Di contro all’assemblea di Parigi Bonifazio oppose la sinodo di Roma donde uscì la Costituzione unam sanctam in virtù della quale, aboliti i vituperii, e troppo tardi e male velate certe pretensioni ci trovi quanto basta perchè il Prete se non per la via maestra, almeno per tragetti ti entri in casa a scombuiarti ogni cosa. Il monaco Tosti facendo l’indiano meraviglia come così discreta costituzione non si avesse ad accettare, ed ha torto, massime poi con lo esempio della Inghilterra cui allora presiedeva quel sozzo uomo, che chiamano Giovanni senza terra, mentre tace, che Odoardo I la respinse appena n’ebbe facoltà, ed è cotesto modo procacciante e insidioso di scrivere storia. Ragione ha poi quando scrive: se volete vivere da cattolici bisogna piegare il collo, e adattarsi, altrimenti buttate giù il cattolicismo: o mangiar questa minestra o saltare questa finestra: presumere di volere restare cattolici, e dare di cozzo al Papa ad un punto si offende la fede, e la ragione; nel secolo XVI Lutero, e gli altri buttarono giù buffa mostrando mente eretica ma discorso di ragione, sicchè chi legge se l’abbia per giudicato; dov’egli pure desideri vivere vita libera e cristiana gli è mestiere gettare il cattolicismo alle ortiche; e in questo mi trovo d’accordo col monaco Tosti. Costui però mal tasto ha toccato, e potria rendere tal suono pel quale la Curia forse non gli darà la mancia. Matta cosa quella di volere temperare l’assolutismo della monarchia della Chiesa con l’aristocrazia dei Concili, e peggio coll’autorità dei re, dice il monaco Tosti; e mille volte più matta volerla accordare co’ liberi pensamenti della Democrazia, dico io. Noi altri, egli monaco, ed io laico, ci potremo vantare di avere fatto un gran bene ai tempi nostri, voglio dire, cacciato al diavolo qualunque equivoco, avere definito la quistione a modo, e a verso: o asso, o sei. Se cattolici che almanaccate di Chiesa libera in Istato libero? — Mi suona come la prima ottava del volgarizzamento delle Metamorfosi di Ovidio fatto dall’Anguillara. Osservate i sacramenti tutti con le interpretazioni del Papa, del vescovo, del curato, del cappellano, del sagrestano, e dell’ostiario; a Roma per le dispense pagate le annate, le decime, e l’obolo di San Pietro; abbiate i Gesuiti per babbi, i Paolotti per mamme, per fratelli i Domenicani, i Capuccini per sorelle; soprattutto riverite i tribunali ecclesiastici; lasciate i beni ai monaci, anzi cresceteli del vostro a cotesti serafici operai nella vigna del Signore; credete che Gesù si sia staccato di Croce per istringersi al seno Santa Caterina domenicana, e credete altresì, che il prelodato (a Torino dicono antefatto) Gesù barattasse il suo cuore con quello di Santa Brigida francescana; se no cessate essere cattolici per diventare cristiani. Per me, credo, che questa sarebbe la più diritta via per andarcene a Roma. Il Papa ci scomunicherebbe e se ne andrebbe: chè se Enrico IV potè dire, e male: «Parigi vale una messa» al popolo dovrebbe essere lecito esclamare a sua posta: «Roma vale una scomunica.» Fra Bonifazio e Filippo, come succede fra due superbi e cupidi s’invelenirono le ire; di qua e di là crescono le offese; il Papa scomunica il re; questi appella al Concilio futuro; poi manda gente in Italia a recare supreme offese al Pontefice, la quale espugna Anagni, imprigiona Bonifazio, e lo percuote. Dicono gli desse la guanciata Sciarra Colonna, e corre fama conduttore delle genti fosse Musciatto Francesi; ciò dimostra come in ogni tempo i meno disposti a riverire come venerabile cosa il Papa sieno stati gl’Italiani: le guanciate non lodo, anzi biasimo; e poichè Filippo aveva appellato al Concilio, alle decisioni di questo aveva a stare; ma io già l’ho detto, tra Filippo e Bonifazio la correva come fra il rotto, e lo stracciato, e degnissimo di obbrobrio era certamente questo Papa il quale, mentre scomunica Filippo di Francia reo solo di volere essere forse troppo padrone in casa sua, accoglie da capo nella comunione dei fedeli Alberto di casa Asburgo fellone e omicida del suo re Adolfo, solo perchè piega il capo scellerato dinanzi alla potestà pontificia. Dopo questa lotta disperata il sacerdozio co’ nervi recisi ebbe a cascare in balia di Filippo: per lui fu eletto Bertrando di Got, il quale tolse nome di Clemente V; francese questo, e nello stato in cui si trovava che resistenza poteva egli opporre al re superbo? Tuttavia da quello astuto prete, ch’egli era, quanto non ispettava al sacerdozio facile concedeva; l’altro no, schermendosi artatamente; così per compiacere a Filippo egli gli condannò i Templari, di cui Filippo arraffati i beni costrinse gli Spedalieri a comprarli; cassò la bolla della scomunica, lui e i complici suoi mandando assoluti; gli concesse le decime per la guerra di Fiandra; e più oltre gratificando il temuto sire (deh! perchè lo spirito di Filippo il Bello non torna a soffiare sul reame di Francia?) tolte le tende da Roma andò a piantarle in Avignone; ma la truce voglia di disotterrare il cadavere di Bonifazio, e darlo al fuoco respinse; bene lo fece giudicare intorno all’accusa di eresia; ma di leggeri uomo si persuade, ch’egli mettesse in opera ogni industria, affinchè il Concilio di Vienna lo rimandasse, come avvenne, assoluto. Il papato adesso si arrampica da questa parte o da quella con perdita continua della sua autorità; legato alla materia si contamina di nefandezza, nè ad altro attende che ad ammassare pecunia; nella contesa tra Ludovico il Bavaro, e Federigo di Austria, il Papa parteggiando per questo scomunica il primo, il quale ito a Roma, crea antipapa Niccolò V, e fattosi incoronare accusa Giovanni XXII di eresia; se il Papa fosse eretico o no ignoro, quantunque la fama lo accusasse appartenere alla setta dei millenari; quello che so, egli è, che fu il più spietato usuraio di quanti mai comparvero al mondo. Benedetto XII tiene ferme le scomuniche contro Ludovico (io l’ho pure chiarito; i Papi sono tutti un prete) il quale per torgli il vino dal capo, convocata la Dieta, fa dare di frego alle censure di quello, e statuire allo impero eleggersi dagli elettori a pluralità di voti, in cotesta elezione il Papa non entrare per nulla, non lui, bensì il Conte palatino del Reno essere vicario a impero vacante. Con più animosi spiriti sottentra a sostenere la lotta Clemente VI, che richiesto di accordo lo rifiuta se prima Ludovico non risegni il trono, gli dia in mano i suoi difensori, e la Dieta non riconosca lo impero feudo papale; parendo le sue parole ebbre egli mette su taluni elettori ad eleggere emulo a Ludovico il figliuolo del re di Boemia; donde una guerra che subissò Germania; esso intanto viveva ozi lascivi in compagnia della contessa di Turena venditrice di grazie, o di benefizi, ed anco donatrice di cappelli cardinalizi a giovani notabili di robusta bellezza. — Da lui il diritto dei Papi sopra Avignone, ed ecco come Giovanna di Napoli, in qualità di erede dei reali di Provenza, lo possedeva; avendo ella trucidato il marito Andrea per isposarsi con Luigi duca di Taranto ora atterrita dalle armi di Ludovico re di Ungheria sceso a vendicare la morte fraterna, onde non inimicarsi il Papa, ricercata a grande istanza da lui glielo vende per ottantamila fiorini di oro: incauta sempre, prima di riscoterne il prezzo implora il perdono del delitto commesso e licenza di vivere col cugino adultero, ed omicida: l’assoluzione ella ottenne, ma non il pagamento della moneta: così con l’assoluzione di un delitto la Chiesa cattolica compra Avignone. Certo non era questo titolo di dominio da rispettarsi, ma fosse stato migliore non lo avrieno rispettato i Francesi, che glielo tolsero, e non lo restituirono. Ora i Francesi a noi contrastano, quanto a sè permisero; perchè questo? Giovò loro pigliarsi Avignone, non giova, che noi ci pigliamo Roma: a noi poi non lice imitarli come quelli che deboli siamo, e di farci potenti abbiamo quasi paura; ci sta tuttora nelle ossa la ruggine della servitù. Qui s’intromette la storia di Cola di Rienzo; costui forse restituiva la repubblica romana se avesse posseduto mezze le virtù, che cantava in esso Francesco Petrarca; certo a ruinarlo ebbero parte e non poca i preti legatisi ai patrizi, e la feroce voltabilità del popolo: ma soprattutto vuolsene dare la colpa alla vanità di lui: come per questa tracollarono Masaniello a Napoli, l’Alesi a Palermo, ed altri parecchi è noto: Michele Lando vano non fu, ma avverso ai patrizi, nè tutto alla plebe; ammanniva il dominio al popolo grasso, a sè l’esilio: indole mezzana, e senza concetti se togli quello d’impedire disordini il quale quantunque buono, di per sè non costruisce; e chi ha a fare col fuoco non si deve sbigottire di scottature. La lontananza dei Papi rilassava naturalmente i vincoli di subiezione, ond’è, che le città di Romagna o per via di tiranni, o di popolo si reggevano senza darsi un pensiero al mondo di loro. Innocenzo VI, e Urbano V deliberati ricondursele a devozione si avvantaggiarono delle compagnie di ventura. Che cosa esse fossero tutti sanno, e sorsero in Francia dalle guerre sia contro gl’inglesi, sia civili: da prima i Papi n’ebbero onta e danno; Arnaldo di Cervole del Perigord arciprete di Verny costringeva Innocenzo VI di riceverlo a gloria in Avignone, farlo sedere a mensa in compagnia dei Cardinali, assolverlo da ogni peccato, e per penitenza dargli del proprio 40,000 fiorini di oro, di che i preti si dolgono sempre; un po’ più tardi il Du-Guesclin conducendo le compagnie bianche in Castiglia per sovvertire il trono di Pietro il Crudele, sprovvisto di pecunia, e ignaro a qual santo votarsi per metterne insieme, le menò ad Avignone, ed Urbano per levarsele dintorno ebbe a prosciorle delle peccata, ed in questo ci andò di buone gambe e più a fornirle di 200,000 franchi di oro, ed anco questo, comecchè gli paresse ostico, gli toccò a ingoiare. Tra loro si trovava Giovanni Acuto, e Malastretta, il Buda, il Sala; a tutti prepose Gregorio XI Roberto Cardinale di Ginevra, brutto di corpo non meno che tristo dell’animo: costui quando gli occorreva qualche masnadiero tutto sangue le mani, la faccia, e la spada urlando avere menato strage di donne, e di uomini, non esclusi i fanciulli eziandio lattanti, per grande gioia abbracciava, lo benediceva, il ferro gli consacrava. Bologna mostrò allora come sempre, che agl’Italiani virtù non manca bensì la disciplina, dacchè due masnadieri Brettoni avendo sfidato tutto il popolo due giovani popolani, Guido d’Asciano sanese, e Betto Riffoli (il popolo ha sempre le mani lunghe per combattere, i patrizi quasi sempre per rubare), gittati a terra i cappucci loro accettarono la sfida, che a quel modo in cotesti tempi si dava e si riceveva il gaggio; poi venuti a battaglia, e superatili per virtù, e per fortuna, loro donarono per mercè la vita. Lo sforzo del Papa era contro Firenze, dopo la guerra trucissima mossa da lui contro i Visconti; il legato pontificio Guglielmo Noellet di celato le spingeva contro l’Acuto, che per insidia tentava rubarle Prato, in vista poi mandava a testimoniarle maraviglia e dolore del caso, ma a cui l’ha da fare con tosco non vuole essere losco, e i Fiorentini svelti già avevano contaminato l’Acuto e il tiro pretesco andò invano. — Il Papa innanzi di movere aveva domandato al Malastretta, se gli bastasse l’animo «di pigliare Firenze? Ci entra egli il sole? invece di risposta interrogò il Malastretta.» E il Papa a lui: «certo, ei v’entra.» Dunque, conchiuse il masnadiero, «se ci entra il sole ci entrerò io.» Ma il sole continuò ad entrarci; ed egli mai. E’ non si vuole negare i Fiorentini avrieno dovuto combattere a viso aperto la Chiesa non già con le arti onde in breve fecero ribellare al Papa fino ad ottanta fra città e castelli: con le armi non co’ fiorini vincere l’Acuto; ma per altra parte chi ravvisa il vicario di Cristo nell’uomo, che conduce per suo capitano l’Acuto il quale per mantenere in devozione della Chiesa Faenza la quale tentennava la manda a ruba, e a sangue senza perdonare a sesso, o ad età, contamina donne di ogni maniera, vergini o spose, monache o laiche; e per torre via la lite fra due conestabili, i quali, messa la mano addosso ad una fanciulla, se la contendevano, con un gran fendente la partisce in due gridando: «mezza per uno!» Nè si dica, che questo commettesse l’Acuto per suo mal talento, imperciocchè chenti fossero i legati pontifici vedemmo, e peggio verrà chiarito per questo altro caso. I masnadieri della compagnia santa (santa suole chiamare il prete qualunque perfida, e scellerata cosa, purchè gli approdi) usciti dal contado di Firenze vanno a Cesena dove pigliano stanza col Legato del Papa nella Rocca: quinci rovesciandosi nella città funestavano del continuo i cittadini con soprusi, e offese, e rapine, che appena impedendosi negli eserciti regolari quasi si lodano nei masnadieri; i cittadini inacerbiti rivoltansi; afferrate le armi si mette mano a combattere; i soldati, come sempre nelle battaglie cittadine, ne toccano; e certamente in quel dì andavano sperperati del tutto, se il Legato interponendosi, molto supplicando, e molto promettendo, non gli avesse persuasi a posare. Venuta la notte, e quando il sonno tiene legata la gente, il Legato chiamato a sè l’Acuto gli disse (io vo’ narrarlo con la Cronaca sanese di Neri di Donato) «messere Jovani.... io ti comando che tu et tua gente scenda nella terra et facciate justitia» — Messere Joanni disse: «Messere anderò, e farò sì con tutti li terrieri, che lasseranno le armi et si renderanno a voi in colpa. — No, disse il Cardinale, sangue, sangue e justitia.» — Disse messere Joanni: «pensate al fine.» Disse il Cardinale:«io vi comando così.» E mentre si mena va la strage il Cardinale correva intorno gridando: «affatto! affatto!» Cotesta fu immanissima strage; non si racconta l’uguale di Attila e di Tamerlano; oltre i consueti orrori furonci bambini inchiodati nelle porte delle case, e a tanti ruppero il cranio su le pareti, che la terra biancheggiava di cervella dintorno; non mancò nè anco chi sventrata la madre nelle viscere di lei troncò una non bene compiuta vita. Un padre dalle mura cala corde nel fosso, e ci si affida per accertare lo scampo alla moglie, ed ai figliuoli suoi; tentato il terreno si arrampica sull’argine: quivi il nemico ferro lo coglie, e l’uccide. La donna, aspettato indarno il marito, per cotesto aere cieco col bambinello al collo si commette alle funi; scese incolume, ma impigliatasi poi nella melma del fosso casca, e il figliuolo le si sommerge nell’acquitrino; lo cerca un pezzo brancolando, e dopo ora non breve lo ritrova; con esso in braccio traboccando ogni tratto, e nella fitta ad ogni passo affondando arriva a proda; quivi le occorre spento il marito, e si accorge tenere al seno pure esanime il figlio: allora dispettando la vita getta via il pargolo e corre a farsi ammazzare dai nemici. Chi fuggiva pari in fortuna a cui restava, però che i masnadieri corressero la campagna peggio dei segugi: a 5000 sommarono i morti in Cesena non contando gli arsi ed i mangiati dai cani; nè molti meno cascarono privi di vita pei boschi a cagione del freddo e della fame: le vesti dei traditi barattavansi a carra con altrettante carra di paglia: il Malatesta nel rifabbricare l’anno dopo Cesena trovò piene di ossa cave da grano e cantine, e le cisterne ampissime di San Gelone e di San Lorenzo. — Santo Antonino paragonò il Cardinale autore di tanto eccidio ad Erode ed a Nerone. La Cronaca di Bologna conclude la storia del caso miserando: «Nerone non commise mai una siffatta crudeltà, che quasi la gente non voleva più credere nè in Papa, nè in Cardinali perchè queste erano cose da uscire di fede.» Gran bene aria fatto la gente di allora se tolto addirittura di mezzo il quasi avesse saltato il fosso rinnegando la Curia Romana. La Cronaca sanese di Neri di Donato già citata esclama: «così oggi sono venute le operazioni dei Prelati, e dei chierici della casa di Dio,» E pare, che il buon cronista non leggesse storie, nè che spirito di profezia fosse in lui, diversamente avrebbe conosciuto come le opere della Chiesa per lo innanzi scelleratissime si mantenessero dopo sempre pari. Il Monaco Tosti si rallegra nella vita di Bonifazio VIII come la costituzione Unam sanctam di costui fosse accolta in Inghilterra; ei si rallegra intempestivo e male, imperciocchè cotesta Costituzione, e le altre intemperanze clericali già cominciassero anco là a rimescolare gli spiriti avviandoli alla ribellione; così che presto Giovanni Vicleffo colà sorgeva alla scoperta contro la dottrina e gli abusi della sede romana rammemorando ai popoli le lunghe rapine, e la feroce avarizia di lei. Corre comune opinione che Papa Gregorio tornasse a Roma pei conforti delle due sante rivali nello amore di Cristo Brigida, francescana di Svezia, e Caterina, domenicana da Siena; io veramente penso, che le compagnie di ventura, massime le visite dell’arciprete di Perigord, e di Bertrando di Guesclin ve lo spingessero più forte: ad ogni modo pare che anco costoro con i ghiribizzi del proprio cervello ve lo inducessero, dacchè Gregorio XI in fine di vita ebbe a dire: «gli uomini prudenti si badassero dagli uomini, e dalle donne, che pigliando le fantasticherie loro per estasi religiose abbindolavano la gente; dallo quali invecerìe egli pure confessava essere stato sedotto.» E senza dubbio le donne opererebbero santamente a badare a’ fatti di casa, ed in particolare le monache, le quali, secondo che porta il nome di monaco, dovendo starsene chiuse e sole non si sa, che diavolo vadano a sgonnellare nel mondo. Lui morto, i Cardinali riunironsi in Conclave ad eleggere il Papa; ventitrè erano in tutti, dei quali sei rimasti in Avignone, uno legato in Toscana, gli altri a Roma, undici francesi, uno spagnuolo, quattro italiani: elessero uno italiano: sicuro, una tal quale violenza ci fu a fare eleggere Papa italiano raccontando le storie, che da trentamila Romani assediassero il Conclave; le campane sonavano a stormo, il popolo urlava: «morte a tutti, Papa romano, o almanco italiano,» ed ammantava fascine per bruciare i contumaci; però sendo quattro i Cardinali italiani non gli obbligarono ad eleggere per lo appunto Bartolommeo Prignano da Napoli. Usciti di Conclave ebbero altri consigli, e si pentirono avere eletto un’uomo acerbo, che di colta volle ridurre, il vitto dei Cardinali ad una pietanza sola, pretese troncare di botto le simonie, ed impedire pigliassero doni: anco significò loro, che di tornare ad Avignone smettessero il pensiero, perchè a Roma intendeva restarsi: volere ad ogni costo deprimere la baldanza francese; essere tempo che la Chiesa cessasse di comparire feudo di Francia; volere (e in ciò forte lo inuzzolivano i Romani) promovere tanti Cardinali italiani in una volta, che ormai fosse disperata la elezione di Papa francese: sommo il disprezzo da lui mostrato ai Cardinali; a quello diceva: «taci, tu hai parlato anco troppo;» a questo: «smetti, che tu non sai quello, che ti dica;» il Cardinale Orsino un bel giorno salutò col nome di stolto; ed avendo chiamato il Cardinale di san Marcello senza rispetti ladro, questi di rimando lo rimbeccò con le parole: «tu menti come un calabrese.» Tutto questo forse era vero, ma che i Cardinali scismatici si sentissero obbligati in coscienza a spingergli contro Clemente VII, perchè lo provarono di natura crudele e feroce questo poi non regge, quante volte tu consideri Clemente VII essere stato niente meno che quel Roberto da Ginevra del caso di Cesena. Di qui scisma provvidenziale, onde vie più il Papato cascasse nel vilipendio delle genti: con Urbano rimasero Inghilterra, Lamagna, Ungheria, Polonia, Boemia, e Portogallo; andarono con Clemente Francia, Sicilia, Spagna, Svezia, e Savoia. Ora vedremo cosa nuova, due Papi donare a due un regno, e nei petti umani infiammare tanto odio, che peggio non avrieno saputo fare venti demoni. Poichè Giovanna regina di Napoli si mostra fautrice di Clemente VII, e lo ricovera nei suoi stati, Urbano le sommuove sotto il regno, e costringe l’antipapa a ricoverare in Francia; nè qui si ferma, chè scomunicatala, e depostala dal regno lo conferisce a Carlo di Durazzo suo nipote, e da lei beneficato: all’opposto Clemente VII conferisce il medesimo regno a Luigi di Angiò figlio di Giovanni I re di Francia, e d’accordo con Giovanna chiama le armi francesi in Italia. Prevalse Carlo, che la zia benemerente soffoca fra i guanciali, e diventa re di Napoli: più di una testa non cape dentro corona regia. Luigi intanto veniva di Provenza alla vendetta, e al regno; Urbano approfittandosi della congiuntura insta presso Carlo, affinchè adempia la promessa stipulata quando lo investì del regno, la quale era conferire terre, castella, e pensioni ai suoi nepoti con più il principato di Capua; e Carlo lo tiene bene edificato finchè il pericolo dura, morto l’emulo in Bari di naturale infermità, al Papa, che alle solite istanze aggiungeva quella che avesse a levare via certe nuove gabelle, rispose: «il regno suo per diritto di successione e per armi; da lui Papa niente avere avuto eccetto quattro parole scritte sopra la investitura: quanto a gabelle non se ne impacciasse; attendesse ai preti.» Di qua e di là avvicendansi parole acerbe, e Carlo infellonito senza un rispetto al mondo va difilato ad assediare il Papa a Nocera. Se Urbano chiuso tempestasse, maledicesse, e scomunicasse non importa dire; tre volte in capo al dì si affacciava dalle mura, e a suono di campanello, in mezzo alle fumose vampe delle torce di pece avventava l’anatema contro Carlo. Cinque Cardinali che si trovavano seco attentaronsi dirgli, che campanelli, e torce, e scomuniche valgono contro cui le teme, ma ben’altri argomenti ci vogliono quando questi non approdano: si accordasse. Il Papa sospettando fossero contaminati gli fece in un’attimo appiccare per le braccia alla corda; intanto egli passeggiava recitando il breviario, e di ora in ora interrompeva la lettura confortandoli a palesare il tradimento; così un pezzo finchè cotesti meschini risoluti significarono, che non sentendosi in colpa, nè manco potevano confessarla; allora fatta dalle braccia attorcere la fune al collo di loro il santo padre ordinò gli strangolassero: aggiungono altresì che messi in pezzi e seccati i cadaveri nei forni n’empì parecchie valigie le quali dipinte a teschi, e a stinchi, e coronate col cappello cardinalizio poste su le groppe ai muli lo precedessero insieme con la triplice croce; questa per procacciarsi venerazione, quelle terrore: tuttavia parte con inganni, e parte per virtù di Ramondello Orsino e di Tommaso Sanseverino si sottraeva al presente pericolo rifugiandosi a Genova. Carlo lascia Napoli e va re in Ungheria; cola è morto; nella Chiesa di santo Andrea gli danno sepoltura cristiana, dove lo fa levare il Papa però che come colpito di anatema non potesse giacere in sacrato. Ora due re fanciulli emuli Luigi II figlio di Luigi di Angiò, e Ladislao figlio di Carlo; due madri tutrici contendenti con tutte le perfidie femminili senza pure una virtù da uomo; due preti che si maledicevano pretendendo entrambi rappresentare Gesù Cristo; Urbano per Ladislao suo pupillo, e Clemente per Luigi del pari suo pupillo, ed ambedue fermi di opprimere il re nemico e spogliare il proprio pupillo; poi Urbano scomunica tutti e due, bandisce crociate; e sè proclama re di Napoli; mentre da Perugia accorre a Roma per sedarvi una ribellione casca da cavallo e muore. Succede Bonifazio IX; anco Clemente cessa in Avignone; i Cardinali di Francia supplicati da molta parte della cristianità ad astenersi di eleggere altro Papa ovvero antipapa, e così porre termine allo scisma, non danno retta per paura di guai venendo in potestà di Bonifazio; però a Clemente surrogano Pietro di Luna di Arragona, che piglia nome di Benedetto XIII. Costui prima della sua elezione lamentava lo scisma; innanzi e dopo il pontificato ottenuto prometteva risegnare lo ufficio pel bene della cristianità, ma poi era niente; quando si veniva all’ergo, non trovava basto, che gli andasse; allora Carlo VI re di Francia, per venirne al chiaro, manda il maresciallo Boccicalto in Avignone perchè lo pigli e metta in carcere; tosto detto, e tosto fatto, chè i Francesi quando torna loro il conto non la stanno a guardare tanto pel sottile, ed allora la corte di Avignone gli uggiva. Forse lo scisma sarebbe stato tolto di mezzo, se Vinceslao imperatore avesse potuto, siccome prometteva, torre Italia e Lamagna alla obbedienza di Bonifazio IX, ma i baroni pel suo mal governo lo deposero surrogandogli nello impero Roberto il Bavaro; allora i Francesi rilassarono la custodia di Benedetto, tanto, ch’ei potè fuggirsi di prigione; tuttavia per buttare polvere negli occhi manda a Roma quattro legati onde venire ad un accordo; rompono da una parte, e dall’altra in rampogne sanguinose; di qua e di là ragione, ma Bonifacio come presente e rabbioso se ne arrapina più dell’altro, e muore. I Cardinali si affrettano a dargli per successore Cosimo Migliorati di Sulmona, che assume nome d’Innocenzio VII. E si affrettarono perchè il popolo tumultuante gridava: libertà. Certo se il popolo per genio proprio avesse appetito la libertà ei l’acquistava, ma ciò faceva per istigazione del re Ladislao, e ormai per mille prove si era visto, che la libertà in mano al principe è quasi una chiave per aprire la porta della tirannide, e dopo quel tempo per altrettante prove è rimasto confermato; ma il popolo non lo aveva per anco conosciuto, nè sembra lo conosca neppure adesso. Ladislao poi non si stava a minaccie, ma con molta copia di armati si accosta a Roma: gli resiste Innocenzo, e ributta il re con la peggio dagli assalti notturni: mentre però apparecchiansi nuove battaglie taluni cittadini non avversi, anzi parecchi al Papa divotissimi, si recano al campo nemico per vedere se ci fosse via per comporsi; di ciò piglia sospetto Luigi Migliorati nipote del Papa, e poichè il sospetto nell’anima del folle armato è morte pel sospettato, al ritorno ei gli agguanta, e ammazza; da ciò un tumulto d’inferno, onde il Papa riesce con istento a salvarsi in Viterbo. Ladislao entra in Roma sovvenuto dai Colonna e dai Savelli, i quali aristocratici essendo furono allora come sempre compari dei tiranni; ma il popolo non intende barattare una servitù con un’altra e delle due men trista la papale; e allora forse era così; prese pertanto le armi si azzuffano popolo e soldati regi e per tutto un dì combattono; verso sera i regi piegano, Ladislao è cacciato fuori delle mura, non prima però, che come testimonio col quale intendeva reggere i nuovi sudditi amatissimi, non avesse appiccato il fuoco a quattro quartieri di Roma. I Romani richiamarono il Papa, nel modo stesso, che i della Torre sperarono essere richiamati dai Milanesi, vale a dire quando i peccati dei Visconti avessero superato i loro, e morì senza avere o voluto, o saputo, o potuto fare niente per rendere la pace alla Chiesa. I Cardinali di Roma piuttostochè Papa deliberarono eleggere quasi un procuratore disposto a risegnare il papato; e così ognuno di loro giura avrebbe fatto dove lo avessero promosso al seggio pontificio; dopo ciò eleggono Angiolo Corrario da Venezia, che prese nome di Gregorio XII. Questi fingendo osservare il patto propone a Benedetto la mutua risegna, e Benedetto a lui. Carlo imperatore per istringere la cosa invita i due emuli a deporre l’ufficio al cospetto del proprio collegio di Cardinali: ambedue girano nel manico e chiedono una conferenza in seno alla quale ognuno di loro renunzierebbe: per luogo di posta da entrambe le parti si accetta Savona; ferma e stabilita ogni cosa, le case, le guardie, le scambievoli malleverie, le galere, il tempo; di tutto questo corre l’annunzio ai principi: pareva che quei due vecchi preti altro non avessero a fare, che stendere la mano per toccarsela, e i due vecchi preti non mai furono come allora alieni di trovarsi insieme. I Veneziani indettati rifiutano le galere a Gregorio; di ciò movendosi querimonia grande a Roma, a Gregorio tocca uscirne, ma si ferma a Siena, e di qui ripiglia ad annaspare. Benedetto tastato il terreno, e sicuro ormai non si verrebbe a niente, più audace avanza, va a Porto Venere, va alla Spezia, e qui sosta. Gregorio preso pel collo da Siena si reca a Lucca, ma qui mette le barbe; nè ci fu verso di staccare il primo dalle marine, nè il secondo dalla terra ferma; «se uno muove un passo innanzi, scrive Lionardo Bruni nei Commentari, l’altro lo dà addietro; uno di loro come animale acquatico schifa la terra, l’altro animale terrestre aborre l’acqua; e per questa guisa questi due vecchi preti per pochi istanti di vita, che possono tuttavia loro avanzare, mettono a cimento la pace, e la salute della Cristianità!» Gli asti cavillosi di questi due preti decrepiti avendo vinto la pazienza altrui, i Cardinali loro seguaci gli abbandonarono, e convenuti insieme con altri prelati bandirono il Concilio di Pisa; e fu cosa fuori di misura molesta tanto a Benedetto, che a Gregorio però, che alla monarchia pontificia con sì lunga industria stabilita venisse di un tratto a surrogarsi l’oligarchia cardinalizia; e non tornava meno ostico quello imporsi del Concilio sopra il Papa. Ancora, i Romani assai di quieto, anzi con maravigliosa contentezza, si adattavano alla signoria del Papa dacchè col trovato del Giubbileo, e con gl’infiniti altri ogni dì rinascenti, per cui il prete si mostra pescatore solenne di pecunia, colà in Roma si gavazzava; e il romano popolo non pure si era mantenuto quello del pane e dei circensi, ma nella pretensione di scioperare ed essere mantenuto a ufo erasi due cotanti più incarognato; ed ora per cotesti scismi, contenzioni, e guerre d’inchiostro non menochè di sangue invece di avvantaggiarsi col richiamo del Papa conosceva a prova averci scapitato e non poco: per le quali cose preso in uggia santa sede, e Papa macchinava cose nuove: onde il buon prete Gregorio innanzi che il popolo facesse atto di ribellione, ovvero l’odiato emulo penetrasse in Roma, assettò le faccende in guisa che Ladislao potè di leggieri occuparla mercè il tradimento di Paolo Orsino. Nè lo emulo Benedetto sperimentava la fortuna meno acerba, però che Carlo VI al parere del Parlamento e della Sorbona avendo pubblicato uno editto che ordinava ai sudditi Papa, ed antipapa mandassero alla malora se prima dell’Ascensione non si fossero accordati, Benedetto indracandosi lo intimava ad abbuiare l’editto; se no, guai! E il re di rimando lo dichiarava nientemeno che scismatico, eretico ostinato, perturbatore della Chiesa di Dio, con altre siffatte galanterie che i re fino da cotesto tempo avevano rubato alla bottega del Papa. Allora chi piglia per un verso, chi per un’altro: Gregorio si commette a Carlo Malatesta di Rimini ed intima il Concilio a Ravenna; Benedetto va in Arragona, e convoca a sua posta il Concilio a Perpignano; il terzo Concilio intanto faceva le sue faccende a Pisa dove deposti Benedetto e Gregorio elessero Papa un Pietro Filardo, che volle appellarsi Alessandro e fu V di numero: poco visse, e corse fama credibile, raccolta eziandio dagli scrittori chiesastici, che morisse di veleno ministratogli da Baldassare Cossa legato di Bologna, non avendolo alla prova rinvenuto quale ei lo desiderava arrendevole. Se a sostituire il Cossa al morto Alessandro contribuisse lo spirito santo arduo è a sapersi; certamente vi ebbe parte il terrore delle armi stipendiate dal Cossa. Dal Concilio di Pisa ne uscì questo di bene che invece di due Papi d’ora innanzi furono tre, che si misero a straziare la Chiesa per modo, che peggio non avrieno potuto fare i Saraceni; e qui considerando come i Papi con poca e punta autorità temporale su Roma, e sopra gli altri stati, potessero condurre guerre così lunghe e dispendiose importa porre mente a questo, che appunto ricavando da altra parte, che dai pretesi loro dominii, danari a macco la perdita di quelli non ne alterava le condizioni: la sarebbe andata diversa se i cattolici ristucchi di tutti i Papi, e antipapi avessero tutti abbandonato; ma la procedeva diversa, però che essi si dividessero, ed uno seguitassero il quale per buono e santo obbedivano. I Papi poi e gli antipapi diversi in moltissime cose, nel pigliare pari: sembrava che Giovanni XXII dei trovati per carpire danari avesse tocco la cima, ed in breve fu vinto da Bonifazio IX il quale estese le annate anco alle prelature; e queste annate, che ai tempi suoi sommavano a mezza la rendita dell’anno, egli non si peritò crescere di punto in bianco fino a tre volte la rendita di un anno; ei prese a vendere tutto, indulgenze, cariche, e onori; in prezzo (mancando moneta) pigliava merci: per danaro perdonava delitti: prometteva a vari la cosa medesima, e poichè da tutti se l’era fatta pagare, tutti con fronte di bronzo truffava. Per quanto i Papi si sieno industriati fare, hanno ricavato se non poco, però sempre meno di quello, che speravano dai popoli soggetti: e quante volte vi hanno avuto ricorso adoperarono in modo da tenerseli bene edificati. L’Albergato nei commentari dei suoi tempi nota: «come la Chiesa da Terracina a Piacenza possieda bella, e magna parte d’Italia; e tuttavia tanti popoli opulentissimi, tante città floridissime, le quali amministrate da altri, potrieno con le gabelle sopperire alla spesa di qualunque grande esercito, alle mani del Papa appena buttano tanto che basti alle cariche dei magistrati che ci mandano a reggerle.» Secondo la relazione dell’Oratore Zorzi, Perugia, Spoleto, la Marca, e la Romagna insieme fruttavano un 120,000 ducati, di cui se la metà entrava nelle casse del Papa era bazza. — I Papi si sono aggravati sopra i sudditi alla stregua, che alla devozione spariva il latte; e non mancano ricordi per informarci come le rendite dello stato sotto Giulio II di 35,000 scudi salirono a 420,000 ai tempi di Leone X; a Clemente VII riuscì portarle fino a 500,000; a Paolo III fino a 706,473; dopo alquanto di sosta ripigliano ad aumentare; Pio IV le spinge a 900,000 scudi, e nello spazio di nove anni le troviamo ascese al 1,100,000 ducati. — Pure negli stati della Chiesa questo toccare dei cofani più che altrove si mostrò pericoloso; e non contribuì poco a dare il tracollo ad Adriano la necessità nella quale ei si vide condotto di mettere il balzello di mezzo scudo a fuoco; e fu provato che anco nel 1846 il popolo degli stati romani pagava meno di ogni altro italiano e forse di Europa. I Papi immaginarono altre vie per fare danaro; il primo fu imporre per modo transitorio, come promettono sempre, e poi durò un pezzo, il tributo, che a Napoli ed in Sicilia appellavasi donativo, in Ispagna servicio, a Milano mensuale; doveva gettare un 300,000 scudi all’anno, ma non li rese mai; nel 1560 appena ne raccattavano 165,000. L’altro fu creare debiti pubblici come oggi si costuma: sicchè possiamo sostenere i Papi maestri a noi Italiani nell’arte del debito pubblico; come col tirare a Roma tanto danaro di fuori dal mondo cattolico se non inventori certo utilissimi promotori del commercio di banca: i debiti poi operarono in due maniere, la prima redimibile, la seconda no: la prima si faceva sotto forma di nuove cariche istituite, le quali vendevansi, e sul prezzo sborsato si retribuiva una provvisione, la quale secondo la vita del compratore si calcolava a 14 per cento, e non era troppo; poi si costumò diverso: si tolse in presto una somma assicurandola sopra l’entrata di qualche gabella; anzi accettando i creditori a parte dell’amministrazione, ed assegnando sopra l’entrata della stessa gabella il pagamento dell’usura, la quale naturalmente per la durata, e la sicurtà del presto, ridussero a dieci, ed anco ai nove per cento. A tutti siffatti debiti imposero nome monti; e i primi furono detti vacabili, però che con la morte del possessore della carica vacavano; gli altri no, chè si alienavano, o tramettevano agli eredi. Che cosa poi la Curia romana inventasse per vendere appena si crede: notariati, protonotariati, segretari, scrittori di brevi, scrittori di archivi, bollatori, porzionari di ripa, presidenti, e aggiunti al collegio dei presidenti, scudieri, cavalieri di San Pietro, cardinali, camerari; che più? Instituirono collegi di Stradiotti, di Albanesi, e perfino di 100 Giannizzeri, dai quali posti cavarono 100,000 ducati, ed a pagarli assegnarono in parte le rendite delle bolle e delle annate. Annate di benefizi, e bolle per pagare Giannizzeri! Innocenzo VIII creò ventisei segretari nuovi e parvero troppi; Alessandro VI aggiunse sessanta scrittori di brevi; Gregorio XI cento scrittori di archivi; Leone, che avria venduto la sua parte di paradiso, portò le cariche nuove al numero di 1200; in tutto ai suoi tempi sommavano a 2150. Però intorno alle entrate della Curia romana giudico che si abbia a tenere per certo, che il prete non si attentò aggravarsi troppo sopra i popoli, come quello, che sentiva difettare di diritto, e temeva col soperchio suscitare querele ed indagini, che gl’importava evitare: avere il prete inventato con frutto sotto diverse forme varie maniere d’imprestito; essere stato costretto di ricorrere ai balzelli sul popolo mano a mano che gli scemavano le entrate per così dire spirituali: e queste essergli diminuite un po’ per la calante devozione dei fedeli, e un po’ per elezione di alcuni Papi, massime Paolo IV, e Pio V, rigidi vecchi, i quali, se la Curia poteva riformarsi, essi l’avrebbero riformata: nonostante tutto questo ed altro che se ne potrebbe dire, le entrate maggiori, non però infinite (come altri o credulo, o bugiardo va affermando) al Papa vengono per causa della fede, epperò egli avrà sempre potenza di nocerti, solo, che gli avanzi un castello dove possa affermarsi principe di corona e facultato a sostenere guerre contro i suoi nemici sieno o no cristiani di fede ortodossa, ovvero eterodossa. Sigismondo imperatore, che si diè vanto mettere in sesto la Chiesa di Cristo, poichè vedeva i suoi pretesi vicari arrabattarsi per buttarla all’aria, si era fatto promettere a Giovanni radunerebbe il Concilio; creato Papa nicchiava; strettigli i parmi addosso intendeva bandirlo in Italia; lo ebbe a convocare a Costanza, o a meglio dire i suoi legati lo convocarono in onta di lui. Avendolo bandito Giovanni, gli fu mestieri andarci, ma per sospetto si munì del salvocondotto di Federigo duca di Austria. Qui non è luogo per la storia di cotesto Concilio, dire come e perchè il clero alemanno procedesse avverso al papato, l’italiano oltre ogni credere parziale; i padri riuniti considerato, che se si avesse a votare per capi avrebbero prevalso gl’Italiani, misero fuori una legge, che i voti si darieno per nazione, e le nazioni furono quattro, alemanna, inglese, italiana, e francese; confermarono la dottrina, che l’autorità del Concilio prevaleva a quella del Papa, e poi per dare il buono esempio agli altri presero a persuadere Giovanni a deporre il papato: amaro passo per costui, il quale si era raffidato, che deposti gli altri, lo avrebbe il Concilio raffermo; costretto a renunziare lo fece, ma con tanti arzigogoli che parve meno che niente: alla fine, vedendo che non la poteva spuntare, se la svignò riparando a Sciaffusa. Ne accadde un subito scompiglio, che tutti i Cardinali seguitarono il Papa: l’elettore di Magonza, il Margravio di Baden, e il duca di Austria si accontarono a sostenerne le ragioni: se nonchè il Concilio tenne fermo dichiarandosi non pure superiore, ma indipendente dal Papa; lo imperatore Sigismondo mette i fuggiti al bando dello impero, Lamagna, e Berna combattono il duca di Austria, e lo vincono, ond’egli in breve smarrito torna a Costanza menandosi dietro il Papa, il quale di foga accusato, e condannato chiudono prigione in Gottleben. — Facilmente potremo credere che costui non fosse santo, e nè manco buono; forse, se non tutte, almeno in parte si meritò le accuse appostegli; ma la furiosa condanna assai chiaro dimostra l’ira, non la giustizia del Concilio. Dopo lui rinunciava spontaneo Gregorio XII, che riassunti titolo, e qualità di Cardinale moriva decrepito a Recanati. Più duro Benedetto XIII, il quale propose rinunziare, ma a tali patti, che parvero ebbri: il Concilio di Pisa si annullasse; per lui il Concilio di Costanza si chiudesse, per lui un’altro se ne convocasse, dove dopo avere egli eletto un’altro papa spoglierebbe l’ufficio: questo accadeva a Perpignano, presenti Sigismondo imperatore ed il re di Arragona donde Benedetto, temendo o fingendo temere insidie, di un tratto fuggiva, e chiusosi nel forte castello di Paniscola di là scomunicava tutto il mondo, che lo aveva abbandonato. Col Papa o senza Papa il Concilio di Costanza fu concilio di iene; quivi comparve Giovanni Huss raccomandato dal re di Boemia, e sotto guarantigia di salvacondotto imperiale; costui professava dottrine, che poi con auspici migliori prevalsero con Lutero, e prima aveva annunziato Wicleffo, al quale, mercè singolare prudenza, toccò in sorte di morire in pace: nonostante le regie commendatizie, e il salvocondotto imperiale l’Huss era sostenuto in carcere dove un tempo ebbe a compagno Giovanni XXIII. I padri furono giudici, e parte; infamie antiche, che ogni dì si rinnovano senza presagio di prossimo fine: lo arsero vivo, ed era egli solo in mezzo al suo supplizio sereno. Uguale fato, e per la medesima causa incolse a Girolamo da Praga: mite natura, ma costantissimo, e per sapienza mirabile: i riti che precedono a siffatti giudizi chi li fa li chiama processi, e sono assassinii; senonchè per consolazione dell’animo di cui si avvolge in questi laberinti di sangue la vendetta tenne dietro alla colpa, e quale vendetta! Trenta mila settari scesi dal monte Tabor comandati da Ziska bruciarono cinquecento chiese, spiantarono conventi, dispersero sepolcri, e la Boemia dà prima al mondo lo esempio di rompere la catena della curia romana. Il Poggio Bracciolini, presente al Concilio, scrivendo a Lionardo Aretino gli narrava commiserando il fato di cotesti due innocenti, e questi co’ consigli della viltà nella risposta gl’insinuava a tenersi bene abbottonata quella disutile misericordia. Merita leggersi cotesta epistola di Lionardo Bruni, che è la nona del Libro IV; per me la considero modello dello stile che ora si disse dottrinario, ora riformista, ora moderato, e fu sempre codardo. Per avere un giusto concetto di ciò che si agitava nel seno di cotesto Concilio basti tanto, che lo stesso prudentissimo Aretino scrivendo al Poggio non dubita applicargli i famosi versi di Virgilio: «Quicquid delirant reges plectuntur Achivi Seditione, dolis, sedere, atque libidine et ira Iliacos intra muros peccatur et extra.» Dentro e fuori si pecca, e delle frodi Dei regi e dei corrucci il popol porta Le pene, e dei delitti, e della rea Lussuria di costoro. Singolare fama davvero di tanti chiesastici raccolti in Concilio solenne per riformare il costume della Chiesa! Chi voleva eleggere il Papa, chi no: prevalsero quelli, che volevano; e per questa volta così fu eletto il Papa; si chiusero in Conclave trenta deputati delle cinque nazioni, ventitré Cardinali delle tre obbedienze; chi riportava due terzi dei suffragi uscisse Papa; dopo quattro giorni proclamarono Ottone Colonna che si nomò Martino V. Appena eletto costui considerando la gente stracca, e troppo più zelatrice dei propri comodi, che non di quelli della Chiesa, entra di mezzo e con accordi parziali componendosi co’ singoli rompe la unità del concetto; per questo modo diventati con la divisione debolissimi rimanda tutti chierici a casa, e chiude il Concilio col decreto, che in capo a cinque anni se ne avesse a convocare un’altro; un’altro dopo sette; e da cotesta epoca in poi al fine di ogni dieci anni uno. Pei costumi, che questo Concilio pretese riformare, e’ fu come la nebbia, lasciava il tempo, che trovava; gli scrittori dei tempi ci attestano come, sia dopo, sia avanti il Concilio frati, e monache facevano famiglia insieme; preti e vescovi tenevano alla scoperta femmine di piacere in casa; in parecchie città i figli dei preti superavano quelli dei laici; ogni libito permesso: alla religione sostituite pratiche superstiziose, e materiali; i chiostri mercati; i monasteri delle donne lupanari; le basiliche, e le altre chiese asili di banditi. Martino, separato il Concilio, una cosa tolse principalmente a cuore, e fu dichiarare non pure perniciosissima ma empia la dottrina, che stabiliva l’autorità del Concilio superiore a quella del Papa: pure mandava attorno i cedoloni per l’adunata di altro Concilio a Pavia. Intanto Benedetto Papa ricalcitrante muore, e dicono di veleno; Giovanni si sottrae con la fuga al carcere bavarese; se connivente o no il Palatino non importa cercare; solo corse fama non lo lasciasse ire senza averne avuto lo sbruffo di 300,000 pezzi di oro; di Liguria scrisse a Martino profferendogli obbedienza, e fu accolto a braccia quadre; Martino per la consolazione lo ribenedisse Cardinale, anzi lo fece decano del sacro collegio, e gli compartì l’onore del tappeto, e della predella in pubblico; quanto gli poteva dare gli dette, tranne vita lunga; morì Giovanni povero, almeno così dichiara il testamento di Giovanni dei Medici, i quali dopo la morte di cotesto spiantato salirono al grado dei primi banchieri d’Italia, forse del mondo! Braccio da Montone capitano di ventura messo da Giovanni XXIII a tenere Bologna in devozione della santa sede, viste le cose di cotesto Papa andare a rifascio, vende ai Bolognesi la propria libertà per settanta e qualche mila fiorini di oro: poi conducendo la guerra per conto proprio espugna Perugia, ed occupa Roma; ma nel punto in cui sembra, che meno possa cadere acconcio tra Braccio, e Martino, attese le scambievoli ingiurie, allo improvviso si accordano. Papa Martino finchè di lui il mondo potè dire quello che per istrazio gli cantavano i fanciulli a Firenze sotto i balconi: papa Martino non vale un quattrino, si mostrò migliore del pane, ma appena visto il destro di fare da lupo propose a Braccio ripigliarlo in grazia, dove in pegno della novella amicizia gli ricuperasse Bologna: gli è vero, che il Papa avevale concesso di reggersi a libertà, purchè osservasse obbedienza alla Chiesa, e tanto Bologna aveva promesso di fare, e faceva; ma ai Papi non sembra governare se non sono tiranni; però non ostante l’accordo Braccio rendeva serva al Papa Bologna a cui prima aveva venduto la libertà; e le stette a pennello però che le libertà comprate non durino, e in questo caso vale meglio tenersi i danari. Dopo le male prove passate pareva che non dovesse a veruno cascare in mente di farsi antipapa; un altro antipapa scappò fuori, da prete chiamato Egidio Munoz, e da papa Clemente VIII; ma scomunicato ebbe paura, e renunziò. Poco importa sapere quale fosse la indole di Eugenio IV: molto si riduceva a conversare con Cosimo, che la storia bugiarda chiama padre della Patria; tuttavia sopra molti altri Papi vissuti prima e dopo di lui andò famoso per ispergiuro, e fedifrago: ignudo di aiuto, non sapendo come schermirsi da Francesco Sforza, e da Fortebraccio, si amica Francesco, e a patto che lo difenda gli dà col titolo di marchese la Marca di Ancona, e promette lasciargli per certo tempo il dominio dei paesi da lui conquistati creandolo gonfaloniere della Chiesa; appena uscito, per la virtù di cotesto condottiero, di angustia, Eugenio commette a Baldassarre di Offida ammazzarlo; e di ciò lo Sforza venne in chiaro per lettere intercette; lo Sforza mise le mani addosso all’Offida, e lo fece morire nel castello di Fermo, non potendo usare il medesimo tratto col Papa amico suo sviscerato un tempo, Giovanni Vitelleschi, uomo di crudeltà pari all’arroganza, e tu la Chiesa, e i cherici che sieno argomenta da questo, che essendo egli partito legato di Eugenio nella guerra di Napoli, considerando il guasto alle campagne come spediente a condurre presto a fine la impresa, sbraciò centogiorni (e ormai che ci era poteva fare anni) d’indulgenza nel purgatorio ai suoi soldati per ogni pianta di olivi che avessero reciso; di un tratto gli congiura contro, volendo in contrasto al suo genio opprimere i Fiorentini odiatissimi, i quali per lettere sorprese a Montepulciano mettono Eugenio in chiaro della trama; a tradimento imprigionato da Antonio Rido castellano di Santo Angiolo che bel bello avvolgendolo co’ ragionari, gli prese il cavallo per la briglia, e tiratolo di là dal ponte alla sprovvista gli fece calare la saracinesca dopo le spalle; affermano morisse avvelenato; ma io ricordo aver letto, che mentre stavano medicandogli una ferita, la quale aveva, difendendosi, rilevata, Luca Pitti cagnotto di Cosimo diede di un pugno nella tenta ficcandogliela nel cervello, onde su l’atto morì. Su di che non occorre avvertire altro;ma pel caso dello Sforza è provato come il Papa non si reputi per niente costretto a conservare pei successori suoi lo stato come lo ha ricevuto dai precedenti: il non possumus di Papa Pio IX hassi a tenere protervia di femmina incaponita, non già dottrina sostanziale della Chiesa. Adesso del Concilio di Basilea; Eugenio dopo averlo guidato come il cane per l’aia, ora a Siena ora a Pavia, gli fu all’ultimo forza di convocarlo a Basilea. Qui subito si manifestava il contrasto di opinioni affatto nemiche; aborriva la Curia romana dai predicati del Concilio di Costanza intorno la prevalenza del Concilio sul Papa, nel quale appunto siffatta sbocconcellatura della sua autorità aveva acceso più, che mai l’agonia del dominio assoluto; i Padri per lo contrario alieni da qualunque subiezione intendevano ristabilire gli antichi instituti democratici della Chiesa. Primi atti del Concilio questi: la facoltà nel Papa di sciogliere di sua autorità il Concilio negarono; la indipendenza del Concilio da lui bandirono; la facoltà di creare Cardinali gli tolsero; citaronlo a comparire personalmente dentro tre mesi al Concilio: vacata la santa sede dichiaravano il Concilio solo abilitato a eleggergli il successore. Sigismondo imperatore va a Roma per incoronarsi, ed assettare gli animi arruffati di questi preti; quanto a corona si lascia fare, ed ei se la pone agevolmente sul capo: quanto ai preti l’osso è più duro; Eugenio riconoscerà legittimo il Concilio di Basilea a patto, che a tutto quello si fece fin lì si dia di frego; e di ora in poi lo presiedano i legati della santa sede. I padri del Concilio letta cotesta bolla la buttano via; essi maestri e donni, non compagni, molto meno soggetti; dentro sessanta giorni si presenti, altrimenti lo giudicheranno decaduto. Lo imperatore Sigismondo, a cui nel Concilio di Costanza era accaduto assettare altri screzi che questi, trasecolava; e veramente non ci era di che: questa la chiave di tutto: a Costanza comandava uno esercito, qui solo o male accompagnato: con femmine, fanciulli, e preti persuasore supremo la frusta. Continuano le liti fra il Concilio ed il Papa più che mai acerbe: a cui bene considera il Concilio rappresenta la medesima indole, che nella Inghilterra, e nella Francia mostrarono più tardi il lungo Parlamento, e la Convenzione; e se domandi perchè il Concilio non approdasse al fine stesso al quale giunsero coteste due Assemblee dirò, che il Concilio era disarmato, e coteste due Assemblee avevano armi: inoltre il Concilio comecchè insufficiente forse col Papa, volle attaccare briga anco con i principi: uniti e molti, o separati e pochi sempre nel prepotere uguali i preti, meno prudenti in questo di Lutero, che co’ principi barcamenò procurando, come ottenne, che ne caldeggiassero le parti: bisogna tenere conto altresì, che le iniquità del Concilio contro gli Ussiti, le mortali insidie, e le stragi pareggiarono o vinsero quelle del Papa. Dicono Sigismondo imperatore ne morisse di dolore. Mentre così si tirano pei capelli sovviene al Papa inopinato ausilio, e fu Giovanni Paleologo imperatore di Oriente, il quale si profferiva studioso a mettersi in quattro onde lo scisma greco cessasse: certo non lo moveva amore di far procedere lo Spirito Santo dal padre solo, e non dal padre e dal figliuolo; nè dall’odio contro il purgatorio, e nemmeno dalla voglia di comunicarsi col pane senza lievito; lo avvicinarsi ogni momento più terribile dei monsulmani lo costringeva alla pace: quantunque poi queste discrepanze religiose fossero troppo più cosa allora, che non sono adesso, pure è da credersi che la causa più potente di separazione fosse la dependenza della chiesa greca dalla latina. Il Papa con affetto sviscerato gittò le braccia al collo al Paleologo, e ciò, come agevolmente si comprende, per due cause principali; che la gloria della cessazione dello scisma venendo a lui, il credito del Concilio ne scapitava, e forse sperò, come invero gli venne fatto, che il re greco gli porgesse un’appoggiatura a mutare la sede del Concilio. Il Paleologo poi si attenne al Papa e non al Concilio, però che il Papa essendo principe di stato grande, e poderoso di aderenze, ei solo offeriva maggiore sicurezza di soccorso, che non il Concilio, e s’ingannò. Il Concilio subodorando il tratto del Papa andò su i mazzi, e ab irato lo dichiara contumace: pessimo consigliere lo sdegno: gli ambasciatori dei principi pensosi dei trambusti, i quali il nuovo scisma avrebbe partorito per certo adoperarono parole gravi contro l’avventatezza dei Padri, sicchè Eugenio, colto il destro, potè traslocare il Concilio da Costanza a Ferrara, e quindi a Firenze. Ma fu a Ferrara, che mutata temperie, Eugenio con l’universale consenso dei Padri quivi raccolti potè scomunicare i Padri di Basilea, i parenti, i seguaci, gli albergatori loro, anzi perfino i mercanti che recandosi colà portavano le cose al vivere necessarie; nè si rimase alla scomunica soltanto, ma altresì accomodando, secondo il costume dei preti, le parole della scrittura ai fatti suoi, siccome il vangelo dice: che i giusti si portarono via le spoglie degli empi, così quando i fedeli della Chiesa porranno le mani addosso ai mercanti, ai vetturali, e ad altra gente siffatta gli spoglino con coscienza sicura, perchè si hanno a persuadere che compiono opere meritorie. — Conchiusa la riunione ognuna delle parti stupì del poco costrutto che ne aveva cavato: la biscia aveva morso il ciarlatano, ed in questo negozio ognuno era stato a vicenda ciarlatano e biscia. Eugenio contento per avere alle spalle dello imperatore greco rifatto il credito cagliò nel continuargli i sussidi, i quali furono sempre piuttosto avari, che scarsi; e quanto alla riunione delle Chiese, dei vescovi greci al ritorno a casa quelli che perseverarono nello scisma ebbero salutazioni, gli altri contumelie: per la quale cosa questa unione provocata dall’interesse cupido di avvantaggiarsi fu sciolta dallo interesse, che fatti i conti trova, che ci è perdita, o non guadagno. Però Eugenio a fine di confermarsi la reputazione acquistata, e potendo crescerla, mise mano a certa menzogna, la quale come non prima così non fu nè anco ultima nella Chiesa; a certo altro simulacro di Concilio tenuto a Roma procurò si presentassero deputazioni di finti Etiopi, Caldei, Siri, e Maroniti che tutti protestarono volersi ridurre in grembo di Roma; i padri del Concilio ridevano di coteste lustre; forse ne rideva anco Eugenio, ma per amore del mestiere entrambi facevano le viste di crederci: il popolo ci prestava fede con tutte le viscere come quello, che a cotesti tempi credeva, e perchè ci aveva interesse: fra un secolo e mezzo quando i Gesuiti presenteranno a Sisto V l’ambasceria dei Giapponesi Pasquino e Martorio la conceranno pel dì delle feste. Finalmente il Concilio di Basilea elesse un’altro Papa, ovvero antipapa, che fu Amedeo duca di Savoia; che tolse nome di Felice V; e se per questo caso la rabbia dei sacerdoti già ardente divampasse lascio considerarlo al lettore. Eugenio, come se tante cure gli fossero poche, scompiglia il reame di Napoli spingendo Renato di Angiò contro Alfonso di Arragona, e forse il suo protetto ci faceva impressione, quando per la cupidigia di ricuperare la Marca di Ancona, posseduta da Francesco Sforza, gli muove contro ad assalirlo improvviso Niccolò Piccinino; per la quale cosa Francesco indugiando a sovvenire Renato di Angiò è cagione che le fortune di questo tracollino; più tardi va, e mentre altrui non giova sè ruina: a Renato tocca a scappare, che pieno di rovello si riduce a Roma per isfogarsi col Papa, il quale, con buone parole lo raumilia, e lo incorona re giusta in quel punto in cui lo perdeva; Renato invece di stare in Napoli con un reame torna in Francia con una corona, addentellato a nuove miserie d’Italia. Tra i buoni Papi sogliono annoverare Tommaso di Sarzana, Niccolo V, migliore: costui nato di piccola gente fece assai professione di conversare con letterati, e procurò si recassero in idioma latino in cinque anni scrittori greci, più che innanzi a lui non si era fatto in tre secoli, ma vi hanno di due maniere letterati, quelli che più badando alla sostanza, che alla forma con la dottrina dei sommi intelletti nudriscono divinamente l’anima; altri corrono dietro agli artifici della orazione, le parole studiano non le sentenze, e vagheggiando la materia, materia rimangono: tra questi secondi Tommaso da Sarzana, fra i primi Stefano Porcari, il quale, appena morto papa Eugenio, raunata la cittadinanza romana nella chiesa di Araceli la confortava a cose santamente libere, però che lo dicesse: non esservi così piccolo borgo dove morto il signore non si ragionasse di ricuperare la libertà, o almeno di porre modo alla intemperanza dei futuri reggitori dietro la esperienza del passato. Non lo secondando i Romani, e forte avversandolo l’arcivescovo di Benevento, cotesta pratica non andò avanti. Tuttavolta Tommaso essendosela legata al dito relegò Stefano a Bologna con obbligo di presentarsi ogni dì una volta al governatore della città. Stefano fingendosi infermo corre velocissimo a Roma; tradito dalle spie, ripara in casa di sua sorella dove si nasconde dentro un cofano indarno; chè fin là rovistando lo trovano, lui arrestano con nove complici, e senza forma alcuna di processo tutti appiccano ai merli di Castel Santo Angiolo: comecchè ne facessero ressa negarono loro prima di morire i sacramenti a fine che il corpo ne andasse perduto con l’anima. Dopo queste prime altre stragi contristarono Roma; il 12 gennaio 1453 Eugenio manda alla forca un dottore bolognese compagno a Stefano nel suo ritorno a Roma; promette 1000 ducati a cui gli consegni nelle mani vivi due parenti del Porcari, Francesco Gabadeo e Pietro Monterotondo, sottrattisi con la fuga, se morti 500; serpentò con focosissime istanze tutti gli stati d’Italia, affinchè gli rendessero i congiurati fuggiti, e molti glieli diede Venezia, ospite sovente infida; tra gli altri Battista Sciarra nipote del Porcari, tratto a Roma per ricevervi la morte ignominiosa del capestro. Promise, mosso dalle preci del cardinale di Metz, grazia a Battista di Persona reputato innocente, e gliela fece, poi si pentì, e senz’altre cerimonie commise lo impiccassero. Sopra ogni altro infame il caso di Angiolo Ronconi, di null’altro reo, che di avere dato mano alla fuga del conte Averso dell’Anguillara amicissimo suo: gli manda il Papa di recarsi a Roma, e siccome ciondolava, ad assicurarlo gli spedisce salvacondotto da cima in fondo scritto di suo pugno: costui va, e non aombrato nè manco con pretesto di sorte il tradimento, il buon vicario di Cristo lo fa pigliare di botto, e decapitare. — Affermano, che quando questo reo fatto fu commesso Niccolò era ubbriaco: altri per istudio di difenderlo accerta, che Niccolò veramente era solenne raccoglitore di vini preziosi, ma non mica per sè, bensì perchè gli amici suoi, ai quali li donava tutti, se ne rallegrassero il cuore. Questo scrittore, che si favella, è il Vespasiano, incauto difensore se altri fu mai: lasciando correre, che il Papa fosse ubbriaco gli avrebbe reso il servizio più grande, che amico può rendere ad amico: nè è cosa nuova occorrere in Papi briaconi, che tali furono Giulio II, e Gregorio XVI, e dati al vino troppo più che alla dignità, non diremo di pontefice, ma di uomo comune non convenga, Paolo IV, e Sisto V. La gente mite, e pusillanime per paura diventa feroce, così i gatti spaventati graffiano. Durante questo pontificato, mentre i greci e i latini fra loro disputano, ed anco fra greci, e greci adoperano lo stesso, Maometto II piglia Costantinopoli e mette fine ai contrasti. Varia la fama intorno alla causa della sua morte; chi afferma per podagra, chi per subita febbre, e chi per ambascia del Turco irrompente; non manca chi voglia attribuirla al rimorso; ed e certo che su l’estremo della vita la vista di fantasimi lo assaliva; gli pareva nelle stragi commesse del Porcari, e dei consorti suoi lo avessero abbindolato i cortigiani; allora scioglievasi in lacrime, e sè miserrimo sopra quanti uomini vissero al mondo altamente chiamava. Posto, che ciò sia vero, noi pure lo saluteremo per uno dei migliori fra i Papi, dacchè l’anima sua non rimase chiusa al rimorso. Di Calisto III successore a Niccolò sono notabili queste cose: dimenandosi invano a rintuzzare la ferocia del Turco ebbe in sorte vedere sorgere quel miracolo di valore di Giovanni Uniade a dargli la fiera battitura di Belgrado: ma se inetto ei si mostrava a combattere solenne perturbatore della cristianità si fece conoscere; pei suoi fini interessati Cristiano di Danimarca spinge contro la Svezia per vendicare il clero manomesso e spogliato, e Cristiano impadronitosi della Svezia lascia il clero come lo trova; onde Calisto reputandosi, com’era, uccellato rompe in querimonie infinite. Colto il pretesto, che Alfonso negò i soccorsi contro al Turco, ricusa investire del regno di Napoli Ferdinando figlio naturale di Alfonso quantunque di questo re fosse creatura, e gli avesse servito da segretario; alla persecuzione nuova non fece ostacolo nè l’essere stato Ferdinando suo alunno, nè la legittimazione di lui che egli, cardinale, aveva provocato da Niccolò Papa; il fine vero di simili trambusti era levare il regno a Ferdinando per darlo al proprio nipote Luigi Borgia, e gli riusciva non già in virtù delle bolle con le quali vietava ai sudditi napoletani di giurare fedeltà a’ nuovi signori, e chi avesse giurato scioglieva, bensì per le armi di Francesco Sforza duca di Milano; se non che questi, raro esempio in ogni tempo, in codesto unico, ributtate le insidiose profferte si tenne fedele all’Arragonese, e Calisto ne morì di rabbia. Costui vuolsi annoverare fra i Papi, i quali per disordinato amore pei nipoti più depredassero la Chiesa; due ne promosse al cardinalato, un’altro creò duca di Spoleto, il quarto prefetto di Roma, e castellano di Santo Angiolo: lo scusano, e che non iscusano i preti? perchè avendo da presso due nemici terribili, come Alfonso e Ferdinando erano, non poteva fidarsi di altri, che del proprio sangue; difesa inane, però che dipendesse da lui amicarsi gli Arragonesi osservando quello, che Niccolò Papa, ad istanza di lui, aveva ordinato circa la successione del regno di Napoli; oltre inane la difesa dà ad intendere come in corte romana fossero tutti traditori; onde volendo coprire i piedi discopre il capo; per uno che salverebbe danna i mille. Quando altro non fosse a fare aborrire la memoria di questo Papa basterebbe questo; egli morendo legava alla Chiesa l’immane Roderico Lenzuoli, che poi fu Alessandro VI. Di Pio II, Enea Silvio Piccolomini, non può dirsi, che bene; fu dotto e buono, ed alle cose di amore decentemente inclinato, e con bel garbo ne dettò libri, i quali tuttavia si leggono; chi volesse rinfacciargli, che eletto Papa con la Bolla Execrabilis ritrattasse le antiche sue dottrine avrebbe torto; se si fosse condotto diversamente avrebbe tirato i sassi in colombaia: nè manco gli procederemo severi se negoziando la pace con Ferdinando di Napoli da uomo svelto con la utilità della Chiesa procurasse quella della propria famiglia; alla Chiesa fece rendere Benevento, Pontecorvo, e Terracina; il suo nipote Antonio Piccolomini ammogliò con Maria figliuola naturale di Ferdinando ricevendone in dote il ducato di Amalfi, il contado di Celano, e la carica di grande giustiziere del regno. Luigi XI volpe coronata gli tramò un tiro furbesco, e ne rimase con le mosche in mano, chè a giocare di fine con Roma si perde il mosto e l’acquarello; a fine di tirarlo a sè, stornandolo dagli Arragonesi, manda fuori uno editto regio col quale revoca la Prammatica sanzione di Carlo VII contraria alle romane improntitudini; ma visto che il Papa non abboccava, ordinò di celato ai Parlamenti ne ricusassero la registrazione, ed in questa guisa rimase parola morta. Cura perpetua di questo Papa combattere il Turco minacciante Cristo, e la civiltà; famosa la Dieta, ch’egli tenne a questo intento a Mantova, dove con sì stupenda sembianza di riuscire non si venne a capo di niente. Certo in caso tanto solenne il Papa poteva risparmiarsi, ed ordinare che risparmiassero i balli, i tornei, le fiere con rito pagano gittate nell’arena, dove, con infelice augurio della impresa, aborrirono combattere. Le cerimonie di austera religione forse avrieno più profondamente percossi gli animi, e persuasili di più a starsi congiunti in tanto pericolo: ad ogni modo non mai fu visto come alla Dieta di Mantova acceso fervore di principi, nè mai voglie sì ferme di fare altrimenti di quello, che davano ad intendere: parole magnifiche, tra le altre ammirate quelle del Filelfo: e nè anco mancarono le femmine, chè Ippolita Sforza trasecolò le genti con un discorso bellissimo latino: affermano lo improvvisasse, ed io non comprendo il pregio, che vedo largirsi ai discorsi improvvisati: quanto più meditiamo e più penetriamo nelle ragioni delle cose, e con accomodati concetti le significhiamo; allo improvviso commettonsi grullerie; commettonsi altresì a caso pensato, ma a questo modo più rado, quasi sempre all’improvviso. — Gli uomini speculatori, sentendo come Borso di Este duca di Modena, e di Ferrara avesse promesso contribuire alla impresa con 300,000 fiorini di oro ne trassero argomento, che si giocasse di noccioli, imperciocchè dov’egli ma’ mai avesse sospettato si facesse davvero saria morto piuttosto, che cavare fuora così grossa moneta. Allo stringere del nodo le galere ammannite sul Rodano dal re di Francia, invece di corseggiare contra ai Turchi si voltano contro il regno di Napoli; in Roma i Savelli, nelle terre papali Sigismondo Malatesta riappiccano la guerra; vanno a soqquadro per inopinati rivolgimenti Boemia, Ungheria, Castiglia, ed Inghilterra. Mentre delirano i principi cristiani Maometto II procede sterminatore nelle terre della cristianità come lava vulcanica; soggioga la Rascia, e la Servia; conquista la Bosnia, e mali maggiori minaccia: la storia registra con amore come due soli uomini opponessero il petto a questa ruina, uno giovane, l’altro vecchio, uno quasi selvaggio l’altro civilissimo, uno educato fra i Turchi, l’altro supremo gerarca della Cristianità, e il primo fu Giorgio Castriotta chiamato Scandeberg, ovvero capitano Alessandro, l’altro il nostro Silvio Piccolomini, povero gentiluomo nato a Corsignano: magnanimo, e degno di eterna fama il primo, non però maraviglioso come quello, che nacque in Epiro terra altrice di eroi, e fu guerriero per istituto di vita; non così Pio II indole mite, e debile per anni, e per infermità: «poichè col dire andate,» egli bandiva, «poco costrutto vedo che se ne cava, io da qui innanzi dirò venite, però che abbia disposto recarmi io stesso alla guerra contro ai Turchi; forse vedendo andar me i principi cristiani si vergogneranno, e mi seguiranno; certo a morte sicura io m’incammino, ma poichè morire si deve, che importa cessare la vita in questo luogo od in quello? Dal combattere mi dissuadono il sacerdozio, e il corpo stremo di forze, ma a guisa di Moisè quando Isdraello pugnava contro gli Amaleciti, genuflesso su l’alto della poppa di una galera, ovvero di un monte, con la santa eucarestia davanti, circondato dai Cardinali chiederò a Dio la vittoria col cuore contrito ed umiliato.» Se così avessero sempre favellato i Papi, la unità cristiana non sarebbe stata mai rotta, e la croce sostenuta da mani congiunte a questa ora avrebbe fatto il giro del mondo, come simbolo di amore, e di civiltà. Il doge di Venezia invitato da Pio a unirsi di persona in cotesta guerra con lui si andava schermendo, ed ora metteva innanzi la età decrepita, ed ora non so quali altre scuse; ma il Consiglio dei Pregadi alla bella libera gli squadernò sul viso: «serenissimo, se tu non vuoi ire per amore, noi ti manderemo per forza, che della tua persona ci cale, ma dell’onore e della salute del paese due cotanti più.» Così allora gl’Italiani sapevano favellare ai principi, che avendo maggiore cura di sè, che della Patria si tiravano indietro da combattere le sue battaglie; al contrario di questo vecchio patrizio, Giovanni Carvajale cardinale di santo Angiolo, chiamato da Pio per eleggerlo luogotenente della impresa, si profferiva parato a tutto: «e se per te non sono scuse, egli diceva, gli acciacchi, e gli anni sicuramente non lo saranno per me. Tu mi scrivesti venissi, ed io vengo: tu mi ordini partire, ed io parto: contenderò a Cristo questa estrema reliquia degli anni miei?» Peccato, che in questi egregi come abbondava il cuore così non sopperisse il giudizio. Pio per mantenere la Crociata raccolta ad Ancona di altro non aveva fatto procaccio, che d’indulgenze: gli uomini di armi, e il popolo misto che si erano ridotti alla posta di Ancona s’immaginarono che le indulgenze avessero ad essere un soprappiù al soldo, ma accortisi che da quelle in fuori non ci era da rodere altro da prima trasecolarono, poi attaccandola con Dio, e co’ Santi si sbandarono; il volgo corso senz’armi, e lacero, senza sapere il perchè guaiva; i principi non arrivavano, l’armata veneziana nemmeno. Il Papa inferma, chè ai consueti malanni adesso si aggiungono la dissenteria, e il fastidio; mentre si tribola in simili ambasce, ecco approdare l’armata veneziana; allora contento si fa portare a braccia per contemplarla; erano dodici galere; soprasagliente a quelle Cristoforo Moro: nel vederle il moribondo Papa esclama: «prima mancava a me un’armata, ora all’armata io manco.» E fu profeta, chè indi a breve periva. — La bontà di questo uomo c’induce a desiderare, che i cieli gli fossero stati cortesi o di minor cuore, o di maggior mente, ovvero al tutto non lo traessero al Papato. Allo scopo della storia nostra si attaglia meglio la vita di Paolo II, già Pietro Barbo veneziano, il quale di una tal quale sua avvenenza fu sì vano, che voleva pigliare nome di Formoso; morto Pio, i Cardinali convocati a Roma innanzi di procedere alla elezione di nuovo Papa statuirono, che qualunque di loro fosse rimasto eletto avrebbe adempito certa convenzione, che fecero; e ci si obbligarono con giuramento. La convenzione questa: Il nuovo Papa prosegua con tutti i nervi la guerra contro il Turco adoperandovici quante ha entrate la Chiesa, comprese quelle delle Allumiere di recente scoperte; senza il consenso dei Cardinali la Corte non muova da Roma; ogni tre anni convochi un Concilio ecumenico per riformare la Chiesa; non nomini Cardinali più di ventiquattro, e fra i parenti suoi uno solo; di più, Cardinale non avesse ad essere di ora in poi eccetto chi avesse trent’anni compiti, e fosse dotto in divinità ed in diritto. Il Papa non alienasse nè diminuisse il patrimonio della Chiesa, non rompesse guerra senza il consenso dei Cardinali espresso ad alta voce uomo per uomo; nelle Bolle si avesse ad usare la formula dietro deliberazione dei nostri fratelli. Ogni mese il Papa si facesse leggere questa convenzione in Concistoro. Due Cardinali, assente il Papa, in capo all’anno sindacassero se l’avesse, e come osservata il Papa. Paolo cominciò il pontificato con lo abolire questa convenzione, la guerra contro i Turchi non proseguì, da onori molti, e lettere ortatorie a tutti i principi in fuori, di altri soccorsi non fu largo allo Scandeberg ito a Roma per questo; ma erro, gli diè cappello e stocco benedetti da lui, e non so quali danari; non si ricorda la parte singolarmente strana assunta da lui di paciere per forza tra Veneziani e Fiorentini in mezzo ai quali ci mise male biette fino all’ultimo: allora scappò fuori per accordarli una sentenza accompagnata delle consuete scomuniche (ormai i Papi non sapevano parlare nè anco di pace senza incastrarci lo inferno) e di scancio ci aggiunse il patto, che gli stati d’Italia avessero a pagare a Bartolommeo Coglione 100,000 fiorini di oro per sostenere la guerra contro i Turchi; se non che gli stati indovinando com’egli disegnasse adoperare Bartolommeo piuttosto contro di loro, che contro il Turco, non gli danno retta onde a lui toccò riporre la scomunica nel fodero. Più felice, come più iniquo contro i baroni romani; però si lega con Ferdinando di Napoli perfidissimo fra i re: l’uno impicca, l’altro tira pei piedi. Paolo II compare di Deifobo di Anguillara si accorda segretamente con Ferdinando per ruinarlo insieme al fratello Francesco, in apparenza poi mostrano volersi combattere il Papa, e il re: gli Anguillara disponendosi a ingrossare l’esercito d’Jacopo Piccinino sono trattenuti da Paolo e persuasi a pigliare le sue parti contro cotesto conduttore. Il re Ferdinando, dopo avere accolto, elevato a cielo il Piccinino, di un tratto l’ammazza; poi spinge gente contro il confine romano; il Papa a posta sua c’incammina gli Anguillara con lo esercito, e quando meno se lo aspettano, alcuni loro capitani congiuntisi con i soldati del re gl’imprigionano. Ciò fatto non manca la scomunica per onestare la rapina di castelli tanto per arte, e dalla natura muniti, che a cotesti tempi si reputavano inespugnabili. E tu lettore piglia nota del modo di acquistare terre della Corte romana, donde poi cava il diritto divino, che la costringe al non possumus. I ladri su lo spartire del furto per ordinario hanno lite fra loro; Paolo pretende da Ferdinando il tributo pel regno, il quale un dì, quando le due Sicilie stavano unite al medesimo scettro, sommava 60,000 fiorini, ed ora divise, a Napoli ne toccavano 40,500: a Ferdinando pel soccorso dato al Papa per opprimere gli Anguillara pareva ch’ei gli avesse a rendere il resto; di qui ire, e contese, per cessare le quali Ferdinando, armata mano, occupa Terracina, Sora, e le allumiere della Tolfa, onde il Papa empie di querele il cielo e la terra. Nè meglio incolse a costui guerreggiando co’ Malatesta: a malincuore la Curia concesse un dì feudi in Romagna a questa famiglia; morto Sigismondo, e trovandosi il figliuol suo Roberto presso il Papa, questi stende la mano sul bramato retaggio. Isotta matrigna confidando più nel figliastro, che nel Papa lo avvisa per segreto messaggio; a Roberto custodito rigidamente per deludere Paolo soccorre un bellissimo trovato; va al Papa, cui mostra le lettere d’Isotta, gli si professa devoto, e gli si lega a tradire la matrigna; Paolo lo prosegue di laudi infinite, gli promette in mercede le signorie di Senigaglia, e Mondovì, e di presente gli paga mille fiorini per le spese. Roberto giunto a Rimini s’impossessa del retaggio paterno, e manda al Papa che se vuole le sue terre venga a prenderle; Paolo, dissimulati la beffe e il danno, piglia in presto ai Veneziani quattromila cavalli, e tremila fanti, molti capitani della Chiesa spinge contro Roberto allettandoli con la promessa di fare a mezzo delle spoglie del Malatesta. Dunque possono i successori di San Pietro spartirne il manto quando il conto torna? E bugiardo il pretesto onde coloriva la impresa, ch’era la estinzione della linea legittima dei Malatesta chiamati per succedere al feudo, imperciocchè Roberto, quantunque figlio naturale, fosse stato legittimato da Pio II. — L’esercito papale rilevò la più sonora sconfitta che da molto tempo si udisse; per virtù di Federigo di Montefeltro socero di Roberto, e mercè i soccorsi di Napoli e dei Fiorentini ai quali premeva, che la Romagna rimanesse in piccoli stati divisa, e la troppa potenza del Papa dava ombra. Paolo poichè ebbe tentato invano accendere nuova guerra in tutta la Cristianità, e chiamare belve straniere in Italia per vendicarsi del Malatesta: tastato Federigo III di Austria, e parsogli, come veramente era, uomo da non potersene fidare; atterrito dai Turchi più e più sempre approssimantisi si appacia col Malatesta consentendogli il possesso dello intero retaggio paterno. La vittoria di Rimini aveva sforzato il non possumus. Delle cose per questo Papa agitate fuori d’Italia qui non occorre discorrere; odiatore egli fu dei letterati solenne; pauroso, e per paura feroce: certa accademia di dotti scambiando in congiura, prende e tormenta uomini venerandi per dottrina non meno che per pietà: alle torture assiste, nè potendo venire a capo di nulla, tanto eccita il carnefice ad inasprirle, che il povero Agostino Campano rimase morto su l’atto. Il Platina nella vita di questo Papa racconta le persecuzioni, che a lui pure toccò patire: appena promosso Papa tutti gli officiali dei Brevi creati da Pio come ignoranti, e disutili licenziò; niente curando se cotesta carica avessero eglino comperato a contanti, e meno ancora se fossero letterati grandi i quali sogliono dare alle Corti maggiore ornamento di quello che ne ricevano; e poichè il Platina come colui al quale pareva essere troppo gravato pregava che la causa si commettesse agli auditori di Rota il Papa guatandolo torvo gli disse: «dunque delle cose che noi facciamo tu ti appelli? E non sai, che tutta giustizia, e tutto diritto stanno nel sacrario del nostro petto? Così voglio io, che Papa sono e posso come mi piace fare e disfare.» Gli officiali scacciati persa la pazienza mandarono al Papa una maniera di protesta la quale esprimeva questi sensi: «se a voi è lecito spogliarci della nostra legittima compra ed a noi deve permettersi dolerci di questa ingiuria, che ci fate, e poichè ci troviamo con sì incomportabili danno e contumelia banditi ce ne andremo presso re e principi perchè vi abbiano ad intimare Concilio dove rendiate conto dello spoglio di nostre proprietà.» Tra i mali consigli pessimo quello del debole che minaccia il forte; preso, e incatenato il Platina ebbe a giustificarsi di libello famoso, e gli fu ventura se dopo due anni di acerba prigione ne uscì rovinato così nella sostanza come nella salute. Più tardi questo Papa leggero e tristo spaventato da falsi rapporti ripiglia il Platina, bandisce parecchi cortigiani, e cittadini, tormenta i fratelli Quadrari, fa il diavolo e peggio; poi conosciuto a prova essere stato giuntato perdona raro, ed alle preci altrui per mostrare di avere avuto ragione; e questa la non è colpa speciale sua bensì di tutti quelli, che dominando assoluto devono fare grande fondamento sopra la superbia. Per converso questo Paolo si dilettò stupendamente di giuochi, e di uomini vulgari; in occasione della pace fra il duca di Milano, e i Veneziani ei fece correre pali da vecchi, da uomini di età mezzana, e da fanciulli; dopo questi corsero giudei (che uomini allora non si reputavano) prima costretti a bere vino in copia perchè traballassero, poi cavalli, cavalle, asini, e buffali; il Papa contento, e per soverchio riso lacrimante, donava a cui fieno e a cui grossoni. In cima dei suoi affetti tenne un Priabisio, e un Malacarne, di loro professione giullari, e dopo essi in minor luogo altri buffoni. Non gli mancarono buone doti, come la larghezza, e la storia ricorda com’ei fosse prodigo donatore di teriaca: ai Cardinali donò la facoltà di vestire panni purpurei, e portare berretto vermiglio, e cappello foderato di mantino pure rosso; ai Cardinali poveri assegnò quello che chiamano piatto, il popolo imbestiò coi congiari; morì di apoplessia, e sarebbe stato meglio non fosse mai nato. Di male in peggio, finchè si giunga al pessimo: ebbe Sisto IV della Rovere il papato per simonia; è certo, che i tesori accumulati da Paolo arrapinasse; ma le sono inezie da non ci badare; se da lui non comincia il nipotismo, da lui certo piglia a gettare cupido gli occhi sopra gli stati della Chiesa, e dei vicini, e voler diventare principe di corona: ebbe nipoti molti, che amò di amore disordinato, dicono, taluno d’infame; ma siffatte nequizie se non provate bene voglionsi rigettare; veramente non isperimentiamo buoni gli uomini, massime preti, ma ritraendoli peggiori di quello, che sono non se ne avvantaggia la Storia. Giudicando di lui pretende taluno ch’egli si proponesse la unione d’Italia; ma ciò non accorda con le opere della sua vita, le quali anzichè disporla a simile unità altro non fecero, che scombussolarla senza requie: anco ammesso, che i tempi non repugnassero ai venefici, ed alle insidie mortali, tuttavia le morti per veleno o per ferro a tradimento meditate da cuore, che anco a quei tempi ci volevano dare ad intendere pieno dello Spirito Santo, non paiono per ordinario lodevoli nè efficaci partiti: comunque sia non per amore d’Italia bensì per odio contro i Medici, i quali si opponevano al molesto ingrandimento dei suoi nipoti, egli congiurò co’ Pazzi per trucidarli: di fatti i Medici sovvennero Niccolò Vitelli contro le violenze del Papa, e gli salvarono la città di Castello; non si rimasero da mettere in pratica ogni tentativo per impedire a Girolamo Riario nipote del Papa l’acquisto d’Imola: e Girolamo finchè durassero i Medici dubitava tenerla piuttosto a titolo precario, che con istabile dominio; il Papa poi sbuffava contro Lorenzo per la lega formata da lui nell’alta Italia, e per quel suo concetto di bilanciare uno stato con l’altro per modo, che veruno preponderasse fra noi. Comecchè discorriamo volando sopra questi casi non possiamo astenerci da mostrare la matta e ad un punto feroce improntitudine di Sisto, il quale dopo avere promosso il Salviati arcivescovo di Pisa, mandato Raffaele Riario figlio di Girolamo a Pisa con pretesto di studi, e Giovanbattista di Montesecco come oratore in Toscana per condurre a buon fine la congiura, benedetto i pugnali, consentito si consumasse la strage fra gli altari da preti, nel momento che il sacerdote leva l’ostia al cielo, di un tratto si arrapina perchè Lorenzo non abbia voluto farsi ammazzare, e rompe in iscandescenze perchè con giuste pene multarono gli assassini. Queste le parole della Bolla di Sisto IV riportata dal Rainaldo negli annali ecclesiastici 1478, e ti rammentano Fimbria imbestiato contro Scevola perchè assalitolo ai funerali di Caio Mario col ferro in mano lo assalito non gli aveva conceduto tanto gli ficcasse in corpo lo stile, che lo ammazzasse: «Contendendo i cittadini per lite privata fra loro questo Lorenzo co’ priori di libertà...... calpestato ogni timore di Dio, vinti dal furore, pieni di diabolico spirito, di sè fuori come cani arrabbiati infierirono con immane ignominia contro persone ecclesiastiche. O dolore! O inaudito delitto! Le mani violente portando sopra un’arcivescovo appiccaronlo alle finestre del palazzo della Signoria.» E non gli saldarono il conto, imperciocchè gli salvassero il giovane cardinale Raffaele, il quale sebbene gli rendessero incolume non per questo attutì il sacerdotale odio; dissuadendolo invano il re di Francia, i Veneziani, l’imperatore Federigo, i duchi di Milano e di Ferrara volle rompere guerra ai Fiorentini; poco dopo ai Veneziani perchè derelitti da tutti, e con più infamia da lui, che sperperava a danno dei cristiani le forze le quali doveva volgere contro i Turchi, si erano composti in pace con Maometto. Fin negli Svizzeri va a suscitare nemici contro il duca di Milano solo per trattenerlo da porgere soccorso ai Fiorentini; allettamento a cotesti rudi montanari le largite indulgenze, delle quali essendosi mostrati piuttosto ghiotti, che cupidi, si avvisa cavarne partito, però non le dona più oltre, le vende, e ci fa grosso guadagno. Intanto Lorenzo trovandosi in procinto di dare la balta si getta in balìa di Ferdinando di Napoli; e’ fu come mettere il capo in bocca al lione, ma lo beneficò la Fortuna sicchè giunse ad amicarsi Ferdinando. Il Papa stette per diventarne pazzo, nè si sa fin dove sarebbe precipitato se i Turchi avendo preso Otranto non lo avessero fatto cagliare. Impaurito si accorda con tutti; ma con la morte di Maometto indi a breve, cessata la paura, torna a scombuiare ogni cosa: co’ Veneziani si accorda spogliare il duca di Ferrara, e dividersene gli stati, Ferrara a lui, a loro il restante. Di qui nuove divisioni; la Italia rotta in cento parti le une contro le altre armate; forse non una spanna di terra senza risse di sangue. — Di tutti questi scompigli il Papa altro frutto non cava, eccetto quello di vedersi minacciata Roma dal duca di Calabria; allora invoca aita dai Veneziani i quali gli mandano duemilacinquecento cavalli e Roberto Malatesta capitano strenuissimo; nè Malatesta comparve minore della fama; andò e vinse il duca a Campomorto dopo acerba battaglia. Il Papa per doppio motivo (e bastava uno) gli fu ingrato, il primo perchè gli uomini di raro ricompensano il benefizio cui possono ricompensare, il benefizio poi, ch’eccede le facoltà loro detestano, e più chi lo ha fatto: quindi un re ti darà guiderdone se gli acquisti un contado, se un regno cercherà perderti, e questo ci testimoniano le storie antiche, più le moderne; l’altra causa movente il Papa era che Girolamo suo figliuolo appetiva Rimini retaggio di Roberto; quindi questi ottenne quello che doveva ottenere, morte per veleno immatura, ed una statua col motto veni, vidi, vici. Appena morto il Papa si affrettò alla rapina di Rimini, e tanto più gli parve sicura, che in cotesti giorni periva il duca di Urbino disegnato da Roberto tutore del suo figliuolo, mentre il duca di Urbino nel suo testamento raccomandava a Roberto il figlio Guido Ubaldo. Anco qui tra la mano e il frutto s’interposero i Fiorentini e misero un calcio nella gola al Papa, il quale ne resta con la voglia. Dall’altra parte le cose in apparenza procedevano prospere al Papa, in sostanza no; il duca di Ferrara già stava in procinto di trovarsi spogliato, ma il Papa temè che i Veneziani o pigliassero tutto per loro o alla meno trista si facessero la parte del leone: allora arruffa; e prima accetta la pugna, poi si appacia con Ferdinando di Napoli; i Veneziani, ai quali cotesta pace ruinò addosso come fulmine a ciel sereno, ebbero invito aderirvi e posare le armi; restituissero gli acquisti fatti, il duca di Ferrara come vassallo della Santa sede rispettassero: poi senza pure aspettare risposta bandisce i Veneziani nemici della cristianità perchè ostinati a continuare la guerra contro il duca di Ferrara; gli scomunica; ai loro debitori comanda non li paghino; a chi uccida un Veneziano indulgenza plenaria; quanto a scudi adagio; per dare la pace alla cristianità spinge le armi di tutta Italia contro i Veneziani pure ieri suoi collegati, amici, ed eccitati da lui a combattere il duca di Ferrara. I Veneziani, secondo il consueto loro, tengono di occhio ai chiesastici, chiunque porti la scomunica a Venezia senza rimissione s’impicchi; e qualunque riceva lettere da Roma le porti chiuse agl’inquisitori di stato; con questa gente non ci era da metterla in canzone; il Patriarca portò loro la scomunica presto presto come se avesse ricevuto cosa, che gli scottasse le mani; poi mandarono al Patriarca di Costantinopoli l’appello della scomunica al futuro Concilio; il Patriarca ammette l’appello, sospende la scomunica, e cita il Papa a comparire al futuro Concilio. Quello, che non riuscì al Papa riesce ai Veneziani, i quali trovarono modo di affiggere la citazione alle porte del Vaticano e della Rotonda; il Papa cieco per furore fece in un’attimo impiccare le guardie notturne, che pure da per tutto non si potevano trovare; ma gli è caso antico, il potente non potendo battere l’asino batte la sella. I Veneziani procedendo oltre intimano i preti paesani a lasciare Roma sotto pena di perdere i benefizi; il Papa come colui, che ha perso la bussola bandisce farebbe vendere per ischiavo chiunque si attentasse uscire da Roma; guerra fiera e promiscua si agita in Lombardia, in Napoli, negli Stati pontifici: alle cause antiche per cui la famiglia del Papa, e il Papa andavano aborriti adesso si aggiungono le prodizioni, le stragi, e gl’incendi, onde vollero sterminata casa Colonna: pietosissimo fra tutti il caso del protonotaro Luigi Colonna, che prima stracciarono con ispietati tormenti, non mica per cavarne confessioni, bensì per rendergli senza fine amara la morte, poi uccisero. I Veneziani sempre pronti a cogliere la occasione a volo, sentendo come tra i Reali di Napoli e Ludovico il Moro fosse entrato screzio per causa della dipendenza da che questi teneva Giovanni Galeazzo Sforza genero al duca di Calabria, mediante Roberto da Sanseverino negoziando con esso lui la pace, e invano contrastando il legato e Girolamo Riario, i quali mescendo le cose sacre con le profane, affermavano i Veneziani indegni di posa perchè nemici di Dio come quelli che avevano confiscato i benefizi ecclesiastici, e tenuto in non cale le scomuniche del Papa, la conclusero a Bagnolo. Il Papa udita la pace per rovello ne infermò a morte; quando gli ambasciatori gliela portarono egli raccogliendo le forze estreme con irosim accenti proruppe: «che pace! che pace! questa è ignominia, è vergogna; io non posso approvarla, non benedirla.» E poichè gli andavano persuadendo essere ormai cosa conchiusa, e sempre degna la pace tra cristiani della benedizione di un Papa egli levata dalle fasce la mano gottosa fece atto che taluno prese per benedizione, ed altri per maladizione, nè ci fu modo a chiarirlo, imperciocchè senza profferire parola il giorno dopo morì più che per altro per rabbia di vedere in pace questa mìsera Italia cui egli aveva così scelleratamente lacerata. Alessandro VI, che sta per venire, le immanità papali, e imperiali supererà tutte; pure Sisto, e Innocenzo gli ammannirono stupendamente il terreno: delle truci e nefande libidini taccio; sia questa prova della sanguinaria indole del Papa defunto; suo diletto assistere ai mortali duelli: due ne ordinò a piè della scala del suo palazzo di piazza San Pietro, egli mastro del campo: i duellanti non incominciassero se prima egli non ne avesse dato il segno, e il segno fu quello della redenzione..... la Croce. Il Papa ci prese un gusto matto, e desiderò vederne altro; nel primo duello uno dei combattenti morì su l’atto; nel secondo ambedue mortalmente feriti furono tratti a spirare l’anima altrove. Per ciò che importa peculiarmente al nostro assunto vuolsi considerare come in questo pontificato per promovere gl’interessi della famiglia Riaria non si ebbe scrupolo sbonconcellare il preteso retaggio di San Pietro: non era ancora stato trovato il non possumus: e non ancora un Concilio di preti bugiardi aveva bandito divina la istituzione della potestà temporale del Papa; di vero per causa del matrimonio di Lionardo della Rovere con la figlia naturale di Ferdinando, Sisto abbandona al re il ducato di Sora, Arpino, e gli altri feudi della Chiesa nel regno di Napoli; nè basta, gli rimette il tributo arretrato solito a pagarsi da Napoli alla Chiesa, e ne lo dispensa finchè egli viva. Imola, la quale secondo la novella dottrina fa parte del non possumus, fu comperata a contanti co’ danari della cristianità da Pietro Riario pel suo fratello Girolamo. Concesse in feudo a Giovanni della Rovere fratello di Giuliano, Sinigaglia, e Mondovì, e i Cardinali approvarono senza pensare al non possumus. Prima con ogni argomento il Papa si ingegnò spogliare i Vitelli di Città di Castello; trovato l’osso duro, gliela concede in signoria. Smania di Sisto, prima di Alessandro VI, fu costituire della Romagna un principato pel suo nipote Girolamo; alla via storta non badò più che alla diritta. Pino Ordelaffi principe di Forlì morendo lascia la sua eredità al figlio nato di non legittime nozze; glielo contrastano i cugini figli di Galeotto; entrò in mezzo giudice Sisto, che spoglia tutti a profitto del nipote Girolamo. Forlì è città che ai dì nostri compone parte del dominio temporale, che il Pontefice non può alienare per istituzione divina. Se la morte non troncava i suoi disegni, egli mulinava nella sua mente torbidi concetti per potere assegnare al nipote Girolamo Rimini signoria del tradito Malatesta, e Pesaro retaggio di Giovanni figliuolo di Costanzo Sforza. Dei benefizi cumulati sul capo di Pietro Riario non importa discorrere; oltre al titolo di patriarca di Costantinopoli egli possedeva tre arcivescovati, ed altri benefizi infiniti; il lusso di costui ignoto ai moderni si appressò alle sgangheratezze di Nerone e di Eliogabalo: i suoi conviti pari a quello di Trimalcione cantato da Tito Petronio Arbitro: banchettando gli oratori di Francia mise a contribuzione i paesi nostrani, e gli stranieri; le vivande, l’ordine, l’apparecchio, le cose o rare o strane e mostruose diligentemente notate fornirono materia ad un poema, il quale fu diffuso per le stampe in Italia e fuori. Subito dopo passando per Roma Eleonora figlia di Ferdinando di Napoli, che andava sposa al duca di Ferrara, volle onorarla col fabbricarle un palazzo smagliante oro e seta; qui dentro tutto di oro di argento, anco i vilissimi arnesi; ci spese 100 mila fiorini di oro che aveva in serbo, e s’indebitò per 60 mila; ed era frate di san Francesco costui, ed aveva pronunziato voto di povertà. Immaturo per la via di vulgari piaceri egli giunse al sepolcro. Non bastando le rendite dei benefizi cumulati nella propria famiglia per sopperire a tanta enormità di spese Sisto dichiarò venali tutte le cariche della corte apostolica indicandone il prezzo; per pubblico bando vendè i più cospicui benefizi, ed anche qualche cappello cardinalizio; spesso, chi pagava innanzi giuntava: delle indulgenze peggiorò il traffico già abbominevole; eresse lupanari, tassò baldracche; i facinorosi poterono comprare perfino la impunità del delitto commesso, o che stavano per commettere: dei grani fece lo incettatore comperandoli al prezzo di un ducato il rubbio; poi li rivendeva quattro o cinque; se veniva a mancare egli ne acquistava fuori di qualità tristissima; e poichè sotto pene acerbe costringeva i fornai a servirsene è comune opinione che cotesto alimento corrotto partorisse le pesti che indi desolarono per parecchi anni Roma. Accennammo a offici di Maomettani, Giannizzeri, e Stradiotti instituiti a Roma, e vendibili a contanti, e fu Sisto che gli fondò: tuttavia non si creda, che alcun bene egli non facesse; all’opposto ne fece parecchi, ed affinchè la cristianità miri s’ell’abbia a rallegrarsene io li dirò: innanzi tratto conferma la bolla di Paolo II, che accorcia di venticinque anni la celebrazione del Giubbileo, e parendogli la frequenza non bastasse a tirare scudi a Roma, aggiunge, che durante il tempo del Giubbileo le indulgenze in tutte le altre chiese s’intendano sospese: conferma altresì la regola dei minimi di san Francesco di Paola, di cui un convento ebbi vicino a Genova onde della bontà, della dottrina, della carità, e soprattutto della castità di cotesti degni padri io potrei raccontare vita, morte, e miracoli: ordinò la festa della concezione di Maria madre di Cristo, cui egli primo chiamò immacolata; poco dopo, siccome tutti i frati non la volevano intendere; ed avevano fra loro di fiere batoste fino a bandire dai pulpiti in peccato mortale chi ci credeva, Sisto per torre via le dispute dichiarò solennemente immacolata la Concezione della madre di Cristo, e saperlo di certo, però ci credessero i fedeli, se no guai a loro! Su di che ci occorre notare come questa concezione immacolata scendesse nel cervello, e si predicasse prima da un tristo frate tenuto per incestuoso, e rotto a libidini nefande, e poi, che a Pio IX uomo anch’egli alla vaga venere troppo più, che non conviene un dì inchinevole, dopo quasi quattro secoli pigliasse quel ghiribizzo medesimo. Proprio le menti umane più che da tutto vengono percosse dalla ragione dei contrari. Ancora, non contento di gratificarsi la moglie s’industria tenersi bene edificato il marito, quindi comanda si festeggi l’annovale di San Giuseppe; ma più di ogni altra cosa, a parere mio, deve procacciare fama a questo Papa la doppia decisione intorno alle stimate di santa Caterina da Siena, ed ecco come sta la faccenda. Santa Caterina domenicana scriveva al suo confessore: «voi sapete, padre mio, che io porto sopra il mio corpo le stimate di Gesù Cristo Signor nostro per sua misericordia.» E il povero padre non ne poteva in coscienza sapere niente, conciossiachè santa Caterina non ce le avesse mai avute, e questo si sa per testimonianza della medesima santa; di fatti, ella racconta: «io vidi il Signore appeso alla croce discendere sopra di me con molta luce..... subitamente dalle cinque cicatrici delle sue sagrate piaghe vidi cadere sopra di me cinque raggi di sangue, tendenti alle mie mani, ai miei piedi, ed al mio cuore. Conoscendo questo essere un mistero esclamai: Signor mio, e Dio mio, vi prego che queste cicatrici non appariscano sopra il mio corpo esternamente (o dunque come aveva a fare a saperlo il padre confessore?) Gesù Cristo mi rispose e mi parlava ancora quando questi raggi di sangue divennero risplendentissimi e colpirono le cinque parti del mio corpo da me indicate.» Non so se in cotesti tempi, ma ai nostri femmina che simili fandonie sciorinasse si terrebbe dagli uomini di giudizio addirittura per matta: dal comune allora si esaltava santa; la quale credenza oggi continua appo i Turchi, voglio dire, che venerano i pazzi per santi. Ora si faceva un gran battagliare per questo fra Domenicani e Francescani; i primi avevano dalla loro santo Antonino, e Pio II; ma tanto è, i Francescani così seppero rigirare la faccenda, che Sisto proibì sotto pena di censura ecclesiastica dipingere cotesta santa con le stimate; i Domenicani presi di punta, s’incocciarono a sgararla; quali ingegni ci adoperassero ignoro; so che il Papa, (certo per dare saggio della sua infallibilità) dopo poco levò le censure, e sua mercè noi abbiamo potuto contemplare santa Caterina percossa in un colpo in cinque parti del suo santissimo corpo. Questo Papa dabbene scrisse altresì opere teologiche come quello che in divinità fu maestro solenne; il Panvinio cita le seguenti — de sanguine Christi, — defuturis contingentibus, — de potentia Dei, — de conceptione Virginis, e certo scritto contro un bolognese frate carmelitano, il quale perfidiava a sostenere, che salvare un dannato non istà nè manco nel potere di Dio. Il Fleury ne aggiunge un’altra, ed è la spiegazione del trattato di Niccolò Riccardo intorno alle indulgenze concesse per le anime del Purgatorio: questa fu giudicata d’importanza superlativa per modo che nel 1481 la mandarono alle stampe. E perchè nulla mancasse alla esaltazione di tanto pontefice ci fu uno inglese, certo Roberto Fleming, al quale bastò l’animo di comporre un poema eroico in sua lode intitolato: Lucubrationes tiburtinæ; e ciò volli riferire perchè serva di alcun conforto a coloro, che a cagione della vita presente si sgomentano: corsero tempi più duri di questi, ed in difetto di meglio tanto ne consoli per ora. La vita d’Innocenzo VIII, Giambattista Cibo, non importa molto il fine del presente lavoro, però che del dominio della Chiesa, che a detta dei moderni dottori per istituzione divina non deve menomarsi mai, poco scisse, pure scisse, chè a Giuliano e a Giovanni della Rovere in mercede simoniaca dell’opera loro per esaltarlo al papato largì terre, e castella, al Savello Monticelli, ad Arragona Pontecorvo, a Parma la Magliana, a Colonna, che di terra possedeva anco troppo, venticinquemila scudi, il figliuolo Franceschetto Cibo investì della contea dell’Anguillara; quanto a moneta poi gliene sbraciava un subisso. Però come Papa onde i tempi nostri derivano, vuolsi tenere breve sì ma peculiare discorso. Nelle signorie elettive vediamo come gli elettori ad ogni promozione s’indettino, scottati dalla esperienza, a limitare le facoltà dello eligendo; colui poi che esce eletto prima si accorda con gli altri, anzi sovente procede più rigido degli altri: fatta la festa si leva l’alloro, e si torna da capo. Ordinariamente alla promessa aggiungono il giuramento, nè se ne vede ragione; perchè questo non lega mai, e a chi non osserva il patto poco preme davvero comparire spergiuro. Il Sismondi nota come i re pollacchi, gl’imperatori di Germania, e i dogi di Venezia comecchè laici giurando i patti prima di pigliare possesso del dominio troppo meglio dei Papi rispettassero la santità del giuramento, quasi intendesse inferirne essere lo spergiuro privilegio del Papato; e non è così; nei primi casi gli elettori rimangono sempre potenti di armi; nel secondo i Cardinali tremano sotto la doppia oppressione della potestà temporale e delta spirituale; cui un momento prima fu loro pari adesso prosternati nella polvere adorano; l’eletto con uno stringere del sopracciglio può il corpo alla forca, l’anima allo inferno dannare. Tuttavia anco negli stati laici quando colui che giunse a limitare la potestà principesca perde la potenza di rado avviene, che non finisca sul patibolo: non occorre allegare esempi che sarebbero infiniti; tanto basti, che nelle costituzioni antiche e moderne non avendo saputo i cittadini trovare un modo per reprimere l’elemento monarchico nei suoi conati al dispotismo le proviamo campo aperto alle procelle popolari, o alle insidie regie. Nella Inghilterra assai comunemente si accetta il diritto della resistenza alle usurpazioni della monarchia; ma, a senso mio, dalla libertà di palesarlo in fuori non vedo a che giovi: imperciocchè tutto si riduca nella potenza di poterlo esercitare, e se potrà, il popolo fie, che l’adoperi o l’abbia detto o taciuto, se poi non potrà, o lo eserciterà infelicemente, e allora ancorchè lo abbia espresso, ed anco gli sia assicurato per legge, non per questo la monarchia trionfante glielo farà scontare più mite; in simili casi il traditore è il vinto, e i giudici per condannare si trovano sempre. Ai tempi nostri abbiamo veduto in Francia quei medesimi giudici, i quali avevano dettato il decreto di accusa contro Napoleone III come traditore della Patria, amministrare la giustizia in nome di lui. Le costituzioni giurate, o no abbile per menzogna sempre finchè non contemplino un mezzo facile per infrenare la potestà regia, o meglio se la potestà regia non metti in istato di non nocere scemandola delle prerogative delle quali, volendo, può abusare. Ai nostri padri, massime ai Veneziani, non sembrava mai sentirsi a bastanza sicuri, sicchè ponevano cura indefessa a limitare le attribuzioni del potere; noi all’opposto gliele sbraciamo con la pala, e poi ci lagniamo se la libertà abbia faccia di menzogna. Il Segni, nel libro ottavo delle storie, racconta come quando, dopo la strage di Alessandro dei Medici, si riunì la pratica per surrogargli nel ducato Cosimo, Francesco Guicciardino intendesse camminare rispettivo imponendo limiti, e condizioni all’autorità di lui; senonchè saltato su Francesco Vettori ruppe in queste parole, le quali non potrebbero mai essere abbastanza lette e considerate da quanti si professano amici della libertà: «mi maraviglio bene ora di voi, messere Francesco, che siete stato sempre tenuto prudente, che consideriate tante minuzie nel far creare questo principe: perchè se gli date la guardia, le arme, e le fortezze in mano, a che fine mettere poi ch’ei non possa trapassare oltre ad un determinato segno?» Ora considerino i savi se le prerogative dalle nostre costituzioni attribuite ai re superino o no quelle di cui favella il Vettori, e formino il giudizio che reputeranno più giusto. Certo è poi che il Papa possiede quasi la fabbrica privilegiata dello spergiuro, e ciò non tanto per la malignità dell’uomo, quanto per quella dello istituto; di vero una delle principali prerogative del Papa consiste nello sciogliere altrui dai voti e dai giuramenti; adesso viene poi suoi piedi, che s’ei può esercitare simile facoltà in benefizio altrui, tanto maggiormente lo possa in utile proprio. — Nel caso d’Innocenzo VIII i Cardinali attesero a sorreggere il giuramento con una molto terribile clausula, la quale fu, che ogni Cardinale promise, se eletto Papa, osservare nella sua pienezza, la costituzione, dichiarandosi dove mai trasgredisse anatema, da cui nè da sè potesse, nè da altri si facesse assolvere; ma l’erano baje che cotesti uomini dovevano pure sapere. Innocenzo VI fino dal 1353 aveva stabilito non potersi con alcuna promessa etiam giurata limitare dai Cardinali l’autorità pontificia, conciossiachè ai cardinali nella sede vacante altro diritto non competa tranne quello di creare il nuovo Papa; e questa dottrina sempre resse la Chiesa, e tuttavia la regge. Innocenzo pertanto nè volendo, nè per avventura potendo procedere diverso dagli altri i patti promessi da Cardinale, pontefice spergiurò; e se lo spergiuro meritasse mai scusa, l’avrebbe meritata adesso, dacchè i Cardinali con la nuova costituzione non mirassero ad altro che ad avvantaggiarsi. Di questa costituzione a noi importa riportare unicamente il disposto che vieta eleggere Cardinali minori di trenta anni, aumentarne il collegio oltre ventiquattro, governare senza il concerto dei Cardinali, ed alienare beni ecclesiastici dove almanco i due terzi di loro non acconsentissero. Da diverse femmine questo Papa dabbene ebbe sette figliuoli, e tutti riconobbe per suoi, e colmò di ricchezze: però stati della Chiesa a veruno assegnò, terre sì, e contadi. A Franceschetto, che tale ebbe nome dalla esigua statura, procacciò le nozze con la Maddalena figliuola di Lorenzo il Magnifico, e si reputarono regie; in compenso egli promise eleggere Cardinale Giovanni dei Medici, più tardi Lione X, e lo elesse di tredici anni, da tanto che gli premeva osservare la costituzione giurata da Cardinale, e insieme con lui un suo servitore di anni venti. Visse vita agitata, disforme, perniciosa ad altrui ed a sè; prima s’inimica Ferdinando di Napoli, poi gli rompe guerra, e pauroso, che lo Sforza da Milano accorra in aiuto di Ferdinando, gli suscita contro gli Svizzeri; ma spaventato per la vittoria del duca di Calabria al ponte di Lamentana dove (se narra il vero la fama non vi furono morti nè feriti) cala agli accordi, i quali acerbamente sopportando, da capo ingaggia guerra contro Ferdinando. Per ingagliardire le armi temporali ci aggiunse la scomunica; senonchè riputandola di piccolo ausilio si risolve voltarsi alla Francia; tutti i popoli del mondo nemici alla Italia, tutti le furono servi, ma sovra ogni altro molesto il Francese; colpa massima del Papato; però veruno degli stati italiani ne andò immune; chi primo aperse le porte ai Francesi il Papa; ma poi in capo a dieci anni a volta a volta ce li chiamarono i baroni Napolitani, i Toscani, i Lombardi, i Veneziani, ed i Genovesi, e vennero, ce ne fosse stato! ora con Carlo il vecchio di Angiò, ora con Filippo e Carlo Valesi, ora con Ludovico I, II e III della nuova casa di Angiò, il vecchio Renato, il figliuol suo Giovanni duca di Calabria, Renato di Lorena, e Renato II due volte; del seguito taccio; solo dico, che infino a quando gl’Italiani non si sentano capaci a fare da sè non si movano; chiama come vuoi il forestiero, che ti aiuta, lo proverai sempre padrone, Carlo VIII invitato dal Papa non venne (doveva venire agli altrui inviti più tardi) onde a questo, fu mestieri appaciarsi con Ferdinando. Prima di raccontare la sua morte diciamo alquanto dei suoi costumi. Gem nacque figlio a Maometto II quando questi sedeva sovrano, Bajazzette mentre durava privato; distinzione sufficiente, anzi ce n’era di troppo, a fare che il fratello minore nato nella porpora vincesse il maggiore; ma bisognava prevalere nelle armi; invece fu Gem sconfitto, ond’ebbe di catti scappare, e ripararsi a Rodi sotto la protezione dei Cavalieri di san Giovanni: protezione nemica vuol dire, quando è bazza, prigione, quasi sempre morte di laccio, di ferro, o di veleno. I Cavalieri lo mandarono in Francia nella commenda dell’Alvernia; a loro lo chiese il Papa, e il gran maestro Francesco d’Aubusson facendovi calca dintorno, glielo consegnarono; il d’Aubusson in mercede ebbe il cappello cardinalizio. Bajazzette promise al Papa gli avrebbe pagato quarantamila ducati annui se glielo custodiva stretto, e il Papa, che aveva voluto Gem appunto per questo, conchiuse il negozio; però non sentendosi il Bajazzette abbastanza sicuro s’industriò avvelenarlo; propinatore a prezzo del veleno un Macrino del Castagno gentiluomo della Marca di Ancona; scoperto patì orribile supplizio; non dissentivano i Papi ad avvelenare Gem, solo intendevano avvelenarlo essi, come di fatti fece più tardi Alessandro VI e per molto tesoro, come noteremo a suo luogo. Sicarii, ed avvelenatori in cotesti tempi frequentissimi a Roma, e non poteva essere a meno, però che nei casi ordinari come si costumava fino dai tempi di Bonifazio VIII, vendevansi bolle d’impunità, e indulti per delitti commessi, e da commettersi, allegando a scusa della iniquità le parole del Vangelo: «non voglio la morte del peccatore, ma viva e si penta.» I preti erano macellari, albergatori, biscazzieri, ruffiani, e peggio. Pareva che più in fondo non si potesse andare e si andò, perchè non conosce fondo l’inferno; un Domenico da Viterbo in società di Francesco Maldente fabbrica false bolle con le quali si permettevano per danaro infamie, che non hanno nome; scoperta la frode, erano dannati nel capo; il padre di Domenico con molte lacrime supplica la vita del figlio; glielo concede il Papa a patto paghi seimila ducati; il misero si mette dintorno, e scombussolando parenti ed amici ne raccoglie cinquemila; recali al Papa, il quale li piglia, ma poi dichiara il misfatto tale da non potersi saldare con meno di seimila ducati, epperò non rende i cinquemila, e taglia la testa al viterbese. La inquisizione Innocenzo non instituì; già innanzi a lui era; ma ai tempi suoi si perseguitarono Ebrei, e Mori per cupidità, per diletto, e per devozione; dacchè ad ottenere la rimessione di un’omicidio bastava ammazzare un›Ebreo; se due meglio che mai; ed egli fu che sotto pena di scomunica ordinò ai giudici secolari senz›appello, senza revisione nel termine dei sei giorni eseguissero la Sentenza. Il prete decretava la strage, ma voleva, che chi s›imbrodolava nel sangue fosse il secolare. A tempo di questo Papa Giovanni Pico della Mirandola di ventitrè anni sostenne a Roma le sue famose tesi in tutte le scienze, non escluse la Magia, e la Cabala, comprensive novecento proposizioni estratte da scrittori greci, latini, ebrei, e caldei; più tardi tredici ne furono trovate eretiche, e il Pico non mancò difenderle a spada tratta. Fra le tesi condannate, vale il pregio ricordare queste. Veruno può credere una cosa dove manchi di motivi sufficienti per crederla. Si parla più impropriamente affermando Dio intelligenza, o intendimento, che dire di un Angiolo che sia anima ragionevole; e rinterzando si difendeva co› libri di san Dionigi areopagita, il quale nega bravamente Dio essere una intelligenza. Finalmente il Pico non dubitava sostenere come l›anima non possa concepire distintamente altro che sè. — E ci era la inquisizione! È da credersi che non l›avrebbe passata liscia se non era principe, e non gli facevano spalla i più potenti d›Italia; il Papa si tenne a citarlo a Roma dove il Pico non comparve, e a condannarne le tesi. Nel settembre del 1490 tanta paura lo vinse per lo scoppio di un fulmine caduto nel campanile di san Pietro che cadde come morto colpito dall›apoplessia; durò venti ore come passato, e durante questo tempo i Cardinali entratigli in camera ne portarono un milione di oro per sottrarlo alle rapine dei figliuoli; pure essendosi riavuto tirò innanzi come una cosa balorda: ogni via tentarono per guarirlo ancora che strana ed immane; tra le immani la trasfusione del sangue; la tentò un medico ebreo il quale per aggiungere un filo di vita ad un tristo vecchio non dubitò troncarla a tre giovanetti; ma e prima e dopo di lui medici non so se più ignoranti o feroci avvisarono guarire parecchie infermità col sangue, a mo› di esempio l›elefantiasi. In Toscana un medico Polli di Casentine molto si travagliò intorno la trasfusione del sangue, ed anco ai tempi nostri qualcheduno lo ha tentato. Il Fleury afferma per attenuare l›orrore della cosa che i giovanetti erano morti; questo è falso però che sangue di morto stimavano privo di virtù l›ebreo non essendo riuscito scappava; il vecchio Papa precipitava nel sepolcro strascinandovi secolui tre vittime. Se Alessandro VI, che seguitò, fosse il solo Papa incestuoso, avvelenatore, fedifrago, ladro, e assassino io vorrei, che sopra la sua immagine fosse tirato un velo come su quella di Marino Faliero, ma pur troppo costui va sciaguratamente accompagnato con troppi più soci, che non si crede. Sazievole, e non utile dire tutto di lui; anco quello che giova compendierò in istile, che l›amore della chiarezza mi consentirà più conciso. Anco in questo conclave i Cardinali giurarono patti, e furono: l›eletto Papa non promoverebbe altri Cardinali senza il consenso del sacro collegio: allora sommavano ventitrè in tutti: la esperienza aveva dimostrato, che sottomettere un prete al giuramento, egli era come legare di ritorte Sansone prima che avesse la chioma mozza, proprio pel piacere di vedergliele rompere, e se questo commisero gli altri Papi immaginate che mai fosse da aspettarsi da Alessandro VI. Per consenso degli stessi scrittori ecclesiastici lo spirito santo non entrò per nulla nella elezione di lui, bensì la simonia, e non più vista della così sfacciata; al Cardinale Ascanio Sforza risegnò la carica ch’egli teneva di vicecancelliere, e per caparra prima della elezione gli mandò a casa 5000 ducati di oro; il Cardinale Orsini ebbe il suo palazzo di Roma, ed i castelli di Monticelli e di Soriano; il Colonna si buscò l’abbazia di Subiaco con le castella; il Michiel il vescovado di Porto col palazzo, masserizie, e financo il vino che molto e prezioso si conservava nelle cantine di quello; la villa di Nepi al Cardinale di Parma, al Savelli la chiesa di santa Maria maggiore, e Civita Castella; toccò al Cardinale di Genova la chiesa di santa Maria in via lata; altri comprò a contanti. In quel torno Cesare Borgia suo figliuolo si trovava a studio in Pisa sicchè udita appena la esaltazione del padre di un salto fu in Roma; presentatosi al Papa, questi, che non rifiniva parlare di riforme, del vituperio delle simonie, e di altre infamie da doversi torre via dalla Chiesa col ferro, e col fuoco, mentre tuttavia gli stava genuflesso dinanzi gli sciorinò una lunga diceria di cui la sostanza era, che non isperasse grazia o favore; i premi se gli aveva a guadagnare con illibati costumi, e studi poderosi; egli non avrebbe imitato lo esempio dello zio Calisto, il quale smembrò la Chiesa del ducato di Spoleto per donarlo a lui, a lui la prefettura di Roma, e la vice cancelleria della Camera, a lui il generalato della Chiesa, ed altri benefizi parecchi, che arieno potuto bastare a guiderdone di molti, e tutti più capaci di lui. — Ai presenti, udendo coteste parole, sembrava di avere le traveggole; egli era negare il pasto all’oste co’ vermicelli in bocca; Cesare ne trasecolò, e corse difilato a sfogarsi con la madre Vannozza, la quale ne rise di cuore confortandolo ad aspettare. Assunto al pontificato Alessandro prese a inimicarsi con Ferdinando di Napoli perchè egli dette sottomano i danari agli Orsini onde acquistate le castella di Anguillara, e di Cervetri gliele tenessero come un calcio in gola; la quale avversione crebbe fuori di misura per la repulsa di Alfonso duca di Calabria di maritare certa sua figliuola naturale con uno dei figli del Papa; per la quale cosa egli si strinse in lega co’ Veneziani e col Duca di Milano osteggiando il re di Napoli; ma Ferdinando, che per sagacia, malignità, e ferocia si rassomigliava come uovo ad uovo al moderno Ferdinando II, con ogni studio volendosi tenere bene edificato il Papa, impedì recassergli ingiuria i baroni romani di concerto con Piero dei Medici, e il duca di Calabria, e mise pratiche per istaccarlo dalla Lega, ed accorciarsi con lui; il Papa volentieri le accolse, ma evitava venire alle strette confidando, che il tempo greve di casi, gli porgesse occasione di avvantaggiarsi con suo maggiore profitto; nè la occasione si lasciò aspettare; dacchè la calata di Carlo VIII si conobbe statuita, Ferdinando compunto da affannosi presagi morì, e Alfonso bisognoso della investitura papale, smessa la superbia, ebbe a calare concedendo la figliuola Sancia da prima negata a Giuffrè figlio del Papa, col titolo di principe di Squillace, e Cariati, 10000 ducati di pensione, 300 uomini di arme pagati per sua difesa, e per giunta il protonotariato di Napoli ch’è delle sette principali cariche del regno; nè qui finiva: a Francesco duca di Gandia un’altra delle sette cariche, e 10000 ducati di pensione, a Cesare, che allora era Cardinale, e per giunta arcivescovo di Valenza, un benefizio, e dei grossi; del quarto figlio maschio del Papa tace la storia, e non ne ricorda il nome, forse nacque sconcio, e visse così. Alessandro, sarebbe ingiustizia negarlo, con tutte le forze si oppose alla venuta dei Francesi in Italia, e all’oratore di Carlo VIII senza ambage dichiarò, non potere spogliare gli Arragonesi di Napoli dove il re non provasse superare in diritto gli Angioini; feudo della Chiesa cotesto reame, spettare al Papa decidere il piato, se Carlo ci adoperasse la forza sarebbe come assalire la Chiesa. Nè manco, come corre la fama, la colpa della chiamata di Carlo VIII vuolsi rovesciare tutta sul Moro; all’opposto egli aveva tentato comporre una lega di principi italiani per la difesa della nostra terra contro le invasioni dei barbari; lo attraversò Piero dei Medici; sicchè quando conobbe formata una lega contro di lui, non riputandosi capace a combatterla solo, e certo togliendogli baldanza la rea opera, che intendeva condurre a compimento, ed era torre come tolse il governo di Milano al nipote Giovanni Galeazzo, e forse anco la vita, si apprese al partito miserabile di chiamare lo straniero fra noi: poco dopo si pentì, ma ormai si era chiuso la via al riparo, conciossiachè mentre si sarebbe fatto nemico implacabile Carlo non poteva confidare amicarsi Alfonso, però che egli intendesse regnare, e Alfonso a ragione domandava rendesse il ducato al genero, ed alla figlia Isabella. Colui, che spinse in Italia i barbari fu per lo appunto Giuliano della Rovere, più tardi Giulio II, il quale dagl’imperiti delle storie viene celebrato come perpetuo nemico degli stranieri, ed irrequieto ripetitore del grido: «fuori i barbari!» Ahimè! peccarono a volta a volta tutti i nostri padri, e i Veneziani stessi col trattato di Blois convennero co’ Francesi di pigliarsi, e spartirsi il Milanese: che Ferdinando il cattolico e Luigi XII cristianissimo si accordassero a dividersi il reame di Napoli, bene sta; per loro era preda, ma che preda i Veneziani considerassero la Italia, questa è cosa ch’io perdono loro meno, che il truce istituto degl’inquisitori di stato. Però il Papa se non chiamava i Francesi, per contrapporli a loro chiamava i Turchi mandando a questo fine un Bucciardo oratore fino a Costantinopoli, mentre coll’avventato stile delle bolle papali eccitava Carlo a voltare le armi contro quel desso Turco dimostrandogli quale e quanta enormezza fosse per un re cristianissimo mettere a fuoco, e a fiamma la cristianità mentre gl’infedeli minacciavano straripare fino a Roma; a tale lo conduceva (fosse stato migliore di quello ch’egli era) la mostruosa miscela del temporale con lo spirituale. Però il Turco non gli dette retta, e Carlo dopo avere ciondolato alquanto, sovvenuto dalle donne ducali, e marchionali di Savoia, e di Monferrato, che Dio confonda, venne ai nostri danni in Italia. Il Turco Bajazzette non accogliendo tutte le istanze del Papa ne secondò parecchie come si cava dalle sue lettere, che intercette da Giovanni della Rovere, furono mandate a Carlo mentr’egli stanziava a Firenze; in una di queste del 12 settembre 1494, si diceva: ringraziarlo degli avvisi portigli intorno ai disegni di Carlo VIII, il quale intendeva impadronirsi del fratel suo Gem per servirsene a tentare cose nuove in Oriente; facesse una cosa, la quale avrebbe giovato a loro, ed anco a Gem, ed era avvelenarlo o in altro modo procurargli la morte; giovato a Gem perchè a fin di conto mortale essendo gli toccava un giorno o l’altro finire, ed ora levandolo dalle miserie del mondo lo avrebbe avviato in luogo pieno di ogni felicità; se ciò avesse fatto egli giurava pagargli subito 800 mila ducati, e di più gli prometteva non avrebbe danneggiato le terre dei cristiani; quanto a lui si sarebbe tolto quel fastidio di fratello dintorno; in segno dello amore sviscerato che gli portava, tosto avutone il corpo lo avrebbe in magnifico sepolcro sepolto; ancora, lo supplicava di compiacerlo in altro suo desiderio, il quale consisteva nel promovere al cardinalato Niccola Cibo arcivescovo di Arles. Così i Turchi raccomandavano al Papa i prelati, e il Papa le raccomandazioni con pronto animo accoglieva! E poichè nonostante gli ostacoli, Carlo VIII sceso in Italia cominciava la corsa, la quale dissero vittoria, dove i Francesi altra arme non adoperarono eccetto sproni di legno, e gesso per segnare i quartieri alle milizie, il Papa tentennando propone accordarsi con Carlo, poi se ne pente, e sostiene i Cardinali Sforza, Sanseverino, Colonna, Lunate, ed altri parecchi; ma progredendo vie più Carlo torna a ciondolare; finalmente vinto dalla paura libera i prigionieri e gli mette framezzo pacieri; il re oltre parecchie cose pretende Santo Angiolo, lo nega il Papa, il re Carlo due volte appunta le artiglierie per espugnarlo; ma visto il papa deliberato di porre ogni sua fortuna in isbaraglio innanzi di cedere renunzia al castello, e tiene il fermo sopra le altre condizioni, le quali vengono concesse; tra queste la consegna di Gem, e l’ebbe vivo ma con la morte in seno; il Papa per gratificarsi il Turco, e buscarsi gli 800 mila ducati lo avvelenò. Gli Italiani tardi commossi dalla subita conquista dei Francesi si uniscono in segretissima lega e la sottoscrissero il Papa, i Veneziani, il re di Spagna, e quello dei Romani, e il duca di Milano, in apparenza volevano difendersi, ma in fondo dare addosso ai Francesi. Naturale talento dei popoli di mutare signoria, provata, che l’abbiano basto in tutto uguale alla signoria antica, la stupenda, e insanabile levità dei Francesi, lo istinto loro di guastare sempre e non ordinare giammai, le voglie ladre, la ingiuriosa jattanza, ed altre pecche, le quali non si ricordano unite alla fama della novella lega cominciano a sgomentare i Francesi, nè Carlo si trovò mai così presso a perdere la corona come in quel punto nel quale ei se la mise in capo. Come e perchè questi successi avvenissero, ed ai Francesi toccasse sgombrare il regno più presto di quello, che l’occupassero altri disse e bene; mi stringo a raccontare che dopo infelici fortune, tornato il re in Francia, Gilberto di Monpensieri ebbe a capitolare in Atella; stipulava salute per sè e per gli aderenti suoi, ma siccome fra questi erano gli Orsini, cui il Papa disegnava spegnere per eredarne le spoglie, ordinò a Ferdinando di Napoli non l’osservasse, anzi se disobbediente ai comandamenti suoi lo avrebbe scomunicato; però Paolo e Virginio Orsini furono sostenuti prigioni nel castello dell’Uovo, e le milizie loro assalite a man salva e svaligiate. Fin qui contro Francia; morto Carlo e succeduto Luigi XII Alessandro piantati là gli Aragonesi si stringe alla Francia mercè novella lega cui rinterza co’ vincoli sempre provati fallaci, e pure sempre appetiti, del matrimonio; e poichè Carlotta figliuola al re di Napoli ricercata di nozze dal Valentino, mostrando il coraggio, che allora ai più animosi faceva, difetto, gli buttò sul viso queste parole; «io non vo’ per marito un prete, figliuolo di prete, fratricida, infame per nascita, e più per opere scellerate.» il Valentino si tolse per moglie un’Albret figliuola del re di Navarra dotandola, invece di riceverne dote, conciossiachè fossero patti degli sponsali, sodasse il Papa duegentomila scudi alla sposa, un cappello cardinalizio conferisse al fratello di lei. Quello, che il Papa e il Valentino ardissero con l’aiuto di Francia vedremo; ora importa sapere, che di nuovo la fortuna dei Francesi scadde in Italia non per mancanza di valore, bensì per le indomabile levità, e spensieratezza loro; il Papa, e il Valentino tosto mutata vela secondo il vento pigliano ad intorarsi con Francia, mettono la parola di possibile accordo col Gonzalvo; co’ Pisani temporeggiano; insomma stanno a cavallo al fosso per buttarsi dove il conto torni. Le sorti di Francia veramente toccarono il fondo, ma quivi si rifecero, secondochè la favola immagina del titano Anteo, e con la Tremoglia si avventura a nuovo esperimento; da una parte, e dall’altra avendo sete del Papa, gli profferiscono mirabilia per tirarselo a sè, ed egli col Valentino in mezzo a mettersi allo incanto e a succhiellare la carta; le proposte più turpi si volsero alla Francia, e questa tutta ingolfata nell’interesse presente, non curando vergogna le accettava; ma Valentino provato il terreno sollo a ingolare la vanga, armeggia a ficcarci ancora il manico; la sorte sul più bello gli fece la cilecca, il Papa morì, ed egli stette a un pelo di tenergli dietro. Di queste trappole non appunteremo costoro; a quei tempi o farle o patirle, ed anco ai nostri così; il Papato diventato cosa terrena si schermisce con le industrie persuase dai tempi, e dagli uomini: però cosa iniqua non per chi presume rappresentare Cristo, bensì per ogni creatura umana la smania di arraffare la roba altrui, e il modo per venirne a capo. A mano a mano che divoravano in cotesti maligni crebbe la fame come sempre nei cupidi accadde; per ora basta Romagna, più tardi la Toscana, e se la morte non troncava i disegni non si sarieno contentati dell’Italia. Concetto pari ebbe Sisto IV. ma non potè dargli fondamento, quindi essendo il fabbricato da lui ostacolo allo edifizio dei Borgia, ebbe a crollare. Parte dei principi di Romagna, i Bentivoglio, e gli Orsini confidavano nella protezione della Francia, ma re Luigi bisognoso di tenersi bene edificati il Papa, e il Valentino di un tratto significa loro, chi può salvarsi si salvi, non potere egli nè dovere pregiudicare i diritti della Chiesa. Diritti la Chiesa non aveva, se togli le antiche e famose donazioni, pure non si vuole negare, che parecchi per possedere simulacro di potestà legittima a opprimere i popoli avevano sollecitato ed ottenuto titolo di vicari della Chiesa, e promesso eziandio il censo annuo, che non pagavano mai: non importa, porgi al prete la cima della corda in mano, ed ei saprà tenerla inoperosa per secoli, finchè non giunga la opportunità di stringertela al collo; difatti occorrevano città come Ancona, Spoleto, Terni, Narni, Assisi, e qualche altra, che si reggevano a ordini repubblicani; peccato che gare interne ed esterne le impedissero a costituirsi in valida lega fra loro, sicchè ogni giorno crescevano le cause della provocazione, quelle della difesa diminuivano. Primi a cadere i Riario nepoti di Sisto investiti d’Imola e di Forlì. Imola non oppose resistenza, a Forlì la vedova Caterina Sforza, scansato prima il figlio Ottavio a Firenze, volle mostrare il viso alla fortuna, e fece strenua difesa, non felice, chè il Valentino sovvenuto da 300 lance di Francia espugnò prima la terra, poi la rocca. Caterina venuta in potestà del Borgia, andava a Roma prigioniera e fu chiusa in castello Santo Angiolo, donde la trasse fuora Ivo d’Allegre o vergogna lo rimordesse, od altra passione lo stimolasse. — I signori di Faenza, e di Rimini apprensioniti supplicano per soccorso. Astorre, il quale pure nacque dalla figlia di Giovanni Bentivoglio, fu respinto dallo zio, ch’ebbe di catti ottenere perdono dal re Luigi pei sussidi somministrati al duca di Milano; nè gli riuscirono migliori amici i Fiorentini pensosi anch’essi dei fatti loro: peggio di tutti i Veneziani, che in coteste strette disdissero l’amicizia vecchia, e scrissero nel libro di oro il nome del Valentino che a questo modo diventò nobile veneziano. Pandolfo Malatesta signore di Rimini vista approssimarsi la burrasca si tirò al largo; e ne seguì lo esempio Giovanni Sforza signore di Pesaro; per converso elesse contrastare Astorre Manfredi di Faenza giovane fuor di misura bellissimo, e di magnanimi spiriti; il Valentino si mosse ad assaltarlo con potente esercito, e copiosa artiglieria; adoperando le armi costui non poteva omettere i tradimenti, e corruppe Dionigi di Naldo a tradire Astorre del castello; scoperto il trattato le spengono a ghiado: durarono tutta una stagione intorno all’assedio di Faenza invano: entrato il verno in cotesto anno rigido oltre il consueto e’ fu forza ritirarsi; il Valentino tornò in primavera con animo più perverso, ed esercito più gagliardo; due volte assaltò, e due rimase respinto: tuttavia i Faentini considerando non poterla durare, così com’erano privi di ogni umano aiuto con le lacrime agli occhi supplicarono Astorre a capitolare; i patti brevi: salvi le persone, e i beni, libero Astorre recarsi dove gli talentasse. Astorre con un suo fratello bastardo ed una giovane donna erano menati prigioni in castello Sant’Angiolo, quivi stettero un anno in capo al quale i cadaveri di questi miseri furono trovati nel Tevere; quello di Astorre aveva una corda intorno al collo, gli altri due stretti insieme e con le mani legate dietro il dorso. Il Guicciardino scrive essere corsa fama, come qualcuno sfogasse la immane libidine nel corpo di Astorre, il quale qualcuno nella vita del Valentino, che un dì pubblicata col nome di Tommaso Tommasi sappiamo essere opera di Gregorio Leti, diventa colui, che sconvolgeva tutte le leggi di natura e di Dio, con le quali parole dà ad intendere, lo scellerato stupratore fosse il Papa: ahimè! troppi vediamo essere i delitti veri commessi da questo empio uomo, onde gli si abbiano ad aggiungere anco gl’immaginati. Astorre cadde nelle mani del Valentino nel 1500, e l’anno dopo periva, e siccome in quel torno il Papa annoverava bene settanta anni, così se il volere gli avesse consentito la infamia, la età gliene levava il potere. Il Gordon nella vita di Alessandro VI afferma la donna rinvenuta nel Tevere in compagnia di Manfredi essere stata la donzella, che inviata da Elisabetta Gonzaga duchessa di Urbino a marito in Venezia con Giovambattista Caracciolo generale di fanti della repubblica, il Valentino fece rapire presso Cesena, nè se ne seppe più altro: non avendo trovato in veruno scrittore italiano tenuto ricordo di cotesto particolare, io lo giudico giunta dello scrittore. Arte profondamente arguta per isbigottire, e per gratificarsi i popoli già soggetti fu questa, che il Valentino mandasse a governarli o piuttosto a tribolarli un’Orco Ramiro; quando conobbe immensa gravare sul capo di costui la maladizione dei traditi, quasichè il Borgia sentisse pietà dei popoli, un bel giorno spartito in due cotesto ribaldo in mezzo a parecchi torchi accesi lo fece esporre sopra la piazza di Cesena; il quale trovato, pieno di malizia, gli conciliò l’animo non pure dei soggetti, ma eziandio degli altri che intendeva sottoporre, imperciocchè dai vecchi signori fossero con ogni maniera di strazi angariati. Adesso il Borgia accenna alle Marche, alla Toscana tutta, a Bologna, a Urbino, e a Piombino. Da prima si volta contro Giovanni Bentivoglio, e lo vinceva, se non lo impediva Luigi XII a cui era cotesto signore raccomandato; non potendo cavarne tutto il vestimento, il Borgia per allora si contentò del mantello; volle Castel bolognese, e 1000 ducati all’anno, con 100 uomini d’arme e 2000 fanti pagati; poi minaccia Toscana, e ne corre le terre; pretesto allo assalto la licenza data al Rinuccio da Marciano che passò con la sua compagnia al servizio del Bentivoglio; Firenze con Pistola ribellata, il contado in ruina, strema di forze a cagione della guerra pisana poco schermo poteva fare se il Borgia chiamato a Napoli non avesse dovuto lasciarla stare pel momento; in passando assediò Piombino, il quale resistendo oltre il presagio, fu espugnato più tardi dai suoi luogotenenti. Reduce da Napoli, macchina la usurpazione del ducato di Urbino retto da Guidobaldo che per cotesti tempi fu una coppa di oro di principe, e lo sarebbe anco ai nostri per bontà, e per sapienza; il modo che il Papa e il Valentino tennero, questo: gli finsero maravigliosa benevolenza, composero le liti che cotesto signore teneva con la Camera apostolica, il nipote Francesco Maria promossero a prefetto di Roma, e per fino gli proffersero ammogliarlo con Angiola Borgia; tranquillatolo così ingrossarono l’esercito nelle terre vicine sotto colore di assediare Camerino, e poi gli mandarono messi con lettere ortatorie perchè gli servisse per cotesto assedio delle sue artiglierie, assettasse le strade, provvedesse vittovaglie ai soldati, consentisse per le sue terre il passo a un 1500 uomini. Il duca rimandò indietro al Valentino per accertarlo sarebbe servito; se altro avesse desiderato comandasse, e il Valentino come intenerito si profondava in grazie maravigliose giurando non volere in Italia altro fratello, che il duca; per colmo di favore gli saria grato se incamminasse un migliaio di fanti in aiuto del Vitellozzo suo capitano su quel di Toscana. Tesa a quel mo’ la rete, di un tratto la strinse; non contento dei beni voleva la vita del buon Guidobaldo, che avvertito non credeva, ma reso accorto in estremo appena col nipote Francesco Maria della Rovere poterono scappare a sant’Agata, dove presa veste contadinesca separaronsi commettendosi all’aiuto di Dio, che li condusse a salvamento fuori di ogni pericolo. Pazienza! Il Borgia si morse il dito; e non sospese pure di un’attimo la opera propostasi; col Vitelli minaccia la Toscana, ribella Arezzo, e n’espugna la Rocca, e forse Firenze non la contava se accordatasi col re di Francia, questi non avesse spedito in diligenza ordine al Valentino di lasciare illesa la Toscana; e nondimeno egli più tardi quando i Fiorentini gli mandarono legato il Machiavello costui con giuramento affermava di coteste rivolture sè non solo innocente, ma inconsapevole; di ogni cosa colpa il Vitelli. Intanto egli assedia più certa preda Camerino; fatta un po’ di resistenza Giulio Cesare da Varano propone gli accordi, e il Valentino gli accetta, ma sul punto di segnarli egli sforza la terra, i patti straccia, mette le mani addosso a Giulio Cesare, e a due suoi figliuoli Venanzio e Annibale, i quali tutti in un’attimo strangola, il primogenito Giovanni Maria poco innanzi ito a Venezia per miracolo scampa. Vinti e spogliati i nemici, rimaneva a spengere, ed a spogliare gli amici; già per venirne più agevolmente a capo il Papa si era industriato commettere scandali tra gli Orsini e i Colonna, e ci era riuscito come quelli che ab antiquo procedevano scambievolmente nemici; però il Papa si mosse meno pel proposito di separarli, che per l’altro di non farli mai ora nè poi riunire. Fino dalla capitolazione dell’Atella il Papa dopo avere fatto sostenere, in onta alla fede giurata, Virginio Orsini, ne pubblicò i beni ordinando al duca di Gandia, e ad altri parecchi mandassero la sentenza ad esecuzione: donde una guerra lunga e varia, ove nella difesa di Bracciano mostrò la donzella Bartolommea, sorella di Virginio Orsini, tale prova di valore da disgradarne i più intrepidi. Carlo Orsini in buon tempo venuto di Francia con Vitellozzo Vitelli, che congiunti erano, si legano ai danni dei Borgia; gli sovvennero Perugia, Narni, e Todi, e messe assieme le genti s’incamminano a Bracciano; occorsero loro i papalini, ed incontratisi su la via di Soriano danno subito di piglio alle armi: dopo lunga battaglia andarono sconfitti i papalini, prigione il duca di Urbino, sfregiato in faccia Francesco Borgia. Impaurito il Papa, chiede accordare, e l’ottiene; in questa pace fu notabile il caso seguente: il Papa di leggeri ammollì su tutto, tranne che volle gli Orsini gli pagassero 70 mila ducati per le spese della guerra; ma perchè sapeva costoro corti a pecunia li persuase a non liberare il duca di Urbino, eccettochè con la taglia, e gli Orsini non intendendo a sordo gliela imposero, e appannata, 40,000 fiorini, i quali da una mano presero e dall’altra pagarono al Papa; così Alessandro buscava la taglia di tale, che combattendo per lui era caduto prigioniero! Dopo questo successo gli Orsini servirono i Borgia di coppa e di coltello, soldati e sicari come meglio loro ordinavano, sicchè poste in oblio le date e le ricevute ingiurie estimavano esserseli amicati per la vita: funesta fiducia con tutti, co’ Borgia poi anco matta, ma anzi non è così, almeno non sempre, imperciocchè tanto gli Orsini quanto i Vitelli congiunti, ed aderenti loro incominciassero quasi per istinto a fiutare la mala parata, per la quale cosa convennero segretamente alla Magione terra prossima, a Perugia, per concertare la comune difesa: a questo congresso si trovarono il Cardinale Orsini, il fratel suo Paolo, Vitelozzo, Giovampaolo Baglioni, Ermes Bentivoglio, Oliverotto, Antonio da Venafro pel Petrucci di Siena, e dicono ci si facesse rappresentare anco la vedova di Giovanni della Rovere signora di Sinigaglia. Al Talentino incominciava a voltare faccia la fortuna: i suoi capitani ormai ribelli restituiscono nell’usurpato retaggio il duca di Urbino maravigliosamente sovvenuti dai popoli devoti al principe benemerito: pel costoro abbandono scemato l’esercito al Valentino questi trovandosi a mal partito ordina con celeri messi ad Ugo di Cardona e a don Michele capitani fidatissimi suoi, schivata ogni battaglia, ridursi a Rimini con quanto rimanga loro di forze, ma non gli obbediscono allettati dal destro di pigliare Fossombrone, e Pergola, dove sorpresi da Paolo Orsini e dal duca di Gravina restano percossi di sconcia battitura, il Cardona casca prigioniero, don Michele a gran ventura scappa a Fano, poi a Pesaro. I collegati potevano vincere spingendosi risoluti innanzi, e non seppero, per riguardo al re di Francia protettore dei Borgia, come se i principi stranieri non si amichino sempre chi vince; dacchè tutte le leghe non abbiano ragione oltre queste due, il danno o il comodo che puoi recare; ora questa venendoti a mancare quando sei vinto gli è chiaro come l’acqua, che tu non offerisci più argomento di lega. Mentre costoro ciondolano improvvidi, i Borgia usano l’estremo dell’arte per cavarsi dal mal passo: prima di tutto il Valentino s’industria rabbonire i Fiorentini; stava allora presso a’ lui oratore di Firenze Niccolò Macchiavello, e proprio l’andava tra corsaro e pirata; il primo non rifiniva far toccare con mano che aveva sempre nudrito filiale amore per Firenze, non averglielo troppo palesato fino di ora perchè sendo debole gli pareva che avessero potuto ascriverlo a paura, e sospettarlo poco sincero, egli di cui un dì avrieno detto le genti, che quando la lealtà fosse stata bandita dal mondo avrebbe preso rifugio nel suo seno: ora poi, che vinto ogni ostacolo si sentiva gagliardo si profferiva affatto uomo di Firenze, lo mettessero alla prova, e vedrebbero. Da ora in poi Firenze e i Borgia avere ad essere tutta una cosa. Questo per paura che i Fiorentini legandosi co’ ribelli in questa stretta non l’opprimessero. I Fiorentini, che per non venire in uggia al Borgia ricerchi più volte dai ribelli si erano ricusati a fare causa comune con essi, dichiaravano al Valentino per bocca del Macchiavello: alle proteste di amore del Borgia credere quanto nel vangelo e più; e di questo avesse per pegno, che sollecitati a legarsi co’ suoi nemici per abbatterlo avevano rifuggito sempre, e rifuggirebbero. Posto in quiete da questa parte il Valentino prese a negoziare con Paolo Orsini, e riuscì ad agguindolarlo con parole, e con doni: gli uomini per ordinario sono prosuntuosi in proprio danno, e nello altrui, ma più nel proprio, però che accomunandosi ai tristi in questo fidano, o che questi si guarderanno bene di farla a loro, o che sapranno guardarsene, e quasi sempre restano ingannati; tu poi imita la prudenza dello antico Ulisse, quando rasenti lo scoglio delle Sirene turati le orecchie, se con la cera, o con le mani non rileva, purchè tu le tappi; Paolo prese a serpentare gli altri sicché volenti o no li condusse agli accordi, di cui primo effetto fu lo abbandono del duca di Urbino al quale toccò rifare i passi dello esilio. Rispetto al Bentivoglio, i collegati lasciarono lui, ed egli i collegati e con duri patti si compose col Borgia, che mallevati dal re di Francia, dal duca di Ferrara, e dai Fiorentini lo guarentirono meglio. In virtù dello accordo il Valentino deliberò co’ suoi capitani tornati a divozione di lui se fosse ad assaltarsi Toscana o Sinigaglia; elessero Sinigaglia, e di vero mossero colà di concerto commettendo il terzo tradimento, come quelli, che alla posta della Magione avevano promesso sostenere la Castellana. La città noti oppose resistenza; solo la Castellana, e il Doria ridottisi nella Rocca dichiararono ad altri non volersi rendere, tranne al duca; per la quale cosa gli Orsini mandarono per esso; ed egli colto il destro, parendogli, che della sua andata non potessero pigliare ombra poichè eglino medesimi lo chiamavano, rispose, andrebbe, ma la città sgombrassero dalle milizie loro stanziandole nei borghi, dacchè nella città intendeva alloggiare le proprie, e come disse fecero: allora si mosse da Fano, e non potendo farne a meno spinti dai fati gli occorsero in su’ muletti Vitelozzo, Pagolo, e il duca di Gravina, entrambi Orsini, questi armati, l’altro disarmato con una cappa foderata di verde, afflitto in vista quasi presago della morte imminente, e corse fama, che innanzi di separarsi dalle sue milizie fece con loro le ultime dipartenze raccomandando ai capi la casa sua, e i nipoti ammonì che non alla fortuna degli avi pensassero, bensì alla virtù, e gl’imitassero. Se con lieta fronte gli accogliesse il Borgia non si racconta nè manco, se nonchè stringendo gli occhi si accorse non essere fra loro Oliverotto, e saputo come fosse rimasto dentro Sinigaglia con le sue genti attelato sopra la piazza, mandò don Michele a dirgli, che menasse le milizie altrove e andasse con gli altri a complire il duca. Oliverotto non se lo fece ripetere due volte studioso con la nuova obbedienza cancellare l’antica ribellione. Entrati tutti insieme in Sinigaglia scavalcarono all’alloggiamento del duca, che li condusse in sala, donde poichè ebbero alternato alcuni ragionari, il duca sotto pretesto di mutare vesti si allontanò; sopraggiunsero a un tratto scherani che pigliarono i traditi a mano salva. Il duca tosto monta a cavallo e si arrabatta a svaligiare le milizie di Oliverotto e degli Orsini; riuscì con le prime perchè prossime e prese alla sprovvista, con le seconde no, che avuto tempo di mettersi insieme con ardimento pari al valore si ridussero in salvo. Durante la notte Vitelozzo, e Oliverotto erano strangolati, il primo (pare impossibile!) pregando si supplicasse il Papa a dargli la indulgenza plenaria, l’altro piagnendo, e tutte le sue colpe riversando su Vitelozzo. Ma chi potrebbe affermare queste cose vere? Le riporta il Machiavello, il quale da altri non può averle apprese eccetto dal Valentino e dai carnefici suoi interessati troppo a fare comparire colpevoli i traditi, e non contenti, secondo il costume dei tiranni, a saperli morti se anco non li sappiano e contennendi, e vili: Paolo, e Francesco Orsini il duca di Gravina furono strangolati più tardi avendo prima voluto accertarsi il Valentino, che il suo dabbene genitore Alessandro Papa aveva a Roma messo le mani addosso al Cardinale Orsino, all’Arcivescovo di Firenze Rinaldo Orsino, a Messere Iacopo da Santa Croce, al protonotaio Orsini, ed all’abate Alviano fratello di Bartolommeo. Gli argini al delitto parvero rotti; dopo questa strage piglia Città di Castello dei Vitelli, piglia Perugia dei Baglioni, saccheggia lo stato di Siena, piglia Chiusi, e Pienza, invade gli stati degli Orsini. Il demonio, a detto della gente sbigottita, fatto vicario di Cristo, il vessillo dello inferno in mano al Papa, il padre dei fedeli dispensatore a un punto di crisma e di veleni, i sette sacramenti in questo mondo oppressione, nell’altro dannazione, a cui raccomandarsi non sapeva, il cielo sembrava fatto più truce dell’erebo e senza fine disperata la gente diceva: «Dio non è!» Di un tratto questi immani colpevoli, che stavano sopra le leggi divine ed umane con le proprie mani si avvelenano; il Papa muore; il Valentino della vita in forse perde il credito; tradito chi tutti tradì, spogliato chi tutti spogliò, abbindolato, deriso, fuggiasco cessa di vivere per ferita rilevata in oscura avvisaglia, e fu fortuna oltre i meriti suoi. La pietà pei tristi è furto della pietà dovuta ai buoni, però io non mi appassiono per la strage di tali, da cui se pochi ne eccettui, furono anco più rei del Valentino, il quale pure qualche sollievo ai popoli concesse, e di tanti basti dire di Oliverotto da Fermo: rimasto orfano costui raccolse e nudrì lo zio Fogliano avo materno, il quale volendo fargli apprendere la milizia lo accomodò con Paolo Vitelli; ebbe fortune varie, e ottenne fama di valoroso; militando in ultimo sotto la bandiera del Valentino gli si parava occasione di approssimarsi a casa. Da Camerino scrisse allo zio chiedendogli licenza di andare a riverirlo per mostrargli i segni di prodezza acquistati in guerra facendosi accompagnare da cento cavalieri; risposegli lo zio: magari! sarebbe le mille volte il ben venuto. Va, gli occorre lo zio, che gli getta le braccia al collo, e piange: se lo mette in casa co’ cento cavalieri: fa baldoria, pare che dall’allegrezza non possa più capire dentro la pelle; indi a pochi dì per festeggiarlo meglio imbandisce un convito ai maggiorenti di Fermo; Oliverotto sopra le mense ospitali trucida tutti, poi balza fuori sanguinolento e con la spada alla gola costringe i cittadini a tremarlo principe. Certo chi tale acquista non merita misericordia se il Valentino lo spoglia. Tuttavia anco ad acquistare a quel modo ci voleva pecunia, e di molta, ed anco per la spesa di certa pompa regia, che ai Borgia piacque sempre sfoggiare un po’ per talento, e un pò per politica, imperciocchè i panni rifacciano le stanghe, e il parere avvezza ad essere, ed educa altrui a riverirti. Del Papa a cotesti tempi corse un distico, il quale volgarizzato suona così: Vende Alessandro altari, e chiavi, e Cristo; E ben lo può, che pria ne fece acquisto. Aperse mercato d’indulgenze, ma questa vuolsi considerare galanteria; chi non poteva andare a Roma pel Giubbileo pagasse la indulgenza un terzo della spesa del viaggio; immenso ei ne raccolse tesoro; il Bembo afferma 800 circa libbre di oro dalla sola Venezia, e parmi troppo se consideriamo, che le miniere del Perù, e del Messico erano tuttora sconosciute; immagina un collegio di ottanta scrittori di Brevi e li mise allo incanto, e neppure qui vuolsi biasimare troppo; costrinse il cardinale Colonna a rendere l’Abazia di Subiaco, e quanti simoniacamente lo promossero ebbero a rimettere fuori lo ingoffo; e in questa parte quasi lo lodo; spogliò i Savelli; peggio toccò ai Caetani; di un tratto imprigiona Giacomo protonotaro apostolico, e l’unico figlio Niccolò; questo strozza, quello avvelena, poi dichiara devoluti alla Camera Sermoneta e gli altri stati di loro: indi a breve li comperava Lucrezia ottantamila fiorini, e si dissero, e altri finse credere, sborsati; e’ bisognava fare roba per Lucrezia, e fu colpa dei Caetani, che la possedessero, e che accomodasse a questa femmina dabbene; a forza s’impadroniva della eredità del Cardinale Domenico della Rovere, nonostante la facoltà concessagli per disporre liberamente delle sue sostanze da Sisto IV; per quella del Cardinale Zeno morto a Venezia strepitava, sicchè il Senato per lo meno reo consiglio gli ebbe ad ammollare non poca moneta. Il Cardinale di Lisbona assalito da subito male si riebbe alquanto; parendogli sentirsi prossimo il fine supplica il Papa gli conceda testare del suo; quegli nega; il Cardinale arrovellato dona tutto il suo ai servi, agli amici, e ai luoghi pii; poi risana, i beneficati non che gli mostrassero gratitudine gli negarono soccorso, e lo uccellavano. Appunto come più tardi successe all’Ammannato, il quale poichè si fu disfatto del suo in prò dei Gesuiti lasciandosi tanto, che bastasse alla presunta sua vita si trovò a vivere oltre il presagio; nè soccorrendolo cotesti cuori duri ed avari il tapinello vagava per Firenze supplicando: «Un po› di carità per lo Ammannato «A cui mancò la roba, e crebbe il fiato. Eredi universali di tutti, il Papa, ed i figliuoli; ma spesso venivano a screzio fra loro come accadde alla morte di Pietro Caranza cameriere segreto del Papa; fra i beni lasciati da lui si trovavano ventimila fiorini; Alessandro gli donava alla Lucrezia, ma il Valentino che ne aveva bisogno pei fatti suoi li prese, e agli urli del padre e della sorella fece orecchia da mercante. Creò quarantatrè Cardinali, da ognuno dei quali raccattò almanco diecimila ducati, da taluno più. Tutto questo come turpemente iniquo ti mette addosso fastidio; quanto ti narrerò adesso ti farà paura; prima creò Cardinali, e porse loro la maniera di arricchire per via di inusitate angherie; quando a mo› di mignatte li sapeva pinzi di sangue succhiato li spengeva, e così costumò coi Cardinali di Capua, Santo Angiolo, e Modena, odiati tutti e a dritto: all›ultimo, che fu Giambatista Ferrara composero il seguente epitaffio, che reco dallo idioma latino al sermon nostro. Giambattista Ferrara nello interno Giace a quest’urna: ebbe la terra il corpo, I beni il Papa, e l’anima l’inferno. Il Valentino per menare grossa la guerra richiede danari al Papa, il quale patendone inopia s’indetta col figlio a cavarne da questo suo trovato; eleggerebbe per la festa di san Pietro nove Cardinali tra i più ricchi prelati della Corte, poi li conviterebbe a cena, dove gli avvelenerebbe tutti, così le nove eredità giungerebbero manna ai loro bisogni; tal detto, tal fatto; i Cardinali pubblicati furono Giovanni Castellare, Francesco Remolino, Francesco Soderino, Melchiorre Copis, Niccolò Fiesco, Francesco di Sprate, Francesco Iloris, Jacomo Casanuova, e Adriano Castellante da Corneto tesoriere, che si giudicava il più ricco di tutti. Il Papa, e questo fu tiro del Valentino, non li convitò nelle proprie case, bensì pregava il Corneto gli prestasse per simile festa la sua vigna prossima al Vaticano, la quale gli venne più che volentieri consentita: a questo modo non davano adito a sospetto, e si assicuravano la presenza del Corneto: mandarono intanto vini preziosissimi, tra cui parecchie boccie attossicate; il maggiordomo complice le aveva in custodia con la istruzione del come le avesse adoperare; ora sia che il maggiordomo sbagliasse, o piuttosto tradisse i traditori, sopraggiunto il Papa alterato per lo eccessivo calore del giorno e chiesto da bere trangugiò il veleno; indi a pochi istanti entra il Valentino e anch’egli tracanna tossico. Narrano alcuni, che il Papa costumasse portare addosso un’ostia consacrata avendogli certo astrologo predetto che insino a tanto che ei la portasse veleno alcuno avrebbe avuto virtù su di lui, e giusto in quel punto accorgendosi averla dimenticata al Vaticano mandò monsignor Caraffa a pigliarla! comunque paia stravagante, per cui conosce le contradizioni dello intelletto umano, e la ragione di cotesti tempi non gli tornerà incredibile. Quando il Caraffa tornò, il Papa era sfidato, e il Valentino preso da atroci dolori rotolandosi per la terra mugliava. Morto il Papa veruno prendeva cura dei suoi funerali: i congiunti e gli aderenti suoi atterriti del presente, e paurosi del peggio con la fuga, o col nascondersi si procacciavano salute; il vice cancelliere intimò l’associazione: andarono tutti mossi dalla novità del caso, ma entrati appena nella Chiesa di san Pietro il popolo fatto impeto per arraffare le torce al clero lo sbarattò, ed egli corse a ripararsi in sagrestia; rimasto il cadavere in mano alla moltitudine gli si assiepa dintorno per imprecargli l’eterna dannazione; se non che vistolo orribilmente deforme, gonfiato, e nero, con la bocca aperta, la lingua fuori ciondoloni, colante tabe dal naso, e contristata dallo insopportabile fetore scappò via senza potere profferire parola. Sulle prime ore della sera taluni tristacci a ciò comandati lo cacciano dentro alla cassa e poichè per la gonfiezza a stento ci capiva, con istrazi, e con iscede lo rincalcavano. Oltre ai raccontati, per adunare i danari, ricorse ad altri partiti, e furono imporre gravissima tassa agli ebrei sotto colore della guerra contro il Turco, e col medesimo pretesto volle la decima delle rendite ecclesiastiche non eccettuato Cardinali, nè monasteri, e poi invece che guerreggiare il Turco non una ma due volte lo salutò amico, e ne supplicava i soccorsi; una cosa ordinò contro i Turchi, e fu l’obbligo di recitare in confusione di loro l’Ave Maria al suono di mezzogiorno. Con questa difesa la cristianità poteva dormire tranquilla fra due guanciali: intanto i devoti sappiano che recitando l’avemaria meridiana si gratificano l’anima di quel santo pontefice, che fu Alessandro Borgia. Sfrontatezza di prete è cosa enorme, due cotanti cresce nel frate: nel gesuita poi perde peso, numero, e misura, però ci ha caso sentirci opporre: «lasciamo da un lato le arti, il pontefice ripigliava il suo.» Anco così non sarebbe vero; il Papa avrebbe sempre lacerato il manto pontificio per istituirne retaggio ai propri figli, e al Valentino uno stato da potere usurpare Roma e la Italia. Per ottenere sposa al suo bastardo Giuffrè Sancia bastarda di Alfonso il Papa consentì si alienassero dalla Chiesa le contee di Anguillara e Cervetri, poco prima causa di guerra tra Ferdinando di Napoli e lui: un dì propose in concistoro erigere un ducato di Benevento, Pontecorvo, e Terracina, ed investirne il duca di Gandia; nè i Cardinali dissentirono, uno, il Piccolomini, si oppose invano: dov’è dunque il dominio temporale d’instituzione divina? Dove la ragione del non possumus di questi preti potenti della nostra sola stoltezza. Quando Lucrezia andò a marito ad Alfonso d’Este arraffò al capitolo di Bologna Cento, e Pieve, e gli aggiungeva per dote alla figliuola dilettissima. Che fosse diventata Roma in cotesti tempi io non dirò, lascio che lo racconti il Cardinale Eligio di Viterbo di cui le parole queste, voltate nella favella italiana: «non mai nelle città della sacra giurisdizione furono visti più scellerati tumulti, più spessi saccheggi, nè stragi più miserande, non mai per le vie meno vigilate la rapina dei ladroni, o in Roma non mai maggiore la copia delle spie, e dei delitti, o la licenza dei sicarii, o l’audacia e il numero degli arraffatori per modo che fuori delle porte non puoi andare, nè dentro senza pericolo rimanere; i cittadini si avversano nemici; legge umana o divina non si osserva; se in casa serbi alcun che di bello o di prezioso, guai! Invano in torre chiuso, in casa, o in camera ti confidi sicuro; nulla vi ha di sacro, nulla di salvo; quì l’oro, la violenza, e il veleno comandano.» Ed era un Cardinale della Chiesa, che sbottonava così, immagina che avrebbe detto Lutero se si fosse trovato a Roma in quei tempi. Nè sole le sostanze della Chiesa, o dei cittadini gettaronsi nelle fondamenta della potenza dei Borgia, ma il sangue altresì; di fatti il Valentino ammazzato il fratello lo gittò nel Tevere; il padre Alessandro pianse e si disperò, poi ridottosi a colloquio col Valentino si tacque, nè più ricordò il trucidato figliuolo. Io per me penso, che queste saranno state le truci consolazioni di Cesare; dentro una corona non capire due teste, però o Cesare o Francesco Borgia; e il fatto mostrava chiaro per la fortuna della casa meglio assai adattato lui, che il morto; il quale con pari odio lo ricambiava, ma meno si sentiva audace, ed era povero di partiti. Così avere ordinato il genio di Roma fino dai tempi di Romolo, la prima pietra fondamentale per costruire grandezza nella eterna città dovere essere intrisa di sangue fraterno. Quasi tutti gli storici aggiungono come oltre la cupidità dello impero spingesse il Valentino al fratricidio l’astio di vedersi il fratello rivale negli amori incestuosi con la sorella Lucrezia, la quale con entrambi, e con altri, cristiana Messalina e peggio, si mescolava; e può darsi, chè della famiglia degli antichi Atridi, dei meno vecchi Borgia, e dei moderni Romanoff di Russia tutto è lecito credere; tuttavia non penso, che anco il padre Papa appetisse abbominevoli congiungimenti con la figliuola: troppo il misfatto, troppo poche le prove, e per compenso non presto fede alla vita incontaminata, che ci raccontano avere ella condotto dopo le nozze col d’Este; le lettere scritte da lei duchessa di Ferrara a Pietro Bembo, che poi fu Cardinale, e le treccie dei suoi capelli biondi che vi sono attaccate le quali si serbano nella Biblioteca Ambrosiana di Milano dimostrano espresso, che forse ella perse il pelo, il vizio mai. Anco sopra di lei il Papa faceva fondamento di grandezza; già accennai delle terre, e delle ricchezze donatele; ora ricordo, che in pubblico concistoro Alessandro la promosse governatrice perpetua della città e ducato di Spoleto, ce l’accompagnò il fratello Giuffrè con regia pompa, e si racconta, come in quel torno ella essendo caduta inferma tre vescovi le ministrassero le cure servili alle quali prepongonsi le privatissime ancelle; le dettero quattro mariti; al Papa padre aveva un bell’ordinare Gesù, quod Deus junxit homo non separet, egli univa, e scioglieva secondochè gliene tornasse il conto; il primo fu certo gentiluomo napolitano o spagnuolo, che la tolse innanzi che Alessandro agguantasse le somme chiavi, e dopo la lasciò avutane la mancia; di costui non mi venne fatto rinvenire il nome e non importa; poi se l’ebbe Giovanni Sforza e la tenne quattro anni in capo ai quali si lasciarono; il Guicciardino narra, che ciò fu per colpa del Papa il quale non potendo soffrire neppure uno sposo per rivale annullò il matrimonio per causa d’impotenza; arduo a credersi, e inoltre mal si accorda con le nuove nozze subito procurate a Lucrezia di Alfonso duca di Biselli figlio naturale di Alfonso II re di Napoli; da questo ebbe un figlio, e sembra i coniugi si amassero, però o gelosia, o cupidità di più utili parentele, ovvero odio che il giovane gl’inspirasse, o quale altro demonio invasasse il Valentino lo fece assassinare da una mano di sicari davanti la stessa porta di San Pietro, e poichè sembrava che delle ferite non volesse morire un bel dì lo trovarono nel letto strozzato. Quando mi sono adoperato di purgare il Papa e la figliuola Lucrezia dalla scellerata accusa io lo confesso ci sono stato condotto piuttosto dallo orrore, che sento per simili immanità, che da persuasione, la quale fosse in me; difatti vuolsi sforzo non piccolo a sostenere così, dove pensi quali, e quante le turpitudini, e le brutture in che si avvoltolarono costoro. Tu odi questo racconto ricavato non mica da gente ostile, bensì da amicissima, anzi dallo stesso maestro di cerimonie del sacro palazzo, Burcardo, e poi confrontando con quanto Svetonio e Tacito raccontano di Nerone, e Sifilino di Eliogabalo giudica dove sia maggiore la infamia: «nella domenica ultima del mese di ottobre cinquanta meretrici oneste, o vogliamo dire cortigiane cenarono col duca Valentino nelle sue camere nel palazzo apostolico, le quali dopo cena prima con le vesti addosso e poi ignude danzarono co’ servitori, e con altri convenuti là dentro: poi disposero candelieri da altare con i ceri accesi sul pavimento dove essendo sparse noci le meritrici giù nude carponi si dettero a raccattarle aggirandosi traverso i candelieri; il Papa, il duca, e la sorella Lucrezia tutte queste cose contemplando ne pigliavano maraviglioso diletto: all’ultimo per giudizio dei presenti furono distribuiti i premi ai vincitori con vesti di seta, paia di pianelle, berrette, ed altro, vale a dire, a quelli che pubblicamente si fossero più volte mescolati in venereo congresso con le femmine.» Certo senza tema di aggravarci la coscienza noi ci possiamo avventurare a credere molte cose di simil padre, e di siffatta figlia. Gli uomini inconsueti allo sguardo lungo nelle storie sbigottiscono del presente; chi poi ha per costume speculare nei tempi tocca con mano come la Provvidenza, o vuoi ordine segreto delle cose mantenga il mondo in perpetua vicenda cavando dal male il bene, ed anco pur troppo dal bene il male dove questo o giunga inopportuno ovvero offenda co’ modi; però dallo eccesso della depravazione romana ecco uscirne la necessità della riforma; troppo presto arrivarono i martiri di Basilea, e troppo presto altresì Girolamo Savonarola, nè buono in tutto, nè sacro; chè presumendo ritemprare la gente con la esagerazione della beghineria si tolse a compagno della opera l’errore, non già la sapienza, inoltre ricorrendo ai miracoli dimostrò tre cose, una anco a mente dei creduli, e fu la prosunzione di tentare Dio ad operare miracoli per lui; le altre al cospetto della filosofia la quale giudica così, o egli ci aveva fede, ed era grullo, o non ce l’aveva, ed era ciurmatore: anco cotesto avviticchiare la religione con la politica non va, nè può andare a sangue ai prudenti: per ultimo spietato fu col Gonfaloniere Bernardo del Nero, e i quattro cittadini messi a morte dirittamente forse, ma in ispregio della legge dal medesimo frate proposta, ed a insinuazione di lui decretata: nè si opponga, ch’ei se ne stette a parte, imperciocchè questo al contrario lo aggrava, avendo lasciato fare i suoi fazionari cui egli avria di leggeri potuto impedire; ma non importa, il ragno dopo sette volte cessa ordire la sua tela la umanità non ismette mai; tra poco verrà Lutero. — La sventura della invasione straniera anch’ella a qualche cosa fu buona: tardi a cotesti tempi i commerci fra gli uomini, difficili, per non dire disperate le notizie lontane; strade nessuna o poche, e queste dirotte, o pericolose; la stampa novellina; da questo veniva, che pochissimi sapessero le infamie di Roma, ed in confuso; ora i Francesi, i Tedeschi, gli Spagnuoli, gli Svizzeri, e di ogni generazione stranieri qui convenuti videro a prova chente fossero Roma, e i sacerdoti suoi; e le incredibili immanità ebbero pure a conoscere vere; donde lo scapito della reputazione già grande toccava il colmo. La Chiesa appartatasi dalla dottrina di Cristo, e dalla virtù dei primi padri della Chiesa con la temeraria improntitudine sua si era alienata i fedeli, sicchè curando meno lo spirituale, assai aveva fatto assegnamento sul dominio temporale, e vi era riuscita; la Chiesa considerata stato non fu mai tanto potente come ai tempi di Alessandro VI; dopo lui declina; più tardi lo vedremo, si arrabatta a riagguantare il credito spirituale con le manette, i roghi, e il carnefice, ma atterrisce non guadagna cuori; e il temporale, dopo essersi dibattuto invano per reggere da sè, non può sostenere, se non a patto di profferirsi sbirro ai principi secolari: messi in comunella gli arnesi delle varie tirannidi instituiscono preti, e principi società di tiranni. — Ora la Chiesa cattolica agonizza, e l’hanno condotta a tale molto la virtù dei riformatori, e dei filosofi, ma cento cotanti più i suoi misfatti, e la sua superba follia; ella pensò avere riposto nel sepolcro la libertà dell’anima, ed in vero, ce la chiuse, non però morta: quel sepolcro diventava un’altare, e dalle fessure della lapide proruppe la luce, che illumina e non consuma, eccetto le ree cose. Di fronte alla inquisizione sta la stampa; a Costantinopoli, tolto alla cristianità per colpa dei principi, l’America data alla cristianità da un popolano, il quale secondo il solito ne ottiene un guiderdone di catene. Da tutto questo deriva, che noi dobbiamo ammirare, per mio giudizio, come provvidenziale il pontificato di Alessandro VI; più volte questa forza segreta, che agita i casi umani lo preservò; la prima quando reduce dalla sua legazione di Arragona, e di Portogallo ruppe sopra la spiaggia pisana, e di centottanta ch’erano con esso seco su la galera, veruno, egli eccettuato, si salvò; la seconda allorchè tracollando la cima del campanile di San Pietro massi enormi e ferri gli cascarono ai piè senza offenderlo mentre in compagnia del Cardinale capuano passeggiava per la loggia delle benedizioni; la terza, e fu la più paurosa di tutte: stando egli nelle segrete stanze il giorno della festa di San Pietro un turbine fra folgori, e pioggia schiantato il più alto dei cammini del Vaticano lo rovescia con immenso fracasso sul tetto, il tetto, sfondasi fiaccando due travi del pavimento più prossimo, le quali ruinando il soffitto della medesima stanza nella quale in cotesto punto si trovava il Papa ne fracassano la trave maestra, che precipita giù in mezzo a un nugolo di calcinacci giusto in quel punto, che due prelati d’ordine suo si erano fatti alle finestre per chiuderle; onde essi sbigottiti dallo sprofondamento inforcati i parapetti quindi strillavano: il Papa è morto! — Il Papa, se togli lievi contusioni, e moltissima paura ne uscì liscio, gli altri no; chi ne rimase morto, chi ferito; egli volle andarsene in pompa a ringraziare la Vergine nella Chiesa del Popolo, cui aveva fatto dipingere a immagine della Vannozza! Molte costituzioni di questo degno sacerdote tuttavia come dommi si riveriscono ed osservano; che monta ei fosse quello che fu, e che piglia fastidio ridire? Quanto a fede poteva disgradarne i più solenni fra i santi padri. Perciò che spetta noi altri scrittori, noi dobbiamo professargli obbligo grande, ed è la censura della stampa confidata ai Vescovi, ed ai Vicari. La tirannide per istinto sente la ingiuria della libertà, e per converso questa le ingiurie di quella: il duello da secoli dura fra loro, nè sta sul punto di cessare per ora. Pio III, dei Piccolomini, passa come ombra sopra la opposta parete, subentra Giuliano della Rovere col nome di Giulio II; dicono eleggesse questo nome con la intenzione d’imitare i gesti di Giulio Cesare, nè questo io credo, chè uomo inane ei non si mostrò mai, comecchè ambizioso fosse ei molto, di sè sentiva altamente, e come osserva con parole argute il veneto Trivisan: «il Papa vuole essere il dominus et il maistro del foco del mondo.» Assunto al pontificato a posta sua bandì una bolla contro la simonia dei brogliatori al papato, quantunque egli per arrivarci promettesse al Cardinale Ascanio Sforza restaurare i suoi nel ducato di Milano, a quello di Carvajale conserverebbe il regno di Napoli al re cattolico; che più? Il Valentino si obbligò per iscritto promovere a gonfaloniere, e Capitano generale della Chiesa. Ora se questa non è simonia in che cosa dovrebb’ella consistere noi per verità non sappiamo; ma i potenti ebbero sempre in costume una volta saliti in alto, maledire la scala, che gli ha condotti. Egli fu d’indole piuttosto, che risoluta avventata; urlò fuori barbari, e più volte gli spinse in Italia cominciando da Carlo VIII; sempre vario, ora infocato, tempesta contro i Veneziani, e da prima gli scomunica; vedendo non fare effetto le scomuniche forma la lega di Cambrai ai danni loro; ma poichè essi disertati rendono la città causa prima dei suoi furori, di un tratto di amico si fa nemico ai Francesi, arma gli Svizzeri, scomunica il duca di Ferrara perchè amico alla Francia, assedia la Mirandola, ed espugnatala ci entra per la breccia; lui non domano gli anni, nè le infermità, nè le asprezze di rigidi inverni; acquista alla Chiesa Bologna e Perugia, quella levando ai Bentivoglio, questa ai Baglioni, e la prima ordina a reggimento oligarchico, la seconda a democratico; nato, e cresciuto in mezzo ai repubblicani, Giulio repubblicano era a modo suo; durante la vita sostenne sempre, che non valgono nascita, nè trattati per legittimare il dominio di principi così nostrani come forastieri sopra i popoli; ogni cosa dover cedere dinanzi alla comodità di questi, unici e veri sovrani della terra. Siffatte dottrine professò Papa Giulio, e qualche altro Papa altresì; forse, cercando, si troverebbe ancora parecchi principi repubblicani in casa altrui; in casa propria poi la bisogna cammina diversa. Di amici un dì Luigi XII e Giulio II diventano nemici mortalissimi; quegli convocati i Concili di Bourges, di Pisa, e di Milano fa che vi depongano il Papa; Giulio raccoglie il suo Concilio in Laterano, scomunica l’altro, e dichiara Luigi decaduto dal trono: si guerreggiano con le penne, con le armi, e con la lingua; il men triste saluto di Luigi al Papa era; briacone; quello del Papa a Luigi non importa dire. Il Cattolico usurpa iniquamente la Navarra approfittandosi di cotesti rimescolamenti, e il Papa in odio a Francia approva; il quale trasportato da quella sua veemente e procellosa natura, per isgararla sul re Luigi, ordina la lega santa affatto contraria all’altra di Cambrai; di qui nacque la terribile battaglia di Ravenna vinta dai Francesi con la morte di Gastone di Foix: vittoria miserabile fu quella, conciossiachè le fortune francesi indi a poi declinassero sempre. Lo imperatore Massimiliano con improntitudine austriaca presume tenere per sè Verona e Vicenza: Bergamo, Padova, Treviso, Bergamo, e Crema concederà a titolo di feudo imperiale a patto gli si contino duegentomila fiorini di presente, e quarantamila annui; i Veneziani, rotta la pazienza, accordano co’ Francesi; il Papa si rode dentro dalla rabbia, inferma, e muore. I laudatori di questo Papa affermano i suoi concetti generosi sempre, ma poi per soverchio di passione sovente guasti, e parci lode strana, però che, se ne eccettui Dio, veruno conosce le origini del pensiero, nè all’uomo è dato giudicarne fuorchè dagli effetti; riesce poi arduo credere, che generoso fosse il disegno di spengere la repubblica di Firenze, bandire Piero Soderino innocentissimo, rimettere in casa i Medici solo per vendicarsi di avere consentito Pisa essere stanza al Concilio, senza punto avvertire che Firenze pusilla, e strema di forze non poteva ributtare la istanza di Luigi poderosissimo allora in Italia: nè lo salva addurre come Giulio non prevedesse nè consentisse mai i Medici si comportassero da tiranni a Firenze, perchè appunto ne fossero stati banditi a causa di tirannide, ed anco non lo fossero stati prima, tiranno diventa qualsivoglia cittadino, il quale venga rimesso in casa dalle armi straniere; e i Medici prima di entrare in Firenze se ne fecero innaffiare la strada di sangue cittadino; informi Prato allo eccidio del quale si trovò presente il cardinale Giovanni dei Medici, che or’ora si trasforma in Lione X. Insomma dopo avere disegnato di opporre barbaro a barbaro servendosi dell’uno per cacciare l’altro, tolto a Luigi il titolo di cristianissimo, e conferitolo al re Enrico d’Inghilterra (e fu facile), e toltogli anco il trono, e donatolo a cui se lo andava a pigliare (questo poi parve più difficile), dopo avere a furia di bastonate sul pavimento fatto certo il Cardinal Grimani, che anco gli Spagnuoli se ne dovevano andare, e dopo empito di sangue, di miseria, e di disperazione quasi tutte le terre d’Italia morì lasciandovi barbari quanto, e più di prima. Tuttavia Giulio fu Papa animoso, e di spiriti eccelsi così che, nota il Machiavello, se prima di lui non vi era barone romano, per piccolo ch’ei fosse, il quale si peritasse a sfidare la potestà della Chiesa, ai tempi suoi anco il re di Francia bisognava che procedesse con riguardo verso di quella. Egli concepì il disegno di San Pietro, promosse Bramante, anco Michelangiolo, e di uno sguardo benigno fecondò Raffaello. Lione, che gli successe mieteva la messe seminata da lui; questi grande di nome, Giulio grande di sostanza; che se cupido ei si mostrò dello altrui (quale il prete che non sia cupido?) arraffò per la Chiesa; fu ladro ma sacro; solo persuase Guidubaldo di Montefeltro duca di Urbino ad adottare, in difetto di successori, per figliuolo Francescomaria comune nipote a cui rese le signorie di Mondovì e di Sinigaglia; più tardi lo elesse vicario di Pesaro, e morendo supplicava i Cardinali, che non lo removessero; questa unica grazia facessero alla sua memoria, ed alla famiglia di lui. Il Cardinale Raffaello Riario sperò che riscattata Imola dalle mani del Borgia la si renderebbe ad Ottaviano, e s’ingannò; il Papa rispose reciso non volere arricchire la famiglia a danno della Chiesa; e proprio pochi momenti prima ch’ei desse i tratti madonna Felicia sua figliuola maritata a Giangiordano Orsino con accese parole instando presso il morente per un cappello a benefizio di Guido da Montefalco suo fratello uterino, glielo negò dicendo esserne indegno. Ora di Lione X. Piuttosto che lamentare inopia, patiamo abbondanza di scrittori intorno a lui, e non pure vari ma contrari; però di questo Papa possiamo dire quello che cantava l’Ariosto di Augusto: «Non fu sì savio, nè benigno Augusto Come la tromba di Virgilio suona. L›avere avuto in poesia buon gusto La proscrizione ingiusta gli perdona. l’Ariosto, il quale da lui larghissimo, anzi sprecone verso giullari, ed uomini contennendi, altro non ebbe che una stretta di mano, un bacio sopra le due gote, la rimissione della metà di spese per certa bolla, e finalmente la scomunica contro cui gli stampasse in suo danno l’Orlando furioso. Questo Papa consente allo impulso dato alla Chiesa di convertirla in potenza temporale, e poichè chi troppo attende alla materia, e all’interesse non può fare a meno che l’interesse suo, e dei suoi non anteponga a quello altrui, così ogni Papa mira a fare stato ai congiunti principalmente con le sostanze della Chiesa, onde accadeva, che questo dominio temporale rispettabile e rispettato non si potesse formare mai, imperciocchè o i nipoti del Papa eletto avevano a spogliare i nipoti del Papa defunto, e a questo modo era guerra perpetua, ovvero sopprimendo i feudatari vecchi se ne creavano nuovi, ed allora era un disfare lo stato filo per filo; ma se qualche Papa doveva attendere ad ingrandire i suoi, Lione aveva ad essere quello, che la sua famiglia da lunghi anni, e con tenace studio mirava al principato, ed oggimai si trovava in parte dove se non anco principesca, vinceva ogni uguaglianza cittadina, e a diventare tiranno non le mancava che il nome. Lione poi nasceva da quel Lorenzo, il quale quasi metteva su la coscienza a Innocenzo VIII se non procurasse costituire i suoi in condizione regia. Partendo da Firenze per andare a Roma non si voltò addietro perchè avrebbe visto due capi mozzi, quello del Boscoli, e l’altro del Capponi colpevoli di volere restituire a Firenze la libertà, che i Medici con secolare scelleraggine s’ingegnavano torle. Promosso Papa perdonò i superstiti, arte vulgare di regno, e poi di altro non furono trovati rei, che di avere saputo la congiura, ed abborrito palesarla. Gli contrastava il papato, dicono, Massimiliano voglioso di rendere lo impero teocratico quale adesso vediamo nella Russia e nella Inghilterra; ma a cotesti tempi parve concetto mostruoso. Giulio II comecchè inviluppato in guerre continue, tuttavia, morendo, lasciò da parte 300 e più mila fiorini, a cui tosto dava la stura Lione: nelle pompe della incoronazione ne spendeva 100 mila. Della sua esaltazione menarono gazzarra i Fiorentini tutti repubblicani o no, però che tutti sperassero avvantaggiarsene; il genio mercantesco ribolliva, il quale adesso senza mistura schifoso, allora qualche pagliuzza di buono la conteneva sempre. La famiglia del Papa in cotesti tempi si trovava composta del fratello Giuliano, di Lorenzo nipote figlio di Pietro, e di Giulio figlio naturale di Giuliano morto nella congiura dei Pazzi, e di due giovanotti Ippolito, ed Alessandro figli naturali quegli di Giuliano fratello del Papa, questi di Giulio; poco curati gli ultimi, ogni fondamento di futura grandezza si poneva in Giuliano, e in Lorenzo; il Papa a costituire loro lo stato speculava dentro e fuori; ora sperò mettere le mani sul ducato di Milano, ora sul regno di Napoli, e come colui che sempre stava fisso a questo chiodo si barcamena tra Francia e Spagna, quantunque se si fosse lasciato ire propendesse per la Spagna. Strana la ventura di Parma e di Piacenza prese e riprese più che non fu il corpo di Patroclo tra Greci e Trojani; le arraffò Papa Giulio non già a nemico bensì ad amico, e confederato, a Massimiliano Sforza durante la santa lega, allegando avere esse ab antiquo fatto parte dello esarcato di Ravenna largito da Carlo magno alla Chiesa, la quale cosa nè era, nè egli poteva supporre vera. Morto Giulio queste due città pei conforti di Raimondo da Cardona rientravano in obbedienza del duca; ma appena esaltato Lione, esperto, che quanto è buono a pigliarsi è buono del pari a tenersi, le rivuole ad ogni patto; anch’egli metteva fuori il non possumus patire diminuito il retaggio di S. Pietro trasmessogli dai suoi antecessori, ma dopo pochi anni le rendeva ed ecco come: ciondolando sempre il Papa stava tra gli avversi alla Francia quando Francesco I sceso in Italia vinse a Marignano; il Papa si teneva per ispacciato, mal potendo comecchè prete capacitarsi che il re di Francia, potendo ristorare Firenze degl’immensi mali patiti per Francia, non lo volesse fare cacciandone via i Medici, e restituendola a libertà; ma se i re accettano aiuti anche dalle repubbliche non per questo renunziano ad ammazzarle quando ne capiti loro il destro; quindi ora messo pacieri tramezzo rinvenne il terreno morvido circa a lasciare incolume sè, e i suoi nella tirannide della Patria, anzi il re gliela garentiva; allora Lione sicuro da questa parte s’industria tentare gli Svizzeri, l’imperatore Massimiliano, e i Veneziani affinchè continuino la guerra; riuscita invano ogni arte rende al duca di Milano Parma e Piacenza a patto, che oltre l’accerto di Firenze egli concedesse a Lorenzo pensioni, condotta di milizia, ed obbligasse Milano a provvedere sale alle saline di Cervia: vedremo sul declinare della sua vita il Papa riagguantarle da capo, anzi somministrare, come affermano alcuni, argomento alla sua morte. Qui sarebbe luogo a parlare della brutta ingratitudine di lui contro Venezia lasciata in asso mentre più pericolava, ma ne porgeremo esempio supremamente scellerato nel caso del duca di Urbino; piuttosto ora accennerò la fede pessima con la quale egli ingannava amici, ed avversari con eleganti ribalderie, e vanto infelice, però che sovente fosse sentito dire: «che quando si era fatto lega con uno non per questo si doveva rimanere di trattare col principe opposto». Chiesta ed ottenuta fiducia di paciere egli si mise in mezzo alla Francia, all›Austria, a Venezia, alla Svizzera per accordarle; diverso poi il fatto dalle apparenze, perchè le sobillasse tutte facendo fuoco nell›orcio per avvantaggiare i suoi: sollecitava Luigi XII a calare da capo in Italia mentre sapeva attraversarlo ostacoli non superabili; e mentre che con le nozze di suo fratello Giuliano con Filiberta sorella di Luisa di Savoia madre di Francesco I mostrava attaccarsi alla fortuna di Francia spediva segreto negoziatore Pietro Bembo a Venezia per alienarla dalla Francia, ed accordarsi col re di Spagna, e con lo imperatore: narrata questa una, ci dispensiamo dalle altre perchè uguali tutte non solo nella vita di Lione, bensì di quasi gli universi pontefici. Un›Edoardo re d›Inghilterra prese per insegna una coda di volpe, ed ebbe fama di sincero: sarebbe stato salutato sincerissimo il Papa se il suo triregno avesse composto invece di tre corone di tre code di volpe. Alla casa d›Este non ci era maniera di cortesia ch›ei non usasse; nel suo incoronamento commise al duca Alfonso portasse il gonfalone della Chiesa; ora però noi sappiamo se coteste mostre avessero virtù di trattenerlo dalle insidie nel fine di creare uno stato ai suoi dove gli tornasse più destro: a questo duca invece di restituire Reggio usurpatogli dalla Chiesa, gli piglia Modena cui prima ribella a Massimiliano imperatore, e poi gliela compra per quarantamila ducati; e non basta, perchè non contento di levargli lo stato si adopra torre al duca Alfonso col veleno la vita; più tardi negoziando con Francesco I a Viterbo l›ebbe a restituire, ma in compenso volle, che gli fosse concesso manomettere il duca di Urbino, e questo gli consentì Francesco, secondo il costume dei Francesi, soliti a procurarsi lucro ovvero ad evitare danno alle spalle degli amici; però Lione comecchè avesse ottenuto licenza di stiantare il duca di Urbino se ne trattenne, e ciò perchè (la storia volenterosa lo attesta) Giuliano, il quale nella sventura ebbe fidato esilo nella corte di Guidobaldo di Urbino, non consentì si recasse ingiuria al suo successore: ma egli immaturo periva, insegnamento solenne pel vicario di Cristo a non porre il suo cuore qui dove la tignola rode; invano però che la libidine di averi riardeva nel petto al pontefice vie più. Ora si pubblica il monitorio contro Francescomaria duca di Urbino dove s›incolpa micidiale del cardinale di Pavia, ed era vero, che lo ammazzò alla sprovvista di uno stocco nel petto, dello assalto dato alle milizie pontificie e spagnuole dopo la battaglia di Ravenna, e del rifiuto di unirsi con la gente di Lorenzo dei Medici contro Francesco I. Francescomaria inetto alla difesa scansavasi a Mantova; indi a poco conchiuse tra Francia, Austria, Chiesa, Spagna, e Venezia la pace. Francescomaria si propone a mo› di condottiero di ventura ai soldati dimessi e con essi osteggia il Papa, e ripiglia il suo; ne segue una guerra varia dove Lorenzo tale riceve un picchio nel capo allo assedio di castello Mondolfo, che lo reputano morto. Firenze ne mena baldoria, dopo quaranta dì ricomparisce Lorenzo che fa scontare con lacrime di sangue ai Fiorentini la intempestiva allegrezza. Il duca di Urbino condusse cotesta guerra da ardito non meno che da prudente capitano, minacciò Siena e Perugia, invase la Marca di Ancona, e la Toscana, e se non avesse avuto a combattere altro che armi e› pare, che aria potuto vincere, ma il tradimento non potè; il Papa tentò farlo avvelenare, nè qui riuscendo gli contamina i soldati rapaci, e traditori. Maldonato, Suares, con due altri capitani spagnuoli si obbligano consegnare vivo o morto il duca al cardinale di Bibbiena; senonchè il duca, preso fumo della trama, audace e franco gli accusa davanti ai soldati invocando l›antico onore spagnuolo; gli va bene il tiro che gli Spagnuoli accesi e adulati lì per lì gl›impiccano; tuttavia il duca, considerando che con cotesti arnesi non vi era a fare a fidanza, nè parendogli prudente esporli al cimento della seconda prova, molto più che erano creditori di ben 100 mila fiorini di paghe, nè egli sapeva, per soddisfarli, a qual santo votarsi, piegò agli accordi col Papa abbandonando per la seconda volta il ducato, che venne tosto conferito a Lorenzo. Quantunque l›animo di Lione fosse fallace peggio del mare in bonaccia pure non mancò chi ebbe cuore per domandargli onde tanta ira contro Francescomaria della Rovere, al quale egli celando la vera, o almeno la più prossima, palesò la causa più remota, ed era: «corrergli l›obbligo di punirlo della sua contumacia, imperciocchè dalla pazienza del principe ogni barone avrebbe baldanza a contradiarlo; potente avere trovato la Chiesa, e potente volerla lasciare.» Nella storia davvero percuote la mente la strana persistenza dei casi umani, che sembrano ostinarsi a torre, e a dare questo ducato ora ai Medici, ora ai Della Rovere finchè dopo avere una di coteste famiglie inghiottita l›altra vengono ambedue sommerse dalla morte. Lorenzo anch›egli dopo avere affaticato la mente dello zio Papa per farlo principe grande; e dopo essere riuscito a farlo entrare nella casa. di Francia, in virtù del matrimonio con Maddalena della Tour, manca alla cupa ambizione di casa sua morendo della turpe infermità che avvelena la sorgente della vita: e non obliando pegno di sua tenerezza lascia alla moglie l›onta e il dolore della medesima malattia. Il Papa allora invece di rendere il ducato ai Della Rovere parte ne assegna alla Chiesa, e parte ai Fiorentini in saldo dei denari somministratigli per sostenere cotesta guerra; ma Adriano IV reintegrò Francescomaria nel suo retaggio, e i Fiorentini altresì gli resero Montefeltro e le castella; così durò fino al 1626; in questo anno periva per ischianto di cuore Federigo Ubaldo infamia della sua nobile casata lasciando il padre decrepito, e la moglie Claudia incinta; il vecchio Duca, il quale quasi per assuefarsi alla quiete del sepolcro si era ritirato agli ozi melanconici di Castel Durante, eccolo di un tratto fatto campo sul quale si esercitano le minaccie e le suggestioni della Curia Romana, di Venezia, e del Granduca Cosimo II; la prima per ampliarsi, gli altri per impedirglielo. Cosimo chiamata a Firenze Claudia con la figlioletta Vittoria pure ora venuta al mondo, questa alleva e cresciuta marita col figliuolo Ferdinando II, e per simile guisa acquista i diritti della casa Della Rovere; dopo gl›intrighi le armi; il Duca vecchio aborrendo lasciare ai suoi sudditi eredità di contese renunzia il ducato al Papa; se ne pentì poi, anzi subito, chè spedì dietro al corriere per ritirar l›atto, ma non fu a tempo; così alla Chiesa toccò il ducato, alla Casa dei Medici l›archivio dei duchi di Urbino, il quale anco ai dì nostri si conserva a Firenze. Tornando a Lione mentre negoziava la renunzia di Modena e di Reggio e la consentiva, levando al cielo il danno, chiese compenso, che a Francesco parve cosa d›importanza non grave, e la concesse, e questo fu la soppressione della Prammatica; già dissi come quella volpe di Luigi XI per gratificarsi Pio II l’abolisse, ma visti capitare male i suoi tiri furbeschi ordinò al Parlamento si astenesse da registrare il suo decreto, e così rimase in vigore meglio di prima; il prete per conseguire lo intento non si ristette da largheggiare di promesse, e di beni non suoi; promise il cappello cardinalizio al Boisy fratello del gran maestro di Francia, il soccorso di 500 uomini di arme, e il soldo di 3000 Svizzeri caso mai fosse assalito lo stato di Milano. Di questo concordato sostituito alla prammatica sanzione di Carlo VII si commossero maravigliosamente il Clero, la Università, e il Parlamento di Parigi; tale fu la sua ragione; il re nominava ai benefizi maggiori, e il Papa ne percepiva le annate, onde il timore, che la Chiesa di Francia diventasse vassalla della Chiesa di Roma; il Cardinale di Lorena spesso durante il Concilio di Trento fu udito dire, che Francesco e Papa Lione si erano spartiti i benefizi, come i cacciatori gli uccelli. E Mezeray più arguto notava: «il Papa, ch’è potenza spirituale prese per sè il temporale; lo spirituale, o vogliam dire la collazione dei vescovati, toccò al principe temporale,» Tuttavia però i Francesi non mettono su la bilancia un pezzo del vero legno della Santa Croce che Lione donò a Francesco dentro una teca preziosa, la quale era stimata quindicimila fiorini, e più, e lo dovevano mettere. Tuttavia è giusto considerare, che se la Chiesa gallicana rimase scema dei suoi diritti, questo accadde non già a benefizio della Chiesa Romana, bensì del re, e se ben guardi vedrai, ammirando, come Lione senza troppa repugnanza cedesse cosa a cagione della quale Gregorio VII aveva scombussolato il mondo. Più tardi, nella occasione degli sponsali di Lorenzo con la Maddalena dei Reali di Francia, accadde permuta anco più turpe. Francesco restituì a Lione la carta con la quale si obbligava cedergli Modena e Reggio, e il Papa cortese gli concesse le decime levate sopra il clero francese per la guerra contro i Turchi adoperasse a suo talento, anco ai danni dei cristiani: demolitore supremo della fede il Papa. Anco a lui, anzi più che ad altri, a lui faceva mestieri empirsi le tasche di pecunia, e poi aveva bisogno che i cardinali lo temessero, al quale intento promosse in un picchio trentun cardinale; molta arte ei mise per onestare così stemperato partito; molto più, che tra i promossi noveraronsi due figli di sue sorelle, e non pochi uomini di mal affare; gli altri ebbero a comperarsi a contanti la dignità cardinalizia, togline alquanti per dottrina, e per rettitudine illustri, cacciati costà come i frodatori sogliono inalberare bandiera di potenza amica per mettere dentro il contrabbando. La necessità di promovere Cardinali nacque da questo, che ridotti a dodici non davano luogo a intrigo; pochi da gran tempo erano rimasti, ma a tali estreme angustie il sacro Collegio si trovò condotto dalla congiura Petrucci; se, e fin dove costui fosse colpevole insieme ai suoi compiici qui non occorre cercare; certo è che Lione co’ Petrucci svisceratissimi suoi prima della congiura si mostrò crudele, dopo fraudolento e spietato; il cardinale Alfonso presentandosi in compagnia del cardinale Bandinello Sauli, fidato alla religione del salvocondotto papale, è preso, e sostenuto in castello; il Sauli gli tenne dietro, e dopo il Sauli Riario, Adriano da Corneto, e Francesco Soderini; ancora cacciarono le mani addosso ad un Pocointesta da Vercelli cerusico, ed al Nino segretario. In cotesti tempi, per virtù degli argomenti che mettevano in opera, si accusavano gì’incolpevoli; i rei poi sbaldanziti dalla paura, o dal rimorso sborravano addirittura; nondimanco taluni confessarono il Petrucci, e il Sauli avere stabilito ammazzare il Papa investendolo con le coltella, o contaminando il suo cerusico Battista da Vercelli perchè lo avvelenasse medicandogli certa ulcera di che andava afflitto. Petrucci e Sauli furono entrambi degradati e commessi al braccio secolare; il Petrucci solo strozzarono; Sauli dannato a perpetuo carcere offre riscattarsi a contanti: gli si concede a patto, che torni a confessare le sue colpe in pieno concistoro: confessato, e soprattutto pagato il riscatto licenziasi; indi a breve muore, colpa della paura, o piuttosto del tossico ministratogli dal Papa. Gli altri cardinali degradati anch’essi ebbero a pagare grossa somma, Adriano da Corneto e il Soderino venticinquemila scudi; essi credevano fra tutti e due, ma pagati i venticinquemila furono ammoniti, che bastavano per uno: allora si tirarono al largo; di Adriano non più si seppe nulla; forse il ferro proditorio lo spense; il Soderino si riparò a Fondi sotto la protezione di Prospero Colonna, e quivi stette finchè durò in vita Lione; i minori congiurati, laceri, che gli ebbero i tormenti, gittarono al carnaio. Se intorno alle guise di acquistare stato tra lui e Alessandro VI corresse divario può giudicarlo il lettore: costituitosi giudice tra Giampaolo e Gentile Baglioni, Lione cita il primo a comparire in Roma; quegli subodorando il capestro si finge infermo, e manda in sua vece il figliuolo Malatesta, il quale con oneste accoglienze accarezzato pure come procuratore del padre non si accetta; Giampaolo tentenna, ma confortato dal genero Cammillo Orsini, e da altri baroni romani, ottenuto salvacondotto papale, di mala voglia va; incauto! quanto valesse il salvacondotto del papa lo aveva pure a sapere! Lione sentendolo prossimo a Roma si reca a stanza in Castello; quivi lo accoglie, lo sostiene, e lo ammazza. Colpe al tradito apposero molte, anzi infinite, e forse ne aveva oltre al dovere; ma talune (delle quali si menò maggiore strepito) in Roma si avevano per vezzi; causa vera fu, che Giampagolo si era mostrato sempre parziale al Duca di Urbino, torbido, e cupido di dominio, insomma tale che parve al Papa non potere starsi sicuro finchè vivesse. La strage proditoria del Papa pensarono i Fiorentini più tardi imponesse al figlio il debito della vendetta, sicchè non ultima fu questa considerazione per eleggere Malatesta capitano generale; allora Macchiavelli era morto, pure aveva lasciato scritto come gli uomini, almeno allora, il sangue paterno più agevolmente perdonassero della perdita del patrimonio; peccato fu, che i Fiorentini se lo dimenticassero. — Dopo il Baglioni mandò Giovanni dei Medici contro il Freducci diventato signore di Fermo; lui avventuroso, che morì da soldato sopraffatto da fanti e cavalli in numero venti volte maggiore del suo! i minori tiranni atterriti, sbandandosi riparano in questa parte, e in quella: taluni fiduciosi della misericordia del Papa si ridussero a Roma, e la ottennero; dopo che la tortura ebbe loro stracciate le membra, patirono morte di corda l’Amedei tiranno di Recanati, Zibicchio di Fabbriano, e Severiani di Benevento. Il Roscoe solenne encomiatore di Lione siffatti gesti del suo eroe non potendo giustificare, li tace; però non dissimula quello, o piuttosto quelli che il Papa dabbene commise a danno di Alfonso d’Este, il quale comunque sortito all’onore di portare il gonfalone della Chiesa alla incoronazione di lui non andò immune dall’assalto proditorio delle milizie papaline, mentre giaceva infermo, della vita in forse, e il fratello Ippolito si trovava in Ungheria; e ne sarebbe rimasto oppresso di certo, se di opportuno aiuto non lo sovveniva Federigo duca di Mantova. Andate a vuoto queste prime insidie Lione tornò alle benevolenze consuete fra le persone più care, e queste non tolsero, che da capo non gli tramasse contro il tradimento corrompendogli Ridolfelle capitano delle sue guardie, che per danari promise ammazzare il Duca, e consegnare una porta al nemico; ma costui o buono in tutto, o subdolo tenne il trattato doppio e svelò ogni cosa al Duca. Il Sismondi afferma due cose, che al paragone io non rinvenni esatte, la prima delle quali è, che secondo lui il Muratori afferma avere letto il processo compilato intorno a questo misfatto; ora di ciò è niente; il Muratori dice, che il Duca dopo composto il processo dell’attentato con le deposizioni di alcuni complici e le lettere del protonotaro Gambara ordinatore insieme al Guicciardino di tanta enormità, lo mise da parte per valersene all’occorenza. L’altra inesattezza consiste nel supporre che il Roscoe dubiti della strage del Duca ordinata da Lione, mentre questo scrittore dichiara vere le insidie del Papa per rubare la città, ed altresì vera la tramata uccisione, solo non trova prova di fatto, che costui la comandasse; o solo lo sapesse; e così sarà, ma ciò non monta, imperciocchè riesce piuttosto assurdo negare, che facile credere come Lione, il quale per ben due volte tentò sforzare alla traditora Ferrara in odio al Duca temuto, dimenticasse metterci la giunta di mandarlo all’altro mondo: quando il prete recita l’oremus del ladro, l’amen dell’omicidio ce lo mette sempre. Il Guicciardino, che di coteste rivolture fu molta parte, raccontando il caso, tace dello assassinio; forse lo ignorava, ma sapendolo è naturale lo dissimulasse o perchè ogni uomo rifugga confessare la propria infamia, o perchè manifestandolo si sarebbe tirato addosso l’odio dei Medici suoi padroni, e quello degli Este provocati a bastanza: però voglionsi bene conficcare nella mente questi ricordi di lui, che ho allegato altrove, e mai non rimango citare quante volte me ne capiti il destro; da questi si ricava in qual concetto tenesse la gente chiesastica, e se di ogni più rea azione li reputasse capaci: «io non so a cui dispiaccia più, che a me l’ambizione, l’avarizia, e la mollizie dei preti... nondimeno il grado, che ho avuto con più pontefici, mi ha necessitato amare per il particolare mio interesse la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana... ma per vedere ridurre questa caterva di scellerati a’ termini debiti, cioè a restare o senza vizii, o senza autorità.» Ribadisce più veemente il chiodo col Ricordo CCCXLV: «io ho sempre desiderato naturalmente la ruina dello stato ecclesiastico, e la fortuna ha voluto che sieno stati due pontefici tali che sono stato sforzato desiderare e affaticarmi per la grandezza loro; se non fussi questo rispetto, amerei più Martino Lutero, che me medesimo, perchè spererei, che la sua setta potessi ruinare, o almanco tarpare le ale a questa scellerata tirannide dei preti.» Nel Ricordo CCCXVII insegna.... che insegna egli mai? Cose che essendo state pensate e dette ora sono trecento anni e più fra noi, sembra impossibile che non l’abbiano apprese, apprese non l’abbiano tolte a norma di vivere: «tutti gli stati, chi bene considera la loro origine, sono violenti, nè vi ha potestà che vi sia legittima, dalle repubbliche in fuora nella loro patria e non più oltre: nè anco quella dello imperatore, ch’è fondata in sulla autorità dei Romani, che fu maggiore usurpazione che nessun’altra; nè eccettuo da questa regola e’ preti, la violenza dei quali è doppia, perchè a tenerci sotto usano le armi spirituali, e le temporali.» — Tre cose, messere Francesco desiderava vedere innanzi, la sua morte, ma dubita, ancora ch’ei vivesse molto, non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinata nella città nostra, Italia liberata da tutti e Barbari, e liberato il mondo dalla tirannide di questi scellerati preti. E sembra, che sia difficile però ch’io mi trovi giusto a desiderare queste cose come lui; però se non conseguiva la prima, sua la colpa in gran parte, essendosi adoperato a tutto uomo a rituffare la Patria nel servaggio, quantunque lo spettacolo della virtù cittadina strappasse dai suoi labbri beffardi la singulare sentenza: — «accade qualche volta e’ pazzi fanno maggiori cose, che e’ savi: procede perchè il savio dove non è necessitato si rimette assai alla ragione, e poco alla fortuna: il pazzo assai alla fortuna e poco alla ragione; e le cose portate dalla fortuna hanno talora fini incredibili. I savi di Firenze arebbono ceduto alla tempesta presente, e’ pazzi avendo contro ad ogni ragione voluto opporsi, hanno fatto insino a ora quello che non si sarebbe creduto, che la città nostra potesse in modo alcuno fare. — «E su ciò nota, che i cittadini di Firenze non si posero in balìa della fortuna bensì della virtù, la quale se non li rese felici nè anco potè farli sventurati, avendo conseguito fama immortale, e morte onoratissima combattendo per la Patria; mentre Messer Francesco, che certo si poneva fra i savi, nocque alla Patria, guastò il nome, e dopo vita umiliata lo colse la morte senza compianto. Piaccia al cielo che i nostri figliuoli, tenuta a vile la sapienza dei Guicciardini, s’innamorino della follìa del Ferruccio. A così enormi prodigalità, a tanti tramestii ogni gran fonte di guadagno veniva meno, sicchè per ultimo mise mano alla vendita delle indulgenze facultando i suoi commessi ad aprirne mercato là dove trovassero il terreno disposto. Qui non ha luogo la storia di simile successo, epperò mi passo da investigare se e quanto vera la fama delle turpitudini, che lo accompagnarono; fatto sta, che cose brutte ci furono, e Lione fece prova di solenne imperizia a toccare quel tasto. Non secondando gli umori dei tempi la Curia di Roma potè, mescendo disciplina e domma, perfidiare offesa alla religione ogni conato di riforma morale, e commettere al fuoco il molesto predicatore; quando poi, per le cause discorse allorchè tenni proposito di Alessandro VI, gli stranieri conobbero di che panni vestissero i preti di Roma bisognava, per evitare che i nodi arrivassero al pettine, avvertire due cose, mutare costume, e credere, o fingere credere quello che sotto pena di fuoco si pretendeva che credesse altrui: di vero dei roghi dei primi eretici non avanzò altro, che ceneri, le quali andarono disperse dal vento; ma di quelli di Girolamo da Praga, di Giovanni Huss, e del Savonarola rimasero tizzi accesi a illuminare le menti degli uomini. Gli scrittori clericali, ed anco altri per avventura non clericali negano addirittura la incredulità del Papa e dei chierici romani, ovvero co’ soliti arzigogoli l’attenuano: certo noi non possiamo accertare se Papa Lione dicesse a Pietro Bembo: — buon pro ci fece, Pietro, cotesta novella di Cristo. — Neppure ci è dato conoscere la verità di quanto afferma Lutero, il quale scrive avere udito a Roma certo sacerdote nella consumazione del sagrifizio della messa dire a voce alta, quasi parlando all’ostia: — pane sei, e pane rimani, — comecchè la ci paia proprio fandonia, a meno che il prete non fosse matto; tuttalvolta ci era da fare poco fondamento su la fede di un Papa educato dal Poliziano, il quale sul serio scriveva a Lorenzo il magnifico fargli specie come la moglie Clarice non si vergognasse di mettere fra le mani al suo figliuolo Giovanni un libro barbaro come il saltero, e questo Giovanni fu per lo appunto Lione. A Roma Pomponazzo predicava l’anima mortale ovvero materia; e dalle sue opere si apprende manifesto lo spregio in che ei teneva la religione cristiana. Erasmo ebbe a maravigliare non poco quando un dotto prelato pretese provargli la uguaglianza dell’anima umana con quella delle bestie per via di argomenti cavati dalla storia naturale di Plinio. Sappiamo da Paolo Canensio nella Vita di Paolo II come giusto in Roma, anzi nella Curia medesima, moltissimi prelati, massime giovani, andassero strombazzando la fede cattolica fondarsi sopra pie frodi di uomini riputati santi, piuttosto che sopra testimonianze di verità; e discorrendo pei generali il Caracciolo nella vita di Paolo IV ci assicura che in quel tempo non pareva fosse galantuomo e buon cortigiano colui che dei dogmi della Chiesa non avesse qualche opinione erronea, ed eretica. — Nè in Roma solo ma per tutta Italia; e il Daru, il Ginguenè, e il Ranke ricordano certo poema di Francesco de’ Lodovici intitolato il Trionfo di Carlomagno, dove immagina Rinaldo, essendo penetrato nell’antro dove la Natura fabbrica gli animali, sente dire da lei, ch’essa assegna loro più intendimento o meno secondo la eccellenza della forma; e domandando egli se anima ce ne metteva la Natura risponde: «Quell›altro poi, che in voi dici immortale Io non lo fo; se Dio lo fa, sel faccia; Che cosa egli si sia nè so, nè quale. Puote esser molto ben, che a lui ne piaccia Far, quando i corpi fo, qualcosa in voi, Che torni al vostro fin nelle sue braccia. E questo se a te par creder lo puoi. Quanto a costumi non importa dire; anco prima di Leone le meretrici pubbliche avevano sepoltura in Chiesa, come la famosa Imperia, cui inalzarono onorato monumento in San Gregorio con tale epitaffio dove levavasi al cielo la venustà delle sue forme. — A dritto uno storico gravissimo dichiara il pontificato di Lione essere stato tutto un Baccanale; Marco Minio oratore con parole come convengono al suo ufficio compassate scriveva: — è docto, e amador di docti, ben religioso, ma vuol viver. — Di lui corse fama bieca per troppo addomesticarsi che faceva co’ paggi di corte, formosissimi tra i garzoni d’Italia, e il Giovio nel difenderlo lo aggrava, dacchè dopo averlo encomiato casto al pari di Giuseppe ebreo o giù di lì, mi scappa fuori con la domanda: e chi può avere scrutato i segreti della notte? E aggiunge poi che tali bazzecole non si hanno a rinfacciare ai buoni reggitori, essendo noto come quel Traiano, delizia vera della umanità, di culto eccessivo proseguisse gli Dei consenti Venere e Bacco: per me dico, che le specialità non possono con giustizia apporsi a persona dove non siano chiarite; rispetto alle generalità basta la induzione onesta e giudiziosa; così questa facenda dei donzelli non credo perchè non trovo provata, ma nè pure mi persuado della esemplare castità di Lione considerando la vita, gli ozi, ed i sollazzi di lui; stivalato e incavallato buona parte del tempo egli spendeva alla caccia, e tanto dietro questo divertimento andava perduto, che per poco non cadde prigioniero dei Turchi a Civita Lavinia; le commedie alle quali egli assisteva, ai dì nostri la censura più rilassata ributterebbe come troppo invereconde; mostruosi i vizi di Alessandro VI, e per questo appunto meno nocivi come quelli, che si svelavano nella immane loro bruttezza; pieni di pericolo quelli di Lione perchè eleganti; tutto rettile il primo, sirena il secondo; non arduo schermirsi dalle infamie borgesche, impossibile non isdrucciolare nelle corruttele medicee; ora le turpissime cose spolverizzate dei profumi di Tibullo, di Anacreonte, e di Orazio. Giuochi, canti, e femmine leggiadre; il Papa caritava anch’egli, e bene; giocava alla disperata, vincesse o perdesse le monete di oro buttava via: pareva larghezza e non era, bensì voglia o bisogno di vedersi attorno faccie contente che lo rallegrassero; di vero, passato quel momento, si mostrava piuttosto scarso, che no; e qualche volta anco avaro. I suoi sollazzi crudeli, e rammentiamoci, che il Petrarca, il quale più volte volle divinare amore, ci scappa fuori con questi versi: Ei nacque di ozio, e di lascivia umana, Nudrito di pensier dolci e soavi, Fatto Signore e Dio da gente vana. E quel Platone filosofo solenne, donde venne l’amore platonico, spasimò di amore per Archeanassa di già attempata dicendole con galanteria da disgradarne un Parigino, che nelle rughe del suo volto scorgeva il nido degli amorini; e quello ch’è peggio ebbe in delizia Astero venustissimo per cui compose bellissimi versi, che pure ci sono avanzati. Accoglieva parasiti a patto mangiassero corvi, scimmie, ed altre simili ree vivande; se squisite le avevano a scontare con mille strazi, e spesso con percosse da spezzare loro le braccia, e le costole; non mancarono nè anco le ferite con le quali rimase deturpato il Querno: uomini per vecchiezza venerabili uccellava così, che ne diventarono matti; dopo averli ridotti a questo miserrimo stato li cacciava su la pubblica via. L’inglese Roscoe panegirista di Lione narra del trionfo del Barballo, povero uomo che pativa dello scemo, infatuato della poesia così da reputarsi maestro non che ad altri all’Alighieri e dei velluti verdi e dei rasi cremesini, dei ricchi e belli vestimenti, dei preziosi ermellini, e di ogni altro apparecchio per la sua incoronazione in Campidoglio; ce lo mostra assettato sopra le groppe dell’Elefante che il re di Portogallo donava a Papa Lione procedere glorioso, poi tremare a verga però che il Liofante, atterrito dal rombazzo di urli, di nacchere, di trombe, e di tamburi, giunto al ponte Santo Angiolo non volle più ire innanzi, sicchè fu ventura al tapino scendere salvo da cotesta altezza, e tra i fischi, e le sassate della bordaglia ridursi al suo povero tetto. L’Inglese dabbene tratto dalla manìa di lodare il suo eroe non bada che quel povero Barballo abate fosse, e come pure ci ricorda il Giovio, di sessanta anni vecchio, per aspetto venerabile, e di capelli canuti, nè che per cotesto strazio crudele in lui restasse spento quel po’ di lume d’intelletto, onde l’uomo fa fede della sua origine celeste. In somma chiunque si assettasse sopra la cattedra di S. Pietro se tristo diventava immane, se comportabile tristo, lo inculto selvatico, il culto vulgare: pareva, che un’aere pestilenziale si respirasse in coteste sedi sublimi; leggesi come Lione assai si commovesse quando Lutero accennò ai costumi pieni di obbrobrio della Chiesa romana, allorchè poi prese ad assalire il dogma assai se ne rallegrasse: «costui ha tolto» corre fama ch’ei dicesse, «costui ha tolto a dare di scure al ceppo; «più forti braccia che non sono le sue ci si ruppero, e ci si romperanno.» Lione s’ingannò; sagace era, ma la troppa fiducia illude i meglio avvisati; sicchè i preti andranno in fondo per sempre esclamando, che la bandiera del diavolo non prevarrà; che se questa superbia non faceva velo a Lione avrebbe veduto la necessità appunto di stringere le redini dello spirituale; imperciocchè mentre il papato insaniva dietro i beni terreni, ed i vani diletti, i principi laici per incalzarlo meglio delle cose dell’anima neglette si prevalevano a loro pro; di vero Carlo VIII assai si avvantaggiava del Savonarola contro Alessandro VI, Luigi XII per mettere Giulio II a partito convocò il Concilio di Pisa. Lo imperatore Massimiliano prese a proteggere Lutero, non patì gli usassero violenza, e quando lo raccomandò al principe elettorale di Sassonia gli disse: «custoditelo diligentemente, che un dì potremmo avere bisogno di lui.» Troviamo scritto pei libri come Carlo V fra le cose di cui molto si pentiva annoverava quella di avere osservato la fede del salvacondotto a Lutero, parendo a lui che gli eretici non meritino altro che capestro, e fuoco; e questo può darsi, così favellava a San Giusto distrutto parte dalla gotta, e parte dalla paura del diavolo; però quando lo fece sparire a Varburga, uno scrittore del tempo ci attesta: «ch’ei soleva escusarsene pel rispetto al salvocondotto; ma la verità fu che conoscendo, che il Papa temeva molto di questa dottrina di Lutero, lo volle tenere con questo freno.» Scrittori gravissimi meditando intorno alle cause per le quali la dottrina di Lutero attecchita in Germania non provò in Italia affermano, che in Italia pigliò indole piuttosto letteraria, che teologica; e dicono altresì, che i nostri filosofi invece di riformare la religione saltarono su ad abbattere Dio addirittura; certo lo studio dei classici così greci come latini educò, più che non bisognava, i savi del tempo al dubbio beffardo; e non contrasto la negazione di Dio essere antica dottrina in Italia; per non rammentarne altri da Guido Cavalcanti fino al Pomponazzo ne occorre continua la traccia; ma la sentenza degli scrittori alemanni troverai non vera solo che tu pensi ai tanti confessori della dottrina luterana surti in Italia tutta, a Siena come a Ferrara, a Lucca come a Firenze, a Napoli, e altrove, nè fra gli uomini solo bensì tra le donne, e non mica vulgari, o ignoranti, ma all’opposto preclare per ingegno, e di alto legnaggio. A suo luogo accennerò della causa, onde la riforma venne meno in Italia; intanto se ciò fosse bene o male, io non saprei; dacchè la riforma ti paia cosa finchè combatte, ed abbatte: adesso cattolicismo, e riforma mi fanno sembianza di gladiatori spiranti per le mutue ferite; chi lamenta la unità cattolica offesa per mio avviso ha torto; imperciocchè prima di raccogliere gli uomini tutti, o almanco la massima parte, in una fede sola essa decadde per non riaversi mai più; nè era desiderabile, che da lei si assembrassero i viventi dentro concetto di errore; e parmi non abbia ragione chi si lagna, che non incontrino favore fra noi le dottrine dei riformisti, dacchè se meno assurde tuttavia ci sonano a posta loro erronee, o almeno vuote della verità finale in cui spero, che si appunteranno un giorno tutti gl›intelletti umani: — Dio Dio, mente dell’universo, al sentimento del quale per sicuro non ci avviano nè Bibbia, nè Corano, nè altro libro di religione antico o moderno; e dico sentimento non conoscenza, però che per questa a noi facciano difetto sensi, e spiriti, mentre per sentirlo ci basta amore. Poichè in fondo all’agonia di fondare stato alla sua casa Lione si trovò con tre bastardi, Giulio cardinale poi Clemente, Ippolito e Alessandro, di un tratto preso da non so quale uzzolo di emulazione per Giulio II si mise a gridare: «fuori barbari!» A questo fine aizza l’un contro l’altro Francesco I e Carlo V, i quali non avevano bisogno di stimoli; al Papa piacevano Parma e Piacenza guadagnate da Giulio, e perdute da lui; onde ricuperarle bisognava romperla con la Francia; gli garbavano altresì molte provincie del regno di Napoli, e tutto, magari, se si potesse; ma per questo bisognava osteggiare lo Impero; scelse per amica la Francia; poi allo improvviso lasciata in asso la pratica si accorda con lo Impero: di qui la guerra che il Guicciardino descrive, e della quale fu parte: anco una volta ebbero a sentire i Francesi (comecchè non l’abbiano imparato mai) la terra d’Italia avere destinato i cieli per loro sepoltura; persero Milano, Lodi, Pavia, Como, e Parma e Piacenza; queste due città insieme a Ferrara, per patto accettato da Carlo V, dovevano aggiungersi alla Chiesa. Il corriere gli portò la nuova a Malliana mentre recitava il benedicite seduto a mensa: «buona nuova è questa che ci havete portato» disse al corriere, e non capiva in sè dalla gioia: se si straviziasse non importa dire; gli Svizzeri di guardia presero a menare gazzarra, e quantunque il Papa mandasse ad ordinare, che smettessero non gli diedero retta: era il 24 di novembre, e tra il calore del fuoco, i fumi del vino, e l›eccitamento dell›allegria il Papa sentendo il caldo grande non posava mai di andare su e giù dal balcone al cammino; la notte gli prese la febbre; fattosi condurre a Roma si mise a letto; intanto sopraggiunse la nuova della resa di Piacenza, e la sua gioia cresceva intantochè il maestro di cerimonie, consultato da lui, lo chiariva non essere costume della Chiesa celebrare con feste, e grazie a Dio le vittorie riportate sopra principi cristiani, a meno che grandissimo benefizio ella non ne avesse risentito; egli rispose che il benefizio veramente era maraviglioso; apparecchiasse pure le feste, e pel 1 di decembre riunisse il concistoro. In cotesto giorno non fu tenuto il concistoro perchè Lione si sentiva indisposto vie più, però non tanto da inspirare apprensione; nella giornata giunse un›altro corriere con la notizia della presa di Parma; e il Papa parve andarne in visibilio: si saria detto che si contendessero la sua vita la Fortuna, e la Morte; superò questa, e nella notte del 1 decembre 1521 rese l›anima senza sacramenti. Certo tristo poeta con un certo distico latino, a torto attribuito al Sannazzaro, ammonì che non glie li poterono amministrare però ch›ei gli avesse venduti. — Di tanti servi, e cortigiani il solo frate Martino buffone e parasito gli si trovò allato nell›ora del transito, il quale non sapeva confortarlo altrimenti, che dicendogli: «ricordatevi di Dio, santo Padre.» E Lione smanioso esclamava: «Dio buono! Dio buono!» Comune opinione fu, ch›ei morisse di veleno; ne incolparono parecchi Francesco I, il duca di Ferrara, e l›altro di Urbino, però altri negarono; forse l›accusa si partì dalla considerazione dell›odio che ciascheduno di loro gli aveva naturalmente a portare, massime i due ultimi, i quali se fosse vissuto si avevano a tenere per giudicati; nè del diverso grido uomo può farsi maraviglia; imperciocchè anco col cadavere aperto davanti, chi lo sostenne e chi lo negò attossicato. Il Sanuto riporta certa lettera d›Jeronimo Bon, veneziano dimorante in Roma, al suo barba dove leggiamo: «non si sa certo se ‹l pontefice sia morto di veneno. Fo aperto; Mastro Fernando judica sia stato venenato; alcuno de li altri no; è di questa opinione mastro Severino che lo vide aprire, e dice, che non è venenato.» A noi questo importa poco; ci preme invece mettere in sodo, che Lione come gli altri Papi arraffò violento, insidioso, e ladro; restituì costretto; nè manco per ombra reputò lo stato pontificio d›istituzione divina, nè sè impedito a cederlo per comandamento di Dio; fisime queste di quel prete scemo, che ha nome Pio IX. Lo scopo di questo epitome pertanto sarebbe compito massime quanto alla prima proposta, che il temporale non fu istituzione divina, bensì rapina, e la storia dei Papi seguenti altro non fa, che confermare come eglino stessi per promovere figli o nipoti il patrimonio della Chiesa alienassero. A Lione subentrò Adriano di Utrecht maestro dello Imperatore: questi non ebbe difetto di virtù, anzi si celebra grandemente come colui, che procedè temperatissimo, e modesto. In certe lettere scritte al Cardinale Fiesco così occorre descritto: «del proprio è avaro: di rado concede, e più di rado piglia; al rompere del dì celebrava messa: chi ami, e se qualcheduno ami s›ignora: a non trascorre mai alla ira: dai sollazzi rifugge: allo annunzio della sua elezione al ponteficato non esultò; all›opposto fu sentito sospirare per angoscia.» Volle riformare e non potè sia a cagione della vita breve, e più perchè non volendo omettere gli studi sua delizia mancò di applicazione, che non basta la indole tenace per reggere gli stati, ma si richiede altresì tenace opera, e scienza, e pratica di negozi: però non reca meraviglia se la gente interessata a mantenere i vecchi abusi lo avversasse in tutto. Se intendeva sopprimere delle vendite chiesastiche quelle, che gli parevano contaminate di simonia, gli opponevano i diritti ormai quesiti dei terzi; se riformare le dispense matrimoniali lo spaventavano col dirgli che ruinava la disciplina della Chiesa; se reprimere i disordini delle indulgenze, gli obiettavano, badasse bene, che per edificarsi Lamagna non gli fuggisse Italia. — Essendo stata vinta ai suoi tempi Rodi, e il Turco invasore dando a temere non che per Ungheria, per Italia e per Roma, con istanze supplichevoli s›ingegnò condurre fra Francesco, e lo Imperatore se non pace almeno tregua, e non l›ottenne, però che i Francesi sprofondati come sempre nel proprio interesse quotidiano, senza curare l›avvenire, delle sconfitte dell›Austria esultavano, importando loro piuttosto lo Impero perisse, che la cristianità si salvasse. Dettando questo Papa dabbene le istruzioni al nunzio Chieregato spedito alla Dieta di Norimberga lo ammoniva: «la corruttela dal capo si diffuse per le membra; abbominevoli eccessi si rinnuovano ogni giorno presso la sede apostolica; delle cose spirituali è nefando lo abuso; tutto qui vedo contaminato; peccarono tutti; non uno ha fatto il bene, non uno. Egli periva esclamando: «oh! quanto è duro venire al mondo in tempi nei quali virtù di uomo non basta, e bisogna, ch›ei ceda.» Questa esclamazione, per cura degli amorevoli suoi, fu incisa sopra la tomba di lui nella Chiesa tedesca di Roma; ed anco sopra l›altra sepoltura che provvisoriamente lo accolse in San Pietro si leggeva questa non meno disperata sentenza: «Qui sta Adriano IV a cui nulla potò incogliere di peggio nella vita, che imperare.» Mi occorse altresì un altro epitaffio di lui così composto, che chi lo lesse ebbe ad esclamare: «tutti hanno avuto che fare con questo Papa eccetto Dio.» Lo bandirono ignorante, e non era; gli garbavano gli studi gravi, gli altri aborriva, massime la poesia come quella che manteneva vivi i costumi e le credenze dei pagani. Della libera stampa non fu amico di certo, se dobbiamo credere il Berni, il quale nel capitolo contro questo Papa scappa fuori con questi versi: «E quando un segue il libero costume Di sfogarsi scrivendo e di cantare Lo minaccia di far buttare in fiume.» I detrattori di lui notano come il Giovio racconti il Papa essergli stato cortese di un benefizio perchè lo seppe alieno dalla poesia: «così, avverte il medesimo messer Paolo, mi giovò la ignoranza;» tacciono però quello che aggiunge, ed è questo, che se il Papa lo amava, perchè non faceva professione di poesia, molto poi lo teneva in pregio scrittore di annali elegantissimo. I Romani odiarono Adriano non perchè non possedesse virtù, al contrario perchè non possedeva vizi; tentarono per fino ammazzarlo, e Mario di Piacenza, impedito ad usare il pugnale contro il Papa, lo volse contro sè e si uccise; i Cardinali lo detestavano, e quando mentre egli orava nella cappella pontificia ruinò la volta fracassando parecchi Svizzeri e lui lasciando illeso, taluno di loro si fece sentir dire alla libera: «oh! quanto era meglio ci restasse schiacciato lui, che quei meschini.» Proprio cotesto Papa nacque a mala luna; a fine di conciliarsi il favore della Germania volle canonizzare un santo tedesco, Pennone di Sassonia; non lo avesse mai fatto! Gli si scatenò contro Lutero con un libro (Lutero componeva libri come focacce) intitolato: «Contro il nuovo idolo, che deve erigersi a Misna,» sicchè ebbe a pentirsi per non averlo lasciato stare. Ecco Clemente VII: di lui nei nostri libri favellammo assai; molti storici lasciarono minuta descrizione della sua indole: come Medici si versò nelle lettere; assai si dilettò di arti; della musica prese maraviglioso sollazzo; sonava e cantava non senza lode di maestro; lo affermano non avaro, non superbo, non libidinoso, parco nelle vesti e nel cibo; ma di cuore fu diaccio, senza pietà, implacabilmente imperioso, timido, pieno di ambagi; a› danni suoi simulatore e dissimulatore solenne; finchè durò Cardinale ebbe fama di eccellente governatore dello Stato, e la perse da Papa: in mal punto strinse leghe, e fece guerre, e conchiuse paci. Avanti lui i Papi chiamavano in Italia principi cristiani, gli uni contro gli altri aizzavano, e questo fu per loro affrancare la Italia dagli stranieri, onde sovente le raddoppiarono le catene, e sempre si aggravò di peso la catena di quello, che qualchevolta ci rimase solo: in siffatta opera nefaria non diverso dagli altri, anzi più, che tutti colpevole Clemente, e lo confessa egli stesso; imperciocchè nella istruzione conferita al Cardinale Farnese, che poi fu Paolo III, quando andò legato in Ispagna, si raccomanda a chiarire lo Imperatore come per lui Francesco I. ebbe tronchi i disegni di spingersi fino a Napoli nella sua prima invasione d›Italia; per lui Lione X. non impedì la elezione di Carlo; per lui non fu fatto caso della vecchia costituzione proibitiva del cumulo sopra la medesima testa delle corone imperiale e del regno di Napoli; per lui Lione si collegò con Carlo pel ricupero del ducato di Milano; per lui finalmente il maestro dello Imperatore era assunto al papato. Insomma costui tanto si avvilì, che un bel giorno gli venne ad uggia la propria abbiezione; allora ei s›industriò a comporre la lega tra Veneziani, duca di Milano, Francia, Inghilterra e lui per deprimere in Italia la soperchieria spagnuola; ed innanzi aveva tentato contaminare il marchese di Pescara, il quale dopo lunga ponderazione se meglio gli tornasse tradire, o rimanersi fedele allo Imperatore, rimase fedele: intanto il Papa agguindolato da altrui, e da sè stesso si trovò solo. Il sacco di Roma è noto per infelice celebrità; Clemente cadde prigione, lo colmarono di obbrobrio, e di scherno, però che mentre l›Imperatore lo teneva in ceppi ordinasse in tutti i suoi regni si esponesse il Sacramento per la liberazione di lui; ma le battiture, le quali per gli uomini di cuore sono cause di giusto sdegno, persuadono il prete a mansueti consigli: si accordò pertanto coll›Imperatore, lo incoronò, gittategli le braccia al collo lo baciò in volto a piè degli altari, e dello aiuto porto a costui per inschiavire la universa Italia ebbe per salario la facoltà di sottoporre la Patria alla tirannide del suo bastardo Alessandro, venuto al mondo dal sacrilego commercio del sacerdote con certa serva affricana: lo Imperatore per calpestare Firenze gl›imprestò quel medesimo esercito, che gli aveva nabissato Roma, onde il Papa potè stabilire nella nobile Patria la signoria medicea, la quale incominciava con amori incestuosi per cessare con amori nefandi, se pure coteste infamie possono chiamarsi amori. — Viluppo maraviglioso di vicende umane! Lo Imperatore trema della riforma presagendone diminuzione al suo assoluto dominio, e se ne serve per domare il Papa; il Papa all›opposto aborre dalla riforma, e l›aizza contro lo Imperatore: quietata alquanto la paura il Papa si accosta di nuovo a Francesco I. di Francia, il quale a sua posta in odio a Carlo promuove i riformati in Germania, e li sovviene con ogni maniera sussidi; in Francia gli arde. — Il Langravio Filippo di Assia con sagacia pari alla virtù, ed alla fortuna si approfitta di simili insidie, ripone in casa il duca di Vittemberg, e conduce Ferdinando di Austria alla pace di Kadan: la riforma, in grazia di questa pace fatta sicura, allaga la Danimarca, la Pomerania, la Marca brandeburghese, il Palatinato, la Sassonia in parte, tutta la bassa Germania; in breve seguiterà la Svevia. Affermano come anco qui il Papa rimanesse aggirato dalla vacua presunzione di Francesco I, il quale lo accertò, che i principi luterani in riconoscenza degli aiuti somministrati sarieno agevolmente tornati in grembo della Chiesa, ed all›opposto se ne valsero per convalidare lo scisma ed estenderlo. Dopo così grande jattura Papa e Imperatore si sentirono dalla necessità costretti a convenire in un modo di difesa comune; ma l›uno non si fidava dell›altro, anzi con odio infinito si aborrivano; allora parve a Carlo (e fu un bel tratto davvero) uscire fuori con la proposta del Concilio; per questo si sarebbe posto freno alle papali intemperanze, e termine alla rosa dei protestanti, provveduto a sè solido fondamento, perchè appoggiato alle deliberazioni di collegio gravissimo, non già in balìa dei capricci di un›uomo. Il Papa, secondo il solito, alla parola Concilio si arruffa, e scrive di mano propria allo Imperatore, essere cotesto partito pieno di pericolo dove fosse adoperato senza discrezione e non concorressero le circostanze capaci a renderlo vantaggioso; la Curia romana ne rimase sgomenta così, che gli uffizi rinvilirono tanto, da non potersene più cavare danari; dopo le solite ambagi conchiuse notificando al fratello dello Imperatore i principi da lui consultati non avere corrisposto; averne tenuto proposito anco al re Francesco, il quale era di parere non correre tempo propizio per cotesta facenda: così giusta al costume delle deboli menti, cresceva il male col differirne il rimedio. — Anco lo scisma inglese fu consumato a cagione del suo continuo annaspare: invece di opporre rifiuto assoluto promise avrebbe compiaciuto il re, ma per allora bisognava non pensarci avendo la prospera fortuna levato lo Imperatore a stupenda superbia, e col precipitare nuova rottura con lui ne sarebbe accaduto l›eccidio totale del suo stato: starebbe alle vedette e quando qualche congiuntura favorevole gliene porgesse il destro lo servirebbe da buono amico come gli si era professato sempre; ma la congiuntura favorevole non venne; al contrario sempre più gli andarono le cose a rovescio; e poi l›agonia d›imporre tiranno alla Patria il suo bastardo gli fece scredere o non curare lo scisma inglese; tremenda cosa è questa, e non pertanto verissima, al preteso vicario di Cristo piacque più il servaggio dei suoi concittadini che la unità della Chiesa; quindi di un tratto avoca a Roma la causa del divorzio di Caterina con Enrico VIII, ed ordinato con segreto messaggio al Cardinale Campeggio, che arda la bolla decretale del divorzio già partecipata al re, rompe fraudolento la fede, ed è cagione, che il re Enrico infellonito separi la Inghilterra dal grembo della Chiesa cattolica. — Con questo Papa cessa se non il volere, certo la potenza nella Corte romana di costituire libera la sovranità temporale della Chiesa, mentre l›autorità spirituale logorata a conseguire simile intento casca a pezzi; ormai siamo giunti a tali termini per cui tocca al papato sostenersi con altri concetti o perire. Di vero, in questi tempi a cui bene osserva comparisce la genesi di tre partiti; quello della riforma ormai potente, e per gli acquisti fatti fiducioso ad ottenerli maggiori mandando ogni cosa sottosopra; il secondo partito si compone di mezzani, che sarebbero i nostri moderati, i quali per via di mutue concessioni non pure intendono impedire nuovi danni, ma sì anco assettare i passati; per ultimo il terzo, che si ammannisce a guerra aperta, e disperata non solo per mantenere il presente, ma sì, potendo, riacquistare il perduto. Dapprima prevalsero mezzani però che gli uomini, massime nelle questioni morali, repugnino precipitarsi agli estremi repentini, e zarosi, e perchè il papato sentendosi infermo innanzi di cimentarsi voleva tastare il terreno. Al partito mezzano appuntavasi la congregazione dell›Oratorio dello Amore divino alla quale appartenevano Gaetano da Tiene, Lippomano, Contarini, Sadoleto, Giberti, Caraffa, ed altri parecchi; nelle altre parti d’Italia consentivano con essi Brucioli, Reginaldo Polo, Pietro Bembo, Gregorio Cortese, Luigi Priuli, Marcantonio Flaminio, Giovanni Valdez, Vittoria e Vespasiano Colonna con la sua moglie la bellissima Giulia Gonzaga, l’Occhini, il Carnesecchi, il Morone, fra Antonio da Volterra; insomma per non produrre allo infinito questo catalogo di nomi, veruna città d’Italia andava scevra di persone, che commosse dal pericolo imminente di ruine religiose, e per conseguenza anco morali e civili non predicassero con le parole, e con lo esempio la necessità di riformare la Chiesa. — Questi partiti mezzani in ogni contesa vengono a galla: accarezzati da tutti inorgogliscono scambiando per autorità propria la peritanza dei partiti estremi di venire impreparati a mezza spada; e per loro speciale sapienza la tregua, che precede le procelle così fisiche come morali. — Nè anco gli uomini i quali formano siffatti partiti durano lungamente insieme essendo legati fra loro da comune paura, non già da passioni, o concetti comuni; così vero questo, che le consorterie mezzane, cessato il terrore che le tenne unite, si screpolano in frammenti, e si osteggiano a morte. Si provano poi sempre funeste a sè stesse, ed a cui vogliono tutelare, perchè, concedendo, crescono baldanza al nemico, e scemano credito all’amico; quello non contentano, all’opposto inviperiscono, questo debilitano e rendono male soddisfatto. — I moderati religiosi, per ciò che spetta a dottrina dommatica, si trovavano rasentare i luterani, e potremmo anco dire luterani erano senza accorgersene, mentre col sostenere la unità della Chiesa, la venerazione del Papa, e la più parte dei riti cattolici non potevano accordarsi co’ seguaci di Lutero: e spesso quello che maggiormente importa non è ciò che più divide, comecchè la supremazia papale presenti scoglio dove rompe ogni composizione. Considerate la inanità della dottrina di questa Consorteria esposta da Gaspare Contarini uomo del tutto degno di reverenza: «è legge di Libertà, egli predica, la legge di Cristo; a ragione i luterani vituperano come servitù di Babilonia starsi soggetti alla pretensione esorbitante del Papa di pigliare la propria volontà a norma unica di costituire od annullare il diritto positivo. Potremmo chiamare governo quello dove sia regola la volontà dell’uomo per natura inchinevole al male e governato da infinite passioni? Incomportabile ogni dominio oltre il dominio della ragione; tutto questo sta bene, ma l’autorità del Papa appunto è dominio di ragione come quella che Dio confidò a San Pietro, ed ai suoi successori, affinchè incamminassero il gregge sopra la via della umana felicità. Quindi deve astenersi il Papa di ordinare, proibire, o dispensare a suo talento, ma sì giusta la regola che tutto riferisce a Dio, ed alla comune salute, la quale non può fare a meno di essere regola di ragione, di comandamenti divini, e di amore.» — «Guardati, aggiunge poi il nostro Gasparo, volgendosi a Paolo III, di non lasciarti vincere la mano dalla tua volontà, che sceglie male, e pende alla servitù del peccato: se da ciò andrai immune tu sarai libero, tu potente, e la vita della repubblica cristiana veracemente sarà chiusa in te.» Non si desidera troppa levatura per comprendere la fallacia di siffatto argomento; immagina quanto vuoi, e credi la regola fuori della tua volontà, ma quante volte fie rimesso al tuo arbitrio consultarla o no, e intenderla secondo i tuoi errori, secondo la tua ignoranza, ed i tuoi affetti, egli è come non ci sia. — La tinta gialla non istà negli oggetti circostanti, sopra loro la diffonde la itterizia, che hai. Tuttavolta siccome il vento spirava riforme, e la gente procedeva appassionata agli accordi, la si volle tentare con tutti i modi. Paolo III, succeduto a Clemente, spediva il dabbene Contarino suo nunzio alla conferenza di Ratisbona; mandato senza limite non gli volle affidare, perchè ci hanno cose, che il Papa solo può concedere, ed altre che stanno fuori perfino della sua potestà: nè parve disonesta la scusa. Paolo commetteva argutamente al suo legato: non mettiamo troppa carne al fuoco; prima d’inoltrarci vediamo un po’ se possiamo andare d’accordo intorno la supremazia della Chiesa, poi sopra i sacramenti, e su qualche altra cosa; in che consista questa qualche altra cosa non è chiaro; si adombra però con le formule, che Roma procede secondo lo spirito delle sante scritture, e con la dichiarazione di osservare l’uso costante della Chiesa. Parole equivalenti alle porte segrete donde il debitore scivola alle persecuzioni del creditore importuno. E qui per lo appunto giaceva l’osso non avvertito (pare impossibile!) nè manco dagli uomini più sagaci di cotesto tempo: tanto vero ciò che Marino Giustiniano oratore veneto in Germania presso il re Ferdinando informava il Senato: «agevoli parergli gli accordi là dove il Papa, renunziata la pretensione di essere vicario di Cristo nel temporale, si contentasse rappresentarlo unicamente nello spirituale: ai vescovi ignoranti si dessero coadiutori periti; non si vendessero da ora in poi le messe, non si cumulassero i benefizi, la comunione sotto le specie del pane e del vino si concedesse; e con qualche altra zacchera lo screzio della giustificazione, e delle opere buone per salvarsi si accomoderebbe.» E questo di leggieri credo ancora io; e il Contarino da quell’uomo sagace, ch’egli era propose alla Dieta rovesciare l’ordine delle cose da trattarsi, prima il dogma, poi la supremazia del Papa: procedendo con siffatto metodo in breve i teologhi delle sue parti accordaronsi su quattro punti principalissimi; il Contarini si lasciò andare fino a convenire, che la giustificazione si operasse per via della sola fede senza mestieri di opere. La buona gente non capiva in sè dalla contentezza; ormai predicava ogni discordia assettata, mantenuta la unità della Chiesa e con essa quella dello Stato: che rimaneva dunque per ridurre a perfezione il negozio? Poca cosa in verità, la ratifica di Lutero, e del Papa. Lutero esaminato bene gli articoli dell’accordo buttò carte in tavola, e disse ai Deputati, che glieli presentarono: «rigettarli reciso perchè pieni di equivoco: a lui piacere le cose chiare.» Dall’altro canto il Papa sottoposti gli articoli ai Cardinali Caraffa e San Marcello, perchè gliene riferissero, questi se ne mostrarono scandalezzati, li dissero nebulosi, e insidiosi: da ambe le parti ragione ad un punto e torto, ognuno li voleva patenti a modo suo: insomma accordarsi non potevano, chè virtù al mondo non basta per mettere in pace il fuoco e l’acqua. Il Papa astuto rispondeva: «non approvo, nè respingo la convenzione, solo avverto, che anco i parziali di quella giudicano come i concetti ne abbiano ad essere meglio esplicati.» Ecco le correnti sotterranee, che cospiravano occultamente a mandare a male il negozio: per simile convenzione la Germania avrebbe acquistata stupenda unità religiosa e civile, a capo della quale dove fosse giunto a mettersi l’Imperatore, fermo nella idea, che a lui spettasse il diritto di convocare il Concilio, poco più gli avanzava per giungere alla monarchia universale, che stette lunga pezza in cima dei suoi pensieri: però se ne spaventavano i cattolici al pari dei luterani, il Papa non meno di Lutero. Il re di Francia ostentandosi, secondo il solito, sviscerato della Chiesa sobillava sotto dicendo: «la causa di Roma in pericolo: degno di acerbo biasimo il contegno del legato in Germania, il quale così si era lasciato abbindolare, che ormai più poco rimedio ci si vedeva: non patire i principi cristiani si agitassero faccende di tanto momento senza essere consultati: ad ogni modo egli sempre pronto a mettere per la tutela della Chiesa le forze e la vita.» Mentre il re Francesco ficcava queste male biette presso i cattolici, non rimaneva da fare fuoco nell’orcio presso i luterani, e mandava loro lettere, che il Granvelle ministro di Carlo V. affermò con suo giuramento di avere letto egli stesso, con le quali lì confortava a non accordarsi; avere voluto conoscere le opinioni loro, le quali non gli spiacevano. Anco i principi cattolici non andavano di buone gambe in cotesta faccenda; lo esempio fortunato del Langravio Filippo stimolava non pochi a imitarlo: tra questi il Duca di Baviera, e l’elettore di Magonza: l’ultimo avvisava il Papa: ci pensasse due volte ad accordare, gli avrebbero portato via le penne maestre, e lo vedrebbe.» Roma, Francia, Lamagna di un tratto levaronsi contro Carlo V.: «i nemici dello Imperatore, scrive il segretario del legato Contarmi, dentro e fuori paurosi della sua grandezza, dove mai egli avesse raccolto sotto la sua autorità la universa Germania, presero a seminare la zizzania tra i teologhi: e l’interesse come sempre vinse la ragione.» La opera dei mezzani perpetuamente così; le carezze tornarono in vilipendi, la riverenza in iscede; ogni cosa al vento: bastavano due, ed erano tre gl’interessi contrari per non venire ad accordi. Il Papa voleva ricuperare il suo dai luterani; Lutero torre di sotto al Papa quanto gli avanzava; lo Imperatore salire sopra le ruine di ambedue. Nella Chiesa, scomparsi i mezzani, prevalsero gli estremi: ora in breve esporrò, che cosa operassero per impedire il naufragio della barca del pescatore San Pietro. Come chi presagisce la necessità della guerra ci si apparecchia con lunghi ammannimenti, il partito ormai diventato dominatore della Chiesa vide la deplorabile decadenza degli ordini monastici, e s’industriò ridurli a termine da potersene servire con profitto: le raccolte erano sperperate, quindi la necessità di tornare al lavoro; non che le altre regole quella dei Camaldolesi si trovò corrotta; un Giustiniano, o piuttosto un Bosciano, sottomise a discipline più severe, impose solitudine assoluta, e vita separata in cellette sparse qua e là per luoghi pieni di orrore; rinnovaronsi i voti, e con maggiore severità ne curarono la osservanza: ma i tempi ben di altro abbisognavano, che di eremiti contemplativi. Anco i Cappuccini ricondussero al canapo; tuttavia anche qui le notti vigilate, le discipline, il silenzio, i digiuni poco soccorso potevano portare alle angustie del cattolicismo: fin d’allora le vesti, la foggia del calzare, i capelli rasi, il salvatico che emanava da loro li facevano contennendi e vili: e poi quelli che più premeva riformare non erano i monaci bensì i componenti il clero secolare; nè parve mai consiglio buono spendere tempo e denaro in rassettare arnesi logori mentre puoi farli più acconci e nuovi. — Degli uomini dell’Oratorio dello amore divino due, dispersi gli altri, rimasero uniti, Gaetano da Tiene, e Giampiero Caraffa; accordaronsi, perchè diversi d’indole; ciò sembra contradittorio, e non è, e pensandoci sopra ne troviamo la ragione in questo, che due uomini pari d’ingegno, e di talento vanno per una medesima strada dove quegli cammina con più risoluto passo, questi con orme più tarde, sicchè all’ultimo chi resta addietro si chiarisce inutile; mentre coloro, che procedono per diverso sentiero si prestano mutuo soccorso, uno si avvantaggia della opera dell’altro, si completano insieme: se entrambi nelle diverse, non però opposte vie, fanno lavoro di pregio uguale meglio che mai, se dispari non monta; imperciocchè uno aderendo all’altro riesce tutto a guadagno: gli uomini, i quali per diversi tramiti tendono al medesimo segno si accomodano fra loro come la guaina, e il coltello. Gaetano fu mite, Giampiero turbolento; quegli parlava rado e soave, questi copioso e veemente: entrambi tenevano ufficio autorevole, chè Gaetano fu Protonotaro partecipante, Giampiero vescovo di Chieti ed Arcivescovo di Brindisi, e li risegnarono per fondare l’ordine dei Teatini; oltre i tre voti consueti stabiliscono di non cercare elemosine, vivrebbero con quelle che sarieno state loro spontaneamente largite; non si astrinsero, almeno da prima, a foggia speciale di vesti, non a riti particolari; si conformerebbero a quelli dei paesi che avrebbero visitati; scopo loro instituire un seminario di preti secolari governato con ordini monastici; intendevano guadagnarsi i popoli con le missioni, coll’amministrare i sacramenti, con la cura degl’infermi. Da prima partorirono non lieve impressione comparendo su pei trivi, e per le piazze col berretto quadro in capo, roccetto e stola, a piè di un crocione, sopra un palco parato di panno nero predicando smaniosi terrori piuttosto che speranze, ed anzi di additare la via del paradiso spalancando davanti gli atterriti a due battenti le porte dello inferno: giovavano al popolo, ma di bene altro soccorso questo aveva mestiero; non erano a bastanza pugnaci; nello instituto non si trovarono ordinati a guerra, e nell’applicazione non penetravano profondo nel cuore del popolo nè con mani gagliarde a modo loro lo plasticavano. Nocque loro il partito di astenersi dall’accatto, onde in breve non poterono ammettere altre persone, che le provviste con maggiori o minori sostanze; di qui ricchezza, e superbia: e procedendo con simile tenore si venne al punto, che per entrare nell’ordine dei Teatini bisognò produrre le prove della nobiltà; il cerchio degli educandi si restrinse, e diventato aristocratico, epperò esclusivo, di ora in poi non valse ad altro, che a fabbricare vescovi. Dopo i Teatini vennero i Somaschi, fondati da un Girolamo Maini; anco di questi fu intento educare, predicare, assistere gl’infermi, e più specialmente pigliarsi cura degli orfani, pur troppo infiniti a cotesti tempi in Italia per le guerre continue e per le pesti che la desolarono: dopo o insieme co’ Somaschi i Barnabiti per istudio dei preti Zaccharia, Ferrari, e Morigia milanesi: buoni tutti a qualche cosa, impari a reggere contro la procella, trattandosi adesso meno provvedere al futuro, che porre argine efficace alla ruina del presente. A tanta mole quasi bastò un matto; e questi fu Inigo, o vogliamo dire Ignazio Lopez di Recalde nato a Loiola nella Guipuscoa. La Chiesa lo ha scritto sopra l’albo dei santi, ed il Gioberti me lo ciurmò uomo grande da paragonarsi con Giulio Cesare in tutto e per tutto, perfino negli occhi grifagni; stravizi d’ingegno, che perse, o non ebbe mai bussola: tu lettore mira se matto o savio potesse essere Ignazio: ei nacque di signorile lignaggio; cresciuto in castello remoto il suo cervello si saturava con ogni maniera di frottole, e di errori da lui parimente creduti, e serbati cari; da prima usò in corte di Ferdinando il Cattolico, poi in quella del duca Najara dove vie più gli prese a turbinare dentro la mente una vertigine di armi, di amori, di cavalli, di dame, di santi, di apostoli, di angioli e di demoni: alla difesa di Pamplona contro i Francesi percosso di terribile ferita in ambedue le gambe, rimase, finchè visse, zoppo. Giacente nell’ospedale sul letto del dolore, non consolato da congiunti, o da amici, in sollievo delle sue sofferenze finchè il giorno durava leggeva assiduo i romanzi di cavalleria, massime l’Amadigi delle Gallie, e insieme ai romanzi le vite, o piuttosto le leggende dei santi, di Cristo, e di Maria; durante la notte sognava, ed anco ad occhi aperti vedeva, battaglie stragrandi di angioli e di demoni, giganti immani terribili dragoni strascinati in omaggio ai piedi della Beata Vergine; lo pungeva cocente emulazione per Domenico Guzman anch’esso dalla Chiesa convertito in santo; mirava superarlo debellando gli eretici con isterminati colpi di spada, e con colpi non meno sterminati di devozione; sarebbe ito a Gerusalemme, nelle parti più lontane del mondo a vincere anime a Cristo, anzi sceso dentro lo inferno a sfidare a duello Lucifero, abbatterlo, e mandarlo in dono alla donna dei suoi pensieri Maria: sue armi, daga e vangelo, o piuttosto le miserabili scritture con le quali monaci ignoranti contaminavano questo libro santissimo: così travagliandosi dopo molto stento potè levarsi ranchettando da letto e corse in furia a Monserrato, dove fece la veglia delle armi, ch’era una cerimonia di notti passate nella veglia, nel digiuno, e nella orazione ond’essere creato cavaliere della Santa Maria Vergine: per colmo dello staio si dilettava di comporre versi; io non l’ho letta, ma dicono, che ci avanza di lui una romanza sopra San Pietro, che basterebbe sola come certificato di pazzia per ischiudere le porte del manicomio ad ogni fedele cristiano. Da Monserrato si condusse a Manresa per quinci recarsi a Gerusalemme, e davvero gli era come andare a Roma per Ravenna: intanto che si allestisce a battagliare i Maomettani, si trattiene nel convento dei padri Predicatori a pregare genuflesso davanti la immagine di Maria sette ore del giorno e a flagellarsi quotidianamente tre volte dentro ventiquattro ore. Ma qui dopo tanta presunzione lo colse lo scoramento, chè gli pareva trovarsi immerso nel peccato fino ai capelli; sè indegno di essere eletto a tanta opera; mancipio senza rimedio dello inferno: confessavasi, e riconfessavasi, nè potendo aver pace statuì finirla col buttarsi dalla finestra. Gli atti di Santo Ignazio c’istruiscono, ch’ei se ne astenne per tema di offendere Dio: io i segreti di Dio non so, ma quasi metterei pegno, che se Ignazio si precipitava giù del balcone non se ne saria preso a male. — Qui fu che una vecchia gli predisse: stesse di buono animo chè Gesù gli sarebbe comparso davanti; ed avendosi egli ficcato in mente cotesta fantasia quasi oracolo della Sibilla cumea un bel di si ferma di un tratto sopra gli scalini del convento dei Domenicani di Manresa e scoppia in pianto, però che proprio lì gli si rivela il mistero della santissima Trinità sotto la figura di tre tasti da organo, senza dire se di ebano o di avorio. Veramente non so che cosa ci fosse da piangere nel vedere tre tasti, ma l’andò così: un poco più tardi circoscritto da un’ostia vide colui il quale adorano i Cristiani Dio ad un punto ed uomo; nè le visioni finiscono, che meditando lungo la sponda della riviera Llobregat nelle acque fuggitive egli degge tutti i misteri reconditi della fede cattolica. Ora se non giudichiamo matto costui io penso che non possiamo pretendere di essere tenuti savi noi. Insomma, se altri lo abbia detto non so, ma io penso che santo Ignazio si abbia a definire un Don Chisciotte di fanatismo religioso; e non di manco questo uomo, che al suo primo comparire nel mondo ci sembra matto, instituiva un’ordine stupendo di forza operosa per modo che se la Curia romana avesse potuto salvarsi non ha dubbio, che solo poteva farlo la Compagnia di Gesù. Considerando questo nostro intelletto umano troviamo com’egli talora deviando a poco a poco dal segno del discorso smarrisca prima, e poi perda del tutto il lume di ragione spento dentro una idea fissa, che lo soverchia; tale altra all’opposto avviluppato dalla idea fissa a mano a mano la dirada, imprime il suo concetto nelle cose e negli uomini circostanti, li trasforma, e li contorce; aggiuntata poi la ragione non le mette già in mano il timone, bensì il remo, e a questa figlia del pensiero di Dio incatenata al puntale tocca pur troppo vogare nella galera dello errore. — I concetti che penetrano profondamente la umanità emanano da due origini le quali sono esaltazione, e meditazione; i primi fuoco, i secondi gelo; procedono quelli a modo di turbine e presto o si snaturano, o rallentano, o cessano; i secondi scavano come la goccia che casca giù dalla volta sopra il sasso del pavimento; e dove si versino intorno al bene durano meno, ma durano. — Gli uomini posti nelle consuete condizioni della vita, quantunque speculino bene, non possono speculare a lungo quanto basta; quindi s’illudono più spesso, che non vorrebbero, e questo nasce perchè delle cento faccie che prestano i casi umani, ne lasciano inosservate la metà, quando ne lasciano poche: l’uomo ristretto in carcere, se di tempra gagliarda, può solo disporre la mente a dipanare un filo lungo e non interrotto di pensieri: fuori di prigione lo caverà a gugliate: anco in monastero al cenobita è tolto meditare pari al prigioniero, come quello che ora la preghiera, ora il refettorio, ora altra cosa interrompono; il carcerato sta solo con la solitudine, veruno lo importuna, veruno lo chiama a mensa: la subiezione del corpo gli viene compensata col regno del pensiero. Napoleone III vince tutti i suoi fratelli in dispotismo, perchè ebbe in sorte educare la mente alla meditazione in carcere; forse non ce lo tennero quanto faceva mestiere; se ci tornasse diventerebbe perfetto. Ripigliamo il filo del nosto Ignazio da Loiola: ai frati di Manresa non parve vero di sbarazzarsi di ospite tanto molesto, e gli fecero ponte di oro quando ei volle condursi a Gerusalemme per convertire gl’infedeli, dove giunto i superiori conosciutolo tosto per nuovo pesce forte temendo, ch’ei non li esponesse a qualche duro cimento gli comandarono se ne tornasse a casa, ed egli cheto come olio ripigliò la via di Spagna: qui predicando le sue bizzarrie stette a un pelo, che come eretico lo condannassero: ma i superiori di Alcalà e di Salamanca conosciutolo a prova obbedientissimo lo persuasero a cessare le prediche; studiasse prima la teologia; la Sorbona unica al mondo per ottenere con profitto nella conoscenza della divinità; così palleggiato si condusse a Parigi, dove quantunque grande e grosso ebbe per cagione della sua ignoranza a piegarsi allo studio della grammatica. Gliela insegnò per ben due anni Girolamo Ardebale, ma egli era come pestare acqua nel mortaio; di 35 anni Ignazio fu licenziato dalla scuola più ignorante di prima. Qui incontrava due compagni sopra i quali acquistò in breve singolare dominio, Pietro Fabro di Savoia, e Francesco Saverio di Pamplona, plebeo il primo, gentiluomo il secondo e, come di lignaggio, di talento diverso; quegli tenace e di mediocre ma compassato ingegno, questi più frondoso, però sopra il compagno fantastico, e proclive alle avventure; entrambi volontà meno austera d’Ignazio, e quindi ottimamente disposti a lasciarsi governare da lui. Raccolti insieme nella medesima cella, in comune digiunavano, pregavano, si esaltavano, e l’uno e l’altro correggendo si contemplavano: un po’ più tardi aggiunsero alla loro compagnia Salmeron, Lainez e Bobadilla, co’ quali conferendo, un giorno vennero nella determinazione d’instituire una maniera di lega: a questo fine vanno alla chiesa di Montmartre; il Fabro prete celebra la messa; al fine della quale si votano alla povertà, alla castità, ed alla conversione degl’infedeli; caso mai l’andata; o la fermata a Gerusalemme fosse loro interdetta si recherebbero a Roma per profferirsi anima e corpo al Papa, dove meglio giudicasse opportuno gli spedisse, senza compenso, senza patto avrebbero adempito i pontifici comandi: già incomincia a comparire il soldatesco ordinamento. Essendosi rotta la guerra contro il Turco Ignazio si portava a Venezia dove conobbe il Caraffa; e desideroso investigare che avesse di buono l’ordine dei Teatini per farne suo pro prese stanza nel convento loro; anch’egli a visitare gl’infermi, e ogni altro esercizio di carità, giusta la regola dei Teatini; esercitando vide quanto credito dalle medesime pratiche avrebbe acquistato l’instituto, ch’egli mulinava stabilire: quindi anco di quelle fece tesoro; è fama che col Caraffa entrassero in iscrezio, e lo credo, per la ragione già esposta, che due nature uguali non attecchiscono insieme; la santità non muta le passioni umane, solo ne varia l’applicazione, o il modo di manifestarle. Però Ignazio ed i compagni suoi si accinsero alla prova di supplantare il Caraffa, nè lo tennero difficile opponendo le forme democratiche all’aristocrazia teatina; di vero dopo quindici giorni di preghiere e di digiuno scappano fuori a Vicenza in un medesimo punto, si arrampicano su i poggioli, e dopo agitati i cappelli, pigliano con istrana favella spagnuola mescolata d’Italiano a urlare a squarciagola la parola di Dio: accadde loro quello che negli Atti degli apostoli leggiamo avvenisse a questi primi compagni di Gesù quando dopo la pentecoste scesero per le vie a predicare in tutte le lingue: il popolo pieno di meraviglia esclamava: — sono pieni di vino dolce. Ma il dominio della repubblica non era terra da piantarci vigna democratica; dopo un anno, ebbero a ripiegare le tende, e ridarsi a Roma. — Siccome per fuggire ogni intoppo molesto nel cammino si avvisarono pigliare diverse vie, innanzi di separarsi deliberarono imporre nome allo instituto loro e si trovarono di accordo ad accettare quello suggerito da Ignazio di Compagnia di Gesù; imperciocchè egli dominato sempre dal militare costume, intendesse ordinare la sua regola ad esercito, e quei pochi primi Gesuiti gli paressero appena bastevoli a comporre una compagnia; se fossero stati in numero maggiore, per me credo che ei gli avrebbe distinti col nome di Brigata o di Colonnello di Gesù. Sul principio a Roma furono guardati in cagnesco; in seguito, perchè dettero saggio di sè, la gente prese ad accettarli, poi lodarli, all’ultimo, come avviene, levarli al cielo. Nel 1540 Paolo III gli accettava, li confermò nel 43; convocati ad eleggersi il Generale votarono per Ignazio a cui commisero comporre lo schema degli Statuti della Compagnia; il Generale, che in ogni altra faccenda procedeva assoluto, per questo era obbligato consultarsi co’ soci. Per siffatta maniera rimase la società dei Gesuiti simile nel carattere generale alle altre fondate sopra i doveri clericali, e monastici, ma diversa nelle specialità, o negl’intenti: di vero accolte tutte le disposizioni teatine intorno ai riti, alle vesti, ed a quanto altro poteva renderli più spediti, i fondatori aggiunsero la dispensa delle preghiere comuni, e del coro, procurandosi per siffatto modo la maggior somma di tempo per accudire con inquieta alacrità a tutti insieme gl’intenti, che somministravano divisi scopo speciale alle altre instituzioni; però precipui fini di loro la predicazione al popolo, la confessione, la educazione dei fanciulli; per la prima, di eloquio elegante curandosi poco, posero studio nel parlare veemente, nel ripetere le locuzioni popolesche, troppi e figure capaci da scotere forte la immaginativa; con la confessione ora spaventando, ora allargandosi a vituperose compiacenze s’impadronirono della famiglia, dello stato, di tutto; con la educazione le novelle anime foggiarono ad arnesi, o meglio ad armi per conquistare, e difendersi. Accetti al popolo i Gesuiti entrarono in breve nella grazia dei principi. I Farnese gli accolsero a Parma; a Venezia Lainez, messo in disparte il popolo, spiegò il vangelo ai nobili e piacque; Montepulciano, e Faenza si sottomisero a loro con la docilità del somiero: dove comparivano pullulavano scuole, e sbucavano congregazioni come per pioggia estiva tu vedi brulicare le rane di mezzo alla polvere. Dove poi la nuova società trionfò gloriosa fu la Spagna: di colta conquistava Francesco Borgia Duca di Gandia; a Valenza il popolo traendo a stormi per udire l’Aroz, venuta meno per capacità ogni chiesa, questi lo sermonò allo aperto; e poichè quando la spinta è data senza ragione nè cagione governa l’andazzo, nobili e plebei si misero dietro le calcagna di Francesco di Villafranca malescio di persona, contadino, ignorante; in breve la Spagna ne rimase coperta come dalle barbe della gramigna. In Portogallo non si specolarono meno, che nella Spagna ad aprire loro le braccia, forse più: quinci con regio beneplacito partiva Francesco Saverio per le Indie orientali a procacciarsi fama di apostolo, e di santo: ella fu una smania, un furore, vuoi nei grandi come negl’infimi di pigliare i Gesuiti per direttori spirituali; il presidente del Consiglio di Castiglia, il Cardinale di Toledo, i primi fra i gentiluomini, la famiglia reale, mettevano tutti da sè stessi il collo dentro il capestro. — Dopo la Spagna, il Portogallo e la Italia, primeggiarono a insanire pei Gesuiti Parigi, i Paesi-Bassi e la Germania. Ignoro se l’esito superasse il presagio: fatto sta, che la Compagnia di Gesù salita a tanto incremento abbisognò di riforma; da prima ella conobbe due classi professi, e novizi; i professi insegnavano; ma essendosi obbligato per voto a impedire in ogni tempo, ed in qualunque luogo missioni, secondo la volontà del Papa, ei fu mestieri creare una classe stanziale di maestri, e questo Ignazio fece instituendo i Coadiutori spirituali: ancora, i professi avevano a campare di elemosina, ma con sussidi raccattati, per così dire, a balzello male si ponno tenere in piedi collegi, onde, riformando, fu detto potessero i collegi possedere beni, ed una quarta parte di Gesuiti col titolo di Coadiutori laici venne instituita per amministrarli come altresì per provvedere alle necessità della vita esterna. — Ciò quanto alla forma; circa la sostanza la Compagnia si propose non già torre l’anima ai suoi alunni, ma sì plasticarla in guisa che non sentisse, non pensasse, nè palpitasse per altro, che per lei; l’amore di famiglia considerò peccato carnale, e fu lodato Luigi Gonzaga perchè favellando a sua madre non le levò mai gli occhi in faccia, nè di minore encomio proseguirono il Fabro, il quale dopo molti anni recandosi in patria non ci si fermò neppure una notte; il retaggio paterno doveva distribuirsi ai poveri prima di entrare nella Compagnia, non già abbandonarsi ai parenti; più tardi le più ree, e sozze colpe commisero per grancire beni a qualsivoglia ragione: lettere non si ricevono nè si spediscono se prima non sieno lette dai superiori; nè basta, poichè tra i Gesuiti l’uomo vuolsi ridurre in mano al Superiore come un cadavere, o meglio come un bastone da viaggio; così egli ha da conoscere l’intimo dell’animo suo mediante la confessione: a questo sembra mettano ostacolo due cose, la prima che il Superiore non può confessare tutti, e se altri li confessa, deve per religione tenersi il confessato segreto: per così poco non si smarriscono i Gesuiti: odano, assolvano, e conservino segrete le confessioni nei casi ordinari i professi, ma i casi riservati deferiscansi al Superiore; ed ecco come questi viene a conoscere regolarmente quanto gli piace e gli giova. Sopra ogni altro precipuo fondamento della Compagnia la obbedienza; quella del soldato, che pure è piuttosto immane, che eccessiva, non bastò ad Ignazio; egli la esagerava spingendola a segno ormai non più umano; nel solo Superiore stanno scienza, potestà, ed afflato di Provvidenza divina; il singolo ha da credere, che adempiendo quanto gli viene prescritto dal Superiore non commette peccato veniale nè mortale; assoluto il dominio di costui; da prima era obbligato a consultarsi co’ professi del luogo dove si trova; poi l’obbligo fu tolto tranne i casi di riforme dello statuto, ovvero di soppressione di case e di collegi. Il pasto, l’ora delle preghiere, dello studio, e del vitto, la veglia, il sonno, il vestire, il camminare, tutto prescritto dal Superiore, il quale a sua posta aveva dintorno i delegati dell’ordine che lo vigilavano, e un censore, che lo ammoniva. In caso di colpa gravissima, i delegati avrebbero potuto convocare l’assemblea generale della Compagnia perchè avvisasse. E’ sembra che a questo modo l’uomo isolato e subietto avesse a diventare ebete; e pure la non andava così: imperciocchè con tanta profondità di consiglio si vedono congegnate le prescrizioni, che non si toglie all’uomo sprofondarsi nello sviluppo delle sue facoltà a patto però che rimangano isolate, e solo al servizio del Superiore: per questo tanto bene le monarchie si accomodarono dei Gesuiti: non mai il servaggio conobbe più solenni maestri di loro; e i re l’avrieno sempre tenuti fra i più squisiti arnesi di regno là dove non si fossero accorti all’ultimo, che scopo dei Gesuiti insomma era comandare in ginocchioni. Gesuiti, e razza dei Gesuiti in convento o fuori, quanti sussurrano dentro gli orecchi delle generazioni: agire è cosa che fa sudare, patire forse può lodarsi, morire con le mani giunte baciando la mano del re, e più del sacerdote maestro e donno dei re, perfezione suprema; per bene comprendere questo importa meditare assiduo; nè vi ha cosa che si confaccia meglio alla meditazione quanto le tenebre; mira l’asino, e il cavallo; perchè macinino bene il grano, ovvero attingano l’acqua dai pozzi fa mestiere bendarli: lasciamo che altri comandi; noi reputiamo singolare benevolenza di Dio possedere un re, e meglio un sacerdote che c’insegnino quello che deva operarsi da noi: felicità grande è il maestro pratico, la guida sperta che ci governi, e ci conduca; la nostra assidua meditazione ha da cadere sul modo di eseguire puntualmente quanto ci venga comandato e non sopra altro. Udire e obbedire non solo si dice dagli schiavi del Sultano, ma sì dagli Angioli del Dio di Moisè, e si deve celebrare massima virtù da quanti ha sudditi il Principe creato proprio ad immagine di cotesto Dio. Se bene consideri vedrai, che i vantati Statuti dei Gesuiti a fine del conto consistono in questo, che giunsero ad adattare allo spirito la istruzione medesima la quale nella milizia si applica alla materia; in questo si posero interi anima e corpo; oltre tenersi liberi da qualsivoglia cura, non accettarono cariche, nè benefizi, quantunque sotto mano gli avessero tutti; non digiuni, non veglie, non fatiche eccessive; i Gesuiti avevano bisogno di tutte le loro forze per durare nelle battaglie della disputa, della predicazione, e dello insegnamento. Se leggi le lettere del padre Segneri vedrai come il Papa medesimo lo presentasse di canditi, e di non so quali ortolani; il Granduca Cosimo III di cioccolata più volte, ed egli stesso gli chiede vino generoso per cavarne lena a mostrarsi valente operaio nella vigna del Signore. — A conseguire simile scopo di leggeri si comprende come lo insegnamento avesse ad essere cura suprema dei Gesuiti; di fatti, a Roma esercitando una volta i letterati nocque piuttostochè giovasse alla religione; i Gesuiti intesero soppiantarli e ci riuscirono; sempre conformi a sè stessi immaginarono metodi affatto soldateschi, e discipline, e pene; insegnavano gratis, come predicavano, e celebravano la messa; vietato non solo chiedere, ma accettare elemosine: nelle chiese non tenevano cassetta: gli scampoli disprezzavano: si contentavano rubare la pezza. Anco questo modo d’insegnamento ebbe sequele terribili nella società nostra, e durano; le scuole ordinate a mò di esercito con soldati, e ufficiali diventarono pugnaci. — Noi dobbiamo venerare la Provvidenza, la quale volle, che simili forze ordinate in pro della tirannide, e dello errore, o non durino, o durino poco; un verme segreto le corrode; la stessa violenza dei moti le fiacca; circoscritte dentro un termine ingeneroso o cattivo s’intristiscono ripiegandosi sopra sè stesse, dacchè paia certo, che la sola bontà sia progressiva durevolmente. Chi mai al mondo potè ridurre le anime umane a stiletti come il vecchio della Montagna? — I Giannizzeri un pezzo sostennero il Sultano, e poi ei gli ebbe a trucidare quanti erano, così gli Sterlitzi in Russia, e così i Mamalucchi in Egitto; in pari guisa il Papa, dopo avere provati i Gesuiti sua lancia, e suo scudo, gli sperdeva quasi piante venefiche. Merita non mediocre considerazione come i Gesuiti scolino, per così dire, dai luoghi che primi inondarono; nel 1606 ebbero a spulezzare da Venezia; da Napoli e dai Paesi-Bassi nel 1618; dalle Indie nel 1622; di Russia nel 1676; dalla Francia nel 1764 per opera della Pompadour, e del duca di Choiseul, affaticandocisi attorno con le mani e co’ piedi un gobbo, lo Abate di Chauvelin, onde motteggiando dicevano: quello che uno zoppo fondò disperse un gobbo: nel 1767 li bandiva la Spagna; nel 1769 il Portogallo dove furono incolpati di tradimento contro la persona del re d’intesa con la casa Tavora; e forse non fu vero. — La vita, la morte e la resurrezione dei Gesuiti porgono manifesto segno della demenza dei Papi, i quali con miserabile non meno che ridevole presunzione si sostengono infallibili. Paolo III nel 1539, informato dal Cardinale Guidiccioni sul conto della regola proposta da Ignazio, dà cartaccie; nel 27 Settembre 1540 con la Bolla: Regimini militantes Ecclesiae l’approva; Clemente XIV nel 21 Luglio 1773 con la Bolla: Dominus redemptor la sopprime; la resuscita Pio VII nel 7 Agosto 1814 con l’altra Bolla: Sollicitudo omnium. E non basta; tanto Clemente che li spenge, quanto Pio che li riaccende, si affermano inspirati dallo spirito santo; il primo si conduce alla soppressione dei Gesuiti mosso dalla voce universale; il secondo compiacendo alle istanze dei fedeli li rimette sul candeliere; Clemente in virtù della sua autorità in materie religiose distrugge per sempre la Società di Gesù, i suoi instituti, e le sue opere; Pio in virtù della pienezza della potestà apostolica da valere in perpetuo restituisce ai Gesuiti tutte le concessioni, diritti, facoltà e privilegi, che prima possedevano, e mantennero nello impero di Russia; dacchè sbanditi da tutto il mondo costà si ricoverarono, e tra i Cosacchi parvero civili. Lo Spirito santo inspirò Clemente, ed inspirò Pio: entrambi questi Papi infallibili; il sì e il no, il bianco e il nero non si contrastano in loro: prediletta stanza quando lo Spirito santo scende in terra il cervello loro: bisogna pur dire, ch’ei sarebbe meglio albergato nella locanda della Luna. Quasi non bastassero queste zanne alla romana belva ne provvidero, o piuttosto ne rinnovarono un’altra più terribile di tutte, intendo parlare della inquisizione, e ciò pei conforti dei Cardinali Caraffa, che poi fu Paolo IV, e Bürgos Alvarez di Tolcdo. Antica, lo abbiamo veduto, era la inquisizione, esercitata unicamente dai monaci, i quali col volgere del tempo ammansivano, ovvero la sfruttavano a proprio profitto, od anco maneggiando eresie diventavano eglino stessi eretici. I nostri novellieri raccontano casi d’inquisitori, che assai di lieve componevansi a danari, le cose della fede adoperando giusto per ami da pescare; quanto a’ frati avversi a Roma basti ricordare il Savonarola, il quale appunto uscì dall’ordine, ch’ebbe la inquisizione un tempo per retaggio privilegiato: pertanto instituivasi un’inquisizione romana. Come da Roma un dì leggi, ed eserciti si diramarono per l’universo; come a Roma tutto le vie del mondo misero capo alla fontana, dove i gladiatori, superstiti al circo, lavavano le ferite, e il ferro insanguinato, così ora da Roma non più aquile, ma avvolto avevano a dipartirsi per inviluppare le menti entro una rete di errore e di terrore. Ignazio loiolita, ed i suoi si precipitarono a sostenere l’opera di sangue col bramito di fiera. — Furono eletti sei Cardinali presieduti dal Caraffa e dallo Alvarez inquisitori universali in materia di fede, con facoltà di sostituire, e procedere, e giudicare in disparte dal tribunale ecclesiastico ordinario; senza distinzione tutti sottoposti alla loro potestà; le pene che potranno infliggere, carcere, morte, e confisca di beni. Se vuolsi avere esempio moderno della rabbia religiosa di costoro tu non potresti rinvenirne riscontro, tranne nella rabbia politica dei montanari della Convenzione di Francia: presto, predicava colla spuma alla bocca il Caraffa, ferro e fuoco al male prima, che incancherisca; basti a punire il sospetto; non arresti nascita, nè grado; del pari tremino principe o plebeo, prelato o paltoniere; se taluno cerca schermo dietro la protezione dei potenti, guai! di uguale colpo percotansi protettori e protetti; verso cui subito si confessi in peccato, e si prostri qualche po’ d’indulgenza si potrà adoperare. — Tale Asino dà in parete tal riceve, dice il proverbio, nè ardere significa persuadere; però da persecuzione sorse persecuzione; qui porrò l’eresie che reputavano gl’inquisitori degne di fuoco, avvertendo che non sono tutte, ed anco per minor fallo bisognava morire: da ardersi chi credeva non le opere proprie bensì i meriti di Cristo salvassero il cristiano; da ardersi chi credeva bastevole la confessione avanti Dio, però che nè Papa, nè Sacerdoti abbiano facoltà di rimettere i peccati; fuoco a cui afferma Gesù Cristo non presente nell’ostia consacrata; fiamma a chi sostiene il Purgatorio fandonia e però inutili le preci pei morti; si brucino coloro, che negano la facoltà nel Papa di concedere indulgenza e perdoni, e dicono potersi i preti ammogliare legittimamente, dannosi i conventi, troppe le feste, ridevole il divieto delle carni e di altri cibi nei giorni prescritti dalla Chiesa: che più? morte e fuoco a chiunque affermi, sostenga od anco pensi la setta luterana capace a condurre le anime per la via della salute. — Furono le accademie scientifiche perseguitate; quella di Modena e l’altra di Napoli chiuse; chi professava lettere visto in cagnesco, la censura resa insopportabile, lo Indice ampliato. Monsignore Giovanni Della Casa compilò il catalogo dei libri proibiti: sommavano a settanta; in breve se ne compilò un secondo più ampio, finchè in quello del 1529 fra le opere degne di fiamma il Casa potè leggere annoverate anco le sue: così sottile fu il rovistare, così ardente il distruggere, che taluni libri scomparirono affatto, come il Benefizio di Gesù Cristo; a Roma incenerirono cataste di libri; anco Omar praticò a quel modo in Alessandria, entrambi papi, o califfi, entrambi interessati a mantenere nello errore il fondamento della propria dominazione. — Chiamaronsi anco parecchi secolari a puntello dello instituto scelleratissimo: con immunità e con danaro presente e poco, con isperanze infinito e future si aizzavano; di spie un nugolo: l’antica semenza dei guelfi e ghibellini rinfocolata; alle vecchie si arresero nuove e mortalissime ingiurie; i Principi, paura fosse, o male creduta utilità, porgevano aiuto; esecutori essi medesimi delle sentenze di sangue, la quale cosa il prete significò con la formula ipocrita: — riporre il condannato al braccio secolare: appena Napoli ardì impedire la confisca dei beni; Venezia, stata fino allora l’asilo dei fuorusciti per cause politiche o religiose, colta da vertigine, della quale si pentirà amaramente e presto, quanti piglia condanna a fiero supplizio; postili sopra due barche li manda in alto mare fuori delle lagune, dove li costringe ad assettarsi su di una tavola; ad un segno queste si scostano, e i miseri traditi sprofondano nelle acque invocando per l’ultima volta il nome di Gesù; sazievole, nè utile al mio intento riferire i nomi dei tanti tribolati; basti questo, che non salvarono nè fama di vita religiosa, nè veste monastica, nè professione di sacerdozio, nè stato principesco. Renata di Ferrara provò nemico il Duca suo sposo: divisa dalla Francia, senza che alcuno la ripigliasse per lei, ella annacquava con sue lacrime il vino. La più parte dei fuggiti perì senza ricordo del dove e del come; certo cadde nelle insidie parate a mo’ di trabocchetto; non fu udito nè manco il rantolo della agonia. Antonio dei Pagliaricci, queste, ed altre nefandigie raccontando, ci afferma come veruno comecchè, di cuore cristiano poteva impromettersi di morire nel proprio letto. Però non tutti rimasero presi, nè tutti si spensero, anzi scamparono i più gagliardi e diventarono atleti contro Roma; celeberrimo tra questi Bernardo Occhino, che di generale dei Cappuccini diventò eretico, esiziale per anni, per dottrina, per santità di costume, e potenza mirabile di predicazione; fuggì, traverso mille pericoli, Pietro Martire Vermigli, e dopo lui uno stuolo dei suoi alunni da Lucca. Celio Secondo Curione col bargello e gli sbirri in camera, essendo atticciato, e gagliardo si fa largo a sergozzoni, e ripara tra gli Svizzeri; migrarono da Modena Filippo Valentino e quel Castelvetro che come scrittore troppo fu sotto allo Annibal Caro, ma come uomo (e questo è quello che conta) di troppo lo superò. — Questi tutti andarono ad ingrossare la schiera dei settari di Lutero, di Zuinglio, di Ecolampadio, di Melantone, e di Muncero. La provvidenza poi, che governa le vicende umane, come se questi non bastassero a sostenere la lotta ecco evoca, non so donde io mi abbia a dire, Calvino anima, e volto di scure affilata; egli di petto ad Ignazio fu lima contro lima: e per me ho fede, che se i loro spiriti sopravvissero al corpo, di presente non si abbiano a trovare divisi, bensì incoli di un medesimo luogo, che di certo non sarà il paradiso. Queste le armi della tetra instituzione, che ha nome Papato allora, adesso, e sempre; affetto, ragione, il tempo stesso, il quale ha virtù di vincere non che i cuori il metallo e il granito, niente possono su i preti composti a curia Romana: udite come bandisse ieri al mondo Pio VIII: «egli è mestieri, venerabili fratelli, perseguitare questi perniciosi sofisti, denunziare le opere loro ai tribunali, bisogna dare i corpi loro in balìa della inquisizione, e mercè le torture richiamarli ai sensi della vera fede della sposa di Cristo.» Ed oggi Pio IX con solenne enciclica, quasi dispettando il secolo, indice guerra alla libertà della coscienza, e dei culti al suffragio universale, alla libera stampa, alla inviolabilità della famiglia, a tutto insomma che non sia regresso verso concetti ormai sommersi nei, gorghi del tempo. — Di qui imparino i settari, che ci governano, con quanto senno essi argomentino; tristo, è vero, ma conforme a sè sempre il Papato: non per virtù, non per generosità, e manco per intelletto l’umano consorzio sarà felicitato con nobili conquiste, bensì per viltà, per anarchia, per repulsa invincibile o per minaccia dei nostri nemici; a questo modo andremo debitori della pena di morte abolita ai fratelli La Gala, di cui fu imposto si rispettasse il capo scellerato; la libertà civile alle pubbliche e private fortune manomesse: la indipendenza agli assalti dell’Austria; la libertà religiosa alla ostinazione del Papa: anco da fetida erba nasce il giglio, ma i gigli usciti fuori così nè olezzano, nè durano. Nè le armi sole, ma assicurato il tempo opportuno il Papa bandisce il Concilio di Trento; il tempo era destro però, che allora Carlo, e i due capi della riforma germanica si travagliassero in aspre guerre fra loro, onde gli facevano mestieri i soccorsi della Chiesa e più dei soccorsi gli premeva non gli procedesse nemica. Il Papa si liberava, intimando egli il Concilio, dalla minaccia dello Imperatore di volerlo aprire egli stesso: chi ha in mano il timone governa. — Da noi non si attende la storia del Concilio di Trento; ne possediamo due, quella del Pallavicino, e l’altra del Sarpi, le quali dettate con opposto intendimento, può chi ha voglia di studiare, ponendole a confronto, assai bene conoscere gli umori dei tempi e la verità delle cose. — Chi non può o non vuole attendere a siffatte ricerche sappia, che il Papa instava si cominciasse a discutere su i dommi, l’Imperatore all’opposto dalla riforma; la ragione delle contrarie sentenze questa: la riforma dei costumi confessata necessaria non si poteva contrastare; i libri santi non offerivano riparo, anzi condanna; difficile poi presagire dove, riformando, si sarebbe messo capo; all’opposto spuntandola sul domma la riforma sarebbe andata soggetta a regole e a freni o non avversi, o secondi agl’interessi della Chiesa. Tuttavia i prelati romani per non entrare in iscrezio collo Imperatore composero, che si sarebbe discusso nel medesimo punto sopra il domma, e sopra la riforma; ma in fatto poi si cominciò sul domma, e si venne addirittura a mezza spada mettendo in campo la quistione, se nel solo Evangelo si trovasse compreso tutto quanto importa alla nostra salute. Non ci è mestieri troppa levatura per conoscere, che vinta questa sentenza, il cattolicismo aveva finito; però ogni estremo sforzo si adoperava a rigettarla, e prevalse l’altra che la tradizione della Chiesa propagata dagli Apostoli sotto la protezione dello Spirito Santo fino ai tempi presenti deve accettarsi ed osservarsi quanto e più la santa Scrittura; a questo modo l’interesse del sacerdote rimase, siccome già era, sostituito alla dottrina di Cristo. Roma vinse nel Concilio per perdere più tardi senza rimedio nel mondo. Nè di minore importanza parve spuntarla intorno alla giustificazione, dacchè se veniva deciso la medesima effettuarsi unicamente pei meriti di Cristo, e non in virtù delle opere la Chiesa si trovava a chiudere bottega di sacramenti; e tanta fu la rabbia dei disputatori, che mancate le ragioni contesero a pugni, e se ne ricambiarono dei solenni il vescovo della Cava, e certo monaco greco. Ributtata la definizione assoluta, con asprezza pari respinsero qualsivoglia ammenda, massime quella delle due giustizie, che insomma era un’empiastro moderato col quale si presumeva stabilire, che per salvarsi si chiedessero ad un punto i meriti di Gesù Cristo e la virtù delle opere: pro le stavano Scripando, e i Cardinali Polo, e Contarini, contro il Cardinale Caraffa, e i Gesuiti Salmeron, e Lainez: prevalsero gli ultimi, che ogni sapienza pongono in questi due termini: fermi o addietro. Quando consideriamo la perpetua contradizione dell’uomo sovente, ci sorge nella mente il dubbio se davvero egli possieda discorso, e se per esso proprio si distingua dagli altri animali; di vero il sacerdozio romano piegò al Concilio mosso dal senso del bisogno della riforma, e chiuso nel Concilio pesta le mani e i piedi per rimanere inalterato o concedere solo ammende, che non hanno costrutto; appunto come le Monarchie ridotte al verde oggi accettano le Costituzioni per convertirle in arnesi di tirannide due cotanti peggio di prima. Il Papa parve, e tuttavia sembra, capo di cotesto moto di offesa o di difesa del cattolicismo, e certo ogni cosa ebbe approvazione da lui; egli convoca il Concilio, egli lo dirige; da lui emanarono le Bolle dei nuovi instituti monastici, sua la Bolla che invia Saverio alle Indie, sua quella, che fonda l’arcivescovado nel Messico; chi altri se non esso, mediante il nipote Rinaldo Farnese arcivescovo di Napoli, tribolò il vicerè Pietro di Toledo a rizzare la Inquisizione in cotesta città, donde le fiere sommosse per le quali dopo tanta uccisione di uomini e’ fu mestieri deporne la voglia? E pure nonostante queste apparenze non visse per avventura uomo nella cristianità, che sia co’ principeschi consigli, o sia co’ privati costumi, più di lui attraversasse l’esito della riforma. — Nei primordi del pontificato si stringeva in lega co’ Veneziani, e lo Imperatore contro i Turchi; dopo spazio non lungo di tempo fa alleanza col Turco e il re di Francia contro lo Imperatore: combatte con armi spirituali e temporali alla scoperta i Luterani e di celato se la intende con loro. — Così Papa e Imperatore accordatisi a Vormazia per annientare la lega di Smalkalda, il primo manda, giusta il concerto, armi in soccorso col cardinale nipote Alessandro; sbigottito poi dalla prospera fortuna del suo collegato, di punto in bianco richiama il cardinale Alessandro coll’esercito: mentre la Germania settentrionale trema del progresso del potere pontificio, il Papa esulta delle battiture che dà l’elettore Giovanfederigo al duca Maurizio, e aizza segretamente Francesco I sovvenire i Luterani, finchè tengono le armi in mano; osso duro a rodere per Carlo essere tuttavia cotesto; col mezzo dell’Oratore francese lo ammonisce così: «S.S. ha inteso che il duca di Sassonia si mantiene gagliardo, di che piglia inestimabile contentezza, giudicando, che il nemico commune in virtù di questi intoppi si troverà inetto al compimento delle sue imprese, onde pensa, che tornerebbe a grandissimo benefizio comune sovvenire di sotto mano coloro che gli resistono, e dice che voi non potreste fare spesa che fosse più utile.» Nè questi suoi disegni, o piuttosto intrighi, rimasero punto nascosti allo Imperatore, il quale prevalendolo sempre nelle armi mandava al suo Oratore, perchè lo partecipasse al Papa: «avere conosciuto, pur troppo, il pensiero di S.S. essere stato quello di porlo a cimento in impresa zarosa e poi abbandonarlo, per ciò avere alla sprovvista richiamato le sue milizie; nè di questo più che tanto importargli però che prive di soldo, e indisciplinate gli erano piuttosto di danno che di benefizio; amareggiarlo questo altro, nè volerlo sopportare, che senza suo avviso avesse trasferito il Concilio a Bologna.» Piegava allora Paolo sotto la mano di ferro delle Imperatore; ma quietata alquanto la paura, eccolo da capo alle insidie; però, che non si neghi Gian-Luigi Fiesco aizzato non meno dal re di Francia, che dal Papa tramasse la congiura contro Andrea Doria, che andata a vuoto, questi più tardi barattò a Paolo con la morte del figliuolo Pierluigi. Duro freno a mordere, ma dalle labbra fermenti del Papa in cotesto acerbissimo caso uscì spuma non parole, e cauto si mise ad annondare una nuova lega ai danni dell’odiato Imperatore con Francia, Venezia, Svizzera, e il Turco: quantunque avesse scomunicato gl’Inglesi, pure consigliava Enrico II a pacificarsi con Eduardo VI per non provarlo d’impedimento alla guerra, che imprenderebbero pel bene della Cristianità. La Chiesa si era ridotta al termine di che parlammo per colpa dello strazio che ne manarono i Papi in benefizio dei loro figli e nipoti: per questo diventò necessaria la riforma, che lo stesso Paolo III prescrisse, e verun Papa mai dava come costui esempio pernicioso dei medesimi errori. — Creò cardinali suoi figli o nipoti Alessandro, e Ranuccio Farnese, e Guido Antonio Sforza figliuolo di Costanza Farnese di dodici, di quattordici, e di quindici anni; e non che ad altri allo Imperatore, che gliene toccò qualche parola, rispose, contro il suo costume alterato; e promosse altresì alla porpora Niccolò Gaetani discendente di Bonifazio VIII e congiunto con la casa Farnese; fra i trentasei cardinali, ch’egli elesse, occorre anco un Roderigo Borgia dei duchi di Gandia, onde non istette per lui che un’altra volta il sangue di Alessandro VI non rese sacro il soglio di San Pietro. — Usurpò Camerino alla ultima erede dei Varano, allegando le femmine escluse dalla successione del padre, nè lo rese già alla Chiesa, bensì lo tenne per darlo a Ottavio suo nipote nel modo stesso che dal manto della Chiesa aveva sbarrato Castro per investire il figliuolo Pierluigi, e Nepi per coprire l’altro nipote Orazio. Le paci e le guerre nelle quali egli spinse la Chiesa miravano sempre ad avvantaggiare i suoi; la quale cosa sovente gli veniva fatto di conseguire con destrezza mirabile. Quando prima si pose in mezzo paciere tra Francesco e Carlo a Nizza pescò a Pierluigi il Marchesato di Novara da una parte, e dall’altra provvido ad allogare sposa in casa di Francia la nipote Vittoria col duca di Vandome; a questo, non avendolo ottenuto subito, e poco dopo essendosi rotta da capo la guerra tra Francesco e Carlo, egli ebbe con inestimabile cordoglio a renunziare; ma guasta una tela il ragno ne incomincia un’altra; quindi Paolo più tardi torna agli amori francesi, e gli riesce fidanzare il nipote Orazio con la bastarda di Enrico II. — Ardendo pel desiderio di lasciare alla sua casa un principato che le fosse scala ad acquisiti maggiori ora delibera investire Pierluigi del ducato di Parma e Piacenza e lo sgarò nonostante, che messa la pratica in Concistoro il cardinale Caraffa non intervenisse, anzi nel medesimo giorno visitasse le sette Chiese come straordinariamente si costuma tra i Cattolici nelle gravi sciagure, ed ordinariamente il Venerdì santo; e il cardinale da Trani con onesto sermone tra le altre cose lo ammonisse «e che diranno di siffatto partito i Luterani, ora che il Concilio è aperto, vedendo il patrimonio della Chiesa dai Papi stessi, i quali come fedeli tutori dovrebbero mantenerlo, e difenderlo, essere dato ad altri?» Al Papa non piacque cotesto suono, nè lo menò buono il Collegio dei Cardinali; per la quale cosa se non si rinnegò allora Dio, nè si manomisero i suoi precetti per lacerare in parte il dominio della Chiesa e gittarlo in pastura all’uomo forse più nefando, che mai vivesse al mondo, vorremo noi credere al Papa adesso, che afferma i comandamenti divini impedirgli di rendere la potestà dei suoi domini al popolo italiano per comporsi una Patria potente, e felice? Non contento di Parma e Piacenza, poco dopo il Papa armeggia per procurare al medesimo suo indegno figliuolo la duchessa di Milano, e sottilmente arguto insinuava pei suoi negoziatori a Carlo: «a te disdice chiamarti conte, duca, e principe, Cesare sei; non le molte provincie, ma i grandi vassalli hanno da formare la tua forza: dacchè mettesti le mani sul Milanese non godesti un’ora di bene; che tu lo renda al Re Francesco non si consiglia, però che questi dopo il primo pasto avrebbe più fame che pria delle terre italiche; ma nè anco lo devi serbare per te, considerando come cotesto acquisto ti abbia fruttato nemici molti e poderosi, i quali ti stimano insaziabile dei domini altrui: se vuoi, che il mal sospetto cessi, fa una cosa, dà il Milanese a qualche duca; così Francesco I non troverà più partigiani, tu all’opposto ti amicherai per la vita Lamagna e Italia, e perciò franco da ogni impaccio potrai portare le tue bandiere nelle più remote regioni, e rendere il tuo nome immortale.» Ma lo Imperatore considerando come quello, che è buono a pigliarsi si prova ottimo a tenersi faceva orecchia di mercante; e poi quando avesse tentennato le persuasioni di Ferrante Gonzaga e di Andrea Doria, avversissimi ai Farnesi lo avrebbono dissuaso di piegare alle voglie del Papa. — Quando trucidato Pierluigi Farnese, Ferrante Gonzaga occupò Piacenza per lo Imperatore il Papa per via di negoziati pose in opera ogni sua arguzia per ricuperarla; al solito metteva innanzi la donazione di Costantino, e subito dopo quella di Carlomagno; ma visto, che coteste donazioni non facevano breccia allegò la cessione di Massimiliano I Imperatore a Giulio II e la conferma fattane da lui stesso Carlo nell’anno 1521: lo Imperatore nonstante siffatte dimostrazioni perfidiava con lunga scrittura a volere serbarsi Piacenza, ed anzi avrebbe preso anco Parma assegnando per compenso ad Ottavio 40,000 scudi di entrata nel regno di Napoli, somma a cui non erano mai giunte le riprese di Parma e di Piacenza; la quale profferta rincrescendo al Papa per torsi le molestie dattorno propose allo Imperatore lo scambio di cotesto ducato con Siena; ma Siena già era segno di cupidigia di Cosimo I; il quale stava su l’avvisato, avendo scritto fino dal 1537: «al Papa non è rimasta altra voglia in questo mondo, se non disporre di questo stato e levarlo dalla devozione dello Imperatore, ma gli sarà mestiero portarsela seco lui dentro il sepolcro.» All’ultimo considerando, che il ducato di Parma e Piacenza mentre lo aveva tolto alla Chiesa poco restava sicuro in mano ai suoi deliberò restituirglielo cassando il baratto antico di Camerino e Nepi: così da capo il ducato Parma e Piacenza difeso dal pontificale ammanto gli sembrava potersi più agevolmente conservare; e non temeva opposizione dal lato dei nipoti come quelli, che egli aveva sperimentato sempre ossequentissimi a propri voleri, non avesse fatto cosa che in massima utilità loro non ridondasse; ora poi bisogna vedere che avverrebbe pungendoli nello interesse; di vero Ottavio si rovesciò, e non si astenne da adoperarsi di avere a certo pranzo in casa Sanvitali Cammillo Orsino governatore di Parma pel Papa per quivi ammazzarlo, o imprigionarlo, e poi correre la terra; e poichè Cammillo non cadde sul vergone neppure aborrì ricorrere a Ferrante Gonzaga precipuo operatore della paterna strage per ottenere con la forza, quello, che con la fraude non aveva potuto conseguire; Ferrante poi (qualunque fosse l’animo suo, che per me giudico tristo) non si mostrava alieno da porgere aiuto ad Ottavio a patto, che ei tenesse Parma a nome dello Imperatore. Il Pallavicino nella Storia del Concilio di Trento afferma avere Ottavio rigettato la proposta; al contrario il Gossellini nella Vita del Gonzaga dichiara, che fu spedito un corriere allo Imperatore per la ratifica dello accordo; checchè di ciò sia Ottavio scrisse lettere a Paolo III significandogli, che dove si ostinasse a negargli Parma per amore, e’ se la sarebbe presa per forza co’ sussidi del Gonzaga; giunse questa nuova oltre ogni credere amara al Pontifice, il quale querelandosi diceva la viltà del nipote, che per cupidigia d’imperio acconsentiva stringere la mano intrisa del sangue paterno avergli trafitto il cuore assai più della strage di Pierluigi; ma non gli credevano. nè a torto, imperocchè anch’egli, nonostante cotesto omicidio, o non aveva negoziato con Cesare per barattare Parma e Piacenza con lo stato di Siena? Avanzava una speranza al Pontefice, ed era, che il Cardinale Alessandro non avesse intinto in coteste tresca; ma chiamatolo a sè, conobbe il contrario; allora ruppe in escandescenze, e in mezzo ad una procella di rampogne strappò di mano al Cardinale la berretta sbatacchiandola a terra; all’ultimo tramorti; rinvenuto dopo parecchie ore si giudicò morto, per la quale cosa convocati i Cardinali commise loro pigliassero tosto i provvedimenti che al bene della Chiesa reputassero più acconci; però al tempo stesso o che la cupidigia d’ingrandire la propria famiglia ripigliasse in lui il sopravvento, o per la contradizione inseparabile dalla nostra natura sul punto di chiudere gli occhi sottoscrisse un Breve per Cammillo Orsino e glielo mandò pel suo segretario Antonio Elio vescovo di Polo con ordine espresso di restituire Parma ad Ottavio; se nonchè Cammillo da prima sospettandolo falso, non lo volle obbedire, e poi chiarito dell’autenticità sua, ma al punto stesso della morte del Papa, s’intorò nel rifiuto allegando, che la volontà di uomo sano di corpo e di mente non si aveva a posporre a quella di uomo moribondo per avventura privo di discorso di ragione. I costumi di questo Papa perversi; da parecchie femmine ebbe figli non pochi: sua madre per temperarne la licenza lo fe’ chiudere in castello S. Angelo, donde il futuro vaso dello Spirito Santo si calò per mezzo di una corda; altri poi affermano patisse la prigione a cagione di Brevi falsati: cardinale lo creò Alessandro VI e affermano in salario di libidine dal vecchio Papa sfogata nella sua sorella Clara e sarà; altre cose aggiungono, ma le lascio addietro, perchè molto gravi elle sono ed a me paiono provate poco; assunto al ponteficato condusse onesta vita; egli è ben vero che allora contava sessanta anni sonati; ma ciò non fa caso; anco Alessandro VI giunse a cotesta età e tuttavia nelle senili membra riardeva più tetra la libidine: ma se quanto alla sua persona lasciò poco a riprendere, a veruno dei Papi prima o dopo di lui fu secondo nel patire le infamie della propria famiglia. Margherita tenne sempre in dispregio il marito Ottavio, e se ne aperse col padre Carlo, che le detto facilmente ragione; di nefanda celebrità vanno famose le turpitudini de Pierluigi Farnese: io le ho discorse nella vita di Andrea Doria. nè quì le ripeterò: tanto basti, che quando i Luterani seppero il mostruoso strazio di Cosimo Gheri vescovo di Fano esclamarono: «verun tiranno al mondo avere immaginato modo più truce di martirizzare i santi.» Paolo fu uomo di molta dottrina; lo educò nelle lettere Pompilio Leto, nelle matematiche Alberto Pigho; dimorando nelle case di Lorenzo il magnifico apprese eleganza e vizi; facondo nel dire, e abbondevole, ma avviluppatore così che mal sapeva sviticchiarsi dalle sue medesime reti: magnifico nei palagi, nelle vesti. e nelle suppellettili, e tuttavia laido, onde essendogli un giorno state donate sessanta catinelle, e sessanta boccali di argento ne cavarono fuori certo epigramma, che concludeva: «or come con tanti bacini, e mesciroba conservi, o S. Padre, così sudice le mani?» Vezzo comune a cotesti tempi la fede nell›astrologia, ma a lui Papa disdisse mostrarsi nella pratica di errore siffatto piuttosto eccessivo che zelatore: nè piccolo nè grande negozio s›iniziava da lui se prima non andava certo della influenza degli astri; protrasse a lungo la conclusione della lega con la Francia perchè non rinveniva conformità di nascita tra quella del re Francesco e la sua: non so, se sul declinare della vita si guarisse da cotesta infermità, certo egli ebbe a patire di fieri disinganni; imperciocchè il medesimo giorno, forse la medesima ora nella quale sè predicava beatissimo, ed in felicità si metteva allato di Tiberio (in che potesse estimarsi avventuroso Tiberio io non saprei dire) i patrizi Piacentini dopo avere messo il figliuol suo alle coltella lo spenzolavano, miserando cadavere, fuori delle finestre della cittadella di Piacenza. Gli archivi di stato di Firenze contengono minuta la storia dei viluppi adoperati nei Conclavi, dacchè d›ora in poi si può dire, che i Medici fabbricassero i Papi. Da prima i voti si portano sul Cardinale Salviati a cui per nocere meglio finse porgere aiuto Cosimo I; poichè ebbe logorato il Salviati al Cardinale Ridolfi il Conclave si volse al Cardinale Polo, e riusciva se non gli apponeva il Cardinale Caraffa dubbio di fede non sana; allora si trastullarono col Burgos per trovare l›uomo sul quale accordarsi. «O perchè non fate me Papa? Disse celiando il Cardinale dal Monte. Io vi prometto, appena assunto Papa, creare Cardinale il garzone, che custodisce la mia scimmia e darvelo per collega.» Piacque la giocondità del Cardinale, e ci pensarono su; Cosimo lo ebbe caro perchè suo suddito come quello che aveva sortito il nascimento a Monte Sansavino; non garbava agli Spagnuoli temendolo parziale ai Francesi, ma anco qui pose sesto Cosimo, il quale condusse i Farnesi guadagnati col patto di favori ampissimi, e della restituzione di Parma al duca Ottavio, e non se ne poteva fare a meno, imperciocchè i Cardinali Farnesi disponessero di ben ventitrè voti: accomodate a questo modo le cose scese lo Spirito santo ed uscì eletto il Cardinale dal Monte, che tolse nome di Giulio III, in memoria di Giulio II che lo aveva creato camarlingo. Giammaria Giocchi, che tale si chiamava veramente Giulio III, mantenne Papa le promesse del Cardinale: innanzi tratto risegnò il suo cappello cardinalizio di santo Onofrio al ragazzo amato da lui e glielo mandò fino a Bagnaia di Viterbo. Invano i Cardinali si opposero alla strana elezione, e sopra gli altri il Caraffa che commosso da tanta indegnità (ed egli a suo tempo fece peggio) si astenne da intervenire in concistoro: a quanti esponeva ignota la nascita del garzone, troppo fresco di età, annoverando diciassette anni appena, veruna fama correre dei suoi meriti, piuttosto bocinarsi di sue capestrerie e non poche, il Papa piacevolmente rispondeva: «O voi quando mi avete eletto Papa quale merito avete trovato in me? Io davvero non lo so, pensate se voi!» Dissero, che il giovane nacque a Piacenza da gente povera, che lo abbandonava su la strada, ond›ei menò primi anni da zingano più che altro; il Cardinale dal Monte passando per certa via a Parma vide il garzone alle prese con una scimmia: pigliando piacere alla singolare giostra stette a mirarne l›esito, che fu la disfatta della scimmia senza troppo danno del ragazzo; allora se lo condusse in casa, e siccome il Cardinale assai si dilettava tenersi attorno strani o rari animali ei ne commise il governo ad Innocenzo. Aggiungono, che il ragazzo di giorno in giorno viepiù gli entrò in grazia, non senza taccia di turpe amore; per la quale cosa persuase il suo fratello Baldovino ad adottarselo per figliuolo, gli diè maestri di lettere, lo provvide del prevostato della Chiesa di Piacenza, se lo condusse a Trento, dove infermatosi per consiglio dei medici lo mandò a Verona a pigliare aria; e quando risanato annunziò al Cardinale il suo ritorno a Trento, questi sotto colore di recarsi a diporto fuori della città condusse seco ad incontrarlo una caterva di prelati quasi a testimonio delle stemperate carezze con le quali lo accolse. Il Papa poi a giustificare cotesta sua insania afferma amare il giovane perchè gli avessero presagito gli astrologhi, che alla buona ventura di lui andava legata la sua. — Migliori ricerche oggi ci certificano, che il Cardinale Giammaria impregnasse la moglie di un bombardiere della rocca di Forlì, che a suo tempo partoriva questo fanciullo,il quale dal padre vero derelitto, dal putativo dispettato fuggì di casa furfantando, e accattando per diverse ville finchè il caso non lo fece cascare nelle scuderie del padre Cardinale allora legato a Bologna, dove dopo diversi casi riconosciutolo gli pose soverchio affetto come troppo poco gliene aveva portato prima, a sè ed a lui nocendo con gli eccessi insensati. Certo questa notizia non lava la memoria di Giulio III, pure lo salva da maggiore infamia; e per un Papa ordinariamente la minore vergogna pare quasi lode. Di questo Cardinale chiamato, per ispreto, scimmia, avremo a ragionare più tardi. Tutti gli altri empì di prebende e di benefizi; nel dare quattrini poi questo Papa parve rovesciasse la cassetta, e ne scotesse il fondo; ma il guaio che mise da capo a soqquadro la cristianità fu la promessa di rendere Parma ai Farnesi; e questo attenne, anzi Cammillo Orsino nicchiando a consegnarla sotto colore, che ci aveva speso ventimila scudi di suo per difenderla, il Papa glieli mandò liberandosi dalla avara fedeltà di cotesto soldato, nè si fermò qui, chè si obbligò eziandio pagare ad Ottavio Farnese duemila ducati il mese perchè la difendesse. Ottavio poi non solo intendeva difendere Parma, ma sì anco ripigliare Piacenza, mentre Ferrante Gonzaga tornato ai suoi primi odi contro i Farnesi gl›insidiava il Parmigiano, e il Papa ormai di danari si trovava al verde. Ottavio andato a Roma per soccorso senti rispondersi che non solo doveva deporre la speranza di aiuti, ma renunziare alla pensione dei due mila scudi mensili; allora egli più volte chiese, e più volte il Papa gli concesse di legarsi con qual Principe più gli paresse spediente a sostenerlo incolume dagli assalti di Spagna. In quei tempi in fatti di leghe non vi era luogo a scelta, o con la Francia, o con l›Austria, dacché gli altri potentati o con questa o con quell›altra si azzoccassero: di fatti Ottavio si accosta a Enrico II, che lo accoglie a braccia quadre, e pone sopra lui il fondamento della prossima guerra; pigliò ai suoi stipendi il presidio di Parma, e i soldati francesi tornarono a rovesciarsi nel bel mezzo d›Italia. Il Papa accortosi di quel nuovo groppo di guerra o sia,che non desse intenzionalmente alle sue parole la estensione, che pure esse presero o non reputasse Ottavio capace di valersi della facoltà concedutagli, fatto sta, che saltò su i mazzi, e procedendo tutto pieno di stizza tacciava Ottavio di verme prosuntuoso: ed aggiuageva «nostra volontà è confidarci insieme con lo Imperatore ad una medesima nave: allo Imperatore spettano intelletto e potenza; — s’intimi Ottavio recarsi a Roma e subito; depona le armi costui; sè commetta intero alla balìa del socero augusto; se tentenna, guai! lo bandirà ribelle, lo assalirà con le armi spirituali e temporali.» Ottavio rispondeva gli torrebbero prima la pelle, che Parma, e il Papa aizzato dallo Imperatore, e dal nipote Giovambattista dal Monte giovane, che di sè sentendo altamente desiderava acquistarsi buon nome nella milizia rompe la guerra a Ottavio radunando impetuoso armi, e cavalli: cavatosi a un tratto dalla consueta indolenza egli agita adesso cielo e terra per opprimere il Farnese; spedisce tra gli Svizzeri perchè neghino soldati al re Enrico, poi scrive in Francia per dissuadere Enrico stesso da sovvenire il duca Ottavio profferendogli mari e monti se si fosse inchinato a compiacerlo; trovato il terreno duro il Papa monta in furore e grida che se il re non gli lascia stare Parma a lui basterà l’animo di levargli la Francia. I Consiglieri del Cristianissimo non si spaurivano del Papa a cotesti tempi, epperò in brevi accenti gli notificarono, quanto a Parma non voler sentirne parola, quanto al restante intimerebbero un Concilio nazionale in Francia, e lo intimarono, il Papa spaventato prega cessi il re ogni disegno di Concilio; rispetto a Parma, ogni litigio fra loro rimanga cireoscritto là dentro. Ma la contesa si dilatò oltre ogni giudizio umano e valse a mutare le condizioni della Germania, ed anco quelle d’Italia, ma in peggio. La guerra di Parma andò a precipizio, il Papa ci perse l’esercito, ci spese l’ultimo suo soldo, e per colmo di dolore gli ammazzarono il pro’ nepote Giovambattista mentre con la consueta prodezza combatteva fuori della Mirandola; i Francesi legati co’ protestanti di Germania compaiono sul Reno, l’elettore Maurizio di Sassonia nel Tirolo, Carlo postosi a cavaliere su i monti per contenere amedue è costretto a fuggire da Inspruch per non cascare in mano del nemico. Quando le faccende riescono per la peggio i soci litigano fra loro, ed è fatto antico, però tra il Papa, e lo Imperatore ricambiavansi i rimproveri, il primo perchè non gli pareva essere stato secondo le speranze o le promesse soccorso, il secondo perchè avendo assunto cotesta impresa pei conforti del Papa, questi avrebbe dovuto buttarcisi dentro a corpo perduto; ma lo screzio era comparso maggiore in materia di religione però, che Giulio avesse promesso riaprire il Concilio, ed anco questo era stato da lui attenuto; tuttavia in breve si accorse come i vescovi spagnuoli mirassero a scemargli l’autorità più rigidamente, che i deputati tedeschi, imperciocchè da un lato essi presumessero rendersi schiavi i capitoli, e dall’altro torre al Papa la collazione dei benefizi, dal che questi com’è naturale aborriva; onde scrivendo al Cardinale Crescenzio esclamava: «non sarà vero, non comporteremo mai, prima lasseremo ruinare il mondo.» Mosso dalle quali considerazioni prese a favorire i protestanti anzi tirarseli a sè con doni, e con pecunia; l’autorità di Cesare per le battiture della fortuna scemando crebbe la baldanza nei germanici; di qui risse, ed oltraggi ai prelati massime spagnuoli, che male sopportando il presente, troppo più temevano pel futuro; onde non parve vero a tutti tornarsene a casa; molto più, che il Concilio non si scioglieva, bensì si prorogava: termini medi dentro i quali si adagiano beatamente le anime codarde. A Giulio non parve vero uscire dal pelago per immergersi nella naturale indolenza; si chiuse nei diletti della vita, non però volgari, chè temperato ei fu, e cultore dei buoni studi, e delle belle arti; attese a fare stato ai suoi: la duchea di Camerino rapita alla Varana concesse a Baldovino, non in signoria assoluta, ma in feudo; modo che in fine di conto torna ad alienazione sovversiva (secondo le moderne dottrine della curia romana) la Chiesa di Cristo. Marcello Cervini, che sotto nome di Marcello II subentra a Giulio nella cattedra di San Pietro passa come ombra; lo celebrano buono; forse ei non deve questa reputazione se non al tempo breve, che soggiornò sopra la terra. Già toccammo di Giovampietro Caraffa, uomo torbido, sempre in contrasto seco stesso o con altrui; renunziò vescovato ed arcivescovato per fondare l›ordine dei Teatini, ma si lasciò eleggere cardinale; contava ben settantanove anni quando lo promossero Papa; parte dei costumi di lui, anzi anco dei detti gli scrittori attribuiscono a Sisto V, però che fosse egli il quale gittata di un tratto la lunga ipocrisia appena vestito il gran manto, interrogato quale desiderava avesse ad essere il suo trattamento e la mensa, rispose: da principe grande; indole impastata di odio senza pure un pugillo di amore; si vantava non avere mai compiaciuto persona di cosa che gli fosse richiesta; bastava, che taluno lo supplicasse di qualche favore perchè subito sorgesse in lui la repugnanza invincibile di concedergliela. Nello intento di sostenere le forze rifinite cibava vivande di molta sostanza e beveva vini gagliardi, massime una maniera di vino grosso napolitano chiamato, mangiaguerra, capace da rompere le pietre, pareva, argomentando sulla passata vita, si sarebbe consacrato tutto alla religione, e invece s’intricò in guerre pericolose; ancora, presagivano la fede avrebbe conseguito per lui notabile avanzamento, ed all’opposto le nocque quanto il più tristo o il più inetto dei Papi. Nei primordi del pontificato giurò alcuni patti, che spergiurò, e a cui gliene mosse lamento fece una bravata da mettere addosso il ribrezzo della febbre quartana; spedì monaci di Montecassino in Ispagna a curare la disciplina dei conventi; ad ogni patto esaltò alla porpora il nipote Carlo Caraffa soldato; in costui non una virtù, bensì un vizio il quale nella estimativa del Papa non solo teneva luogo di tutte le virtù ma le superava, ed era l’odio rabbioso contro Carlo V e la sua potenza per cause o lievi o poco onorevoli; le quali furono avergli tolto un prigione senza riscatto, ed impedito il possesso di una prioria di Malta. Egli aveva tuffato le braccia fino al gomito nel sangue umano, e non lo ignorava il Papa, ma avendone fatta la confessione e la penitenza secondo la estimativa pontificia ridivenuto candido come colomba: se questo poi credesse o no Paolo nella intima coscienza ignoro, ma certo agevolmente aggiustiamo fede a quanto a noi piace, che sia. Poco dopo con manifesta tragressione ai patti giurati. Paolo bandiva Cardinale Alfonso figlio del Conte di Montebello garzone di solo diciasette anni. La storia ricorda avere questo vecchio concepito profondissimo odio contro gli Spagnuoli, il quale era come ereditario nella famiglia di lui, che nei ricordi del regno di Napoli vediamo sempre disposta a seguire le parti di Francia, e a pigliare le armi contro gli Spagnuoli; essendo egli cardinale consigliò Paolo III a impadronirsi di Napoli: non rifiniva mai di levare a cielo la Italia, quando principi nati o naturati in lei la governavano, paragonandola ad una cetra di quattro corde mirabilmente armoniate fra loro Napoli, Milano, Venezia e Chiesa; nè di maledire le perdute anime di Alfonso di Arragona, e di Ludovico il Moro, che ci avevano chiamato gli stranieri per sostenere le scambievoli querele. Seduto a mensa quando gli lavorava dentro il vino mangiaguerra buttava fuoco e fiamme vituperando gli Spagnuoli di dannati, razza di mori e di giudei, feccia del mondo; e via di seguito; sè millantava destinato a sbrattare la Italia da cotesta pestifera genia. Cause all’odio suo molte; talune private, ma potentissime tutte; private erano, averlo lo Imperatore escluso dal consiglio di amministrazione del regno di Napoli, molestarlo nel possesso dei suoi benefici, vituperarlo con parole, scapestrate in tutti, ma nello Imperatore indegnissime cause pubbliche, la persuasione che Carlo talora avesse favorito la causa degli eretici, e i tentativi di lui per farsi dichiarare da Paolo III suo successore nel papato; i quali intenti comecchè paiano adesso strani non furono nuovi, chè anco Massimiliano suo avo ci si provò, e quando Carlo li ripropose non se li vide mica scartare come enormità, leggendosi nei dispacci del Mendoza come essendosi aperto in proposito col Cardinale Gambara, questi lo accettò averne scritto al Papa, che rispondendo disse non trovarci niente di male; e senz altro lo uccellò: per ultimo, la conoscenza forse, che Paolo ebbe come Carlo non riuscendo nello intento di farsi eleggere Papa disegnava torgli il potere temporale, e di ciò porge testimonianza il suo testamento pubblicato in Ispagna ai giorni nostri dove occorrono questi notabili precetti al suo figliuolo Filippo. «Art. 5.» «Dopo avere ridotto tutti i principi in condizione di semplici governatori bisognerà torre al Papa ogni dominio temporale, oltre la città di Roma... si avranno poi a chiamare persone dotte, affinchè per via di concioni e di scritture insegnino ai popoli essere improntitudini pontificie le scomuniche ai principi per negozi puramente temporali, nè Cristo avere trasmesso mai siffatte facoltà alla Chiesa.» «Art. 6.» «Spogliato il Papa di ogni suo possesso, fie mestieri professargli reverenza profondissima per quanto concerna la sua autorità spirituale e tenerlo a Roma, come già fu in Avignone, subietto ai principi regnanti.» Ed altra volta avvertimmo come Carlo, tenendo prigioniero Clemente VII, pure ordinava in tutte le cattedrali dei suoi vasti stati si esponesse il Sacramento per la liberazione di lui; leggesi altresì, che dopo morte, stessero a un pelo per processarlo come eretico, e s›egli ne uscì illeso si riversarono le ire sacerdotali sopra il suo teologo e predicatore arcivescovo di Toledo Carranza. Però non si creda mica che Carlo non fosse devoto, anzi bigotto, ma l›autorità papale egli voleva sottoposta a sè in sostegno della sua tirannide, mentre il Papa disegnava usarla per mettersi sopra di lui; le inimicizie loro gara di dispotismo. Il Papa si lega con la Francia contro la Spagna, dove Carlo continua a vivere non da Imperatore, ma da frate; indi a breve la Francia voltabile fa tregua con la Spagna; il Papa indracato di guerra manda a Parigi il Cardinale Caraffa per rompere la tregua; ma i Francesi stando sul niego, per isgararla, prima da Napoli poi sbracia Milano; di Napoli consente si componga un regno per un figlio del re Enrico II, di Milano per un›altro: la nostra Caterina dei Medici era stata tanto feconda, che bisognava pure pensare di ammannire una pastura di popoli ai regali appetiti; ancora, vediamo, che cosa intendono i Papi per restituire libertà alla Italia; trarre dall›asse chiodo con chiodo, agli Spagnuoli sosituire Francesi; lo sfogo delle vendette sacerdotali appellano cura, e utilità della Patria. In questa guerra, Paolo IV, modello quasi perfetto del romano pontefice, strinse alleanza con Soliman; così per vendicarsi di Carlo reo di avere favorito i Luterani, e non era vero, egli si acconta co› Turchi; e fa anco peggio, perchè conosciuto come l›oratore di Filippo Garcilasso della Vega di tutti questi tramestii ragguagliasse il suo signore, e non faceva altro che adempire il proprio dovere, lo caccia in prigione, in prigione altresì il Taxis, direttore delle poste spagnuole per avere spedito i dispacci, e per di più lo tortura; l›oratore imperiale Saria, il quale commosso da tante enormezze si affretta a moverne lamento col Papa, dopo averlo fatto aspettare per più di un›ora alla porta, appena è intromesso. Parmi utile che gl›Italiani conoscano (essendo cose ormai poco note o affatto dimenticate) come Filippo II, uomo piuttosto furibondo di religione cattolica, che cattolico, riunito un congresso di teologici di Salamanca, di Alcalà, e di Vagliadolid, non che dei più illustri giurisperiti spagnuoli, innanzi di rompere la guerra al Papa, volle lo chiarissero intorno ai seguenti quesiti i quali di unanime accordo furono risoluti in pro della prerogativa regia: «in caso di guerra difensiva contro il Papa possono sequestrarsi le rendite dei beni di coloro che spagnuoli o no li posseggono in Ispagna, quante volte rifiutino obbedienza al sovrano del pari, e nel medesimo caso possono sequestrarsi le entrate dei benefizi ecclesiastici, e vietare ogni spedizione di pecunia a Roma: o che sarebbe peccato convocare un Concilio per esaminare un po› se Papa Paolo sia stato canonicamente eletto? E non importerebbe alla incolumità della Chiesa instituire una inchiesta sopra gli enormi abusi della curia romana, ed avvertire alquanto, senza lasciarsi scarrucolare dai preti, di metterci sesto davvero? Per altra parte il duca di Alba vicerè di Napoli (e imparino i ministri del nostro regno italiano come, ora fanno tre secoli, uomini salutati campioni del cattolicismo costumassero con Roma) inviava al Papa lettere ortatorie perchè smettesse ogni disegno di guerra, e il Papa rispondeva cacciando il messo in prigione, e taluni aggiungono mettendolo al tormento; al tempo stesso avendo ammannito armi ed esercito il vicerè faceva alle pontificie capestrerie tenere dietro il castigo: occupa le terre della Chiese, e da per tutto appicca i cedoloni con le armi del sacro collegio, annunziatori, renderebbe le terre al nuovo Papa eletto legittimamente, industriandosi di porre in iscrezio Papa e Cardinali. Cadde Anagni dopo piccola resistenza, e andò a sacco; la subita resa preservò Tivoli; a Roma desolazione e paura; solo il Papa imperturbato; allora gli gettarono a palate lodi di costanza; a noi adesso sembra, qual›era, vecchio stupidamente incaponito: all›oratore Veneziano, che gli metteva parole di pace rispose: uscissero gli Spagnuoli di su quello della Chiesa; poi avviserebbe; certi gentiluomini francesi presi in sospetto di negoziare tregua col duca di Alba minacciò del capo, e alla minaccia aggiunse il sacramento di Dio e dei suoi santi; ma siccome co› giuramenti, e con le minacce non si sostengono guerre, così Paolo si sbracciò ad abborracciare un›esercito non badando, per formarlo, più allo storto, che al diritto, e però come prima si era amicato col Turco, adesso pigliava al soldo della Chiesa Tedeschi luterani; perseguitava di odio immortale (egli almeno afferma così) Carlo V perchè non procedeva modo suo feroce con gli eretici, ed egli se li pigliava a difensori; se lo Imperatore, o il Re gli avessero pur tocco un po› di calugine s›inalberava sbuffando, gli eretici condotti dal Papa sberteggiavano lui, la fede, e i riti cattolici, ed egli, purchè la sua sterminata superbia rimanesse soddisfatta, sopportava in pace. Ponete mente, che di qui scappa fuori una grande lezione; questo Papa, reputato atleta della fede cattolica, guerreggia popoli cattolici con armi luterane e turchesche. Ma ogni difesa cedendo alla fortuna spagnuola, espugnata Ostia, sconfitto lo esercito, invano facendosi dal Cardinale Caraffa prove di egregio valore, il Papa ebbe a piegare la cervice arrogante, e chiedere tregua. Egli vi si condusse nella speranza d prossima vendetta ragguagliato com’era dei Francesi accorrenti alla riscossa; non la dissentì il Duca di Alba perchè prudentissimo, e perchè anch’egli avesse rilevato di fiere battiture, massime allo assalto di Ostia, onde rimase conchiusa per 40 giorni: questa nuova giunse a Carlo mentre s’incamminava al romitorio di San Giusto, e gl’increbbe così, che con parole acerbe censurò la tregua come quella che concedeva tempo ai Francesi di soccorrere Roma; questo piissimo Imperatore mentre stava per entrare in convento moriva di voglia di mandare a sacco una seconda volta la sede della Chiesa cattolica; anzi ci si trovò presente a coteste sue querele arroge, com’egli borbottasse fra i denti altre parole irate, che non si poterono capire. I Francesi arrivarono di corsa condotti dal duca di Guisa, le terre della Chiesa occupate dagli Spagnuoli furono riprese in un batter di occhio; il Papa non capiva in sè dalla contentezza, di benedizioni e di promesse dispensò un diluvio, ma quando il Guisa fu sul punto di entrare su quel di Napoli il duca di Montebello nipote del Papa gli condusse pochi fanti di aiuto: presero Campli e col vessillo della Chiesa ci furono commessi fati, che i Turchi non avrieno potuto peggiori; famoso va per le storie l’assedio di Civitella dove si ruppero le forze francesi e del Papa davanti la resistenza disperata dei cittadini, massime delle donne. Certa cosa ella è che se i soli soldati avessero condotto le difese, i Francesi vincevano: ma a sbaldanzire la burbanzosa prosunzione dei soldati gesti antichi di popolo non bastano, nè anco i moderni; le forze del popolo sempre durante il pericolo s’implorano, passato il pericolo si dispettano sempre. Questa lega incominciata con le benedizioni finì con lo scaraventare, che fece il Guisa un piatto nel capo al duca di Montebello; sopraggiunsero acquazzoni a guastare le opere francesi, sicchè il Guisa stizzito ebbe a dire: «anco Dio è diventato Spagnuolo!» Il duca di Alba campeggiando ributtò il nemico fuori del regno; non mancarono in cotesti tempi censori, i quali lo ripresero per non avere assalito i Francesi nella ritirata, principalmente al passo del Tronto, ma egli rispondeva: le fortune della guerra mutabili; suo intento sbrattare il regno dai Francesi, e questo avere conseguito; non doversi mai cercare miglior pane, che di grano, nè egli volere giocarsi Napoli con la casacca di broccato del duca di Guisa. Però non istette guari che gli assalitori diventarono assaliti: Segni pagò per Campli; francesi o spagnuoli espugnando bene saccheggiavano, stupravano, uccidevano, gli uccisi, e i rubati italiani. Il duca di Alba all’improvviso di Fabio si tramuta in Marcello, e con audacissima mossa si avventura a sorprendere notte tempo Roma; nè gli andava fallito il disegno se considerando uno irrequieto agitarsi di torce, e certi cavalli proprompere fuori delle porte non avesse temuto, che Romani avvertiti del pericolo mandassero pei soccorsi al Guisa accampato a Tivoli; per la quale cosa il duca di Alba non volendo essere tolto in mezzo a due fuochi rifece i passi. Gli storici affermano che il duca di Alba non si apponesse al vero, imperciocchè il Caraffa perlustrasse la città non per avviso speciale, ma sì per abito di militare diligenza; e i cavalleggieri fossero usciti con tutt’altra intenzione, che quella di chiamare i Francesi. L’oratore di Venezia Bernardo Navagero afferma intendimento del duca di Alba essere stato sol quello d›impadronirsi della persona del Papa e così troncare di un colpo la guerra tuttavia bene nota il Prescott nella vita di Filippo II è difficile credere, ch›egli avesse potuto, entrato ch›ei fosse, contenere quella, che il nostro Niccolini definisce: «Avara crudeltà di Catalogna.» E volente, o no si sarieno rinnovati i recenti orrori del contestabile di Borbone, ed i più antichi dei Goti; e a questo modo la pensa anco il Campana, il quale dichiara quanto allo assalto notturno degli Spagnuoli il cardinale Caraffa averne avuto odore dal segretario Placidi, e quanto al sacco essere cosa ormai stabilita fra i Tedeschi che si trovavano col duca di Ala. I Romani commossi dal pericolo con vivissime istanza, che facevano sentire la violenza, chiesero al Papa smettesse la guerra; ma questo vecchio indracato li chiamò vili, ribaldi, degeneri da quegli antichi Romani, che innanzi di sottomettersi ai Goti elessero morire di fame, ma a fiaccargli l’orgoglio giunsero a un punto la nuova della sconfitta dei Francesi a San Quintino, e il richiamo del Guisa, il quale si mostrava tanto di cotesta impresa ristucco, che a cui non voleva saperlo andava dicendo: «nè manco con le catene lo avrieno tenuto in Italia.» Il Giusa pertanto in compagnia dello Strozzi fu dal Papa, ed espostagli la condizione delle cose lo confortò alla pace: narrasi, che udite le costui parole con mal piglio il Papa dicesse al Giusa: «Andate via, e con voi rimanga il convincimento di avere operato poco in pro’ del vostro re, meno per la Chiesa, niente per l’onor vostro.» La pace sforzata in virtù di questi casi venne conclusa, non però senza contrasti attese le esorbitanze del Papa, che per primo patto volle andasse il duca di Alba a chiedergli perdono a nome del suo re, e a quante rimostranze gli movevano per procedere più temperato rispondeva: «caschi il mondo, io non ci renunzio, non mica per me, sibbene per l’onore di Gesù Cristo!» Come s’egli fosse Cristo, e a Cristo premessero onori siffatti; il duca che fumava di superbia non meno di Paolo stava duro a respingere il patto, ma venutogli dal re ordine espresso di accettare, piegava la testa: si recò a Roma, si genuflesse al Papa, gli baciò il piede; tuttavia levatosi ebbe a dire «hoggi il mio re ha fatto una grande sciocchezza, e se io fossi stato in suo luogo, et egli nel mio il Cardinale Caraffa sarebbe andato in Fiandra a fare quelle stesse sommissioni a Sua Maestà, che io vengo hora di fare a Sua Santità.» Dopo la pace le faccende dei contendenti rimasero come prima della guerra, meno le ruine dei popoli, che non si contano. Il duca di Alba quando repugnava a chiedere perdono al Papa aveva torto; più arguto di lui Filippo pensò, che il perdono implorato dal vincitore al vinto insomma è giunta di strazio al danno; comecchè in ginocchioni egli rinfacciava al Papa le sue scomuniche ormai incapaci ad ardere non che altro i pagliai, ed averlo avuto nelle mani per istritolarlo a suo agio: proteggerebbe l’autorità religiosa del Papa, a patto, che gliela noleggiasse per rinforzare l’autorità sua di sovrano crudamente dispotico. Paolo IV ebbe a salutare Filippo amico, e figliuol prodigo, ma sottovoce mormorava: «amico sì, che mi tenne assediato, e cercò l’anima mia» al vescovo di Angulemme confidava sommesso: «il vostro re non degenere dai suoi pii predecessori sarebbe campione vero della Chiesa, e se potesse farsi eleggere imperatore, beati noi! La razza austriaca fu nemica sempre del Papato e di Roma.» Tuttavia egli poteva mordere non rompere il freno; allora lo impeto disordinato di lui si avventò come fiamma ad altri obietti; già vedemmo, com’egli avversasse fieramente da cardinale ogni maniera di nepotismo e come creato Papa vi si lasciasse ire peggio di ogni altro che le storie ricordino; rapite le castella ai Colonna, Palliano concesse in feudo a Giovanni Caraffa, Montebello, che fu dei conti Guidi, all’altro nipote Antonio; Alfonso figliuolo di questo promosse diciannovenne al cardinalato, ed ebbe nome di cardinale di Napoli; non ci fu grazia, o favore, che sopra questi nipoti non profondesse; tuttavia mirabile, e pure vero a dirsi quello, che in altrui opera amore, in questo Papa fece l’odio; cessato simile vincolo i nipoti gli vennero in uggia, poi detestò; ed essi cui pareva piccolo parentado per loro quello del duca di Ferrara, e povero acquisto lo stato di Siena: essi di cui le donne ormai non contente di berrette gemmate dicevano di ora in poi ai loro figli far di mestieri corone di un tratto furono rovesciati nella polvere: vizi possedevano in copia (nè lo ignorava il Papa) i quali però non misero ostacolo all’avanzamento loro; solo si ricordò della costoro malvagità quando non li potè più adoperare strumenti d’ira contro gli Spagnuoli: e siccome nello ardore di promovere gl’interessi spirituali della Chiesa, non potendo più i temporali, li reputò ostacolo prese a perseguitarli eccessivo ed iracondo poco meno, che gli Spagnuoli. Causa o pretesto al prorompere del Papa una rissa notturna, per via di certa cortigiana chiamata Martuccia, nella quale il cardinale Montino, parzialissimo dei Caraffa, tratta fuori la spada fe’ prove da Sacripante. Essendo stato ragguagliato il Papa di simile disordine attese, che il nipote cardinale Don Carlo gliene parlasse, e poichè conobbe a prova com’ei glielo volesse tacere, un bel di al cospetto dei cortigiani gliene fece una bravata solenne; di qui i cortigiani fiutarono il vento che soffiava, onde il Gianfigliazzi oratore fiorentino nemico mortale dei Caraffa trovòmodo di penetrare nelle stanze del Papa e concitarlo contro il suo sangue; una mala femmina, che Dio faccia trista, la marchesa della Valle (perchè se iniqui erano i Caraffa una donna del parentado loro non gli aveva a precipitare), costei tanto assottigliò il cervello, che giunse a far mettere dentro il breviario del Papa una nota dei principali delitti attribuiti ai suoi nepoti, la quale conchiudeva con le parole: «e se più vuol saperne la rimandi con la sua segnatura.» Il Papa segnò, e ne seppe un subbisso di cui un terzo forse vero, l’altro aggiunto dalla malignità; se sbuffasse fuoco e fiamma non è da dire: come Augusto, si narra, errasse un dì smemorato per la reggia esclamando: «le mie legioni rendimi Varo» così Paolo correndo pel Vaticano urlava: riforma! riforma! Ma il cardinale Pacheco di un tratto gli disse in faccia: «Santo Padre, prima di ogni altra cosa bisogna incominciare la riforma da noi.» Queste parole furono come zolfo sul fuoco, Paolo diede in ismania, non mangiò, nè dormì, lo prese la febbre; per dieci giorni durò infermo; seco la più parte del giorno stava ridotto don Geremia teatino, che aveva voce di santo, ed era fanatico; finalmente convoca il sacro collego, dove dopo querimonie infinite dichiara decaduti i suoi nepoti da ogni ufficio, e li confina con le famiglie loro a Civita Lavinia, a Gallese, e a Montebello; la madre loro, vecchia di settanta anni, che gli s›inginocchia davanti implorando mercede duramente ributta; la nipote moglie del marchese di Montebello la quale arriva in quel punto a Roma trova il suo palazzo chiuso; nessuno locandiere per paura del pontificio sdegno ardisce albergarla; si ricovera in rimota e povera osteria dove il rumore di cotesta catastrofe non era anco giunto; il cardinale Caraffa si offre costituirsi prigione per iscolparsi, ma il Papa ordina agli Svizzeri caccino via lui, e tutti i clienti e servitori suoi dalla condanna universale eccettuò solo il giovane cardinale di Napoli per tenerlo seco a recitare l›uffizio. Ciò fatto, siccome al bisogno di esercitare furiosamente la sua irrequieta natura si aggiunse l›altro di divertire la nuova angustia nella moltiplicata agitazione muta tutti gli ufficiali nel governo temporale con modi, che dirò convulsionari: a mo› di esempio, manda a Perugia nuovo governatore, il quale arriva notte tempo, e convocato su l›alba il Consiglio municipale mostra la sua spedizione, e poi senza cerimonie imprigiona, lega, e manda a Roma il governatore, che si trovava lì a presiedere il Consiglio; il governo da cima a fondo sconvolto, tasse diminuite, l›erario restaurato; le chiese sottomette a più rigida disciplina, gli accatti alla messa proibiti; i quadri scandolosi negli oratori soppressi; frati sfratati fuori; il digiuno quaresimale, e il precetto della pasqua severissimamente imposti: di nuziali dispense non volle più saperne; insomma da per tutto l›aventatezza del boscajolo, che atterra piante a colpi di scure, non senno non pacata tranquillità del riformatore. Di questo ha da rendergli grazie la civiltà, che per lui si rinnovasse e quasi si ricreasse la Inquisizione; ogni suo affetto in lei: sovente mancò ai concistori, e alla segnatura, non mai al Santo Uffizio; egli presiedeva sempre; ne ampliò la giurisdizione sottomettendole nuovi delitti, e le concesse la facoltà di provare gli accusati con la tortura; a persone non ebbe riguardo; potenti baroni, e magnati in prigione; in prigione i cardinali Morone, e Focherari ai quali pure dianzi aveva commesso il carico di esaminare gli Esercizi Spirituali d’Ignazio da Loyola, dubitando putissero di eresia. Di qui apprendi che razza di Papa avesse ad essere costui a cui pareva eterodosso Santo Ignazio! Naturale pertanto che facesse sua delizia San Domenico Gusman, di esecrata memoria; di fatti, in onoranza di costui instituiva festa solenne. Finalmente piacque alla morte liberare la terra da cotesto flagello; parve volesse ribellarsi alla natura, e prossimo a tirare l’ultimo fiato assurse dal letto, ma ricadde, e nello sforzo spirò: appena morto il popolo, in parte raccoltosi in Campidoglio, decretava tutti i suoi monumenti si demolissero perchè immeritevole della città, e di Roma,e del Mondo, in parte saccheggiò ed arse il palazzo del Santo Uffizio; ne manomise i ministri; a stento potè svolgersi da mandare in fiamma tutti i Conventi dei Domenicani; nè il popolo solo, bensì anco i baroni pigliavano parte a cotesti eccessi; le statue del Papa furono atterrate, e infrante, le teste loro col triregno strascinate a dileggio dalle bardasse per la mota. Se questo Papa fosse o no santo ignoro davvero: di certo so, ch’egli era imbecille, testardo, e malvagio, e la Chiesa sotto il suo pontificato si trovò ridotta a tale, che peggio non si può dire. Nella Germania, opponendosi egli, per odio contro la casa di Austria, alla trasmissione della corona imperiale a Ferdinando I, il protestantismo per connivenza, e per favore di lui si dilata nella massima parte delle città; la Polonia, e la Ungheria bollono; Ginevra diventata Roma dei calvinisti, con lei gareggia nel primato di eresia Wittemberga; la Scandinavia tutta repudia il cattolicesimo; in Francia e nei Paesi Bassi non solo, ma nella Spagna, e nella Italia altresì formicolano le nuove dottrine: la Brettagna andò perduta, e la poteva salvare, se meno impronto, e meno tracotato avesse proceduto con la regina Elisabetta, però, che innanzi di accettare qualunque proposta di accordo impose tutti i beni chiesastici fossero restituiti, il danaro di San Pietro da capo come ai tempi di Gregorio VII si collettasse; la regina per quello che spetta i suoi diritti al giudizio di Roma si sottoponesse; e poichè gli parve, che Reginaldo Polo non camminasse di buone gambe, gli tolse la legazione della Inghilterra, che da cotesta ora in poi ama il papato come il fumo agli occhi; tenne ferme Spagna ed Italia perchè accanto alla croce rizzò su la forca. Ora vediamo succedergli Pio IV a industriarsi di ottenere i medesimi intenti con partiti contrari; il papato in sua movenza fermo con tutti i venti gira le vele al suo mulino; ei fu dei Medici di Milano, di linguaggio piuttosto misero, che povero; andò debitore di ogni sua fortuna al fratello Giangiacomo il quale incominciava col fare il sicario: costui ammazzò per prezzo ai Visconti, che poi lo mandarono al castello di Musso sopra il lago di Como con lettere al Governatore perchè lo spegnesse; sennochè egli accortosi della ragia tolti seco alcuni compagni, entra in castello, e l’occupa: presolo con arte, lo difese con virtù, finchè compostosi con Cesare piglia croce bianca, e si converte imperiale; fu generale di artiglieria in Germania, e capitano supremo nella impresa di Siena: ebbe fama meritamente di spietato, e di avaro; quanti gli capitavano contadini portatori di vettovaglie a Siena tanti impiccò, ovvero di sua mano col bastone ferrato ne stritolò le ossa. Giovannangiolo comecchè sovvenuto a spilluzzico dal fratello diede opera agli studi della giurisprudenza nei quali riuscì prestantissimo; poi acquistò un protonotariato vivacchiando finchè i Farnesi giudicando proficuo tirare da la loro il marchese Giangiacomo gli proposero le nozze di una Orsina loro congiunta, ed ei le accettò, ponendo tra gli altri patti che il fratel suo promovessero cardinale, il che fu eseguito: con Paolo IV non ebbe buon sangue mai; stette, finchè costui visse, lontano da Roma, a Pisa, o a Milano, vivendo alla grande, facile donatore del suo, pietoso a sovvenire le pubbliche necessità. Ecco in che cosa procedè diverso da Paolo, e in che conforme con lui, e con quanti prima e dopo vissero Papi: diverso in questo, che non gli parve più tempo di contendere co’ principi; disperate le faccende di Roma se le due tirannidi sacerdotale e principesca non si accordavano; conforme in questo altro, che gl’interessi della curia romana, e della propria famiglia con ogni diligenza dovevano confermarsi ed ampliarsi. La Inquisizione lasciò intatta nulla ammaestrato dalla ira popolare la quale si avventa terribile, ma rompe poi pari a maroso dentro gli scogli: contro la famiglia del suo predecessore procedè senza pietà; certo, delitti avevano commessi i Caraffa; ultimo la strage ordinata dal conte di Montorio della moglie Garlonia ed eseguita dal conte di Alife suo cognato, e da Lionardo di Cardine; intorno ad essi Pio IV conferendo coll’Amulio oratore veneziano tale favellò; «siamo stati sforzati a metterli in castello per dovere nostro e per grandi cause; costoro hanno fatto un processo falso accusando Carlo V imperatore, ed il re Filippo che volessero attossicare il Papa, e avessero mandato veleno per metterlo dentro ad una cisterna; il che non è vero niente, e tutto è falso; fecero impiccare tre proveri uomini per la verità manifestata per detto loro, e per altro ch’è in processo: e con questo persuasero quel vecchio a fare la guerra, e tanto male quanto n’è seguito dopo; e non è da credere, che lo imperatore ed il re avessero pensato a questa cosa. — Paolo voleva maledire e privare delli regni re Filippo, e l’averia fatto, vinto da questo sdegno, se non fosse stato consigliato altrimenti, ed egli lo consigliò in queste ed in altre, che contro il Caraffa si vanno udendo ogni dì querele delle più brutte cose del mondo. Sapete quello, che fece in Venezia la settimana santa? Ha fatto fare tanti omicidi per danari, tanti stupri, tante violenze, e per quella povera giovane di Mazzarini, che si godeva, fece ammazzare quel povero giovane; e tante tirannie ha usate, che non si ppoteva più sopportare. Il cardinale di Napoli ha rubato nella morte di papa Paolo più di 100,000 seudi, e le gioie, e le scritture, e nell’amministrazione ha menato le mani; si è fatto fare una donazione falsa e bolle false per dare benefizi, e cose simili. Il duca di Palliano oltre tante violenze espresse ed iniquità... complice, e consapevole di tante scelleratezze ha poi ammazzato... un suo nipote, e la moglie con un figliuolo in corpo, ed altre cose da non potere sopportare.» Ora ad escusazione del duca di Palliano io non dirò, che la moglie sua avesse adulterato con Marcello Capece, e nè manco, che di cotesta maniera vendette assai comunemente a quei tempi costumasse; noto solo che di bene altre più grosse ne aveva perdonato Roma, e non pure fatte, ma ed anco da farsi. Noto altresì, e meco l’Adriani, che il Papa ardeva arricchire i suoi nipoti Borromei con le spoglie dei Caraffa, e voltare a loro le pensioni, che questi godevano per la parte di Spagna; aggiungo, che Filippo Secondo covava odio antico contro i Caraffa, e l’odio suo spengeva lento come il veleno, o subito come il pugnale, ma inevitabile sempre. Le accuse dette dal Papa all’Amulio bugiarde per la massima parte e il Nores lo fa toccare con mano, il fiscale Pallantieri nemico, ed offeso per lunga prigionia sostenuta sotto il pontificato di Paolo IV, e cessata solo alla esaltazione di Pio IV; la sentenza scritta di mano del Papa da aprirsi solo il giorno seguente, che fu poi quello della morte del cardinale Caraffa, e del duca di Palliano. Il cardinale con oscena ressa tre volte fu sollecitato a compire la confessione, e le orazioni: rotta la corda onde lo strangolarono supplirono con uno asciugatoio; un quarto di ora e più impiegarano a torgli la vita; morto, rubategli le vesti, lo lasciarono ignudo; meno dura fine fece il duca di Palliano, a cui mozzarono il capo; degli altri supplizi taccio. Questo però importa sapere, che Pio V, dalla Chiesa venerato il Santo, rigidissimo uomo più tardi volle rivedere il processo da sè, e dopo lungamente considerata la cosa revoca la sentenza, restituisce in onoranza la memoria della famiglia Caraffa, il fiscale Pallantieri manda al patibolo: dunque o in Pio IV o in Pio V lo spirito santo non ci ha che fare; colpa ne fu la nuova viltà del Papa smanioso di tenersi bene edificata la Spagna; il Muratori sacerdote piissimo scrivendo di cotesta tragedia afferma: «in cotesti tempi la gente accorta ben si avvide che non dal genio clemente di papa Pio era proceduta sì rigorosa giustizia contro i Caraffeschi, ma si bene dai segreti, e gagliardi impulsi della Corte di Spagna a cui per vari riguardi era molto tenuto lo stesso Pontefice.» E perchè non si creda, che Pio V a questo modo operasse per bizza, ma sì all’opposto per giustizia, avendo veduto, che il cardinale Montino per pene gravi ma non estreme impostegli da Pio IV non si correggeva, senza un rispetto umano lo mandò addirittura in galera. A me non è concesso entrare in altri particolari, ma chi avesse vaghezza di sapere più oltre di questa tragedia può vederla nella storia del Nores. Questo Papa riaperse, e chiuse il Concilio di Trento; e come non fu prudente riaprirlo, così non giovò, anzi nocque alla Chiesa chiuderlo nella maniera di che favelleremo. Agl’istituti fradici i rimedi pregiudicano tanto più quanto si sperimentano gagliardi, massime le concioni, e le dispute; il silenzio del dispotismo li mantiene meglio. In seno del Concilio più, che a conferenza teologiche attendevasi ad alternare vituperi, e percosse: sangue corsero le strade, di sangue andarono perfino pollute le chiese; ormai si temeva inevitabile la ruina della Chiesa; il cardinale di Carpi supplicava Dio lo chiamasse a sè per non vedere questo giorno di lutto; i cardinali meglio avvisati stavano chiusi nello sgomento. Francesi, Spagnuoli, Tedeschi, ognuno per parte sua infieriva nella opera di demolizione; Ferdinando imperatore proponeva il Papa si umiliasse come Cristo, ed attendesse a riformarsi sul serio rispetto a sè, alla sua corte, ed allo stato. Il Concilio provveda a migliorare i Cardinali e il conclave, imperciocchè come possa pretendersi che da Cardinali pessimi esca Papa buono, davvero non si comprende; i decreti si ammanniscano dai deputati della varie nazioni; di più, lo imperatore domandava il matrimonio dei preti e la comunione sotto le due specie; si fondassero scuole pei poveri, si depurassero i breviari, le leggende, e le vite dei santi; le orazioni nello idioma nativo ogni popolo recitasse; si mettessero a partito i Conventi, a fine che le male possedute ricchezze a scopi empi non si spendessero; con altre più cose per le quali da cima in fondo la Chiesa sarebbe stata trasformata. Gli Spagnuoli aborrivano dal calice pei laici, dai connubi legittimi pei preti; instavano poi perchè la residenza dei vescovi nelle diocesi si dichiarasse di diritto divino, non già di umano instituto, e questo per sottrarre così di straforo l’autorità vescovile dal potere del Papa. I Francesi in parte aderivano ai Tedeschi, in parte no, ma Tedeschi, Spagnuoli, e Francesi si accordavano in certi punti contrari a Roma; primo fra tutti odioso, la pretensione arrogatasi dal Papa di volere egli solo, esclusi gli altri, proporre le cause da definirsi al Concilio, per la quale cosa l’Imperatore soleva dire due essere i Concili, uno a Trento, l’altro a Roma, e il meno, che contasse quello di Trento; non mancarono motteggiatori a sbottonare che lo Spirito Santo arrivava a Trento dentro la valigia del Corriere. Roma caduta in queste angustie ecco piglia partito: Pio IV astuto subodora uno astuto, il cardinale Morone, e lo invia a negoziare con Ferdinando; lui vinto, agevole ogni cosa, però che con lui i Francesi si accontassero, e Filippo II per sangue, e per reverenza assai gli deferisse. Duro intoppo non chè persuadere, blandire lo imperatore, il quale si mostrava indracato perchè delle sue proposte di riforme non avessero fatto caso, e perchè il Papa, mercè le istruzioni ai legati governasse a modo suo il Concilio, e tuttavia il destro prelato sul primo punto diede ad intendere, che se le proposte dello imperatore non erano state messe innanzi al Concilio, non si poteva sostenere poi che non si fossero avute nella considerazione, che meritavano, imperciocchè talune di loro avessero fornito argomento a speciali decreti: non potersi negare e non negava la ingerenza soverchia di Roma nel Concilio, ma i Principi via, co’ propri ambasciatori non s’industriavano sempre scavalcare Roma? E quì il cardinale usò l’estremo dell’arte pretesca, e della sottigliezza italiana per dare ad intendere a Ferdinando ch’egli voleva gittarsi nelle sue braccia, in tutto e per tutto contentarlo, e al punto medesimo non cedergli un capello quanto ad autorità del Papa. — Torre ai legati la facoltà di proporre riforme per concederla ai vescovi tornava lo stesso, che mandare a soqquadro non pure la Chiesa, bensì lo Stato; ponesse mente lo imperatore alle improntitudini vescovili, alle incessanti pretensioni loro; non avere mestieri incentivi i sudditi laici o no a contradire l’autorità: di punto in bianco i governi di monarchie si sarieno convertiti in oligarchici per diventare in breve democratici: lasciava giudicare al suo senno, se imperatore o Papa per voglia di bisticciarsi, avessero a dare le mani per fabbricare di questa maniera trabiccoli: ecco, si sarebbe potuto assettare la faccenda così; non i vescovi sibbene gli ambasciatori dei principi commettessero ai legati del Papa di proporre al Concilio quanto reputassero spediente, con facoltà di proporlo eglino stessi caso mai i legati si rifiutassero; altri punti concesse il Morone o finse concedere, e per compenso lo imperatore ammollò intorno a parecchie pretensioni, e principali fra queste la riforma del capo, e la dichiarazione se il Papa sia o no superiore al Concilio? Il re di Spagna fu condotto a piegare in grazia di certo contrasto d’interessi che preme conoscere: i capitoli delle chiese spagnuole possedevano privilegi esorbitanti sicchè sovente contrastavano ai vescovi; di più i prelati spagnuoli avevano mosso querela al Concilio dei carichi co’ quali gli opprimeva il governo; e poichè questi formavano parte non piccola delle entrate del re ne veniva che mentre i prelati s’industriavano a ripigliare il perduto, egli mulinava la guisa di tosarli più rasente alla pelle, che mai; invece poneva ogni diligenza in ampliare la potestà dei vescovi come quelli che pochi essendo più facilmente potevano corrompersi, od atterrirsi: quindi il compito del Papa non pure diverso ma contrario a quello del re, però egli promoveva a spada tratta gl’interessi dei capitoli; democratico con la Spagna, despota in Germania: ma poichè Filippo senza la Chiesa non poteva fare, si convenne il Papa tenesse in freno i capitoli, il re ordinasse ai vescovi di procedere meno arroganti, e questi di un tratto sommessi troppo, come troppo per lo innanzi impronti così passarono il segno della obbedienza verso Roma, che il re, quando ei furono tornati a casa, ebbe a dire loro «mi rallegro con le signorie vostre, che andati vescovi al Concilio hanno saputo tornarne vicari.» In Francia governa sempre un’uomo, che qualche volta fu re, e spesso no; la forma politica non fa caso, repubblica o monarchia bisogna, che ella serva un padrone, e padroni per ora erano i Guisa, di cui gl’interessi li spingevano a mostrarsi zelaori rigidissimi della Chiesa; però protessero il Papa e ne furono protetti, rimossero le gozzaie, blandirono gli umori, dove il danaro valse non istettero su lo spilluzzico s’interposero mediatori felici tra i principi e Roma, onde il Papa più volte e in occasioni solenni ebbe a professarne al cardinale di Lorena ampissime grazie. Pertanto il Papa accordatosi co’ principi venne di leggeri a capo di ogni difficoltà; anzi per meglio tenerseli bene edificati renunzia alla riforma, che anco di loro doveva decretare il Concilio; quanto alla sua la promette sconfinata; solo lascino fare a lui, nè essi, nè il Concilio se ne mescolino. Intorno al diritto esclusivo dei legati pontifici a proporre partiti, il Papa collo imperatore si erano accordati, e dicemmo come; restava ad assettare lo screzio con gli Spagnuoli, i quali essendosi spencolati a contrastarlo ora non vedevano passatoia per uscirne con decoro, ma ecco pronto il Morone a trovare un sutterfugio il quale consistè nella dichiarazione, che ad ogni prelato spettava il diritto di chiedere e dire quello che a lui Papa era concesso chiedere, e dire secondo gli antichi Concili: la parola proporre posero sotto lo staio. Rispetto alla residenza dei vescovi pretesa di istituzione divina, ed alla incompatibilià dei Cardinali di tenere vescovati, abbazie, e benefizi curati e’ fu fatto un empiastro; all’arcivescovo di Granata non garbava, e si ammanniva a contrastare in isgravio della sua coscienza; ma il conte di Luna lo persuase, che se la coscienza non gli consentiva a parlare contro il suo convincimento, nulla ostava a farla tacere: pertanto fu dichiarato, nel decreto, che i vescovi, e i cardinali, non potessero lungamente stare lontani dai vescovadi, e dagli altri benefizi con la cura delle anime; tale essendo il precetto di Gesù Cristo; così di scancio fu decretato, che i cardinali potessero possedere vescovadi, e abbazie, e che la residenza dei vescovi non era di diritto, bensì raccomandata da Cristo. Il Cardinale Morone poi promise, che una volta affermata l’autorità del Papa a forma del Concilio fiorentino, avrebbe consentito si dichiarasse la residenza dei vescovi di diritto divino, ma anco queste l’erano lustre sapendo che del Concilio di Firenze veruno voleva udirne parlare, e i vescovi o si accorgessero del tranello o no, abboccarono. Composti a questo mo’ gl’interessi del corpo, gli altri dell’anima aggiustaronsi di rincorsa; nelle tre ultime sessioni fu provvisto alla ordinazione, al matrimonio, alle indulgenze, alle immagini, al culto dei santi, e ad altre parecchie non lievi riforme. Non mai Concilio fu iniziato con intenzioni, ed anco con atti così ostili a Roma, e non mai alcuno rimase concluso con maggiore servaggio verso l’autorità pontifica; e non reca stupore, imperciocchè i prelati sovvenuti in prima nella opposizione dai principi trovandosi allo improvviso derelitti s’industriarono con la nuova sommissione ricattare la protervia antica. Il Papa, che si volle riformare ne uscì assoluto peggio che mai, molto più, che con una Bolla, vietò che altri chiosasse, e interpretasse le dottrine del Concilio, ed instituì una Congregazione di Cardinali deputata a interpetrare i decreti del Concilio; e di che sappia la facoltà d’interpretare in mano a Roma ogni uomo conosce; significa leggere nel Vangelo bianco, dove sta scritto nero. — Despota peggio che mai uscì il Papa dal Concilio di Trento, ed è vero, ma despota di seconda mano, arnese di servitù straniera alla Patria; il Concilio chiuse la porta a qualunque composizione co’ cristiani di Oriente, e co’ protestanti; sguinzagliò il fanatismo, che poi non volle, e più tardi non seppe reprimere. I popoli sperarono dal Concilio riforme gravissime; e rimasero delusi: le due tirannidi unite ai danni d’Italia la ridussero peggio che cimitero, però che questo raccolga quanto di materiale avanza alla creatura umana, mentre le nostre terre di ora in poi si fecero sepolcri di anime. Napoli e Milano spagnuoli; Venezia trepidante per trame occulte, o per manifeste violenze. Genova, Firenze, Mantova, Parma, Ferrara tratte schiave dietro al carro della Monarchia Spagnuola. Siena stramazzata per fame sul terreno imbevuto del sangue dei suoi migliori figliuoli; Lucca beffa di repubblica. Emanuele Filiberto, Alessandro Farnese, Ambrogio Spinola, Giovannandrea Doria, ed altri imperiti a combattere per la Patria, eroi per vincere battaglie ed espugnare terre in pro dello straniero; per la tirannide fulmini, per la libertà paralitici; lingua, andazzo, e tutto dentro, e fuori spagnuoli; intantochè i grandi stati intorno alla Italia si formano, la Italia per colpa propria, ed altrui si rompe in brandelli; poi viene la pace di Castello Cambrese, che marca la Italia in fronte, come nei tempi feudali i baroni marchiavano gli schiavi propri per non confonderli con gli schiavi dei baroni vicinali. Pio V rimase come sfinito dagli sforzi durati pel Concilio di Trento; prima, che le riforme dei costumi si ponessero in esecuzione egli si dispose a godere del benefizio del tempo per sollazzarsi: di offici divini non volle intendere; di negozi meno che mai; prese a costruire fabbriche magnifiche, ogni dì feste, e conviti: le stemperatezze della corte di Lione X intendevano riformare, e rinnovavano. Ma il fanatismo, di che toccai, appena sveglio minaccia lo stesso Pio; un Benedetto Accolti, il quale nientemeno presumeva essere consultato dal Padre eterno intorno alle cose da farsi in questo mondo, ed anco palesava lo stabilito fra loro, non senza offerirsi a provarlo vero con lo sperimento del fuoco, macchina insidie alla vita del Papa. Causa della strage i fatti del Papa diversi dalle parole: costui incapace, anzi indegno, a reggere il gregge cristiano, Pastore di Cristo, si aggiunge un complice a cui promette un diluvio di beni nell’altro mondo; in questo non tanti, pure una buona derrata per la parte del successore di Pio: si appostano per trucidare il Papa, alla vista del quale manca loro il coraggio: da per loro si accusano; dovevano essere mandati allo spedale dei matti, e li mandarono al supplizio! Ecco un santo, e sia per la chiesa; per noi uomo santo significa buono, che cammina diritto nelle vie del Signore di tutta misericordia; io lo dimostrerò a filo di storia; chi legge giudichi. Costui nacque di piccola gente a Bosco presso Alessandria, e si nomò Michele Ghislieri; si rese frate domenicano, in breve fece prova di fanatismo feroce, onde lo deputarono inquisitore, e lo preposero agli uffici di Bergamo e di Como come quelle che per la prossimità degli Svizzeri, e dei Tedeschi, o della Valtellina od erano o correvano rischio di riuscire più contaminate di eresia: dei modi suoi selvatici basti udirne tanto, che spesso ebbe a fuggire, o nascondersi in remoti tuguri: a Como lo presero a sassi: da Bergamo fu bandito dal governatore Niccolò da Ponte per colpa della improntitudine sua, non essendosi peritato da citare dinanzi al suo tribunale Vittorio Soranzo vescovo di cotesta città per provarlo intorno alla fede; il conte della Trinità a Fossano minacciò gettarlo nel pozzo: nella relazione dell’oratore veneziano Paolo Tiepolo se ne ricava la causa, che fu non volere costui pagare certa tassa per sopperire aì bisogni della guerra; però la minaccia non era annegamento, bensì bastone; e quando cotesto conte fu spedito dal duca di Savoia a complire il Papa per la sua esaltazione, questi glielo ricordò, ma al punto stesso aggiunse, che molto lo teneva caro e lo aveva in pregio perchè nemico acerbissimo degli eretici. Questi ed altri siffatti meriti supremi ora ed allora presso la Chiesa, per la quale cosa prima lo promossero commissario della inquisizione, poi vicario dello inquisitore generale; poco dopo Paolo IV volle consacrarlo vescovo di Nepi, e Sutri, ed indi a sei mesi Cardinale, e Inquisitore generale: eccessivo l’ufficio; e troppo più eccessivi i modi di esercitarlo, sicchè Pio IV lo cacciò via dal Vaticano, e lo ammonì a procedere con maggiore discrezione, se pure non voleva andarsene diritto come un cero in Castello. Diventato Papa invece di mutare costumi, levò la muserola alla immane indole sua: non conobbe giocondità alcuna di vita; il cibo più che parco, la bevanda acqua mista a poco vino, e al Tiepolo che gli osservò a quel modo non potria durare rispose sarebbe già morto se non costumasse così; mangiare la carne per medicina; non lasciò mai la camicia di rascia che come frate soleva portare; lunghe le preghiere, spessi i digiuni, i cilizi, le lacrime, le processioni a piedi, e capo ignudi, l’estasi, e i deliqui, insomma nulla difettava in lui di ciò, che forma un santo vero a mo’ della Chiesa. Subito la prese con le cortigiane, che in Roma furono sempre in numero stragrande, e nulla valse a chiarirlo che per la lontananza loro Roma andrebbe deserta; i disordini che ne uscirebbero infiniti; quello che premeva era attutire la lussuria, non già scacciare le meretrici; rimase sul duro, o fuori esse, od egli: e quelle partirono; tra esse, e i bertoni di un tratto Roma si vide scema di venticinquemila, e più persone (chè anime non mi pare che si abbia a dire); fra i creditori di quelle per danari o per robe date in prestanza un diavolio; peggio quest’altro, che degli amanti non pochi si mutarono in assassini, e colto il destro, fiduciosi d’impunità, parte delle sciagurate femmine misero alle coltella, parte annegarono dentro il Tevere: dopo cotesto groppo di danni il Papa consentì a correggere il suo comando: vietò ai medici visitare gl’infermi oltre la terza visita se non si fossero confessati; frugò per le case, pei letti maritali levando scandali quasi polvere turbinata dal vento sopra le pubbliche strade: ai bestemmiatori multa, frusta; e all’ultimo lingua fessa; fino sul vestire più o meno ampio pose norme, e divieti; egli stesso accusò il suo nipote Paolo ai Conservatori di Roma colpevole di vestire brache grandissime; e poichè i Conservatori pensando ch’ei risposero, che i nipoti del Papa non andavano soggetti a simili prammatiche, egli tutto acceso soggiunse: «anzi hanno ad essere i primi, sostenete il mio nipote, e dopo avergli cavato di bocca chi gliele ha fatte condannate lui e il sarto.» Che fosse pietà ei non conobbe mai; non mitigò sentenza veruna, non perdonò: per lui Cristo poteva proprio risparmiarsi le parole: «non voglio la morte del peccatore; viva e si penta,» conciossiachè fosse convinto, che l’uomo non abbia facoltà di emendarsi; le conversioni ipocrisie, passata la paura i rei tornano a fare peggio. Veramente egli non conobbe nipotismo; il nipote Paolo, quello dalle brache larghe, riscattò di mano ai Turchi, e ci spese fino a 300 scudi; gli consentì ancora vivere a Roma assegnandogli sottilmente di che campare la vita; agli altri congiunti diede il puleggio accomiatandoli con qualce po’ di danaro; creò cardinale il nipote Michele Bonelli figlio di sua sorella, perchè prete a modo suo era, e gliene facevano ressa i cardinali medesimi. Veruno, se non fuggendo, potè salvarsi in Italia dalla truce persecuzione di lui. Al duca di Albuquerque governatore di Milano ordina gli consegni Aonio Paleario, e quei glielo dà perchè il Papa quando si tratta di eretici può farli agguantare in tutte le parti del mondo: a quali strazi fosse sottoposto il misero io taccio; basti, che fra i tormenti lo costrinsero a scrivere certa ritrattazione dove fra le altre cose confessa come il Papa in certe occasioni abbia il diritto di ammazzare di propria mano i colpevoli come leggiamo che facessero il sacerdote Samuele, e lo apostolo San Pietro, confessione la quale, a parere nostro, dimostra meno la debolezza del misero lacerato che la fece, quanto la stupida immanità di cui la fece fare. Ottavio Farnese non meno premuroso di tenersi bene edificato il Papa gli mandava in ceppi a sua richiesta Francesco Celaria, il quale anch’esso si chiamò in colpa, e chiese misericordia: nome e cosa ignoti a Pio V; entrambi perirono tra le fiamme: così del pari Pietro Carnesecchi fiorentino: convitollo Cosimo I duca di Firenze, e dopo pasto lo fece legare e trasferire a Roma: a questo tradimento si condusse Cosimo per paura, e per isperanza; paura, che Pio V (come di vero lo minacciò) abolisse la Bolla della istituzione dei cavalieri di Santo Stefano ottenuta da Pio IV; speranza di venire insignito da lui della dignità di Granduca, o di Re per ispuntarla sopra il duca di Ferrara, siccome accadde più tardi. Il Carnesecchi secondo corre il grido andò a fronte ferma, lindo di biancheria, e di panni, chè le altre vesti, e quali! somministrava il Santo Officio; gli fu compagno al supplizio un frate francescano del Cividale di Belluno: altri quindici furono in quel dì i condannati di cui taluno chiuso fra due muri, altri in prigione o in galera perpetue; altri ad altre pene. Anco Venezia per blandire cotesto santo Papa assetato di sangue mise le mani addosso a Guido Ginetti da Fano a Padova e glielo mandò a Roma. Il Fleury afferma che anch’egli fu arso, ma non è vero; dalla relazione dell’oratore veneziano si cava che il Papa lo condannò a prigione perpetua, non mica pei buoni uffici interposti da Venezia, sibbene perchè il Papa non lo giudicò relapso, e più perchè per suo mezzo sperava venire in cognizione di molte cose importanti intorno alla fede; però il medesimo atto della Inquisizione che dannava il Ginetti alla carcere, commetteva alle fiamme quattro eretici, e dieci più multava con pene diverse: non isgomentavano il Pontefice nè altezza di lignaggio, nè potenza di signorie, nè dignità ecclesiastiche; vescovi, prelati, cardinali in prigione senza un riguardo al mondo; anzi nella relazione del Tiepolo leggonsi proprio queste parole: «ha avuto a dire Sua Santità tra i suoi familiari, che desidereria potersi giustificar, se qualche grande, ancorchè cardinale fosse di questo vitio colpevole, perchè faria procedere contro di lui con ogni severità, colla morte, e col foco acciocchè si cognoscesse che la giustitia si estende non solo contro i bassi, et poveri, ma anchora contro i grandi et potenti.» Insomma al pari di Paolo IV in tutto impetuoso, eccessivo, e senza un briciolo di prudenza; onde il sagace Tiepolo riferendo di lui al senato di Venezia dice: «spesse volte nel dare rimedio a qualche disordine incorre in altro maggiore, procedendo massimamente per via degli estremi:» Chi ha vaghezza di conoscere più addentro di lui può leggere il suo catechismo catolico romano; a me non è concesso metterne quì nè anco uno estratto; chi si piglierà lo studio di confrontarlo col Sillabo di Pio IX toccherà con mano se sia vero quanto più volte affermai, che i Papi sono tutti un Papa; gli screzi non contano; per portare acqua al suo mulino essi si rassomigliano come uovo con uovo. Fuori di casa due cotanti peggio: quasi avesse bisogno di sprone stava li col pungolo addosso a Filippo II demonio meridionale, perchè s’imbrodolasse di sangue; nè rifiniva assillare quell’altro immane uomo il duca di Alva: non tregua, nè pace, nè misericordia, nel sangue si affoghi l’eresia; egli somministrerà armi e danari: se ce ne fosse mestieri apprendetelo da questo; certo frate agostiniano Lorenzo di Villacancio tra le altre cose consigliava Filippo: a tuffare la spada nel sangue degli eretici, se pure non teme, che il sangue di Gesù Cristo non gli si rovescii sopra la testa.... Il santo re David bandì dal suo cuore ogni misericordia verso i nemici di Dio; li percosse tutti, ad uomini non badò nè a donne, ai fanciulli infranse il capo alla parete. Moisè ed Aronne in un giorno solo sterminarono tre mila Israeliti dei cattivi, e fu un bel ratto; un angiolo, e questo è anco più bello, in una notte trucidò 60 mila nemici del Dio vivente. Ora quello che Moisè, e David fecero non avrete a fare voi? O non siete come loro capo di popolo? Non un angiolo del Signore? Ma sì che lo siete, però che la scrittura appelli per lo appunto così le teste coronate, e gli eretici non gli avremo a considerare nemici del Dio vivente?» Fra Lorenzo incontrò grazia presso Filippo il quale se ne valse come consigliere, e mestatore nei rivolgimenti di Fiandra. Avendo più tardi il re dovuto piegare alquanto ai voleri armati dei popoli Pio ne mosse smanioso lamento, ma Filippo gli fece dire in un’orecchio: non si scarmanasse perchè fermo di non attenere pure uno iota di quanto aveva promesso; allora il Papa si tranquillò: qualche volta si pesticciavano, il re non voleva intendere, ch’egli avesse ad obbedire alla Bolla In cœna Domini che vieta ai principi mettere le mani su quello dei preti, e il Papa a posta sua non voleva capire di regio Exequatur; da un lato, e dall’altro querimonie grandi, ed anco talora minaccie, ma poi si riconciliavano; uno delizia dell’altro: anzi Filippo essendo caduto infermo, il Papa fu udito pregare Dio di tosargli qualche anno della sua vita per aggiungerlo a quella del suo figliuolo diletto Filippo II. Francesco Goubau di Anversa segretario del marchese di Castel Rodrigo oratore a Roma per Filippo IV raccolse e pubblicò duegentoventiquattro anni fa le lettere di questo Santo Papa; il de Potter nel 1827 ne imprese una seconda edizione a Bruxelles; io le ho lette, e mi hanno messo addosso il ribrezzo; la dottrina, che per loro s’insegna questa: «riconciliarsi mai; non mai pietà; sterminate chi si sottomette, e chi resiste sterminate; perseguitate a oltranza, ammazzate, ardete; tutto vada a fuoco e a sangue purchè sia vendicato il Signore, molto più, che i nemici suoi sono ad un punto i vostri.» Esorta il Papa con coteste lettere il re di Spagna e il Duca di Alva a sovvenire il re di Francia per disperdere gli eretici; nell’ottobre del 1567 avventa lettere di fuoco a Luigi Gonzaga duca di Nevers, a Girolamo Priuli doge di Venezia, al duca Emanuele Filiberto perchè le mani loro uniscano a quelle di Carlo IX e di Caterina dei Medici per torre via dal mondo gli ugonotti. Al Cardinale di Armagnac governatore di Avignone manda confischi senza remissione tutti i beni degli eretici, e non ne renda particola ai congiunti loro comecchè buoni cattolici: a quello di Lorena suo legato in Francia palesa il rovello, che ciò non sia stato a punto eseguito, dacchè la paura di ridurre i suoi cari nella miseria avrà virtù di trattenere i vacillanti, Dopo la battaglia di Giarnae esorta Carlo IX a rammentarsi Saulle; costui in onta al comando di Dio, manifestatogli mediante il sacerdote Samuele, non trucidava l’universo popolo Amalecita; sentì di qualcheduno misericordia, e lo salvò, onde in pena di questo orribile misfatto più tardi perse il regno e la vita: esempio che ogni re deve tenersi davanti agli occhi, perchè impari che trascurando la vendetta degli oltraggi di Dio, questi non volga contro lui l’ira, e il gastigo. Nel giorno medesimo scrive alla dilettissima figliuola in Gesù Cristo Caterina dei Medici: badi bene a non tentennare, non si rimanga, finchè gli eretici non sieno spenti tutti (deletis omnibus). Da capo a Caterina, al re, a tutti perchè s’impietrino e la vendetta inesorabile empia di terrore la Francia: lo esempio di Saulle parendogli proprio al caso ecco lo rinnuova scrivendo al duca di Angiò, facendogli sapere, che Dio lo rese vittorioso appunto perchè sgozzasse quanti gli capitavano sotto: e stringendo tutto in una parola dirò, che gli occhi dopo lette l’epistole di cotesto santo vedono cosa dintorno colore di sangue. Pio non aspirò il fumo del sangue della scellerata strage che va distinta col nome di notte di San Bartolommeo; ma l’ammannì, la eccitò, la ordinò, sul punto di morire la toccava con le mani; di fatti quando il Cardinale nipote fu spedito in Francia per frastornare le nozze di Margherita col re di Navarra, Carlo IX tale si aperse con lui: «dirvi tutto non possiamo, ma in breve conoscerete a prova come non vi abbia cosa che valga a confermare la religione nostra in Francia, e a disperdere i nostri nemici quanto queste nozze... voi ve ne chiarirete fra poco: io voglio punire questi malvagi felloni facendoli tagliare tutti a pezzi, o non essere re, perdendo affatto la corona; e facendo questo obbedirò a Pio stesso, il quale mi eccita ad ogni momento di promovere in simile guisa l’onore di Dio, e quello della mia corona.... credete in me, anco un po’ di pazienza, e il Santo Padre sarà costretto a confessare che non si poteva provvedere più, nè meglio per la religione.» Tuttavia il Santo Papa non rimase privo di credenza del macello francese; gli letificarono il cuore le stragi di Caors, di Tolosa, di Tours, di Amiens; nè quivi cessarono la beccheria se non quando videro non avanzare più persona da uccidere; nè poteva fare a meno, imperciocchè gli editti regi ordinavano così: «si corra addosso agli empi sonando le campane a stormo; da per tutto si perseguitino, con ogni arnese si assaltino, come bestie feroci si sterminino, come lupi, come cani arrabbiati desolazioni del regno; se ne rompano le case; non rispettinsi anni, qualità, nè sesso: ferro e fuoco da ogni luogo a mo’ d’interdetto.» Non sono invenzioni dei Convenzionali gli annegamenti di Nantes, bensì imitazioni regie e chiesastiche, dacchè leggiamo che il governatore di Macon facesse quotidianamente buttare nella Saona all’ora della passeggiata a mucchi gli eretici; di che pigliavano maraviglioso diletto le buone dame cattoliche. — A Nantes, e a Lione il popolo inferocito saldò il conto dei sacerdoti, e dei re. Il santo Pontefice aveva mandato milizie ausiliarie a partecipare in guerre siffatte; le comandava un Gabrio Serbelloni. Io sono stato lunga pezza esitante se dovessi tacere o raccontare gli orrori di questa gente benedetta da Pio V, ma mi sono risoluto a dirle perchè uomo apprenda prete, che sia. Io non le chiamo belve perchè farei torto ai lupi, nè appongo aggettivi, perchè non ne conosco veruno abbastanza orribile che loro si attagli: alla presa di Orange il Serbelloni fece precipitare sopra spuntoni, alabarde, e picche gli ugonotti, appenderli e tuttavia vivi arderli a lento fuoco; le donne, svergognate prima, poi messe a bersaglio dagli archibusieri, o impiccate fuori delle finestre; dei fanciulli non si parla... le gentildonne le quali innanzi di patire oltraggio si erano uccise, furono esposte ignude alle scede della ciurmaglia con corna ficcate nelle parti sessuali: parecchi perirono negli spasimi di scottature cagionate dall’arsione di Bibbie di Ginevra abbruciate sopra il corpo loro. — Le abominazioni dello antico Egitto i soldati papalini rinnovarono in Francia; i contadini francesi li chiamavano: «ammazzatori di donne, e di fanciulli; amatori di capre;» però quante capre trovavansi nei luoghi da loro traversati incendevano. Contro Elisabetta regina d’Inghilterra il santo Padre tramò congiure, tese insidie segrete, allestì guerra aperta, promosse le pretensioni di Maria Stuarda, la sovvenne con ogni industria, nè si rimase contento finchè non l’ebbe condotta al patibolo: rea femmina cotesta fu, e adultera e omicida, ma perchè papesca, la scattò di un pelo che oggi i cattolici non l’adorino sopra gli altari allato a Pio V: questi scrivendo al duca di Alba per indurlo a spedire milizie di Fiandra contro Elisabetta aggiunge, colei che la trincia da regina l’Inghilterra; peggio poi quando scrive pel medesimo intento a Caterina di Francia; allora non si perita appellare Elisabetta rea femmina e perfida; chiarisce com’egli cospirasse ai danni suoi, e sottecchi aguzzasse ogni ferro per ribellarle i sudditi cattolici, i quali per gli aiuti procurati alla Francia, non chiedevano altro, che essere a posta loro soccorsi a rimettere in trono la Stuarda loro legittima sovrana. Dunque per la stessa confessione del Papa è vera la trama contro Elisabetta? Perchè dunque la negano gli storici chiesastici? E perchè vanno fantasticando di amori offesi, e di senili gelosie? Questo Papa promosse con tutti i nervi la guerra contro il Turco, la quale fu conclusa con la famose battaglia di Lepanto; ma non sarebbe giusto supporre che a ciò lo spingesse senso di civiltà; papa egli, papa Selimo, però gelosia di mestiere, chè è detto antico il vasaio portare invidia al vasaio. Alle cose lungamente da me discorse intorno a questa battaglia nel libro Isabella Orsini ho da aggiungere, che cotesta vittoria rimase senza costrutto perchè l’anno seguente il Turco uscì in mare quanto prima gagliardo, e i Veneziani gli cessero Cipro prima cagione della guerra: i Cristiani poi ci guadagnarono la festa del Rosario, ch’è quella cosa composta di 150 Ave Maria divise per diecine sotto la presidenza di 65 Paternostri inventata dal frate Alano bretone abitante in Olanda; e per vantaggino la giunta di auxilium christianorum nelle litanie. La cronaca di Torres y Aguilera narra come veruna palla o freccia offendesse il Cristo dipinto nel gonfalone; solo due freccie rimasero ciondoloni nel campo, le quali, osservate da una scimmia si arrampicò pei cordami, e quinci strappatele le buttò in mare: su di che osserva il Prescott, che considerando l’enorme quantità dei cappuccini e dei gesuiti presenti a cotesta impresa fa maraviglia come i miracoli fossero tanto pochi. Nel pontificato di Pio V rimasero soppressi gli Umiliati pel tentativo di ammazzare San Carlo Borromeo; i frati si erano ridotti a 174 religiosi abitanti in novantaquattro monasteri; immensi i beni, e del pari immensi i vizi; la Chiesa ne pigliò le sostanze, di cui parte concesse a San Carlo per instituire seminari, e collegi di nobili, e di Svizzeri; la quale cosa dimostra come la Chiesa adopri la facoltà, che oggi contrasta altrui, di torre via religioni o inutili o dannose applicandone le sostanze ad opere di pubblica beneficenza. Innanzi di morire volle Pio V. dare la benedizione al popolo, il quale non sapeva che farsene; ma tanto è, il Papa benedice sempre repugnanti, e volenti; di vero, appena morto Roma proruppe in tumulti come al Caraffa. — Il Cantù ei fa sapere, come Francesco Bacone certa volta fu udito esclamare: «o che gingillano a Roma a canonizzare santo questo uomo sovrumano!» Se la cosa sta come il Cantù la racconta gli è mestiere dire: che al gran Cancelliere talvolta si ecclissava la mente come pur troppo gli si ecclissò la morale. Parlando di Paolo IV. ho detto che costui rizzò la forca allato alla croce; Pio V. remosse la croce, e ci lasciò sola la forca: predicatore il carnefice. Nella Spagna e nella Italia l’eresia rimase annegata dentro il sangue, altrove crebbe, e combattè alla stregua della necessità; il cattolicesimo invece di acquistare perse i Paesi Bassi. Il Concilio di Trento, e le asperità di Pio impedirono ogni riforma onde gl’istituti mano a mano rinnovandosi durano, e il male rinchiuso dentro la Chiesa la divorò come il cancro: in Italia fra il popolo non si sentì più favellare di eresie, ma in regioni più alte fu coltivata la filosofia, meno presta sì, ma più radicale emendatrice di errori; la riforma aperse appena mezzo l’uscio alla ragione, la filosofia gliela spalancò tutta; la ragione luterana, o calvinista, o zuingliana, o valdese procedono impacciate, non sono avvinte di corde, ma di stringhe sì, la ragione della filosofia si libra per gli spazi sconfinati del pensiero; fra lei e Dio non occorre impedimento o ritegno. Dopo Pio V. gli stati pigliano l’andatura, che conservarono fino verso il declinare del secolo decimottavo; Pio IV. sente e dimostra, che la Chiesa ormai senza il ferro dei principi non si regge; sotto Pio V. i principi si persuasero, che anco gli stati loro andrebbero a rifascio se sostenuti dalla autorità della Chiesa non impedissero qualunque spirito che sapesse di libero, ed anco di nuovo; rimase compita la teoria della reciprocazione di tutte le tirannidi fra loro, quella poi di tutte le libertà non hanno in qui appreso i popoli. Qui sarebbe compito il mio assunto, il quale secondo il disegno, piacemi ricordarlo da capo, consisteva nel dimostrare quale e quanta la legittimità del dominio del Papa, e se vero, che non mai ne fosse stata alienata parte da lui: tuttavolta giova accennare come meglio io possa succinto, le guise per cui la Chiesa s’impadronì di parecchi nobilissimi municipi, e il perfido governo, che ne fece. I priori di Viterbo durante il secolo decimoquarto accoglievano seduti fuori delle mura il potestà inviato da Roma, nè lo immettevano dentro se prima non giurava la osservanza delle capitolazioni loro: a patti men larghi erasi dato Fano; la vendita del sale tutta a suo pro; balzelli per venti anni non ne avesse a pagare; libertà illesa, e diritto di eleggersi chi meglio volesse per potestà senza bisogno di conferma. Sinigaglia da sè s’imponeva le tasse, da sè le riscoteva; alla Camera apostolica pagava il convenuto; e di questo si chiamò contento non che altri Cesare Borgia; e Giulio II. cacciato via da Perugia il Baglione, si astenne da toccare le sue vetuste franchigie, aborrì il retaggio usurpato dal tiranno; per lungo tempo ella pagò al Pontefice un censo annuo di pochi mille scudi; anco sotto Clemente VII. partecipava alla difesa dello stato con milizie sue proprie; così pure Bologna, la quale conservò le sue libertà municipali, amministrò le sue entrate da sè, manteneva milizie proprie, e pagava il legato del Papa; non diversa Ravenna, e le città di Romagna tutte, che liberate dalla dominazione del Borgia, furono da Giulio II. ricevute a patto. Non sempre i governatori erano prelati; all’opposto bisogna confessare che le città stesse imploravano magistrati chiesastici, dai laici rifuggivano: dentro le città prima per necessità, poi anco per uso di discordia antico, il popolo minuto avverso al popolo grasso, il popolo grasso sospettoso dei nobili, i nobili nemici a tutti; i municipi stessi se non sempre contrari fra loro, di rado concordi; onde le assemblee provinciali attecchirono; così i principi e gli stati comporsi in lega o non seppero, o non vollero; i popoli eziandio rimasero disgiunti, bellissime gemme di collana sfilata, onde la causa perpetua della nostra nullezza politica. La poca virtù dei governati, anzi le ree passioni di loro provocarono i governanti ad asservirli, come ordinariamente succede; e poi maledicono al tiranno come cosa fuori di loro, e cadutagli addosso a mo› di aereolito, mentre egli nasce dalla servitù ch’essi chiudono dentro nel sangue. Allora nel rinnovamento dei patti di dedizione il prete astuto allunga la mano, e quando si tratta di franchigie da tasse aggiunge: «finchè per cause gravissime a me non piaccia altrimenti,» se di giudizi criminali da definirsi dai potestà eletti dal municipio, il prete mancino arroge: «eccetto nei casi di maestà e simili, ai quali piglierà parte anco il Governatore.» I borghesi proviamo operosi, e pacifici, cupidi di guadagno, odiatori degli uomini, e delle cose capaci a sturbarlo di presente; del futuro non sanno; quando la vista di qualcheduno di loro si distende molto non passa la lunghezza del braccio con che misurano la pannina, però inchinevoli ad abbietarsi davanti chiunque loro accerti vita tranquilla, e commerci sicuri; talvolta se li difendono da sè, e allora tu li sperimenti feroci così, che Leonida alle Termopili si stinge a petto del borghese, che pugna per la sua bottega; non pertanto indi a breve caglia, chè la fatica lo uggisce, e il pericolo lo impaura; se taluno sorge a schermirlo davvero, ei volentieri lo paga con pecunia, con subiezione, e con la libertà. I nobili per converso schifano la fatica; ai guadagni tirano anch’essi, e come! ma bisogna sieno grossi; onesti non importa; storia questa non pure antica, ma odierna, anzi modernissima; però in ogni tempo armeggioni, arruffatori per allungare le mani in quel del pubblico: mestieri loro tiranni, e ladri; di altro non s’intendono. A simile maledizione aggiungi l’altra delle parti guelfa, e ghibellina, attutite sì, non però spente, le quali dividevano non solo cittadino da cittadino, ma eziandio città da città. A Fano i borghesi si costituirono in lega chiamata in Santa unione di cui questo, lo scopo: «i pacifici si uniscone per opporsi alle ruine, e agli omicidi i quali non si limitano a desolare le famiglie dei tristi che li commettono, ma offendono altresì quelli che intendono mangiarsi in pace il pane guadagnato col sudore della propria fronte.» Di siffatti istituti vedemmo esempi nella Spagna, e ai dì nostri in Italia; ma poichè operavano separati dal Governo, furono da questo aboliti, ed a ragione, chè lasciandoli crescere avrebbero costituito uno stato dentro lo stato, o piuttosto lo avrebbono sovvertito, molto più che lo stato vecchio patendoli veniva a confessarsi inetto a mantenere la sicurezza pubblica, vale a dire, al fine pel quali i governi si fanno. Piacquero all’opposto ai preti, però che per causa di religione sottoponendosi a loro senza fatica e senza spesa si trovarono in mano uno arnese stupendo per riuscire; essi pertanto benedicevano cotesti istituti, li spruzzavano di acqua santa, con le indulgenze li santificavano, li presentavano con gonfaloni, e bandiere; tuttavolta non importa nè manco avvertire com’essi venuti in mano al prete non servissero già allo scopo proposto; al contrario senza pure addarsene servissero a perpetuare la discordia fomentata da costui; nè calunnio io, dacchè il governatore di Romagna G.P. Ghisilieri tale ragguagliava Gregorio XIII: «siccome il popolo disunito facilmente si domina, così difficilmente si regge quando è troppo unito.» Oltre gli umori tra nobili, e borghesi una mala peste ingombrava le campagne, ed erano le famiglie di contadini collegate fra loro a modo di tribù; anch’esse assumevano nome di guelfe e ghibelline, ma agevolmente lo mutavano; in questo solo ferme, saccheggiare più, che potessero: non importa dirne il nome, basta la infamia; e di queste ai preti resse il cuore valersi per rendere subietti cui in loro fidò; nè ai tempi nostri i Prelati romani diversi; solo tu vogli ricordare le centurie di Gregorio XVI, e i masnadieri benedetti di Pio IX. Talora o perchè si sentissero stringere troppo o per quale altra causa i municipi si rivoltavano, e collegati insieme si opponevano alla crescente tirannide; qualche volta anco soli, e la storia ricorda Ravenna, la quale dichiarò volersi dare ai Turchi piuttostochè patire la pretesca oppressura. Faenza, pontificando Lione X, cacciò via gli Svizzeri, i quali comecchè valorosissimi fossero, ebbero di catti fuggirsene, tanto può la pazienza offesa del popolo; in pari modo il popolo d’Jesi, assalito e vinto il governatore papalino esigente cose improntissime, lo bandiva dalle mura; però da queste sommosse non ne usciva libertà, sibbene raddoppiata tirannide, onde sovente sorse ragionevole sospetto i preti le provocassero per cavarne argomento ad opprimere. Di fatti, Ancona pagava al Papa tenuissimo censo; crescendo ella pei commerci a florido stato, di un tratto glielo crebbe; il quale aggravio da lei non si comportando ruppe a rivolta, ed assaltato il castello lo prese; si venne agli accordi, ma Clemente VII trucidatore della libertà della sua Patria, non era uomo di certo da rispettare quella di Ancona; sotto presto di difenderla dai Turchi fabbrica la cittadella; non anco condotta a termine alla sprovvista manda fanti, e cavalli ad occupare una porta della città; poi il condottiero delle armi va difilato al palazzo degli anziani, e significa loro che il Papa vale e vuole regnare assoluto: gli anziani piegano il collo e spulezzano; alla città è messo un duro freno a rodere Benedetto Accolti legato piglia in appalto l’entrate di Ancona per 20,000 Scudi all’anno: ordine questo, che praticato un dì nelle terre della Chiesa, dei Turchi oggi vediamo accolto eziandio dai governatori del regno italico. Dopo ciò il regno del terrore; gli antichi statuti manomessi; tolte le armi; i maggiorenti banditi, dai pubblici uffici la più parte dei cittadini esclusi, taluni presi, e decollati, e i capi loro esposti in mezzo a ceri accesi sopra un tappeto nero nella piazza del mercato. Questi i titoli di dominio della romana corte sopra Ancona. E poichè Roma tiene della natura della lupa, la quale dopo il pasto ha più fame di pria, oppressa Ancona, si volta a Perugia a cui di subito cresce il prezzo del sale niente meno che il doppio; la città si oppone, e il Papa scomunicatala prima le intima la guerra; i Perugini non se sbigottendo punto depongono le chiavi della città a piè di un Cristo drizzato in piazza, e deputano venticinque difensori alla tutela della Patria. Basta l’animo per meritare la propria salvezza non basta per provvedere alla comune: i venticinque non seppero raccogliere forze e pecunia, e lo avessero anco saputo non avrebbero potuto rendersi gagliardi su le armi da fronteggiare Pierluigi Farnese, che mosse ai danni loro con bene 10,000 italiani, e 3,000 spagnuoli; e’ fu mestieri mandare oratori i quali con la corda al collo, vestiti a scorruccio chiedessero inginocchiati perdono al Papa di avere avuto ragione. Questo il perdono del Papa; le armi cedute, ogni franchigia tolta, dei venticinque difensori fuggiti le case a terra, il consueto morso di una cittadella imposto; tutto il governo ridotto in un’ufficiale eletto dal Papa di cui il nome basta a chiarirne il compito: «Conservatore della obbedienza alla Chiesa.» Qualunque gravezza d’ora in poi i Perugini avessero a sopportare senza dire un fiato. Ora considerino i discreti, comecchè religiosi e cattolici, se veramente il Papa per disfare simili nequizie sia facultato dalla parte di Dio ad opporre il non possumus. Quasi correndo adesso io compirò l’arringo toccando dei Papi fino a Pio IX non perchè faccia mestiero al mio assunto al quale parmi di avere soddisfatto, ma sì perchè a causa della lunga laguna si verrebbe a perdere la tradizione dei Papato, quantunque a cui poteva averla smarrita troppo bene gliela fece risovvenire l’enciclica, e il sillabo di Pio IX. Fu Ugo Buoncompagno uomo di vita gioconda, non imperito di giurisprudenza, nei negozi versato, di costumi facile, conobbe amori verecondi, ed ebbe un figlio, ch’egli amò ma non promosse a scapito della Chiesa, tenendolo sempre nei limiti di decente agiatezza non mai lo chiamò parte delle faccende di stato; molto meno consentiva usurpasse l’autorità principesca, onde certa volta ch’ei si attentò liberare di prigione due giovani amici suoi di studio lo bandì da Roma senza remissione, e lo avrebbe privato di ogni suo ufficio se le preghiere della sua sposa contessa di Santa Fiora non erano; non fu avaro, non violento, anzi propenso a donare, e benigno, e nondimanco acconsentendo alla spinta perversa di Roma quando gli giunse la nuova della strage, che piglia nome di san Bartolommeo, ordinò gazzarra al Castello Santo Angiolo con lo sparo di tutte le artiglierie, e fece falò; inoltre rendeva solennissime grazie a Dio, e bandiva un giubbileo perchè gli universi cattolici n’esultassero. E tutto questo pareva poco per manifestare la letizia infinita del fatto, sicchè allogava a valenti pittori parecchi quadri che rappresentano, il primo Coligny investito da un sicario cattolico mentr’esce dal Louvre; l’altro la strage orribile degli Ugonotti; il terzo Carlo IX che in Parlamento si vanta di avere sollevato il boia in cotesta fatica; questi quadri durano tuttavia nel Vaticano nella sala appellata dei Re (e ci stanno bene) la quale precede la cappella sistina. La memoria di cotesta scalleraggine compariva raccomandata anco troppo alla esecrazione pubblica, ma non contenti i preti degli affreschi vollero commetterla anco alle medaglie; di vero Gregorio XIII ne fece coniare una, e stupenda la quale certo gesuita dabbene ci descrive così: da un lato rappresenta il macello orribile esegito da 60,000 uomini degli eretici nella capitale, nel corso di tre giorni e di tre notti, secondo il consiglio di Dio sovvenuti dal suo aiuto celeste; dall’altro è la immagine del buon Gregorio. Per colmare lo staio il santo Padre spediva in Francia legato a latere il Cardinale Orsino con la istruzione, che insista fortemente perchè la cura tanto bene incominciata co’ rimedi bruschi non guasti con importuna umanità; in così degna gara è naturale non volesse rimanersi addietro Carlo IX, ond’egli pure commise una medaglia dove da una parte si mira con un mucchio di cadaveri sotto i piedi, e dall’altra un fascio di allori fra gigli, corone, e collari di San Michele. La Convenzione provvide, sotto la finestra del braccio del Louvre, che sporge di più sopra la Senna, si murasse una lapide con la iscrizione: di qui l’infame Carlo IX di esecranda memoria bersagliava il suo popolo con lo schioppetto. Napoleone Bonaparte la fece levare; deliberato di crearsi tiranno s’imparentava con ogni regia nequizia: ora i re, secondo loro natura, uno la ripiglia per l’altro. Gregorio quando avesse voluto operare diversamente non sarebbe riuscito, imperocchè oggimai i gesuiti, e i teatini si arrogassero verso i Pontefici l’ufficio che i profeti giorno esercitavano co’ re, e co’ sacerdoti d’Isdrael; cresciuti nel deserto, custodi rigidi delle vetuste discipline, di repente comparivano per rampognare, punire, e correggere; assillato da cotesti mali cristiani, fino con 400,000 scudi per volta sovvenne Carlo IX nella impresa di lacerare da cima in fondo la Francia; da lui prese vigore la lega contro Enrico III, Enrico IV, quegli ucciso, questi ribenedetto dai preti perchè picchiava forte, e spesso: egli istigatore delle ribellioni d’Irlanda contro Elisabetta; egli irrequieto sollecitatore della guerra di Spagna contro la Inghilterra; e in quella il Vicario di Dio parve capire alla rovescia lo intendimento del suo padrone, però che una ventata delle solenni mandasse a rotoli la grande armada; onde Elisabetta, anch’essa, coniò la sua brava medaglia con le navi spagnuole sottosopra, e il motto: affiavit Deus et dissipatti sunt. Così degli uomini chi piglia Dio per un lembo, e chi per un’altro secondo le sue bizze, ed egli infinitamente buono compassiona la follia di tutti e si lascia fare. A questo Papa dobbiamo il lunario cioè commise lo acconciasse a un Lilio calabrese, perchè i Papi da per loro non saprebbero nè manco fabbricare lunari; in compenso rovesciò sul paese questi altri danni: non volendo imporre nuovi balzelli sul popolo, e d’altra parte abbisognando di danaro cominciò da sopprimere franchigie, privilegi, e fin qui fece bene; poi sottopose a dazi la tratta dei grani e qui fece male: inoltre ricercato sottilmente quali fossero i beni feudali commise s’investigasse se fossero ricaduti alla Camera o per linea estinta degl’investiti, o per censo insoluto e così trovando si comperassero senza misericordia; prescrizione di tempo remotissimo non bastava, conveniva produrre la prova del dominio; cosa non pure difficile, ma impossibile; di qui universale sgomento; veruno o pochi si tenevano sicuri; taluni erano spogliati; troppi più tremavano di restare in camicia; agl’Isei levaron Castelnuovo, Corcona ai Sassatelli, Lonzano e Savignano ai Rangoni de Modena, Alberto Pio per evitare liti rendeva a patto Bertinoro; ma non si contentò la Camera; ella volle anco Verrucchio: dopo lo sbigottimento, come succede ecco sorgere il desiderio di resistenza, e col desiderio un legarsi, un raccogliere armi; per ultimo un prorompere in manifesta rivolta; rovinati per rovinati, dicevano i feudatari, giova morire con le spade in mano per la salvezza dei nostri beni. Impedita la libertà di commercio da questo Papa ignorante Ancona decadde per risorgere mai più; dalle economie manomesse nacque perturbamento nell’amministrazione, si rinfocolarono le parti, e procedendo di male in peggio da prima le furono soperchierie, e subito dopo omicidi, assassinamenti, e di ogni maniera immanità. A torme furono visti masnadieri scorrazzare la Campagna, e le Marche, gli assoluti dai Tribunali sovente essi condannavano e finivano; i dannati all’opposto assolvevano, e allora assalito il carcere ne li traevano fuori. Li conducevano uomini nobili, e prestanti nella milizia, un Piccolomini principe di Amalfi, un Malatesta, uno Sciarra od altri di minor fama. Il Papa spediva uno esercito sotto la condotta del suo figliuolo Giacomo, con facoltà da disgradarne le moderne russe in Polonia, ma non fece frutto, e ciò perchè essendosi egli alienati con le sue improntitudini gli animi del re di Spagna, del Senato Veneziano, del Granduca di Toscana, del Duca di Ferrara, insomma di tutti, questi si pigliavano diletto a dispettarlo, offerendo asilo nei propri Stati ai rifuggiti; nè per cosa al mondo consentendo a restituirli. E’ fu mestieri ch’ei concedesse perdono al Piccolomini; dicono, che leggendo l’indice dei misfatti ch’egli ebbe a perdonare, lasciasse cascarsi dalle mani il foglio come vinto da ribrezzo, ma gli toccò a provare peggio, e fu (io lo dirò con le parole della relazione dell’oratore veneto Priuli) che monsignore Odescalco avendo ottenuto si rendesse certo prigione al prete Guercino famoso masnadiere conosciuto col nome di Re della campagna tanto con questo mezzo gli divenne amico, «che si è fatto suo procuratore per impetrare la liberatione sua dal Pontefice, la quale era ordinata assolvendolo sua Santità da 44 omicidi commessi. Et mentre si faceva la espeditione, è venuta nova che il ribaldo ha ammazzato quattro suoi nemici in un castello. Questi tristi se ne vanno di questa maniera burlando della giustitia, et se bene potriano essere rimessi dalla gran benignità di Sua Santità, pare non di manco non se ne curino. Niuna cosa più di questa dà travaglio al Papa, perchè vede il disordine, e la indegnità grande, pur non sa rimediarla.» Di vero anco questo estremo oltraggio non gli fu risparmiato, però che offerta la grazia a certo masnadiero Martinazzo, questi la ricusò dicendo: «io non so che farmene, mi torna più continuare bandito, che ridurmi a vivere in casa mia.» Di Sisto V assai si favella, ma lo conoscono pochi; anco ieri leggendo non so che Diario, vidi appuntarmi di averlo nel Paolo Pelliccioni di troppo alterato: e’ non sanno quello, che si dicano; non mai sommo pontefice meritò più di lui il nome di sommo carnefice: nè io lo infosco, bensì i suoi gesti; di vero quale concetto dobbiamo formarci noi di un Papa il quale inaugura il suo pontificato con la impiccatura di quattro giovanetti di Sora per l’orrore di portare archibugi comecchè mostrassero la licenza del porto di arme loro concessa da Mario Sforza luogotenente del Duca di Sora? E più tardi senza nè anco forma di processo intendeva mandare alcuni sciagurati alla forca, e udito come al suo fiero talento si opponessero le prime norme della giustizia tempestando esclamava: «orsù processateli, a patto che me gl’impicchiate prima di desinare, e abbiate in mente, che stamane ho fame.» Forse parrà troppa la esecrazione al Vicario di Cristo, al quale mentre altri dimostra non potersi con l’ultimo supplizio finire un giovanetto per pochezza di anni dalla legge reputato incapace di dolo, egli ferocemente beffando risponde: «ciò non tenga, se gli mancano anni per mandarlo alla forca ecco io gliene dono una dozzina dei miei.» Danno a Sisto facile la lode di sterminatore di banditi, e ciò ch’è peggio ai giorni nostri ripetono siffatto resultato doversi alle immani asprezze di lui, e questo non risponde al vero; al contrario si deve ai buoni uffici co’ quali seppe nei primordi del suo pontificato conciliarsi i principi circostanti, ond’egli gli ebbe a provare benevoli quanto malevoglienti Gregorio, per la quale cosa disperati di asilo, sicuri di non potersi oggimai sottrarre alle meritate pene scomparvero: essendo anco a quei tempi per esperienza conosciuto dai rettori di stato non la gravezza bensì la sicurezza del castigo quella che tira indietro gli uomini da mal fare; la quale sentenza occorre significata nei ricordi di messere Francesco Guicciardini con queste parole di oro: «le pene eccessive... non sono necessarie, perchè da certi casi esemplari in fuora, basta, a mantenere il terrore, il punire e’ delitti a 15 soldi per lira, pure, che si pigli la regola di punirli tutti.» Di vero, quando Sisto reputandosi bene assodato prese a fare il viso dell’arme ai principi non più Filippo II ordinò ai vicerè di Napoli, e di Milano obbedissero i comandi del Papa quanto e meglio dei suoi; Venezia, e Toscana gli procederono avverse, e allora, che cosa gli valse segnare ogni giorno della sua vita col taglio di una testa? Che i campi, le strade, e le foreste gremite di pali co’ capi mozzi fittici su? E che salutare co’ dolcissimi nomi quelli fra i suoi governatori i quali con maggior copia di teste mozze lo presentavano? Sul declinare della sua vita i banditi sguinzagliati dai principi tornarono a nabissargli lo stato; Piccolomini in Romagna, Sacripante in Maremma, Battistelli nella campagna di Roma; nel luglio del 1590 scorrazzarono fino alle porte della eterna città: sopra gli altri principi infesto Filippo di Spagna, il quale non andò immune dal sospetto di avere fatto propinare il veleno a Sisto. Ed anco i Baroni romani inaspriti da Gregorio egli si conciliò, fino a dissimulare l’omicidio del suo nipote Felice commesso per ordine di Paologiordano Orsino, il quale non si fidando di coteste lustre si cansò con la sua Accorambona a Venezia; e a torto, imperciocchè il Papa s’industriasse imparentarsi con le case baronali Orsini e Colonna maritando due sue nipoti con Marcantonio Colonna, e Virginio Orsini, assegnando doti, doni, ed elargizioni le quali a cotesti tempi giudicate mirabili, oggi parrebbero immani; per certo tra danari, gemme, entrate, e di ogni ragione comodi non portarono le spose ai loro mariti meno di un milione di scudi per una. A cui ben guarda in questa agonia d’imparentarsi con le precipue famiglie baronali d’Italia ravvisa il villano che ha in uggia la memoria del suo umile stato. — Il nipotismo da Pio V abolito rispetto ad alienazioni in pro della famiglia del Papa di parte dei domini della Chiesa, Sisto rinnovò in altra guisa e fu sbraciare a ribocco entrate, e benefizi ai suoi congiunti. Provvide il cardinale Montalto di una rendita di centomila scudi fra patrimonio proprio, e benefizi, 250 mila e più glieli donò in case, suppellettili, e vasellami; poi cariche, offici a fusone tanto che fu estimato ed era il più ricco cardinale di Roma; così alla stregua gli altri parenti. Certo non sarebbe giusto censurare Sisto se difettò della notizia dei precetti economici, che altri in queste faccende più versato di lui, a quei tempi ignorava; tuttavia anco allora parve strano creare debiti, e scorticare i popoli: per provvedere a immaginate necessità. Stupenda mania di Sisto radunare pecunia, tantochè Gregorio avendo lasciato l’erario al verde Sisto tenne sul serio che costui avesse commesso peccato grave da doverlo scontare per lo meno col Purgatorio; per lo che un bel giorno ordinò celebrassero non so quante messe per l’anima di cotesto Papa morto spiantato. Sisto pertanto durante il suo breve regno giunse a depositare al Castello S. Angiolo 5 milioni di scudi di oro; che ragguagliati al pregio della moneta dei giorni nostri farebbero un 300 milioni di lire; in vari tempi vincolò l’uso di cotesto tesoro a varie costituzioni, che volle giurate dai Cardinali, e furono non si spendesse in tutto o parte eccettochè per riscattare la Terra santa dalle mani del Turco, ovvero nella crociata universale contro lui, bene inteso però non prima, che l’esercito cristiano non si sia trasferito a proprie spese nelle terre degl’infedeli; ovvero se così tremenda soprastasse la fame al popolo romano, che non sovvenuto perisse; del pari in caso di moria: ancora, se qualche terra della cristianità corresse pericolo di cascare nelle mani dei nemici della fede: a più forte ragione, se fosse minacciato il dominio della Chiesa da qualunque principe infedele o no, il quale non istesse già su le mosse, ma fosse già mosso ai danni suoi: per ultimo se senza spenderci danari non si potesse ricuperare taluna terra alla Chiesa, e ricuperata conservarla. Questa costituzione corresse l’anno terzo del suo pontificato dichiarando potesse adoperarsi il tesoro per guadagnare provincie, o liberarle, a patto però che le dovessero rimanere in potestà della Chiesa ossivvero, permutarle in altre più proprie a benefizio di lei: insomma prestare a usura. I cinque milioni non furono nè anco quelli ch’egli ricavò dalla pratica detestabile della Curia Romana, cui egli estese ai limiti estremi, vo’ dire creare nuovi uffici e venderli; di vero trovo come da 36,550 uffici e cariche venduti egli tirasse scudi 5,547,630; però depositava 547,630 scudi di meno di quanto aveva raccolto da questo brutto mercimonio: fra gli offici esposti allo incanto ne occorrono parecchi singolari, il Soldano ovvero carceriere di Torre di Nona, i custodi delle catene, i Prefetti delle carceri, i Sensali di Macerata, e perfino 100 Giannizzeri! Sicuro, il Papa teneva presso sè i suoi Giannizzeri nè più nè meno come il Turco, e ne raccattava la somma di scudi 68,000. Instituì ancora undici monti, tre vacabili, e otto no; ovvero imprestiti redimibili, e non redimibili. Ora bisognava pure in qualche parte pescare il danaro per sopperire al soldo degli uffici venduti, e all’interesse dei monti, che nel sottosopra puoi calcolare un venti per cento, epperò un milione, e più di scudi; quando egli fu assunto al pontificato scrivono la rendita della Chiesa sommasse a 1,746,814 scudi; alla morte di lui toccava i 2,576,814 scudi, che fanno 830,000 scudi di vantaggio; i modi, ch’ei pose in opera diversi affatto dagli usati da Gregorio, o sia che non ci fosse più nulla da levare di sotto ai feudatari, o sia, che Sisto volesse gratificarseli quanto gli aveva tribolati il suo antecessore: tutto sottomise a dazio, grano, vino, olio, le sostanze alimentarie di prima necessità, che più? Fino le povere alzaie, che tirano sul Tevere contro corrente i navicelli in compagnia dei bufali ebbero a pagare il balzello: alterò la moneta, e barattatala con la buona, anco questa dopo averla falsata rivendeva: buttò a terra il commercio aggravandolo di due per cento sul valore delle merci introdotte nella città; le quali cose considerando il Leti, quantunque si palesi ammiratore dei modi di amministrare di Sisto, non può astenersi da confessare: «lasciò il popolo così angariato, che da quel tempo in poi.... non si è sentito parlare che di povertà e di miseria avendo continuato i popoli ad essere esangui, e meschini.» Narrano come coteste diavolerie gli mettesse in capo certo ebreo portoghese chiamato Lopez, ma io noto, che i Preti nel magistero di piluccare danaro non hanno mestiero d’insegnamento, e possono tenere cattedra; di consigli non voleva saperne; in altri negozi talora si accomodava, ma in quanto a fare quattrini Sisto non pativa avvertenze; però avendo consultato il cardinale Albani di Bergamo, che cosa gli paresse del dazio sul vino rispose: «io approvo tutto quello, che piace a vostra Santità, tuttavolta, veda, approverei con più cuore, se questa tassa a vostra Santità dispiacesse.» Quando la tirannide imperversa questa opposizione apparirà anco troppa. Celebrano autori così chiesastici come laici la magnificenza di Sisto nell’ornare Roma di fabbriche eccelse, e veramente meritano lode; però non fu, come pure si doveva avvertito, che spesso le sue costruzioni attestano altrettante distruzioni, ovvero trasformazioni; il famoso Settezzonio di Severo, reliquia davanti alla quale sembrava si fermasse il Tempo per ammirarlo non per distruggerlo fu abbattuta da Sisto e ne fece trasportare le colonne a San Pietro; gli era entrato l’uzzolo addosso di buttare giù ogni cosa, tra le altre il sepolcro di Cecilia Metella monumento illustre dei tempi della Repubblica; i romani atterriti da questa salvatichezza fratesca, gli stessi cardinali, eziandio quelli che più zelavano la fede cattolica si misero intorno al Papa scongiurandolo a deporne il pensiero, ai quali egli rispose: «che avevano torto perchè egli aveva avuto in mente di torre via le turpezze, sostituendo edifizi degni di ammirazione.» A malincuore pativa albergare nel Vaticano le statue di Apollo e di Laoconte; dal Campidoglio poi risoluto le mandò via; anzichè sopportarcele gli avrebbe dato fuoco: ebbero ad esulare dalle sedi terrene Giove e gli altri Dei consenti come già furono banditi dalle celesti: la terra e il cielo governano fati inesorabili! solo trovò grazia al cospetto del Sacerdote del nuovo Dio Minerva a patto, che deposta la lancia pigliasse la croce; così Pallade cecropia fu vista con l’elmo in testa, la gorgone sul petto, e la croce in braccio in sembianza di convertita alla religione cattolica romana. In pari guisa, remossa dalla cima della colonna traiana, l’urna la quale, secondo che ricordava la fama, conteneva le ceneri di Trajano, ci fece porre la statua di bronzo dorato di San Pietro, e gliela dedicò, per guisa che sembra lo Apostolo abbia operato le imprese contro i Parti e i Daci non già Traiano; non diversamente si comportò con la colonna antonina eretta dalla pietà di Marco Aurelio al suocero benemerito Antonino Pio, Sisto la incoronò con la statua di bronzo dorato di S. Paolo e gliela offerse in dono, onde S. Paolo a questo modo sembra il domatore dei Marcomanni, impresa che si contempla scolpita a vitalba intorno alla colonna: in entrambe Sisto procurò s’incidesse il suo nome, e se così giovasse, a poca spesa acquisteremmo nome di supremo fabbricatore fra quanti vissero e vivranno figliuoli dell’uomo. Degli obelischi non parlo anch’essi dallo Egitto trasportati a Roma dapprima onorarono gli astri, poi gli uomini. Sisto parve quasi un Nume per averli drizzati sopra la base, in Egitto coloro che li svelsero dalle viscere della terra non furono tenuti per superiori agli uomini. Storici che scambiano la storia co’ panegirici gli attribuiscono molti, e sperticati disegni; tra gli altri quello del taglio dello stretto di Suez, che avrebbe tronche le ale al moderno Lesseps; forse egli potrà averli concepiti, ma per uomo di stato piccolo vanto è questo; imperciocchè d’immaginazioni Ludovico Ariosto sapesse partorirne più stupende; il nodo sta a chi governa di attendere a cose proporzionate alle forze, e con indefessa cura ridurle in atto e compirle. Rispetto a politica terminò peggio di Gregorio XIII essendosi inimicati il re di Spagna, e i Guisa senza guadagnarsi Enrico IV, che non fatto capitale di lui. anzi contro lui si propose re alla Francia; se cotesto re, abiurate le dottrine tornava in grembo alla Chiesa, ciò accadde più tardi non per opera di Sisto bensì per quella di Clemente VIII. Notai come la fede cattolica prevalesse a furia di fuoco, e di forca in Italia e nella Spagna; adesso mi occorre aggiungere che parve anco volesse allagare sempre a modo di lava nei Paesi-bassi, in Francia, in Germania, e perfino nella Svezia, ma l’arco teso si ruppe; la ragione calpestata levò la testa tornando più gagliarda alle lotte, che all’ultimo non perde mai, anzi qui in Italia dove il trionfo del cattolicismo sembrò intero cosicchè i Preti pensarono potere tornare in ballo co’ miracoli di Madonne, che piangevano, ridevano, o favellavano, e talora apparivano traverso un pagliaio, tale altra su di una siepe; qui nella potente Italia cessati gli studi teologici, e la opposizione scolastica lo ingegno si raccolse pigliando a consultare il manoscritto originale di Dio, vale a dire l’universo e la natura, buttati via i libri dei dottori: anco qui la Chiesa romana, quasi per istinto avvertita del pericolo, accorse a spegnere; a che prò? Ella non poteva immaginare, che meglio di venti cattedre avrebbe distrutto l’ammasso dei suoi errori un fornello di chimica; gl’Italiani devono, per così dire, ringraziare i Papi se scacciati dal sentiero dove sarebbero riusciti calvinisti, o luterani, o socciniani trovarono la strada della filosofia: le sette più o meno si proposero a fine la riforma, emenda, non estirpazione di errore; la filosofia di altro non si appaga, tranne dell’assoluta verità. Senza jattanza, per me credo, che verun popolo al mondo racchiuda in sè come lo italiano nostro istinto ed attitudine non di riformare, bensì di trasformare la vita della umanità. Seguono tre Papi, che poco fanno e male: dirò succinto di loro. Intanto è degno di considerazione grandissima come secondo tira il vento gli uomini mutino voglie e concetti. Nella politica occorrono di tre maniere teorie, talune precedono più o meno lontano i fatti e queste talora imbroccano, e talora no; altre sorgono contemporanee ai fatti, e queste quasi sempre troviamo fallaci perchè più che da ragione dettate dalla passione; altre poi si cavano fuori dalla materia dei casi accaduti; e queste per ordinario danno ottimo argomento di governo. In questi tempi furono sposte teorie strane e per la sostanza, e per gli uomini, che le professavano; i chiesastici, i gesuiti, soprattutto il più assoluto diritto dei popoli per isgararla contro principi eretici bandivano: il solo Papa preposto da Dio al potere spirituale; non così al temporale; nondimanco anco questo gli sottostà a mo’ che il corpo serve all’anima: certo il Papa per ordinario non esercita autorità alcuna sopra le leggi degli altri stati, ma se il principe negasse ostinato una legge necessaria alla salute delle anime, ovvero volesse imporne un’altra dannosa il Papa non solo può ma deve ordinare la prima ed abolire la seconda. — Errore solenne credere, che Dio abbia conferito all’individuo facoltà regia, ei la concesse al popolo universo; però in lui il potere, e in lui la facoltà di torlo ovvero darlo altrui; così il Bellarmino, il Sa negli Aforismi pei Confessori cavati dalle sentenze dei Dottori, Suarez ed altri parecchi: il Mariana nel trattato del Re, e della sua instituzione detta il panegirico di Giacomo Clemente il quale innanzi di uccidere Enrico III volle consultarsi con teologhi profondi in divinità: un’altro gesuita, il padre Boucher predicava: veruno potersi presumere legittimo re se non eletto dal popolo; solo un confino posto alla libera volontà di lui, e questo consistere nella scelta dello eretico; dove ciò faccia, la maladizione di Dio gli cascherà sul capo. Quando innanzi al Parlamento di Francia si deliberava sul partito della cacciata dei Gesuiti comparve un libretto di massime tratte dagli scrittori chiesastici, massime Gesuiti ostili ai principi, e come i Francesi costumano quando la vogliono spuntare ne diffusero a centinaia di migliaia anco per la Italia, e per la Spagna; oggi a ristamparlo in Parigi ci sarebbe il caso di rifinire in prigione. Simili dottrine poi non mica invise al popolo, all’opposto, da lui professate smanioso come quelle, che servivano al suo talento di contradizione, ch’è l’anima dell’anima del popolo francese, e Filippo II (mirabile a dirsi!) travolto dall’agonia di soverchiare la Francia le accetta, e le promuove anch’egli potendo più in lui la rabbia di nuocere agli emuli, che la necessità di provvedere a sè. Per converso i protestanti sovvertitori nella fede, procedevano conservatori nella purità della monarchia sostenendo: Dio solo impone i principi al genere umano; a lui il diritto di suscitare, e atterrare, concedere, ovvero torre la potestà. Certo ai dì nostri il Signore non cala sopra la terra per regalarci un re, ma per virtù sua ogni stato osserva certe leggi nella elezione del principe; per modo, che se un principe venga promosso a norma di quelle, si può dire, che la voce di Dio ammonisca i popoli ad obbedirlo per re; da lui poi pendono i re avvenire per diritto legittimo di successione. Alla legge bisogna stare; se la si potesse offendere sotto pretesto delle colpe del principe, addio stati; la eresia non libera dall’obbligo della obbedienza, perchè in ciò che offende Dio non hai ad obbedire; nelle altre cose sì. Appena però il Papa, e i re ebbero messo in comune manette, sbirri, e carnefici, la Chiesa buttò via le dottrine sovvertitrici; da quel giorno in poi, ella non rifina mai bandire che i popoli hanno ad obbedire sempre ai re, e in tutto e per tutto; e non le mancano autorità; prima Cristo, dopo Paolo: il primo lo volle significare col detto: «date a Cesare quello, ch’è di Cesare.» più chiaro l’altro: obbedite ai principi etiamtsi discolis. Passione vince prudenza anco nei savissimi, sicchè a seconda l’interesse più urgente l’uomo stesso sostiene a volta a volta il diritto, e il rovescio; e talora eziandio nel medesimo punto, donde la perdita di reputazione nelle autorità e la voglia nei popoli di sovvertirle quando cascano in dispregio. Chi volle ridurre il processo del Papato a teorie afferma, che il Conclave tenne nello eleggere i Papi questa ragione, al rigido surroga il mansueto, al parziale per Francia lo zelatore per Austria; ma non pare vero, almeno sempre; e così essendo siffatte alternative accadono non mica per consiglio, bensì per irrequietezza dei cervelli umani. Di vero, che Giovambattista Castagna ovvero Urbano VII. sostituito a Sisto V. si sarebbe mostrato diverso da Sisto non comparisce; anzi sembra lo indicasse egli stesso, allorchè sedendo a mensa con altri cardinali e con lui non rinvenne pera, che non fosse fradicia esclamò: — è tempo che le pere cessino; Urbano VII. durò nel papato non bene intere due settimane: ombra che segna la sua apparizione su le pareti del Vaticano e passa. Ora la Spagna nel presagio che Francia pigli il sopravvento propone, o piuttosto impone al Conclave uno strano partito; ella farebbe una nota di sette candidati; eleggessero tra questi cardinali il Papa; non piacque; nè Spagna nè Francia la spuntano; il nipote di Sisto V. cardinale di Montalto incapace a creare il Papa, attissimo ad escluderlo se non gli garbasse; pure si accorda a promovere colui che gl’incresce meno: di qui la elezione di Gregorio XIV. Costui sparnazzò la pecunia improvvidamente raccolta da Sisto V. in usi improvvidissimi; sovvenne la lega di Francia contro il Re di 15,000 scudi il mese, e di fanti e di cavalli condotti dal suo nepote Ercole, e se non bastavano prometteva maggiori soccorsi: rinnovò la scomunica a danno di Enrico IV, spedì fino negli Svizzeri ad arrolare fanti con danari, e indulgenze; se queste operassero meglio di quelli non è chiaro, perchè gli uni e le altre buttavano con la pala, e gli Svizzeri avuti i quattrini pigliavano anco le indulgenze, che a qualche cosa a quei tempi la gente le credevano, e troppo anco ai nostri le credono buone: morì dopo 190 giorni di pontificato: ben pel mondo che morì presto; unico elogio degno di lui. Da capo gli Spagnuoli propongono sette cardinali, ed il Conclave fra questi elegge Giovannantonio Facchinetti da Bologna; anch’ei fu lampo, ma di luce maligna però che spedisse pecunia alla lega, consigli ad Alessandro Farnese per mantenere in subbuglio la cristianità. Adesso quelli, che l’odio divise, accorda, come per ordinario succede, l’interesse; i cardinali spagnuoli acconsentono a non procedere più ostili alle creature del Montalto, e questi per compenso promette non avversare i parziali di Spagna, che subito si pone coll’arco del dosso a fare riuscire il suo, il quale si chiamava Santorio, ed era cardinale di Sanseverino; in lui accadde una stranissima cosa; già lo credevano eletto; i camerari secondo l’uso davano il sacco alla sua cella; già gli emuli prostrati lo supplicavano di perdono, ed ei facile concedeva, dichiarava in pegno volersi appellare Clemente, tuttavia tremavano, avendolo a prova sperimentato feroce, quando ad un tratto il cardinale Altemps verificando trova mancare un voto ai due terzi onde la elezione diventa legale: allora preso coraggio dal pericolo il cardinale Ascanio Colonna esclama ad alta voce: «egli è chiaro; qui si vede che Dio non vuole Sanseverino, e nè anco io lo voglio.» Ripresero gli scrutini, e ad ogni volta egli perdeva voti i quali si logorarono sopra cinque; finalmente rimase eletto Ippolito Aldobrandino, che buono o reo consiglio lo persuadesse volle accettare il nome di Clemente scelto prima dal Santorio. Quale e quanta l’ambascia di questo non si crederebbe oggi, se avendo scritto egli le proprie memorie non ce ne avesse lasciato testimonianza irrecusabile; «la notte successiva, egli narra, fu la più dolorosa di tutta la mia vita; l’afflizione profonda, l’ansietà dell’anima (mi attenterò a dirlo?) fecero trasudare da tutto il mio corpo sangue!» Chi Clemente VIII fosse non importa ricordare; nacque da Silvestro Aldobrandino fuoruscito di Firenze per colpa piuttosto di avere odiato il tiranno, che amato la libertà: fu grasso, fu avaro, fu gottoso, cupo, giurisperito, e ladro insanguinato; all›Austria caro per avere, negoziando, tratto fuori dalla prigione di Polonia lo arciduca Massimiliano. I principali fatti di lui questi: Enrico IV. assoluto, Ferrara ripresa, la famiglia Cenci assassinata per libidine di ricchezze: l›ultimo delitto negò temerario quanto inverecondo un Gesuita in certo suo libro impresso a Milano, e inutilmente, imperciocchè F. D. Guerrazzi nella ultima edizione della Beatrice abbia chiarito la malignità di costui con documenti usciti dalla mano propria del medesimo Papa. Quanto a Ferrara, la rabbia, bisogna dirlo, era fra i cani: i vulgari su la fede dei poeti credono che il magnanimo Alfonso fosse magnanimo davvero; le città sotto il suo dominio diventarono deserte; nabissati i canali, le riviere ostruite, per sabbie ammonticchiate la navigazione sul Po impedita: il duca venditore esclusivo del sale, esattore di un balzello sopra tutti i contratti, qualunque derrata entrasse in città aveva a pagare il dazio; ma questo anco ai dì nostri costumasi con la giunta del bollo; quello che non si costuma fra noi è il principe, come Alfonso di Ferrara, unico fornaio dello stato, e impiccatore di sei miseri co› fagiani legati ai piedi uccisi nel parco ducale: di omicidii commessi per via di sicarii non si parla nè manco. L›Ariosto nell›Orlando lo leva a cielo; nelle satire è altra cosa. Il Tasso sel sa se meritava le laudi che prodigo troppo gli sbraciava: il mondo sa la lunga prigionia a cui lo dannava, ma forse una causa più o meno giusta per questo possiamo supporre ch›egli avesse, ma il mondo ignora come lo lasciasse penuriare così anco nei giorni di favore da obbligarlo di mettere in pegno allo ebreo certi arazzi di casa e perfino le camicie; ed io non so immaginare sfregio più grave di quello, che gli fece quando con questi due versi ordinò gli desse il suo fattore una botte di vino: «Una botte di vin sia data al Tasso, «Mangi, beva, poeti, e vada a spasso!» E più tardi scrivendo il Tasso al duca di Urbino ecco a che riduceva in prosa il magnanimo Alfonso cantato in versi: «il duca per naturale inclinazione è dispostissimo alla malignità, ed è pieno di una certa ambiziosa alterezza, la quale egli trae.... dalla coscienza del proprio valore, del quale in molte cose non si dà punto ad intendere il falso.» Disperato di prole, e pure repugnante a menomare la sua autorità, tardi elesse Cesare cugino suo erede, il quale ammonito come Clemente intendeva ricuperare ad ogni patto Ferrara feudo chiesastico deliberò mostrare il viso alla fortuna raccogliendo armi ed armati, munendo le fortezze, e facendo ogni altra provvisione di esperto capitano di guerra; e il Papa dal canto suo non si arrestava; anch’egli data la stura ai tesori di Sisto arrola eserciti, ammannisce grande apparecchio, conduce generali illustri, e non omette scomunicare Cesare con parole esecrabili, a suono di trombe e di tamburi, mentre le campane rintoccavano a morto, e gittando, giusta il costume, dalla loggia di San Pietro una torcia accesa sopra la piazza del Vaticano: però le sarieno state novelle, se Spagna non pativa, che il Papa facesse, e Francia non lo aiutava a fare; Cesare di Este assai si confidava a Filippo, tanto, che lo propose arbitro della lite, e si profferse mettere presidio spagnuolo nelle sue fortezze; non meno si riprometteva da Enrico avendolo gli Este sovvenuto nelle sue angustie di un milione di scudi, il quale se gli fosse stato restituito gli dava abilità di mettere insieme tale uno esercito da contrastare qualunque più potente principe della cristianità non che il Papa, tuttavia al maggiore uopo gli venne meno ogni cosa; Filippo vecchio, e sfiduciato, vinto ormai dalla sua impotenza piuttostochè persuaso della umana pochezza come dal suo testamento si manifesta rifuggiva a commettersi da capo alle ansiose vicende della guerra, però scrisse ai suoi Vicerè d’Italia lasciassero correre: Enrico era nemico mortale della gratitudine: troppo gran servizio il milione di scudi, ond’ei potesse rimunerarlo con altro, che col perseguitare il creditore; e poi lo stringeva necessità di tenersi bene edificato il Papa, il quale o favellasse sincero oppure fingesse sempre dubitava della lealtà della sua conversione, per la quale cosa non gli parve vero potere gratificarselo alle spalle altrui; e da ciò venne che non solo consentì al Papa di operare a modo suo, ma sì gli scrisse avrebbe mandato in soccorso di lui uno esercito intero oltralpe, e se non bastava sarebbe accorso in persona: se poi lo avesse fatto, è un’altro paio di maniche. La Corte romana per lo inopinato ardore di Re Enrico andò in visibilio; di eretico dannato al fuoco eterno per poco non lo salutarono Giuda Maccabeo, e Gedeone. Il cardinale di Ossat gli scriveva: «non ho parole, che bastino per significarle quante lodi, benevolenze, e benedizioni la Maestà vostra siasi tirate addosso in grazia delle sue profferte.» Don Cesare abbandonato dagli amici di fuori, dentro insidiato ebbe a cedere; Clemente acquista Ferrara, la quale da prima resse benigno, poi mano a mano acerbo, più acerbo, e finalmente acerbissimo; tanto, che per sospetto volesse il popolo ferrarese dare la balta il Papa ci fece costruire la fortezza, e i Ferraresi si condussero a lamentare il dominio estense; cosa d’altronde ordinaria nelle tirannidi, che la nuova desti il desiderio dell’antica non perchè paia quella più dura, ma veramente sia. L’assoluzione di Enrico IV fu negozio, che dopo averlo succhiellato da una parte e dall’altra visto che tornava ad ambedue si sarebbe tosto conchiuso, ma il Papa andava giravoltando un po’ per tema di Spagna, un po’ per cavarne più, che potesse: così tentato prima Filippo, che ormai, come avvertii, aborriva da nuove guerre, ed impartita al negozio indole religiosa per modo che il piissimo Re spagnuolo l’avesse a trangugiare lodandolo aperto, ed in segreto maledicendolo poteva avventurare il passo, ma allora appunto cominciarono le ambagi di Roma; tuttavia quando tirate troppo le corde fu temuto, che le si rompessero il Papa calò, molto più che nel mezzo tempo Enrico faceva a vittoria succedere vittoria; in Francia per la solita voglia di saltare dallo scacco bianco al nero, o piuttosto per paura accadde un solenne voltolone. La Sorbona revocando i suoi decreti dichiarò la monarchia d’istituzione divina, necessaria la obbedienza al Re quantunque respinto da Roma, e poichè il becco emissario ci ha da essere sempre questa volta toccò ai gesuiti; anzi in quel torno un Giovanni Chatel avendo assalito Enrico per ammazzarlo e trovato che a costui avevano guasto il cervello le prediche dei gesuiti, questi ebbero ad uscire dal regno come seduttori della gioventù, perturbatori della quiete pubblica, nemici dello Stato e del Re. — I patti apposti alla assoluzione del Re non gravi per ora quanto alla sostanza, ma quanto all’apparenza eccessivi, imperciocchè Enrico dovesse farsi rappresentare da un’oratore a posta il quale nel portico di San Pietro genuflesso ebbe a leggere la supplica regia, e a sopportare di essere percosso con le verghe su le spalle secondo il rito di Roma quando assolve gli scomunicati. Dicono che Enrico esclamasse: — Parigi vale bene una messa! — Se questo dicesse ignoro; certo parmi che da eroe non adoperasse, bensì da uomo di stato valoroso, imperciocchè secondo che avviene nei perturbamenti politici, le parti estreme si fossero combattute, e stremate; gli eccessi vicendevoli le avevano scemate di credito, e la parte mezzana standosi da canto cresciuta di forze, ampliata di aderenti per avere quiete accettava il Bearnese a condizione si rendesse cattolico; e il Bearnese considerato, che contro questa parte non sarebbe mai venuto a capo nè anco se i suoi ugonotti fossero stati interi, epperò molto meno poteva riprometterselo adesso che erano laceri; pensando altresì come a cotesta parte per vincere basti stare fermo, di un tratto staccatosi dagli amici, a piè pari le salta in mezzo, e regna. Anco il Papa ci fece il suo civanzo, oltre quello che apparve stipulato, e questo fu, che si amicò la Francia senza romperla con la Spagna, onde alla occasione si procurava la scelta della servitù; alla Italia poi invece di uno pose sul collo due gioghi, consueti doni del Papato. Di Alessandro dei Medici, che prese nome di Lione XI altro non è a dirsi, eccettochè visse soli 27 giorni; i Francesi, i quali lo reputavano a loro propizio ci spesero per ispuntarla contro gli Spagnuoli 300,000 scudi; li giuntò la morte, e per questo li posero in canzone gli Spagnuoli, che messi su l’avvisato attesero con diligenza maggiore alla nuova elezione donde uscì fuori Cammillo Borghese in fama di loro parziale, che tolse nome di Paolo V. — Anco di lui breve, comecchè agitasse gravi cose, ma all’argomento nostro non pertinenti; poco seppe dei governi del mondo sprofondato negli studi forensi nei quali acquistò nome di sofista, e d’ingegno cupido, mascagno, e presuntuosamente cocciuto; siccome per essere eletto Papa egli si astenne dai soliti intrighi, ebbe fede sul serio trovarsi assunto alle somme chiavi per virtù dello Spirito Santo; oltre questa fede egli n’ebbe un’altra, e fu, che lo avessero ad uccidere di ferro, o di veleno; per la quale cosa sospettando di tutto, e di tutti viveva misera vita; impaurito atterriva, e a danno suo lo seppe il misero Piccinardi cremonese, il quale compose non so quale poema satirico nè manco in ispregio di lui, sibbene in odio di Clemente VIII; il misero poeta non lo aveva per altro pubblicato con le stampe, anzi lo teneva sotto chiave; lo denunziò una donna; Paolo ne prese occasione per ispaventare, e siccome la voglia sua parve piuttosto immane, che feroce, magnati Romani, oratori di principi amici lo supplicarono per cotesto fallo non volesse fare sangue, ed ei lo promise: ma quando se lo aspettavano meno gli mozzò il capo a Santo Angiolo, e ne prese i beni. Proseguendo nella tumida presunzione scomunica il reggente di Napoli per avere dannato alle galere per cause attenenti ad interessi chiesastici un protonotario, e un libraio; si arruffa con Savoia a cagione di benefizi, con Genova per avere vietato le assemblee dei Gesuiti scuola perpetua di subbugli, con Lucca la quale ordinò i decreti degli officiali del Papa non si eseguissero se non dopo ottenuta l’approvazione del Governo; con Venezia poi molti e vari i capi di contesa nè spirituali tutti; litigavano pei confini su quel di Ferrara, per le pesche, e per la navigazione del Po; il legato di Ferrara fece pigliare alcune barche peschereccie dei Veneziani; questi per rappresaglia si portarono prigioni una frotta di papalini, e con navigli armati sostennero a forza le loro ragioni. Ma il Papa più pertinace che mai pretende i diritti regali su Ceneda, e i Veneziani non gli danno retta; egli ordina i giudizi dei tribunali vescovili della Venezia si deferiscano a Roma, i Veneziani minacciano a cui obbedisce guai; il Papa scomunica i renitenti, i Veneziani provvedono non sorta effetto civile la scomunica: poi venne il negozio delle decime; il Papa le volle per sè, non le potendo ottenere, dispensava da pagarle; se non le poteva esigere egli nè anco i Veneziani le dovevano avere; anco su i libri si levarono querimonie infinite: larghi i guadagni di questa industria a Venezia; il Papa si affaccendava quotidianamente a proibirli mettendoli allo Indice; a questo mo’ impedito che a Venezia si stampassero e altrove emendati alla sua maniera procurava si pubblicassero a Roma: questo volgere l’autorità spirituale in prò della bottega uggioso sempre, insopportabile adesso perchè lesivo gl’interessi del commercio, di cui ogni mercante è tenero, e i Veneziani ne furono tenerissimi. I Veneziani dal canto loro non tenevano le mani a cintola, e con lo escludere dalle assemblee chiunque tra loro per professione, e per elezione dipendesse da Roma, taglieggiare il clero fino alla carne, pretendere, che i benefizi ad altri, che paesani non fossero, non si avessero a conferire, e questi soli presiedessero alla inquisizione, vigilare ogni ritrovo chiesastico, impedire, che pure un quattrino ricapitasse a Roma rendevano pane per focaccia. Insomma alle romane improntitudini significate a questo modo, che gli stati volendo anco in minima parte mescolarsi nei negozi della Chiesa, dirigerli, molto più contrastarli commettevano tirannide pagana; lo imperatore non può giudicare i Papi, ma sì i Papi gl’Imperatori; l’anima ha da vincere la carne, lo spirito supera la materia: da quando in quà la pecore si rivolterà al suo pastore, o lo vorrà sermonare? Il sacerdote va esente da qualsivoglia balzello; ha da essere pagato non già pagare; egli appartiene alla famiglia di Cristo: mirate i Leviti, tutto Isdrael contribuiva loro la decima. E i sacerdoti non rendono con inestimabile usura questo po’ di benefizio terreno pregando pei peccatori, ed offerendo il sagrifizio? Da Cristo scende il sacerdozio cristiano così, che spento l’ultimo prete (inorridisco a pensarlo!) preti non se ne potrebbero trovare più nè anco a pagarli cinquanta centesimi l’uno; degl’Imperatori, dei Re, Duchi, Granduchi, Arciduchi eccetera poi il popolo ne possiede la stampa. Tanto affermano il vecchio, e il Nuovo Testamento, i dottori della Chiesa, i Concili, e perfino le Bolle dei Papi. Tra i Veneziani allora viveva un frate servita Paolo Sarpi uomo di costumi illibati, dotto in molte maniere di sapienza umana, d’ingegno acre, e battagliero, indefesso agli studi, nelle dottrine canoniche singolare; e per di più padroneggiato da passione dominante, che era l’odio contro l’autorità temporale dei Papi: il Senato l’oppose a Roma; e il Sarpi solo dimostrò col vangelo, co’ dottori, ed anco con i Concili (perchè ce ne ha di tutti i colori) che tutto potere ci viene da Dio e lo ha detto l’Apostolo (il quale se la poteva risparmiare) che ogni persona è tenuta ad obbedirlo, e lo ha detto Dio; al principe sta dettare le leggi, giudicare la gente, imporre le gravezze, ed in questo così chierici come laici dovergli sommissione: per nulla le prerogative del principato eccezione del sacerdozio; al contrario quelle del sacerdozio concessioni del principato; questo dette alla Chiesa possesso e giurisdizione, e l’è protettore, anzi patrono; da lui pertanto a buon diritto dipendono la nomina ai benefizi; e la pubblicazione delle bolle, e via discorrendo. Gli è chiaro che riusciva più agevole mettere insieme l’acqua e il fuoco, che queste due pretensioni contrarie, si venne alle rotte, e il Papa scomunicò il Doge, il Senato, tutti i magistrati della repubblica, e segnatamente i consultori; impose altresì ai preti pubblicassero la scomunica dagli altari, o affiggendola alle porte della chiesa, a chi mancasse guai in questo mondo, e nell’altro. Il Doge Leonardo Donato, eccetto un po’ di decreto stampato in un quarto di foglio col quale ammoniva il clero a non curarsi di quelle grullerie, ed a continuare nel debito verso la Patria, non se ne dette per inteso. Avvertiti i Dieci come certo parroco si fosse vantato bandire la mattina di poi la scomunica, notte tempo gli fecero rizzare le forche dinanzi alla Canonica, e bastò; al Vicario di Padova, il quale interrogato dal Provveditore, che cosa intendesse praticare circa la pubblicazione della scomunica, rispose: «io farò quello, che lo Spirito Santo m’ispirerà.» Il medesimo soggiunse: «reverendissimo ci pensi due volte, perchè io so di certo che i Dieci hanno risoluto impiccare qualunque prete a cui lo Spirito Santo inspirasse la pubblicazione.» Lo Spirito Santo, certo per non mettere a repentaglio il Vicario, si astenne da ogni ispirazione. Ricorrendo la festa del Corpus Domini il Senato provvide si celebrasse con solennità straordinaria, e così come sapevano i nostri maggiori mostrarono ai preti che mal presumono trafficare su Cristo come cosa di loro privativa: Cristo è dei cristiani, e meno di ogni altro di loro. Roma arrovellando voleva dire, e fare; quanto a dire ella mantenne la promessa anco troppo, quanto a fare e’ fu diverso; la guerra rimase alle minacce; non così circa allo assassinio del povero fra Paolo; la prima volta fu spedito da Roma Rutilio Orlandini per ammazzarlo; di presente gli pagarono un mille ducati; compita la strage avrebbe avuto, chi dice 5000, e chi 50,000 ducati; egli prima di partire mostrò a Flavio di Sassoferrato l’assoluzione del delitto il quale stava per commettere: non importa nè anco notare che i preti negano a spada tratta; ma che non negano, quando torna loro i preti? E tuttavia si avrebbero a ricordare, che il Cardinale Barberini poi Urbano VIII, andava in Parigi promettendo nonchè assoluzione indulgenza a cui ammazzasse fra Paolo, Clemente VIII, aveva concesso mediante uno elegantissimo breve in virtù del quale era dato facoltà a taluni cittadini di Rieti di spengere senza sospetto di pena in questa e nell’altra vita gli assassini del padre loro. L’Orlandino, messo appena il piede su quello della repubblica, fu preso, e strozzato in un bacchio baleno: più avventuroso, o piuttosto più misero di lui Ridolfo Poma il quale forse pei conforti del Papa stesso, e certo poi di Cardinali, Prelati, e Chiesastici di ogni risma legatosi con parecchi preti, e parecchi ribaldi assalito a tradimento il Sarpi presso al suo convento nella contrada di Santa Fosca lo lasciò come morto per terra trafitto da venti coltellate. Tuttavolta ei sopravvisse, e all’Acquapendente, che nel medicargli quella delle ferite la quale dalla manca orecchia destra gli passava tra il naso e la guancia notò non averne mai veduto altra più strana, egli avvertiva: «la è fatta stylo romanae Curiae.» Nè qui rimase l’odio, che non perdona mai, imperciocchè Roma non aborrisse a gran pezza Calvino, e Lutero quanto fra Paolo; s’industriarono farlo avvelenare nel cibo, ovvero nei panni co’ quali curava certe sue infermità emorroidali; essendosi salvato il Poma lo ridussero prima al disperato, poi lo aizzarono a tentare da capo assassinarlo; e così durarono un pezzo le insidie finchè la coscienza pubblica in Italia, in Francia, e in Germania si rovesciò contro la infamia di Roma: allora il Papa, e i preti si avventarono a un tratto su quanti poterono mettere le mani addosso, e come dettava loro la paura di rivelazioni temute, la rabbia di minacciosi rimprocci e la speranza inane di coprire con la ferocia nuova la complicità antica gl’imprigionarono strepitosi, in mezzo ad apparecchio eccessivo, e li posero in parte dove non videro più luce: intanto i Veneziani in silenzio avevano agguantato gli altri, e segretamente consegnati all’acqua o alla terra. Interpostosi Enrico IV, tutti questi dissidii si composero; i Veneziani in apparenza piegarono, in sostanza no, chè mantennero inalterata la propria giurisdizione sul clero, e la legge intorno i beni stabili chiesastici. Assettate le controversie venete Paolo ad altro non attese, che a fabbricare congregazioni, instituire ordini religiosi, ed a promovere lo incremento di casa Borghese; ai tempi suoi si rinfocolò più che mai tra Gesuiti e Domenicani la lite intorno la immacolata Concezione; quelli l’affermavano, questi la negavano, ei fe’ silenzio, e messosi in mezzo impose silenzio ad ambedue come per riservarne la gloria di deciderla al nostro Pio IX; e vietò anco un’altra cosa, e fu che il Galileo si astenesse come da eresia dallo insegnare la dottrina del moto della terra: altro non occorre dire di lui, ed è già troppo il detto. Ormai la storia del Papato diventa di papa in papa più inutile pel nostro scopo; ora coglierò in qua e in là qualche fatto, il quale confermi il concetto, che egli da sè come potenza temporale non può reggere: commesso alla protezione di potenze straniere si sente sbatacchiato ora da questa parte, ed ora da quella, servo spregievole e mal fido, sicchè lo Spirito Santo uccello smarrito batte incerto l’ala senza più sapere dove ei si abbia a calare. Gregorio XV. tenta riprendere lo spirituale per servirsene di leva a rifare lo stato; ma lo spirituale solo non fa prova, ed ei reputa venirne a capo stringendosi in società con l’Austria; però mettono in comunella fra loro sacramenti, e carnefici, missionari, e sbirri; l’Austria tiene i popoli pei piedi, il Papa li converte con la corda al collo; e tuttavia ella parve prevalere; la Germania rimase inondata di frati predicatori, le prediche dei quali se convertivano tanto meglio, se non convertivano subentravano i soldati a disertare gente e paesi; felici i banditi! Le missioni, seme di rabbia, e di furore in Europa, attecchirono in America, e ciò perchè in Europa opprimevano, in America parevano affrancare; fra popoli eruditi Roma faceva ufficio di spegnere, tra ignorantissimi appariva luce di intelletto; qui niente aveva da insegnare; costà se non tutto, molto. Anco in Francia la Chiesa sembrò rifiorire, però che la baronia, d’indole ad un punto prepotente e servile, considerando adesso la Monarchia di concerto con la Chiesa, non trovasse il suo conto a dare del capo dentro un’arnese tanto gagliardo; e poi capiva che governo aristocratico la Francia non patisce; costà gli aristocratici comparvero e compariranno sempre a mo’ di penero cucito all’orlo del mantello reale o imperiale: arrogi a questo, che la dottrina della riforma impaziente di autorità senza quasi addarsene aveva incamminato i popoli alla repubblica, e già se n’erano visti i segni; e se ai Monarchi la repubblica garba quanto il fumo agli occhi, nè manco piace agli aristocratici che quelli sono monoliti, e questi frantumi di tirannide schietta. Dove tu cerchi se la Chiesa se ne avvantaggiasse, tu trovi il contrario, e ciò perchè gl’interessi andarono tutti da un lato, e veramente furono i più; la fede rimase dall’altro scarsa, ma depurata da ogni terrena miscela, epperò miglior seme per fruttificare, e per vincere. Anco nei Paesi Bassi, per testimonianza del Bentivoglio fu visto agitarsi un moto tendente al cattolicismo, e i piedi guazzavano sempre nel sangue per le guerre contro Roma; certo il Bentivoglio come nunzio romano merita piccola fede nei suoi scritti, e tuttavia quanto egli afferma può darsi, imperciocchè non so se accada, come affermano nell’aria, ma sicuramente nello spirito umano, la corrente, che succede, tira nel verso contrario a quella, che passa. Nella Inghilterra comparivano indizi di non lontana mutazione; costà reggeva il figliuolo della Maria Stuarda vago di procurare a Carlo suo primogenito nozze spagnuole, e Gregorio in istile di gente innamorata gli scriveva: «la vecchia radice della pietà cristiana feconda un giorno di sì bei fiori fra i monarchi inglesi germoglierebbe da capo nel suo cuore.» A questo modo al Papa pareva camminare in bussola; sopra tutti appoggiavasi, lo sostenevano tutti; ad un tratto Austria e Spagna si legano contro Francia a cagione delle alpi elvetiche; il Papa esse tirano chi di quà e chi di là; era mestiero risolvere, e commettere la tiara all’alea delle battaglie; prevalse la buona fortuna di Gregorio XV. eletto a comporre le liti, e lo faceva forse, se la morte non gli avesse tronco le pratiche. Subentrato a Gregorio Urbano VIII. dei Barberini cambia aspetto ogni cosa; Gregorio in cuore austro-spagnuolo, in sembianza no, Urbano poi francese affatto in apparenza ed in sostanza; ed a rilevare inoltre i fiacchi spiriti di Francia ecco sorgere ministri Vieuville e Richelieu; allora il nuovo Papa butta all’aria le nozze di Carlo Stuardo con la infanta di Spagna ponendo per patto nella dispensa, che il Re si obbligasse a costruire chiese cattoliche in ogni provincia del regno; Giacomo, il quale, a quanto pare, aveva per la sua testa un po’ più di tenerezza del figliuolo Carlo ne dismise il pensiero: nè basta; in odio all’Austria, e alla Spagna Urbano si accosta ai protestanti, e fidato alla Francia mulina non so quali disegni: di un tratto, la Francia, seguendo la vecchia usanza, conchiude la pace di Monzon, e pianta i collegati su le secche. Questo saggio della lega francese gli avrebbe pure dovuto aprire gli occhi, ma non valse; intricatosi nella successione di Mantova chiama i Francesi a pigliare parte nelle faccende in Italia; egli li sovverrebbe con i danari, e con le armi: allora al Papa non cadeva in mente essere il padre dei fedeli; crisma contro crisma egli spingeva e portava: sempre invasato dall’odio contro l’Austria nella guerra dei 30 anni parteggia per Gustavo Adolfo di Svezia, e favorisce i protestanti: dopo fabbricato il porto di Civitavecchia, lo dichiara franco, e vede frequentarlo più che tutti pirati barbereschi, i quali ci vanno per vendere ai sudditi del Papa le rapine fatte a danno dei Cristiani, nè lo vede solo, ma se ne avvantaggia, e ci ha piacere: forse e’ fu per simili meriti, che abolì il decreto del Senato e del Popolo romano proibitivo della erezione di statue al Papa, dicendo, che stava bene per gli altri non per lui frivolissimo uomo, poetastro astioso e presuntuoso. Il Papato ormai non ardisce più concupire i reami altrui, nè anco si attenta sbarrare un gherone del manto di San Pietro, solo ne cincischia brandelli per coprirne le spalle ai suoi figliuoli, e questi si tirano da parte a rosicchiarli come gatti il ventriglio. Sisto V al cardinale nipote assegnava centomila scudi di rendita, all’altro co’ danari della Chiesa comprò il principato di Venafro, e la contea di Celano. Quello che ardisse Clemente VIII. non si ricorda; donò ai suoi un milione fra tutti; poi ad ognuno sessantamila scudi di entrata; mancatigli i beni della Chiesa, arraffò gli altrui, aiutatori giudici, auspice il boia. Paolo V. co’ suoi Borghese procedeva anco più largo; il Cardinale Scipione ebbe 150 mila scudi di rendite ecclesiastiche, Marcantonio il principato di Sulmona, palazzi, ville, vasellami di argento, gemme, suppellettili che valsero un tesoro; di danaro un milione; e più strano ancora il privilegio di ribandire gli sbanditi, instituire fiere, imporre gabelle sopra altrui, non pagarne essi; andare immuni da confische, impunità per qualunque maniera di devastazione: più discreto Gregorio XV. il cardinale Ludovisio provvide con 200 mila scudi di rendita, il fratello Orazio con 800 mila scudi di monti, con la contea di Fiano e il principato di Zagarolo. Urbano VIII. si spinse a tale enormezza, che parve a molti, ed a me pure esagerata; ciascheduno dei tre nipoti gratificò con 100 mila scudi di rendita, compreso il padre Don Carlo; oltre questo occorre scritto in più parti, come le somme donate dal Papa alla sua famiglia toccassero il valsente di 105 milioni di ducati. E’ sembra che anco al Papa così immane spreco stesse su la coscienza, sicchè elesse certa commissione per esaminare se si avesse a correggere: la Commissione scrisse con una mano avesse facoltà il Pontefice come principe temporale a fondare un maiorascato nella sua famiglia con gli avanzi delle rendite pubbliche del valsente di 80 mila scudi di rendita netta; alle nepoti potere assegnare la dote di 180 mila scudi: il Vitelleschi generale dei Gesuiti consultato intorno questo parere lo sottoscrisse con due mani; al Papa presso a morire gli tornò lo scrupolo a galleggiare sopra lo stomaco; per la qual cosa egli ebbe a sè il cardinale Lugo, e il Gesuita Lupis, che risposero a coro non dovere permettere il fratello, e i nipoti suoi avessero a rendere pure un baiocco, e ne misero innanzi questa stupenda ragione: «tale e tanto è l’odio, che si sono tirati addosso i nipoti del Papa, che giudicano non solo giusto, ma necessario per l’onore della sede apostolica lasciarli in istato di conservare il fasto principesco anco dopo la morte del Pontefice! Alessandro VII. considerando come più prudente consiglio sia fuggire, che resistere alle tentazioni, eletto Papa vietò ai Chigi recarsi a Roma; e nientemeno gli fu apposto a peccato dal padre Oliva rettore dei Gesuiti, onde il Papa dabbene per non precipitare giù dentro lo inferno chiamò i Chigi a Roma, e Mario fratello fece provveditore dell’annona, e rettore di giustizia nel Borgo, il nipote Flavio cardinale nepote provvide con 100,000 scudi di entrata, l’altro nepote figlio di Agostino diventò principe, ebbe Aricia, principati, nozze illustri, tanto altro bene di Dio, onde potè fondare una delle trapotenti famiglie di Roma. Non so se i Pamfili arraffassero più dei Barberini, certo è che ne vinsero i modi tuttochè turpissimi. Olimpia Maldacchina cognata d’Innocenzio X, apre traffico di offici; vende, e baratta, nè solo dentro, ma fuori dello stato, frapponendosi per sensali gli oratori stranieri; empie il Vaticano di clamori a cagione di bizzosi puntigli con la nuora Olimpia Aldobrandina; il Papa caccia prima la nepote, poi la cognata, quindi ambedue, finalmente le richiama, nè cessano le domestiche liti; ludibrio di sacerdozio infemminito. Ma per tornare a Urbano VIII., spinto dai dispetti dei nipoti muove guerra ad Odoardo Farnese per togliergli Castro, come già aveva tolto alla ultima donna di casa della Rovere, Urbino, Gubbio, Pesaro, Sinigaglia, e Montefeltro: di qui vicende le quali per essere da un lato degne di riso, dall›altro non disertavano meno i popoli: invano il Papa cavò da Santo Angiolo 500 mila scudi del deposito di Sisto V. per sostenere la guerra, e invano ce ne spese dintorno altri quattro milioni e mezzo, e s›indebitò per sette chè legatisi ai suoi danni i vari stati italiani egli ebbe a ribenedire a forza il Farnese, e rendergli Castro: dicono, ch›ei ne morisse di dolore; ed aveva torto, imperciocchè dovevano essergli di conforto la città di Roma ingombra di ruine, il titolo di eminenza largito ai Cardinali, e soprattutto la tortura a Galileo, e la condanna della eresia del moto della terra. — Innocenzo, empiti i suoi di facultà, moriva con settecento e più mila scudi di peculio privato; saccheggiaronlo i parenti, che negarono fargli le spese del funerale, e gli diede sepoltura, tre dì dopo ch›ei fu morto, un canonico spendendoci attorno uno scudo: qual seme, tal frutto: sangue di prete non può fallire: — prima di cessare, Innocenzio riprese Castro, e ne abbattè le mura, proprio perchè questa terra avesse ad essere la pietra del paragone della perduta autorità pontificia; di fatto, sforzato dalle prepotenze di Francia la ebbe a rendere più tardi Alessandro VII. insieme a Ronciglione. In breve toccherò dello strazio francese in onta al papato, ora aggiungo il trattato di Wesfalia concluso senza pure farne motto a Papa Innocenzio, che non mancò di protestare e di buono, e gli altri tennero coteste proteste in conto di rondini dell›anno passato. Chiunque osserva mira accadere adesso alla Curia romana quello, che succede a› nobili spiantati, cupidi di crescere le apparenze alla stregua, che la sostanza scema: in questo secolo andò famosa la Corte di Roma per isquisiti trovati di ossequi, che si appellano etichetta, da disgradarne Spagna, e formare la disperazione dello stesso Luigi XIV; infiniti i puntigli su le precedenze tra cardinali, prelati, e famiglie Romane; a cui si apriva la porta spalancandone ambedue le imposte, ad altri una sola; quando passava la carrozza di qualche pezzo grosso, il pezzo minuto fermava la sua: frivole cose queste, non frivolo ma grave oltremodo questo altro: il Papa Alessandro VII. proprio pigliando il Vangelo a contro pelo non patì tenersi dintorno persone, che non fossero nobili di ventiquattro carati, e ne allegava per ragione, che i principi della terra circondandosi volentieri di servitori gentileschi, doveva credersi che tanto più Dio si avesse a compiacere nel vedere il suo servizio compito da personaggi, che andavano per la maggiore: ma! tanto è, il Chigi veniva da Siena, e sembra che nè anco lo Spirito Santo entrando nei cervelli arruffati dei sanesi li possa ravviare. Fino da questo tempo gli uomini di stato considerando come i monti caduti in mano di stranieri, i quali tiravano la rendita standosi fuori, e non contribuivano a spesa (I Genovesi ne cavavano 600,000 scudi ogni anno) prevedevano la miseria crescente nei popoli; ma chi reggeva, non dava retta, appunto come adesso costuma il governo d’Italia: ma ti dia la peste!, almanco allora erano preti schietti, e correva il secolo decimosesto, mentre oggi siamo al decimonono, e ci regge gente soda, ma soda davvero. In cotesti tempi uno arguto ingegno paragonò il governo papalino al barbero spossato, cui, per eccitarlo a correre, si raddoppiano le perette finchè non crepi; mirate un po’ se questa similitudine potesse accomodarsi ai casi nostri. Ora i nostri liberaloni larghi di cintura dopo essere stati un pezzo col sasso in mano per lapidare i monaci, presi da terrore, lo buttano in terra; la corte romana due secoli addietro non faceva a spilluzzico; segno a strazi continui erano i frati a Roma; non concedevasi loro la mitra, molto meno il cappello per non inquinarli; nè manco un fallito, nota Antonio Grimani, nella sua relazione della corte di Roma, si gioverebbe a pigliare il cappuccio. I conventi parvero troppi, e vani; ne restrinsero il numero; Innocenzo X. ne soppresse buon dato perchè, egli disse, senza tante invenie, sono fatti spelonca di lussuria, e di delitti; anzi Alessandro VII. propose spontaneo ai Veneziani levassero di mezzo quanti più potessero monasteri, e del ricavato dalla vendita dei loro beni si servissero nelle guerre contro i Turchi: alla quale proposta i Veneziani contrapponendo certi loro dubbi, il Papa riscrisse: «non gingillassero, facessero come il buon contadino che pota i sarmenti per crescere vigore alla vite.» I Gesuiti all’opposto ingrassano mangiando i frutti del male di tutti: in grazia loro Innocenzo X. con la bolla Unigenitus, che ribadì Alessandro VII, s’inimica i Giansenisti condannando come eretiche cinque sentenze del libro Agostino, nel quale Giansenio presumeva avere spillata la dottrina del santo vescovo d’Ippona: poi li facoltò a eleggersi oltre il generale un vicario, che fu l’Oliva: non si badò al come vivessero, nè come trafficassero, nè in breve costumassero peggio degli altri frati, e non pertanto riputandosi essi necessari, i precetti pontifici sprezzavano da per tutto, massime nelle missioni; alfine ne commisero delle così grosse, che Clemente XIV. gli ebbe ad abolire; ma ormai nè lo stare, nè lo andare giovava a Roma: meglio di Clemente XIV., e di Benedetto XIV. compresero il papato quei pontefici, che s’intorarono a nulla mutare: certo il papato così non può vivere, ma se si muove casca; di vero Pio IX. avendo un micolino fatto le viste di uscire dalla carreggiata risicò andare in fascio in meno che non si dice un credo. I Gesuiti argine alla fiumana del secolo non possono e non poterono opporre; tuttavia remossi loro, la filosofia dilagò; i Gesuiti sono pel popolo quello che l’ellera è pei muri, che prima li rompe, e poi li tiene ritti. — I Gesuiti soppressi da Clemente XIV. ispirato dallo Spirito santo, e per sempre, restituì Pio VII in virtù della ispirazione del medesimo Spirito santo e per sempre: altri di cotesta voltabilità dello Spirito sorride; per me l’ho per buona, e le fo di cappello, prima però che dia una solenne smentita alla cocciutaggine di Pio IX, e poi perchè nutro speranza, che un giorno o l’altro egli abbia a chiarire lui o un altro come la miglior cosa che possa fare un Papa sta nel disfare il papato. Progredendo per sintesi noi vediamo Roma, come il gladiatore ferito a morte, stramazzare, rilevarsi sul gomito, di nuovo cadere, boccheggiare, insomma se mi si consente il detto, vivere di agonia. Le diete Germaniche dal 1654 al 1658 attendono rigidamente a limitare la giurisdizione dei nunzi; Genova, Napoli e Savoia aspreggiano Roma; il peggiore male glielo fa la Francia destinata a minarla sia che le proceda nemica, ovvero amica, ma come amica due cotanti più infesta. Finchè gli stati di Europa durarono in pace Roma servì tutti, e da tutti si fece pagare i salari, ma venuti in rotta fra loro chi aveva ella a servire? E’ bisognava indovinarla: nella guerra della successione di Spagna, il Papa accostandosi all’Austria si aliena Francia, la quale intesa corpo ed anima alla utilità presente non pone fine, nè modo alle sue persecuzioni; da prima Luigi XIV confisca i beni chiesastici; altri grava di pensioni; durante la vacanza dei vescovati risquote le rendite della mensa; gli si oppone il Papa Innocenzo XI, che minaccia scomuniche, Luigi gli aizza contro il clero francese servitissimo, che non si perita così abiettarsi a quel superbo: «noi ci attentiamo appena a movere domande per tema di limitare lo zelo della V. M. La deplorabile libertà dei lamenti oggi si muta nella soave necessità di lodare il nostro benefattore.» Essendo poi convocato in assemblea cotesto clero, compiacendo al Governo, decretò i quattro articoli famosi, fondamento delle libertà gallicane; al tempo stesso Luigi per darsi sembiante di ortodosso incrudelisce a danno degli ugonotti; ma chi troppo l’assottiglia la scavezza, e Roma non si lascia pigliare da siffatte lustre, onde il Papa trovando il conto a rammentarsi che ei presume rappresentare il Dio delle misericordie ammonisce Luigi, che Gesù Cristo praticò altri modi e volle che fosse condotta, non già strascinata la umanità nel tempio. Luigi quantunque cristianissimo fumava d’ira, e durante i suoi deliri avrebbe cozzato non che contro il Papa contro Dio, e già per sostenere il diritto di asilo nel palazzo e nelle contrade circostanti al palazzo del Cardinale d’Este protettore dei Francesi a Roma aveva preso pugna con Alessandro VII cacciando via di Francia il nunzio, occupandogli Avignone, minacciandolo di Concilio e di guerra; onde cotesto Papa tapino per ottenere pace ebbe a mandare il cardinale nipote a Versaglia a chiedere perdono; Mario suo fratello giurò non aver preso parte nella contesa, e tolse esilio da Roma, la guardia corsa fu licenziata, una piramide eretta dove si leggeva incisa la superba vanità di Francia, e la paura del prete imbelle, lasciando incerto chiunque la vedesse se la prepotenza galla superasse la viltà del prete romano, o questa quella: il Papa riebbe Avignone, ma gli toccò restituire Castro e Ronciglione ai Farnese, e cedere le valli di Comacchio al duca di Modena. Più duro cozzo accadde con Innocenzo XI. risoluto propugnatore della regalia, che dichiarava usurpata da Luigi XIV, il quale riuniti 34 vescovi, e arcivescovi, e 35 deputati ecclesiastici della diocesi fa bandire solennemente le libertà della chiesa gallicana dettate dal Bossuet; ripiglia Avignone, sostiene il nunzio a santo Olone, si appella al Concilio e manda con fanti e cavalli il marchese Lavardin a Roma per atterrire ed oltraggiare lo atterrito Papa che soppresso l’asilo non solo al palazzo di Francia, ma eziandio a quelli degli altri oratori pubblica la scomunica contro chiunque si attentasse ripristinarlo; e aveva ragione: tuttavolta il Papa sta fermo, bene può starci plaudendo l’Europa la resistenza di un vecchio imbelle al tracotato re, il quale più tardi oppresso dalla fortuna e dagli anni diceva: «non mi fate rammentare, che in «casa mia ho comandato sempre, nell’altrui sovente.» Morto questo Papa e subentratogli Alessandro VIII, Luigi renunzia al diritto di asilo, trista causa di tanta lite, e rende Avignone; trionfo più splendido ebbe Innocenzo XII. che respinse ogni modo di ritrattazione del Clero francese se non contenesse renunzia chiara e lampante alle proposte della Chiesa gallicana; il Clero francese con la corda al collo confessava il suo torto prostrato ai sacri piedi di Sua Santità con dolore inestimabile. Se cerchi il motivo di tanta vicenda, lo troverai nella mutata fortuna di Luigi XIV vinto dalla Europa legata contro lui, e nella viltà dei preti di Francia pei quali vittoria o sconfitta non muta abbiezione: e noi italiani uomini per gratificarci gente siffatta ci dovremo rendere come loro lumbrichi? E perchè? Per conficcarci i chiodi con le nostre mani dentro le carni; mentre essi che oggi ci vogliono compagni nella umiliazione, domani ci pretenderanno compagni nello insulto. Verun popolo cattolico ha recato crudeli offese alla Curia Romana, al cattolicismo, anzi alla religione di Cristo più dei Francesi, anco ai più avventati rincrebbero le turpi scede, onde un giorno fu segno il rito cattolico, e gli ornamenti sacerdotali, e i sacri vasi laidamente profanati, come la vera filosofia si sgomentò nel vedere in Francia il culto della dea Ragione sostituito a quello di Dio; Dio poi restaurato a mediazione del Robespierre. La Francia da due terzi di secolo s’impadronì dei beni ecclesiastici, comecchè si presumesse sostenerli, dagli interessati, beni della Chiesa universale, e incorso nella scomunica chiunque si attentasse sbocconcellarli; Avignone, e il contado venassino ripresi e per questa volta non più restituiti: gli ordini religiosi saranno i voti disciolti la elezione ai benefizi popolare come nei primordi della Chiesa. Roma certo odiava la Francia, nè davvero aveva causa di amarla; però con preci, e conforti, insomma con tutti gli arnesi dell’armeria spirituale ella promosse la lega dei Principi contro la Repubblica; inoltre la invendicata strage del Basseville le tirò contra le ire di Francia, la quale anco senza pretesto si sarebbe mossa ad angariarla; di fatto ecco allo improvviso voltarle contro le armi, e solo consentire posarle a prezzo di quadri, di sculture, e di ventun milione di lire. Il Papa piangeva, per così dire, a goccie tanti bei milioni frutto della vendita di tanti miliardi d’indulgenze, ed in mal punto porse orecchio all’Austria, di che avuta notizia il Bonaparte sperde le milizie inferme del Pontefice e lo costringe alla pace di Tolentino, dove il Papa, bene e meglio potendo, cedeva alla Francia oltre Avignone, e il contado venassino, già presi, Ferrara, Bologna, e Ravenna. Passato appena l’anno colto il destro da una sommossa, della quale impossibile adesso conoscere, e difficile anco allora, chi innocente, e chi reo, la Francia decreta il potere del Papa abolito; a lui, che implorava lo lasciassero morire in Roma risposero: avrebbe potuto morire da per tutto; gli strapparono dal dito l’anello, gli posero a sacco le camere, gli tolsero le cose necessarie così alla mondizia della persona, come al vestire, e strascinatolo in Francia, quivi poco dopo ottantaduenne periva. Allora il Direttorio trovando come il governo dei preti non potesse accordarsi con quello di Francia rinvenne, fra i suoi tanti, l’uomo (Merlin) che dettando il rapporto per la decadenza del Papa non si peritava scrivere: «rammentate la strage dei Francesi in Sicilia, e voi sentirete Niccolò II. darne il segno; aprite la storia sanguinosa dei Borgognoni e degli Armagnacchi e ci vedrete il dito di Bonifazio IX; se ponete mente alla tirannide di Luigi XI ecco Sisto IV l’approva. Mirate Gregorio XIII che seduto in trono accetta dalla Lega la spaventosa offerta del capo di Coligny. Quando Enrico IV pretendeva come suo retaggio il trono di Francia, Gregorio XIV ci spedisce contro un esercito, e Clemente VIII ci comanda di pigliarcelo per Re. Prorompe la Fronda, ed Innocenzo X protegge il cardinale di Retz. Innocenzo XII benedice i carnefici delle Cevenne, ed allorchè le bambinesche liti del giansenismo guastavano le menti, la voce di un prete straniero, Clemente IX, entra di mezzo a scompigliare, e inasprire.» Napoleone trovando creato un nuovo Papa se ne valse, come Carlomagno, per consacrare il delitto; l’uno l’altro ingannò; l’uno l’altro tradì: se vuoi penetrare dentro le viscere del Concordato leggilo nell’Apologia del Foscolo, e confronta con la saccente vulgarità in proposito del Thiers compilatore senza più dei sofismi bindolissimi del Bonaparte. Il Thiers, che la Francia pregia per uomo grande, in Italia, misurandolo per di dentro, e per di fuori, lo trovarono pari così nella materia, come nello spirito; anzi in questo più breve. Il Papa credeva avvantaggiarsi leccando, e invece non fa civanzo co’ Francesi, e con cui li comanda se non mostri loro i denti. Napoleone un bel dì (egli aveva allora allora vinto ad Osterlizza) scrisse al Papa lui essere lo Imperatore di Roma e suo padrone, però si dichiari nemico dei suoi nemici, conceda il matrimonio ai preti, abolisca gli ordini monastici, affranchi l’episcopato dalla sede pontificia, e accetti il codice civile. Il Papa si schermisce dietro la donazione di Carlomagno e strilla che non lo condurranno ad ammazzarsi da sè, Napoleone gli risponde, che appunto per virtù di cotesta donazione egli è principe, il Papa feudatario, e che con tutte quelle cose di meno potrà vivere ottimamente: provi, e vedrà, e per persuaderlo meglio gli leva ad un tratto Ancona, Macerata, Urbino, e Camerino, manda in Roma presidio francese, i cardinali disperde, i soldati pontifici mescola coi suoi: molto il danno, peggiore lo strazio, però che al cospetto dei Deputati delle Marche con queste acerbe parole Roma vituperasse: «ho considerato i vizi dell’amministrazione dei vostri preti: gli ecclesiastici regolino il culto e l’anima, insegnino teologia, e basta, Italia scadde, dacchè i preti pretesero governarla.» Ancora scrivendo al principe Eugenio afferma: «i preti inetti a governare.» Miollis in certo suo bando assicura ì Romani, che da ora in poi non torneranno più sotto gli ordini dei preti, e delle donne. L’appetito viene mangiando, dice il proverbio napoletano, e oramai che Napoleone ci era fece del resto; il 1. Gennaio 1810 (aveva vinto a Venezia) considera che il suo antenato Carlomagno donò al vescovo di Roma certi paesi pel bene dei suoi sudditi, senza che Roma cessasse per questo di formare parte dello impero; e come dalla unione dei due poteri derivassero e derivino disordini continui, e via via; onde per accordare la sicurezza delle sue armi, la quiete dei popoli, il decoro, e la integrità dello impero, sentite mo’, che cosa fa: dichiara Roma città LIBERA, ed ordina ne piglino possesso in nome suo. — La Francia di Luigi Filippo, quantunque occupasse Ancona consenziente o non repugnante il cardinale Bernetti, procedè avversissima a Roma, bandi i Gesuiti, auspice quel Thiers sviscerato adesso dei Gesuiti e di Roma; inquietò il Papa, ai conforti del Guizot protestante allora, adesso anch’egli papista. Di Napoleone III non si discorre nè manco; i diari riportarono di recente i vituperi ch’ei vomitò a bocca di barile contro il Papato in presenza del conte Grillenzoni, e del signore Raffaelli; di cosiffatti testimoni se ne troverieno a carra: anch’egli, attesta il signore Aulaire nella scrittura del 27 marzo 1831 come Luigi Napoleone avesse l’audacia di scrivere direttamente al santo Padre parole minatorie, e insolenti, intimandogli a deporre il governo temporale, e a dargli riposta: non potendo avere altro, in quei lumi di luna, Luigi Napoleone si sarebbe contentato di Roma, di Perugia, ed anco di Peretola; adesso Napoleone presume sommetterci a Roma come alle forche caudine, e ciò pretendendo compiace al vulgo patrizio, ed al plebeo; degli errori, e della petulanza del vulgo patrizio abbine prova nei discorsi del Thiers; del plebeo nei furori barbari contro la religione e nelle più salvatiche idolatrie della moltitudine dei Francesi: checchè si abbachi, Luigi Napoleone triviale fondamento dava al suo trono di ogni maniera errori, e di materia soddisfatta: partiti vecchi, e sperimentati più o meno fallaci, e con maggiore o minore durata caduchi: ei si appoggiò sopra una canna, che lui ha ferito, e schianterà la sua stirpe. Concedere o negare torna adesso ad una medesima cosa: contrastando al secolo Roma manda su gli scogli la barca di San Pietro, col suo carico di bolle, canoni, riti, sacramenti, e credenze; non la impedite di grazia, così ordina la Provvidenza; col suo sillabo o vogliam dire indice (i Preti. e i Moderati sono solenni trovatori di parole magnifiche a cose brutte, o plebee) Roma si è messa traverso la via della umanità come una lebbrosa; guai a cui le si accosterà! El piglierà la lebbra. Concessero Benedetto, e Clemente XIV; contrastarono gli altri prima, e dopo la Rivoluzione di Francia, entrambi dimostrarono che il Papato tracolla, e puntellarlo è inane; taluno afferma come Lione XII fosse uomo convinto di quanto operava e diceva: che rileva questo? Pochi uomini hanno fede quanto gl’ignoranti nella propria ignoranza; e il carnefice per riputarsi esecutore di giustizia si estima forse meno carnefice? Pio VIII parve un rimasuglio di lievito inquisitoriale dimenticato nella madia del Santo Uffizio; di Gregorio XVI poco monta conoscere se il vino temperasse con altro vino, e se la moglie del suo barbiere di colpevole amore proseguisse o no; importa, ed è certo questo altro, che cotesti passi si rassomigliarono come anelli della catena: recenti sono i gesti loro, e scritti col sangue; altri li narrò: a noi non giova farlo; ci aspetta Pio IX l’Augustolo dei Papi. Piccola cosa è un Papa; molto più, ma neppure egli metuendo troppo, il sacerdozio; per converso immane, e potentissima la gerarchia ecclesiastica: questa la rete onde si pescano, e si ripescano i popoli; alcune maglie per vetustà erano rotte, prudenza consigliava lasciarle stare, perchè le prossime indebolite dalla lacuna a posta loro sfilacciavano; all’opposto la Italia manda gente a Roma per sovvenire il Papa a racconciarle. Un dì Diogene esposto in vendita al mercato gridava: «Ateniesi, chi vuol compare un padrone?» Oggi la Italia sporge i polsi senza catena, ed urla smaniando: «Preti, Tiranni del mondo, chi vuole comprare una schiava?» Ora gente di ogni ragione già cominciano a spaventarsi, e la paura le persuade a stringersi insieme come appunto accade nelle sventure comuni: non badiamo se la paura o l’amore ce le riconduca, che a fine di conto gli è un tristo vanto il nostro di avere saputo presagire i danni della Patria, e non averli saputi riparare. Dio faccia, che ora bastino a tanto le forze riunite, e i voleri. Fine della Seconda Parte PARTE TERZA Le cose narrate in altri libri o lascio, o narro succinto, e per quanto sia necessario alla esposizione della mia opera; però poco, o nulla mi preme ricercare, e referire quali (se n’ebbe) le virtù, e i vizi di Giovanni Mastai-Ferretti uomo privato; solo giova di questi ultimi dire quelli, che in mutate fortune, lo fecero miserabile cittadino, pessimo principe, Papa inetto, e anzi a dirittura dannoso al governo stesso delle anime, che, a sentire lui, sta in cima di ogni suo pensiero. Sortì egli i natali in Sinigaglia nel maggio del 1792, ed ebbe educazione in Volterra nel collegio di San Giorgio; i suoi Plutarchi della Compagnia di Gesù affermano avere lasciato costà quasi un profumo perenne delle sue virtù; fatto sta, che solo ei si ricordava avere avuto di parecchie nerbate, ed essersele meritate, come in lode del vero, egli medesimo confessò a Firenze quando del suo cospetto la deliziava: dacchè in cotesta occasione essendosegli tirato davanti un vecchio Scolopio già suo arruffatore di cervello negli studi grammaticali, dopo il bacio dei santi piedi, sentì ricordarsi come nei tempi andati avesse ardito verberare certa parte del corpo allora non papale, e che difficilmente otterrebbe, anco per via dommatica, esporre adesso come santa alla venerazione dei fedeli; e poichè il frate andava tutto confuso e scusandosi ora alterando la quantità, ed ora la qualità delle percosse, e per ultimo la parte percossa, il Beatissimo lo rimbeccava dicendo: «no, Padre, le furono proprio nerbate, e veramente fu cotesta parte ch’io le ho detto, e confermo; non se ne infinga, anzi se ne tenga, però che se coteste nerbate non erano adesso io non mi troverei assunto Papa.» Tali i detti, ed i concetti del sommo Sacerdote, onde ogni uomo anco cattolicissimo si persuada, non avere poi ad essere un gran che il Papa, se ad ammannirlo tale bastano talune nerbate applicate da un frate scolopio sul postione ad un marchigiano. La faccia sua fu sempre di prete pasciuto di marzapane, e di avemarie, con qualche fiore di cicuta mescolatoci dentro, sorridente un riso tra il bambolo, e lo scorpione; percosso nei primi anni da morbo regio, o vogliamo dire epilessia, irruppe sfrenato colà dove alla cieca Venere più piace; e a tale, che gliene fece rimprovero rispondeva: sfidato della vita volere annegarsi nella voluttà: sembra però, che poi mutasse consiglio per virtù di certa donna (di cui tacerei volentieri il nome se non fosse noto all’universale) la principessa Clara Colonna: questa, non già Maria vergine, fu la patrona del giovane Mastai nel mondo, il quale entrò nelle guardie nobili di Pio VII. Il Plutarco di lui scrive averlo chiamato Dio con particolare vocazione a difendere la santa Sede come soldato, come vescovo, come cardinale, e come Papa: su di che noto, che s’egli tutela la Chiesa da Papa come la custodì da soldato l’avrebbe a stare fresca. A giudicarne dal poco tempo che il Mastai cinse la spada si ha da credere, che in onta al suo panegirista nè anch’egli si reputasse legno da cavarne po’ poi un Giulio Cesare o un’Alessandro Magno; però di corto barattò la spada in aspersorio, e l’elmo per la tonsura: andò compagno a Monsignore Muzi nell’America meridionale donde tornato nel 1825 resse prima l’ospizio di S. Michele, poi fu arcivescovo di Spoleto, e vie via vescovo d’Imola, e Cardinale senza infamia, e senza lode. Raccontano le anime pie, com’egli, morto Gregorio, recandosi al Conclave mentre traversava Fossombrone una colomba bianca dopo essere rimasta alquanto librata su l’ale al fine si posasse sopra la sue vettura, onde la gente accorsa a contemplare la sua sembianza smagliante di potenza, di tenerezza, e d’intelletto (le sono parole del Plutarco gesuita) come presa dal delirio incominciò a urlare: «viva! viva! ecco il Papa!» Così a Fossombrone; a Roma veruno se lo aspettava Papa; all’opposto facevano capitale sul Gizzi, sicchè eletto il Mastai i Romani rimasero come cosa balorda, per lo che, a fine di rendere al Gizzio il boccone meno ostico venne senza indugio messo nella Commissione consultiva provvisoria, e poco dopo eletto segretario di Stato. Anzi se vuolsi credere al panegirista di Pio IX egli pure giudicavasi incapace, onde si vedendo eletto smaniava sclamando: «o fratelli, abbiate misericordia della mia debolezza; io mi confesso indegno. Domine non sum dignus.» Tuttavia il Mastai nella guisa, che ogni prete dabbene dopo avere per tre volte detto: Domine non sum dignus, si mastica bravamente il Redentore, profferita appena la propria debolezza montò ardito, e franco nella barca di San Pietro, ed agguantato il timone si commise in mezzo al mare tempestoso. Veramente questo racconto fa ai calci col primo, ma non vuol dire, il pane di che si cibano i Gesuiti sia impastato di farina di contradizione. D’altronde ogni prete promosso Papa si china per l’ultima volta in terra a raccattarvi la superbia, che morendo ci lasciò cascare il suo antecessore. Chi se ne intendeva, toccato appena il polso alla Europa andava persuaso, che il male era tornato a far saccaia, e questo succederà sempre quantunque volte in Francia scappi fuori un Luigi Filippo, ovvero un Napoleone per mettersi in tasca le rivoluzioni sementa di sangue, d’intelletto, e di sudore dei popoli; in Roma un Gregorio papa si serva dei memorandum dei Principi per incartarne i riccioli alla moglie del barbiere teologo, e per non fare troppo lunghe le gugliate, non si proceda al modo che a un di presso fanno da per tutto. Gli uomini speculatori avvisato il pericolo ne avevano paura e non a torto: trepidavano per le presagite ruine; lo straripamento vedevano, come la fiera fiumana; e dove avrieno potuto ricondurla nell’alveo non sapevano: quindi chi almanaccava le riforme, specie di rimedio omeopatico al morbo sociale; chi sovvertimenti, peggio, che rimedio allopatico; chi una cosa, chi l’altra. Primo il Gioberti saltava in mezzo facendo drappellare alla Sapienza un bandierone involato di casa alla Follia: principi, papi, e popolo giù a bollire insieme dentro una pentola. Gli scrittori chiesastici affermano a ragione la democrazia essere contradizione del papato, imperciocchè quella dica agli uomini: «usate dei doni dello intelletto vostro meditando; valetevi dei diritti della libertà governando;» mentre per converso la Chiesa comanda: «qua ponetemi in mano il cuore ed il cervello vostro, io sono l’autorità, la regola, e la sapienza; io penso per voi, e se vi riesce, procurate, che io senta per voi!» Il Gioberti, (sempre gli scrittori chiesastici affermano) si industriava abbindolare il Papa, e mettere di mezzo Dio! — Il Gioberti fu uomo di bontà singolare, e Dio non si mette di mezzo: egli sortì da natura ingegno stragrande, e immaginazione non meno vasta; gli mancò il freno; troppo e vano nei concetti, e nei modi di significarli; non parsimonia, non eleganza: contorni radi, e incerti, pensamenti grossi e mutabili pari ai nugoloni sbattuti dal vento: insomma alla meditazione sostitui la fantasia: per me sempre ammirando ogni qualità di ingegno confesso, che mi reca uggia la metafisica nella politica. I metafisici politici mi paiono poeti, storici, ragionatori sciupati; un po’ di tutto, e nulla di tutto: cotesto ingegno confidato a loro assai si rassomiglia a bella tazza di porcellana che commessa nelle mani al fanciullo, ei l’abbia lasciato cascare in terra: ridotta in frammenti dorati attrista a vederla, intanto chi gliela diede si pente ma tardi, ed il fanciullo piagne. Mirabile il moto partorito dalle dottrine del Gioberti, perchè lo universale crede che di ora innanza si sarebbe iti in paradiso in bussola: Bruto e Cesare, se ritornavano al mondo, avrebbero sgranato i baccelli insieme: in combutta corone, e camauri, pianete, e giubbe, scettri e camati da battere la lana; chi prima arrivava senza distinzione di stato si sarebbe servito come meglio gli garbava. Tutti allora ingannati, e tutti ingannatori: immenso il bisogno di credere quello che tornava, e sterminata la credenza. Anco nell’antichità si racconta che gli Abderitani durarono tre di briachi, gli Italiani per quasi un anno, e più stettero matti. Che se taluno domandi: «dunque la pace è disperata in terra?» Io risponderei: «a Dio non piaccia, ma passioni, e interessi non si spogliano ad un tratto come vesti vecchie per indossarne delle nuove; il miglioramento umano non è opera di plastica in creta, bensì di rota in porfido: la verità non vola, perchè l’errore le ha incatenato ai piedi palle di ferro come ai servi della pena: Dio solo con una parola crea la luce; l’uomo deve guadagnarsela col sudore della fronte, col molto travagliarsi dello spirito, e a micolino; e ciò prima, a cagione delle sue facoltà, ch’egli possiede scarse ed inferme; poi, per carità di cui deve avvantaggiarsene, però che la soverchia luce e la tenebra operino il medesimo effetto; non fanno vedere.» Più tardi Giuseppe Mazzini manda una epistola al Papa, dove quello che il Gioberti s’industriava ghermire in pro del Piemonte, questi intendeva agguantarlo in benefizio della Repubblica: il secondo concetto più semplice, guazzabuglio il primo di teocrazia, di dispotismo, e di democrazia; e del pari impossibile: la lettera del Mazzini, che parmi scritta tenendo a falsariga qualche omelia di San Cipriano, supplica il Papa di confidarsi a lui; gli promette aiuti fra tutti i popoli di Europa, anco in mezzo agli Austriaci; eglino soli, il Papa cioè e Mazzini, troveranno questi aiuti però che entrambi abbiano unità di scopo, e fede nella verità della propria dottrina; se gli fosse vicino il Mazzini vorrebbe pregare Dio co’ gesti, con gli accenti, e con le lacrime di convertire il Papa. — Ora questi siffatti partiti, io per me giudico peggio, che tranelli; e’ sono grullerie. Di vero, che coteste parole non fossero sincere chiarirà lo stesso Mazzini mandando con le stampe istruzioni segrete agli amici d’Italia di radunare le moltitudini, inebriarle co’ canti, suoni, e timpani, renderle incontentabili, e irrequiete: per dare il sapone alle corde pei signori esserci mestieri i signori; dove il solo popolo levi la testa gliela romperanno di botto; hanno i signori ad essere i guidaioli del popolo, appunto come in Francia, la quale da prima patì un Mirabeau ed un Lafayette; sicuro, questi non vanno mai fino in fondo alla via, anzi non ci metterebbero pure un piede se ne vedessero la fine, così bisogna procurare nascondergliela. Ancora, sarebbe bel tratto far nascere in ogni capitale d’Italia un Savonarola; se ci riuscisse beati noi! Tamen, se non toccate il clero nella borsa non lo vedrete scalciare. Al popolo discorrete sempre delle sue miserie e dei suoi diritti: paroloni dotti non levano un ragno dal buco; adoperate motti non definiti bene, epperò più capaci a contenere in sè tutto quello, che la fantasia, il bisogno, e la cupidità ci vogliono mettere dentro, a mo’ di esempio: libertà, uguaglianza, fratellanza, diritti dell’uomo, progresso e simili: non è arduo spingere il popolo, e nè manco importa conoscerlo, il difficile sta nel radunarlo; assembrato ch’ei sia voi lo potete balestrare come un sasso dalla vostra fionda. Se un re promulga una legge comportabile, e voi picchiategli le mani dicendo: bravo, per istrappargliene un’altra migliore; incamminatelo giù per la china a piccoli passi. Se uno dei maggiorenti la trinciasse da repubblicano e voi lodate il matto e fatelo correre; il dì ch’egli accennasse sostare, voi dategli il gambetto, e mandatelo a dare del muso sul lastrico: veruno allora si chinerà a rilevarlo caduto: pigliate tutto, odii, bizze, rancori, ambizioni deluse, interessi lacerati, ogni cosa buona per buttarsi sul fuoco della distruzione a crescerne la fiamma. Duro intoppo lo esercito, arnese di tutte le tirannidi; contravveleno a quello la opinione diffusa, che sendo egli composto di cittadini e da’ cittadini mantenuto egli deve difendere la Patria dai nemici, non già mescolarsi nelle faccende interne; quando ciò avvenga voi potrete operare senza lui, ed anco contro lui. A Roma poi gittò il Mazzini le carte in tavola quando disse: «abbiamo traversato un tempo di menzogna dove gridavamo viva a gente esosa a patto che servisse ai nostri disegni; tempo di simulazione, dove celammo gl’intimi concetti giudicando non correre peranco stagione di manifestarli.» Queste cose erano buone, ma non bisognava dirle; la moltitudine senza insegnamenti da sè le avrebbe, anzi le aveva di già belle e fatte, quando il Mazzini si avvisò insegnargliele per mantenersi in fama di archimandrita. Per me non lodo lo scrivere che ha fatto, e fa il Mazzini ai Papi, ed ai principi, causa per lui di accuse antiche e di rimproveri moderni: per coteste epistole egli non acquista opinione di subdolo e perde l’altra d’ingenuo: so che Cristo ammonì i discepoli dicendo: «andate, abbiate la semplicità della colomba, e la callidità del serpente;» e basta. Di vero, o che sperava con le sue epistole il Mazzini? Convertire i Papi, e i principi, i quali deposti triregno e corona fossero iti a scuola da lui ad apprendere come si aveva a disfare? O piuttosto agguindolarli e condurli incappellati al macero? A me sembra, che il Mazzini quante volte scende dalle regioni serene delle teorie a rasentare la terra trovi sempre chi gl’impallina le ale; egli allora torna a drizzare in su il volo non senza però che qualche penna gli caschi a mulinare per l’aria. Appunto come io reputo spediente, costumavano i Profeti, banditori del dogma, e custodi della regola allora quando uscivano dalla solitudine e venivano per rimettere i popoli in carreggiata, ovvero a minacciare ai regi il castigo di Dio; poi sparivano. Repugna, a mio avviso, la parte di Maestro di Libertà ai popoli con quella di cospiratore, come il potere temporale stride nel Papa col potere spirituale. Senza però che il Gioberti con le sue fisime alterasse le ragioni del moto italiano, e senzachè il Mazzini si affaticasse a mettere in capo al Papa il berretto rosso invece del triregno, se pigliavamo le cose come le venivano forse avremmo fatto la via più sicura. Taluno opina che fu danno il moto rivoluzionario cominciasse a Roma, paese meno di tutti capace alle riforme, e da un lato par vero; dall’altro però compariva il più idoneo ad educare il popolo all’odio della autorità, la quale da per tutto a quei giorni grave in Roma, poi, accorava incomportabilmente insensata; e come più insensata piu pertinace a perseverare nel male, cedeno solo alla forza, inesauribile di frodi, legativa sempre non legabile mai,come quella che avendo facoltà di sciogliere altrui dal giuramento è naturale che la eserciti soprattutto per sè. — In questo altro consento, che i Moderati delle rimanenti provincie italiane procedessero senza discorso pigliando a modello il popolo romano, dacchè altrove si poteva più franchi domandare, e di botto tanto che bastasse, mentre con quel cotidiano svellere all’autorità ora una penna, ora l’altra, la resero contennenda, ed ammannirono l’anarchia, come pure adesso per diversa strada si sbracciano a fare, e faranno. Pio IX, e questo parmi sicuro, inebriato dagl’incensi non seppe quello che per lui si operava: a mo’ del fanciullo improvvido aperse la cannella alla fontana; poi spaventato della foga dell’acqua gli mancò la forza di girare la chiave. Chi è che non ricorda le magnifiche parole da disgradarne Tirteo, e che il Byron stesso gli avrebbe invidiato: «gli avvenimenti, che questi due mesi hanno veduto con sì rapida vicenda succedersi ed incalzarsi non sono opera umana. Guai a chi in questo vento, che agita, schianta, e spezza i cedri e le roveri non ode la voce del Signore! Guai all’umano orgoglio se a colpa od a merito di uomini qualunque riferisse queste mirabili mutazioni, invece di adorare gli arcani decreti della Provvidenza, sia che si manifestino nelle vie della giustizia, o nelle vie della misericordia, di quella Provvidenza nelle mani della quale sono tutti i confini della terra! E Noi a cui la parola è data per interpretare la muta eloquenza delle opere di Dio, Noi non possiamo tacere in mezzo ai desideri, ai timori, ed alle speranze che agitano gli animi dei nostri figliuoli. E primo....» ma io dal gran piacere, che ne sento copierei tutta questa allocuzione papesca del 30 marzo 1848, e farei opera inane, imperciocchè tutta Italia ricordi come in essa il Papa tirata prima l’acqua al suo mulino esultando per le garbatezze usate in taluni luoghi ai preti, e contristandosi pei bistrattamenti che ne menarono in taluni altri benediceva a due mani le vittorie cittadine dei Milanesi, e dei Veneziani contro gli Austriaci; anzi ne accertava di ottima riuscita a patto che stessimo fermi a catena del prete. — Ciò posto in sodo i Panegiristi di lui, che s’industriano con estremi conati a chiarire com’egli Papa, prima, e dopo cotesta allocuzione camminasse a sghimbescio pel cammino della libertà concedendo riforme e lasciando ad un punto la porta aperta per poterle ritirare, sembra a me, che lo disservano grandemente, però che, o non seppe che cosa si facesse (e credo appormi al vero con giudizio meno grave per lui) ovvero ingannò. L’amnistia, sostengono essi, non tirava ad altre sequele tranne al pretto perdono dei colpevoli, che tali si dichiarano i dannati alle galere per delitti politici, ed imponendo in aggiunta che ognuno sottoscrivesse l’obbligo di non peccare mai più: di fatto queste cose nell’amnistia ci sono, ma poichè nel medesimo si bandiscono i condannati uomini di onore, e degni di fede, e poichè la sottoscrizione dell’obbligo non a tutti si chiese su le prime, e poi si trascurò, per cotesto atto si dette ad intendere più che con le parole (massime se consideri da un lato i tempi, e dall’altro il costume della Corte romana usa a compartire il bene a spilluzzico, mutata la condizione delle cose non potersi considerare rei coloro che vollero le migliorie civili, le quali stavano per diventare la norma del cittadino. — Nel nove novembre del 1847 Pio IX mentre sguazza da un lato nelle acclamazioni delle moltitudini, limosina dall’altro la protezione dei principi; difendano essi la Chiesa, procurino, che Gesù Cristo vada loro debitore della conservazione del proprio impero, rammentino, che l’autorità venne data loro proprio per questo: più tardi, egli bandisce al mondo: suprema offesa così alla persona come alla dignità sua negare in nome di lui obbedienza ai principi, sollevare contro loro i popoli, eccitarli a moti ruinosi. — Il trenta marzo quando i troni della terra erano spazzati via dalla bufera popolesca, come polvere sopra le vie, il Papa ci vedeva il dito, e ci udiva la voce di Dio; ma poco innanzi, e quando non erano accadute le rivoluzioni di Vienna, di Milano, e di Venezia di guardia nazionale non voleva saperne, la contrastò col becco e con gli artigli al principe Aldobrandini; forse si sarebbe lasciato ire fino ai centurioni di Gregorio XVI; in seguito travolto dallo esempio degli altri principi quando non la può negare mette dentro il regolamento tante stringhe da farla morire di spasimo; e tuttavia ne prorogò l’ordinamento al cinque luglio. — Che fosse la legge sopra la stampa ce lo dicono i parziali del Papa, i quali sostengono che ei non intese punto affrancarla, all’opposto metterle il frenello trasportando la censura dalla Segreteria di Stato al Consiglio di censura. Lo stesso moderatissimo Azeglio non se ne contentava, e sì che Azeglio e gli amici suoi sono umori da imbandire con una fava di riforma cena in Apolline alla Libertà. La riforma amministrativa, che cosa è insomma eccettochè la estensione del sistema municipale dei rimanenti stati romani a Roma e all’Agro romano? La Consulta di Stato il Consiglio, che mantenevano i Papi prima della occupazione dei Francesi? Essi lo avevano udito, e lo consultò anch’egli a fine di essere illuminato con facoltà però di restare al buio quanto gli piacesse: imperciocchè Pio IX rispondendo all’allocuzione del Cardinale Antonelli bandisse sè essere parato ad ogni cosa, chiedessero verrebbe aperto; prima si straccherebbe il popolo a domandare, ch’egli a concedere, a patto però, che nè manco di un’apice fosse menomata la sua autorità pontificia! Aggiungendo queste altre sentenze, che valgono tant’oro: veruno ardisca vedere nella Consulta il germe di costituzione incompatibile col papato, e questo bene ripongano in mente non avendo egli mai conceduto alla rivoluzione il diritto di aspettarsi neppure un sorso di acqua da lui. Taluno ha detto la virtù pubblica figlia non madre di Libertà, e questo io non credo, ma se pure è vero allora può darsi quando il Governo sorto dalla commozione popolare abbia interesse che il popolo perseveri nella Libertà; ma nei tempi dei quali io scrivo i Governi di assoluti con pessima voglia ed a marcio dispetto si mutavano in liberali, sicchè parve mal consiglio quello di concitare il popolo a superlative acclamazioni pel poco, che gli riusciva tozzolare, nascendo da questo due mali, primo pel popolo, il quale logorava gli spiriti nel proseguimento degli accessori, lasciandosi scappare di mano il principale e poi perchè dopo acquistatili trovandoli inani li dispettava perdendo la voglia dei partiti efficaci; il secondo pel principe a cui pareva vie via avere toccato la cima delle concessioni, onde sentendosene subito domandare delle nuove s’inviperiva: però dopo il fatto di senno ne sono piene le fosse, e allora parve dovere fare così per porgere conforto al Papa reputato avverso alla oligarchia cardinalizia tenuta gagliardissima, concetti entrambi falsi come la esperienza dimostrò. Pellegrino Rossi scrivendo in cotesti tempi al Guizot così si esprimeva: «niente di conchiuso fin qui, eccetto promesse, commissioni, e proposte che menano il cane per l’aia, onde è naturale che il paese brontoli.» Il Gizzi oltre le riforme amministrative non voleva andare, la Consulta e basta; e quando fu chiesto stessero i preti allo altare, in curia i laici Pio IX ebbe a dire: «per andare a genio a loro Signori non mi vo’ mica perdere l’anima.» Della guardia civica già dissi, che conceduta alla trista, ne fu prorogato l’ordinamento al 5 luglio, ma il Papa la confermò solo dopo il 14 di cotesto mese, non mica spontaneo bensì vinto dal popolo, che udita la invasione austriaca in Ferrara, la impiccatura di un soldato pontificio, e la cospirazione dei Sanfedisti contro il Papa proruppe gridando: Armi! I Gesuiti furono dal Papa, finchè n’ebbe balìa, con tutti i nervi difesi, quando gli fu forza licenziarli lo fece con parole le quali ben davano a divedere, che ei riputava separarsi dalla migliore, o maggiore parte di sè. Gli scrittori gesuiti lacerano il popolo per avere domandato al Papa la soppressione dell’ordine loro, e sta bene; ma lo stesso fanno i Moderati, e lo perchè non si comprende: questa soppressione avendo altrevolte chiesto ed ottenuto i Principi al Pontefice, o perchè aveva ad essere interdetto al popolo? Forse i Gesuiti avevano mutato natura, e per volgere di tempo di malvagi divenuti benefici? I ministri niente seppero intorno alla composizione dello Statuto; uomini del tutto estranei a loro lo costruirono; egli è ben vero, che il Papa gli aveva chiariti mallevadori del proprio operato, ma innanzi della pubblicazione dello Statuto, ed allora dovendone rendere conto a lui cotesto obbligo non tirava a conclusione; però dopo la pubblicazione dello Statuto la malleveria essendo assunta dai ministri di faccia al popolo, pareva dicevole ne avessero a sapere qualche cosa. Delle pubbliche adunate, e dei chiassi popoleschi si compiacque maravigliosamente Pio, finchè terminavano col chiedergli la benedizione; allora compariva fantastico, illuminato da fuochi del Bengala, e mentre una colomba bianca, caso fosso o ammannimento, gli rotava intorno al capo trinciava crocioni che pigliavano un miglio di paese; quando poi, a mo’ che i salmi finiscono col gloria, coteste baldorie si conchiusero col chiedergli qualche nuova riforma di abusi le prese in odio e le vietò in mal punto; il popolo accusava il ministero, i gesuiti, ed altri parecchi tranne il Papa, ed invece da lui solo si partiva il divieto; spaventato poi della mala impressione si mise a scarrozzare il giorno appresso per Roma, e qui fu che gli trasse da ogni parte dintorno il popolo, e Ciceruacchio gli montò dietro la carrozza dove sciorinandogli la bandiera tricolore su gli occhi, e gridandogli: «Santo Padre, fidatevi al popolo!» tanto mise paura nel petto imbelle di lui, che svenne. Anco il Thiers di Francia gli mandava dicendo: «Santo Padre coraggio!» e senza ombra di consiglio, perchè il coraggio delle magnanime, e buone cose per predicare, che uomo faccia non acquisterà mai il prete; quanto a coraggio delle triste, preti e femmine non hanno mestieri, che altri ce gli ammaestri. Finalmente venne presto il giorno in cui la utopia si muta in fatto reale, e la Consulta nella quale veruno temerario aveva a scorgere il germe d’instituto incompatibile col pontificato si ebbe a convertire in Costituzione; ma ciò accadendo innanzi i moti viennesi, milanesi, e veneziani la voce del popolo non aveva per anco preso la intonatura della Provvidenza, ella durava sempre urlo di ribellione, epperò gli esce stitica dal cervello conciossiachè tale si palesasse il concetto dello Statuto pontificio: sia il Collegio dei Cardinali il Senato supremo, dopo lui un’altro Consiglio alto di Senatori a vita eletti dal Pontefice, per ultimo la Camera dei deputati uno per 30,000 abitanti. Il Consiglio di Stato ammannisca le leggi le quali avranno forza dopo approvate dai corpi deliberanti e dal Papa in concistoro segreto: le materie spirituali riservate; le miste non si tocchino. Ora tu che leggi pensa come si potesse distrigare questa matassa massime in istato pretesco col Papa re, e Cardinali, senatori, i quali Cardinali deliberavano in segreto; ed in aggiunta con la censura mantenuta, e i minimi offici esercitati da cattolici, apostolici, romani. Gli amici di Pio ci fanno sapere come egli l’11 febbraio convocasse al Quirinale i quattordici capi di battaglione delle Guardie Civiche interrogandoli se potesse fare capitale di loro, e dei militi in caso, che gli frullasse pel capo di contrastare al popolo la Costituzione; ed avutane risposta negativa col pianto negli occhi dichiarò avrebbe ordinato la compilassero sopra certe norme oltre le quali veruno potrebbe strascinarlo mai, e si tenessero per avvisati, e poi conchiuse: «già la Costituzione non è nome nuovo nel nostro paese; la copiarono da noi gli stati che la possiedono; noi avevamo la Camera dei Deputati nel Collegio degli Avvocati Concistoriali, e la Camera dei Pari nel sacro Collegio dei Cardinali ai tempi di Sisto V; e andate in pace.» Havvi chi considera da ciò la suprema ignoranza di Pio intorno agli ordini costituzionali di Europa; a me sembra scorgere in cotesto discorso la callidità fraudolenta, che mai si scompagna dal prete; di vero o come adesso insuperbisce quasi della Costituzione già conosciuta in Roma, mentre quando instaurò la Consulta di Stato ammoniva non fosse alcuno così temerario di ravvisarci il germe d’instituto incompatibile al Pontificato? E’ vuolsi credere piuttosto, ch’egli a quel modo favellasse per foggiare la Costituzione nella guisa, che gli garbasse meglio: infatti i suoi panegiristi discorrendo per lo appunto dello Statuto lo scusano ragionando così: non egli diresse i moti della Europa, ma ci resistè più che per lui fu potuto, e quando la prepotenza dei casi lo scaraventò fuori di carreggiata egli li dominò con mirabile coraggio; in tutte le concessioni che gli furono estorte egli protestò in favore delle verità sociali che la rivoluzione aborrì, e quantunque minacciato più degli altri, meglio degli altri stette fermo a cagione delle qualità di Principe, e di Pontefice raccolte nella sua persona; e poi spiegando a parte a parte il papesco Statuto esclamano: «quale sovrano avrebbe ardito tanto a quei tempi?» Nel 1848 i Principi, eccetto Carlo Alberto, e del popolo i moderati, o come allora si chiamavano i dottrinari, trasecolavano degli spiriti guerreschi desti a un tratto in Italia, e dello smanioso chiedere armi, e battaglie; e pure doveva essere agevole prevedere che il popolo irrompe colà dove la passione lo tira: ora suprema passione del popolo l’affrancazione della sua terra da qualsivoglia servitù straniera, e gittar via da sè la turpe fama di codardo, la quale gravissima per tutti per gl’Italiani poi suona incomportabile, come quelli che abitando la terra degli antichi Romani se ne estimano eredi: quindi tu pensa se gli abitatori di Roma, e dello agro romano bollissero. Il Gavazzi allora frate barnabita uomo potente di voce, di aspetto, e di parole aggiungeva legna al fuoco (e non ce n’era bisogno) con questa orazione da lui pronunziata nel mezzo al Colosseo del tutto degna che la storia ricordi: «tempo già fu quando i popoli di occidente vollero riscattare il sepolcro di Lui che della Croce fece fondamento alla libertà, moltitudini di uomini furono visti segnarsi della Croce il petto, e drappellato il gonfalone di Cristo avventarsi contro l’oriente! Cotesta era causa giusta! Cotesta era causa santa! Più giusta, più santa è la nostra! All’armi! «Romani! l’Austriaco cento volte più barbaro del monsulmano picchia alle nostre porte.... che indugiate voi più? Come i Crociati poniamo sopra i nostri petti la croce, e su, addosso ai nemici, perchè Dio lo vuole! Non degno di chiamarsi romano chi per affetto o per comodo rimanesse codardamente ora alle sue case: non degna stirpe dei signori del mondo, non degno erede dei trionfatori sul Campidoglio colui che rifiutasse di presente vincere o morire per la libertà d›Italia. Indegna del nome di Romana, e di diventare madre colei, che adesso trattiene nelle sue braccia il fidanzato! Indegna dell›onore della maternità, e di seno fecondo colei, che piange per la partenza dei figliuoli! Indegna figlia delle matrone romane la donna che dissuade il suo sposo dai gaudi delle battaglie! Romani! i vostri padri vinsero tutto il mondo, patirete voi durare schiavi di tutto il mondo? Su via parlate!» Ed ottenuta risposta conforme all›accesa favella suggiungeva: «davanti questa croce simbolo di libertà, sopra questa terra santificata dal sangue dei martiri giuriamo di non fare ritorno a Roma se prima non abbiamo disperso fino all›ultimo i barbari, che straziarono la nostra terra!» Taluno riprende coteste parole, e insinua pietoso come quei barbari cristiani fossero e nostri nella fede fratelli. Chi è costui? Un prete, che non rammenta come siffatti fratelli nostri le italiane donno sventrassero, e il frutto dei santi connubi portassero in trofeo infilato nelle baionette; e nè manco rammenta le creature cosperse di acqua di ragia ed arse fra il baccano e le scede a mo› di sorcio di fogna. In veruno atto come in questo si palesa la pretesca fraudolenza. Pio IX mostrava repugnanza alla guerra però che si senta padre di tutti i fedeli, nondimanco lasciò, che diciassette mila uomini capitanati dal generale Durando andassero in Lombardia. Gli apologisti di lui lo scusano come quello che fu costretto, ed è scusa inane: perchè non abbandonava egli un potere che ormai non governava più? Se più tardi lo fece o perchè rimase adesso? L›uso delle armi, e la pecunia dello stato adoperata nel mantenerle, inviarle, o patire che movano contro cui chiami amico e figlio certo vuolsi giudicare suprema usurpazione di autorità; fuggì per meno il mal prete nel novembre di poi. Ma egli, aggiungono i difensori suoi, non benedisse la bandiera tricolore; certo gliela posero davanti gli occhi ma in compagnia della bandiera pontificia, ond›egli in ispirito, levate le mani, auspicò a questa, non già all›altra; siffatte sono grullerie gesuitiche, nè meritano confutazione. E poi i suoi difensori affermano, Pio IX inviava la gente con ordino espresso non valicasse il Po; sopra la ripa attendesse lo assalto, e veramente questo egli confessò eziandio nella enciclica del 29 aprile; e tutto questo era stolto, e fraudolento, perchè se lo Austriaco si reputava amico, e allora non bisognava spedirgli contro armati, ovvero era nemico e doveva reputarsi privo di senno il comando di aspettarlo a casa dandogli comodità di assaltarti a suo agio; combattere insomma con sicurezza di perdere: tu hai da fare la guerra con quello, che secondo la tua prudenza presagisci nemico quando torna a te, e non già quando piaccia a lui: inoltre diciassette mila uomini non possono giudicarsi sufficienti a guardare le frontiere degli stati papali; nè Pio IX credeva, che costretto (come disse) a mandare l›esercito fuori di Roma dove gli stava sotto gli occhi, e dove poteva esercitarvi immediata autorità fosse per obbedire ad ordine tanto insensato quando si troverebbe lontano da lui. Causa vera del consenso alla partenza dello esercito questa, che egli sperò votare in quel modo la città dei rompicolli; allontanati i cani egli fidava rimanessero a casa i montoni; garba cotanto ai preti chiamare, e provare i popoli greggi! Così vero questo, che anco dopo la partenza dello esercito continuando l›agitazione Pio IX ebbe ad esclamare ingenuo: «o non mi avevano detto, ch›erano partiti tutti!» Pertanto il prete così argomentava toccandosi le dita: o muoiono tutti per febbre, o per ferro nemico, ed è tanto di guadagnato, ovvero vincono, ed io mi avvantaggerò per avere trovato un ripiego, comecchè padre di tutti, per avere contribuito alle guerre patrie con i miei sudditi, e con la mia pecunia: breve: muoiono; e il prete pagato ne suffragherà l›anima: tornano disfatti; e il prete si rifarà delle passate amarezze tribolandoli come ribelli: se vittoriosi il prete li condurrà in Chiesa a cantare il Te deum, e li ciurmerà campioni elettissimi della Santa madre Chiesa Cattolica. Per meglio comprendere la doppiezza di Pio IX vuolsi sapere, che il Generale Durando arrivato sul Po con gli ordini di non traghettarlo sentendosi vinto così dall’ardore dei suoi soldati la più parte volontari, come dalla forza dei successi domandò ordini precisi di quello si avesse a fare. e gli venne risposto: «faccia quanto reputerà necessario alla tranquillità, ed alla quiete dello stato.» Ora se cotesto comento importa deroga agli ordini, che si volevano mantenuti non doveva trasmettersi; se non importa deroga bisognava spiegarsi più aperto. La enciclica del 29 aprile gli intendenti giudicarono peggio che slealtà, goffaggine pretta; per essa si conobbe la verità del proverbio, che chi troppo l’assottiglia lo scavezza, però che l’Austria non sia pesce da pigliarsi da cotesti bertovelli, e ricordò la protesta della Corte Romana al Congresso di Vienna quando le tolse il Polesine di Rovigo, nè lo dimentica adesso, che non alzerebbe un dito per sovvenire al papato: il popolo dall’altra parte ne venne in furore; il Papa da prima pretese mostrarsi impermalito, ma conosciuto poi, che questa volta la corda stava per istrapparsi si affrettò a dichiarare, che se egli non ispingeva a combattere l’Austria non parava persona ad andarci; per meglio blandire gli animi infelloniti mutava subito il ministero eleggendo uomini in buona vista del popolo. Pellegrino Rossi, che per sua sciagura, indi a poco entrò nei Consigli del Papa scrivendo in Francia così ragionava della sua condotta: «gli avanzavano due partiti da prendere, o l’intervento pacifico o la guerra; si addiceva il primo al Pontefice, la seconda al Principe italiano; egli non seppe fare l’una nè l’altra cosa, nè dichiarare la guerra, nè impedirla.» Tanto bastava per generare gozzaie non rimediabili mai, e nondimanco da questa ora in poi crescono le bizze di Pio IX, sicchè proprio parve agli uomini gravi un fanciullo stizzoso; mentre gli durava la paura scrisse una epistola allo imperatore di Austria perchè a bocca baciata si ritirasse in Austria lasciando la Italia, e da quel buon figliuolo ch’egli era senza tanto stintignare obbedisse; io per me credo non si sia mai fatto al mondo tanto sciupìo di carte come a quei tempi; il Mazzini scrisse al Papa per convertirlo e persuaderlo a tornarsi a pescare; Pio IX scrive allo imperatore di Austria per convertirlo e persuaderlo a tornarsi semplice arciduca; e se fosse solamente carta quella, che fu sciupata mi accheterei, ma sciupati altresì andarono buon senso, lealtà, e tempo, che Dio certo ci dava perchè lo impiegassimo meglio. Terenzio Mamiani davvero non mi parve mai uomo da dominare burrasche, tuttavia dei più risoluti di lui non avriano potuto durare tra le opposte spinte dei preti, e dei repubblicani, e Pio IX quasi si pigliasse diletto ad arcare cotesta povera anima ravviata ora non gli consentiva camminare con un solo ministro degli affari esteri, ma ne voleva due, uno per lo cose secolari, e l’altro per le spirituali: la nuova legge sopra la stampa (dacchè la vecchia per cui si era mossa gazzarra era venuta in tanto dispregio, che per poco non la pigliavano a sassate) voleva manipolare egli, cioè farla manipolare per lui da un padre Buttaoni domenicano maestro del sacro palazzo dal quale Dio scampi ogni fedel cristiano; negava ai ministri facoltà di punire i soldati fuggitivi; dal ruolo dei Consiglieri cancella il padre Vico gesuita, scienziato dei primi, e ciò perchè (il Papa affermava) l’avevano fatto a posta per non parere persecutori dei Gesuiti, onde ei veniva con questo a palesare l’animo suo di torre la reputazione al suo ministero infamandolo per tirannico: non consultati i ministri nomina Consiglieri di Stato, e Auditori; al Cardinale Ciacchi preside del consiglio dei ministri per la fermezza mostrata a Ferrara contro l’Austriaco salito in nome di liberale surroga il cardinale Soglia noto per abiezione non menochè per inettezza. La faccenda del discorso per l’apertura della Camera comparve piena di scandalo: lo compose il Mamiani per benino, lo corresse Pio IX e le sue correzioni accettaronsi poi si pentì e lo rivolle; allora ne compose uno nuovo da sè, e lo rimandò il 4 luglio vigilia del Parlamento: a quel modo intendeva Pio il governo costituzionale; non potendo i ministri accettare il papesco discorso, stante l’angustia del tempo proposero al Papa si facesse rappresentare dal cardinale Altieri il quale avrebbe detto panzane, ed essi avrebbero recitato un discorso messo insieme a modo e a verso d’accordo col papa: da prima Pio saltò su i mazzi urlando ch’erano traditori; gli fu dimostrato con pazienza da santi, che non i ministri traditori, ma egli era proprio un’ignorante, salvo lo Spirito santo, allora si abbonì, e accolse la profferta di rivedere il discorso, come in vero ei rivide ed approvò: tuttavolta l’Universo diario chiesastico di Parigi diè fiato alla tromba, e gli altri diari d’Italia tennero bordone lamentando la Chiesa governata da nemici della religione, e peggio; così si screditavano i ministri, e manomessa l’autorità si rendeva impossibile qualunque governo. Ricercando le cagioni di cotesti sbalestramenti papali ho sentito dire come Pio IX per lettere intercette venisse a sapere come il Mamiani s’indettasse a suo danno col Piemonte, e di ciò movesse querimonia infinita con monsignore Muzzarelli: qualche cosa ci ha da essere stato; ma di tradimenti non è capace il Mamiani, e Pio IX si mostrò così governato dalla vanità ch’io lo reputo più che capace da giudicare tradimento ogni partito che tendesse a ledere le sue prerogative di cui procedeva, e procede tenerissimo: ad ogni modo, poste per vere lo busbaccherie del Mamiani, il Papa avrebbe dovuto licenziarlo, molto più che per essere visto dal popolo con occhio obliquo poteva molto destramente farlo, e non già stare a bisticciarsi con lui in danno della cosa pubblica. Invece ogni tantino minacciava volere dare il puleggio al Mamiani, e tuttavia lo teneva: invece di due ministri separati per gli affari esteri adesso Pio pretende che in uno solo si cumulino i negozi così secolari come spirituali, e il ministero gliela imbianca, quindi gli cresce il rovello contro di lui, sicchè quando la Commissione dei deputati si condusse a portargli la risposta al discorso di apertura, egli con mal garbo disse accettarla come fatta alle parole dello Altieri, e protestò la ferma risoluzione di mantenere nella pienezza intere la libertà, e le potestà sue. Le fortune d’Italia per la disfatta delle milizie regie, e pontificie volgendo al basso, il Papa estima potere allungare le mani contro la libertà e s’inganna; la sventura inasprisce non doma gl’Italiani, e i reduci sparsi per le città, e per le ville gli animi già accesi infiammavano; intanto gli Austriaci mettendo avanti nuove improntitudini a Ferrara forniscono pretesto di tumulto al popolo in Roma che chiede armi, invade il Parlamento, e a forza unito con la guardia civica presidia le porte, ed il castello santo Angelo; il Mamiani odiato dal Papa, sospetto al popolo lascia l’ufficio, e veramente non correvano tempi per lui, ingegno temperato, amico della compostezza elegante, e forbito nel dire, nel vestire, nell’operare, in tutto; in una cosa solo io lo reputo stemperato, ed è nella passione di vedere sgombra la Italia da ogni straniero. Pio picchia a tutte le porte per formare un nuovo ministero, nè potendo rinvenire meglio ricorre ad Eduardo Fabbri infermo, e settuagenario, cultore di buoni studi, ma alieno alla politica, di negozi imperito. Gli Austriaci tumidi delle riportate vittorie, pigliano diletto a provocare il popolo, obliando che avevano vinto le milizie regolari, ma dai popoli erano stati vinti. Welden entra in Bologna; i soldati insultano e vengono manomessi; il capitano austriaco impone gli si consegnino i rei, i cittadini, che gli hanno per innocenti anzi per eroi li negano; dalle parole ai fatti; per quattro intere ore si attende da una parte, e dall’altra a rompersi le teste; il popolo bolognese mostra a prova averla più dura dello austriaco, e lo caccia: a Roma il popolo imperversa, anco al vecchio Fabbri s’infiamma il sangue e manda fuori bandi ardentissimi; e non ce n’era di bisogno: a Pio in proporzione che il sangue si scalda altrui si raffredda il proprio; il Fabbri risegna il governo, e Pio gli surroga Pellegrino Rossi. Questi richiesto prima del Fabbri aveva rifiutato perchè avendo troppa parte di vita logorato fuori d’Italia, gli umori degl’Italiani ignoti erano a lui egli ignoto agl’Italiani; aveva moglie protestante, forse protestante egli stesso; professore in Francia di varie dottrine; riputato, edotto non però ingegno supremo; i suoi scritti come invisi a Roma erano messi allo indice: apparteneva alla setta, che allora in Francia si chiamava dottrinaria; lo aveva portato su il Guizot: possedeva in copia la superbia, e la presunzione doti comuni a cotesta setta; l’acerbità dei modi era sua. Per quanto ci è dato conoscere i suoi concetti questi: nelle faccende interne un po’ di amministrazione liberale e abusi quanti più potesse levati di mezzo; guerra di sterminio alla democrazia; crescere le apparenze, non la sostanza dello Statuto; fuori lo accusano aversi voluto legare con l’Austria per bilanciarsi col Piemonte, da lui, e più dal Papa preso in uggia, ma non lo credo; credo piuttosto che intendesse equilibrarsi col sussidio di Napoli, e di Toscana: disegno scarso ad un punto e troppo; scarso per provvedere ai tempi grossi, soverchio per inimicarsi i democratici, i preti, e i parziali al Piemonte; di più aveva contro l’onda del secolo, e l’ira delle moltitudini. Quest’uomo o improvvido, o acre pareva compiacersi di pungere il genio della città unendosi nel ministero gente a dritto detestata per illiberale, come l’avvocato Cicognini, che di capo della estrema destra diventò ministro di grazia, e di giustizia, e il generale Zucchi, che usciva di prigione dell’Austria con buona fama per macularla a Rimini nel 1831, e nella resa di Palmanuova nel 1849 offuscarla affatto, fu promosso ministro della guerra. Ora essendo cosa ordinaria che chi dirige dia la intonatura lo Zucchi venuto a Roma disse alle guardie civiche parole dure e aborrite; andato a Bologna, tolse pretesto da qualche brutto fatto commesso dal popolo armato per disarmare popolo, e volontari, contro i corpi di Garibaldi e di Masina spedì milizie; costume vecchio, e nuovo di governo tirannico eccitare disordini, o non prevenirli per pigliarne poi la congiuntura d’insidiare la libertà: nelle provincie, e a Roma il popolo bolliva, anco la guardia civica portava il broncio; la nuova Camera uscita da pochi elettori, rappresentava colà come altrove una classe sola repugnante per timidità, o per altra più rea passione, da usare risolutamente della libertà: ciò era molto, massime a quei tempi, per rendere detestabile un’uomo, ma il Rossi fece peggio; dopo inimicati i democratici venne alle rotte con quanti parteggiavano pel Piemonte, e per la guerra, che non erano pochi, stampando sul Monitore romano certi suoi scritti co’ quali trafitti prima gli Albertisti dichiarava volersi accostare a Ferdinando di Napoli belva di re; per colmare lo staio il 13 novembre fatto mettere la mano addosso a Vincenzo Carbonelli, e a Gennaro Bomba napolitani agitatori irrequieti li mandava a Civitavecchia per espellerli dallo stato: arrogi, che presagendo egli resistenza si ammannisce a sfidarla, al quale scopo ordina nel Corso una lunga sfilata di gendarmi, come per avvertire i Romani che si giocava di vite; distribuiva poi i Carabinieri nei dintorni del palazzo della Cancelleria non senza prima arringarli dicendo, che in caso di sommossa dimenticassero l’essere cittadini per rammentarsi che erano soldati. Il giorno 15 novembre, fissato per l’apertura del Parlamento, al colonnello Calderari, il quale si profferse accompagnarlo con una mano di carabinieri a cavallo, e lo avvertì di pericolo soprastante, rispose, non temere niente, sarebbe ito senza scorta, e tuttavia lo agitava una fiera inquietudine, aveva la faccia pallida, e la voce velata. A Pietro Righetti disse: «se non avete paura venite meco alla Camera» e quegli andò. Una mano di gente da 50 a 60 vestita tutta della assisa dei reduci da Vicenza lo aspettava smaniosa nel cortile del palazzo della Cancelleria, sicchè taluno di loro impazientito dello indugio esclamò: «sta a vedere che il vigliacco ha paura, e non viene.» Ma il Rossi aveva sospetto non paura e veniva; un uomo appostato in via dei Baulari precorse la carrozza avvisando i congiurati: «ei viene, ei viene» Allora andò intorno il grido: «eccolo! eccolo!» e dal portone del palazzo fino alla scala si dispose in due ale, più spessa la destra, la sinistra scarsa. Appena sceso dalla carrozza il Rossi, e dietro a lui il Righetti si levò un cupo brontolìo misto a fischi; egli procedeva in sembianza provocatrice, con le mani nelle tasche della cappa; crescendo i fischi trasse fuori le mani, e prese a sbattere i guanti ghignando protervo; lui certo tirava un fato maligno: ecco di repente i congiurati chiuderglisi dietro e separarlo daì Righetti; uno di loro lo tocca di un bastoncello nella coscia destra, il Rossi si volge indispettito da cotesto lato; allora due o tre si spiccano dal gruppo destro per girare al sinistro passando davanti allo sciagurato e gli vibrarono non uno, bensì due colpi, il primo fu invano, non così il secondo; il pugnale penetrò nella parte sinistra del collo dall’alto in basso per bene quattro dita tagliando affatto l’arteria carotide, e la vena guigulare esterna, parzialmente la carotide primitiva; egli barcolla senza dire parola, tenta appoggiarsi al muro ma non si reggendo casca giù di sfascio. L’omicida ai più parve giovane di 20 o poco più anni, di poca barba, e smilzo; appena fatto il colpo gli gettarono addosso un mantello da guardia civica, e sparve con seco i complici, dei quali taluno andava ripetendo: «zitti! zitti! e’ non è niente.» Il Righetti a cui pure fu menato un fendente di daga invano facendosi largo domandò aiuto per sollevare il trafitto; non gli badarono, intanto sopraggiunse il servo del Rossi Giovanni Pinadier, e in due lo rimisero in piedi, così sorretto salì otto scalini o nove, e quindi si abbandonò; trasportato di peso nelle stanze dei cardinale Gazzoli adagiaronlo su di un lettuccio; mandarono pel prete il reverendo parroco dei SS. Lorenzo e Damaso, e lo trovarono a pranzo sicchè arrivò per assolvere il Rossi e vederlo spirare, e forse era spirato, perocchè uno che si trovò presente al caso ci racconta, avere suggerito al moribondo di profferire le parole: «Gesù mio misericordia,» ma non potè dirle, e spirò. Su quel subito dopo incominciato un po’ di processo tanto per non parere si lasciò cascare, fu ripreso più tardi. Gli accagionati sedici, otto contumaci tra i quali Ciceruacchio e Sterbini; dei presenti Felice Neri morì prima della condanna, degli altri Luigi Grandoni e Sante Costantini giudicati nel capo, ma il primo periva in carcere, l’altro ebbe mozza la testa; i rimanenti cinque mandati chi a vita, e chi per 20 anni in galera. La paura, che invano presumerono mantellare di costanza romana, persuase la Camera ad aprire la seduta, comecchè non fosse in numero e a leggere il processo verbale, ma della strage del Rossi non discussione, non deliberazione; un grido solo si levò per impedire l’apertura della seduta codardamente animosa; se non chè questo altro grido (dicono si partisse dal principe di Canino) di rimando lo attutì: «è forse morto il Re di Roma?» I vari partiti si gettarono in faccia l’omicidio del Rossi; uno scrittore non so se più tristo, o ridicolo, ne incolpò anco lo scrittore di questo libro; e l’opera del D’Arlincourt ebbe traduttori e stampatori a Livorno, lettori, e forse credenti in Italia; miserie di tutti i tempi, e di tutti i luoghi, forse correggibili un giorno, ma certamente non emendate fin qui! A fine di conto veruno amò Pellegrino Rossi imperciocchè pei preti fosse troppo, pei liberali troppo poco. La Corte Romana lo pianse morto perchè le tornava singhiozzare senza lacrime, se gli fosse durata la vita lo avrebbe ucciso ella: più tardi Pio gli mise un po’ di sepolcro tanto per non parcere, e su la lapide commise incidessero lui avere avuto ragione da vendere, il Papa lodava ed approvava il Papa, e questo va pei suoi piedi nè importava davvero scolpirlo sul marmo. Spontaneo o consigliato Pio IX mandava nel mattino del 16 Marco Minghetti, e il Conte Pasolini in cerca di Giuseppe Galletti, il quale arrivato la sera del dì precedente aveva ricevuto dalla turba inebriata di vino e di sangue strepitose accoglienze; egli nelle sue memorie fa le stimate per questa chiamata, e s’infinge; forse altra volta non aveva egli retto il governo? E per le acclamazioni popolari non offeriva un’arnese lì per lì da logorarsi in opposizione al popolo; certo per breve tempo, ma a quei giorni chi poteva augurarsi durare un pezzo; e poi Pio IX non ne aveva bisogno di lungo; bensì di tanto che bastasse a mettersi in salvo; recatosi il Galletti al Quirinale, il Papa gli parlò pacato, e gli commise comporre nuovo ministero; chieste alcune ore per indettarsi gli concesse spazio fino a sera; uscito, gli offre la carrozza il principe Corsini, ed ei va con esso; mentre passano per piazza Apostoli ecco accorrere loro una turba di gente, nè popolo tutta, bensì mista di deputati, di cittadini maggiorenti, e di ufficiali, con bandiere e carelloni sopra i quali stavano scritte le domande, che intendevano il Papa esaudisse: ministero nuovo, governo quale lo aveva già dichiarato il Mamiani, adesione alla Costituzione bandata del Montanelli; appena ravvisato il Galletti, la moltitudine lo cava dalla carrozza, e seco lo travolge al Quirinale in mezzo alla deputazione eletta per partecipare al Papa i desiderii della Città; sappiamo da lui, come parendogli strano inquietare Pio per cosa della quale già gli aveva dato incombenza, e non dicevole angustiarlo per le altre s’indettò con la Deputazione di entrare in palazzo, e uscirne poi simulando avere tenuto colloquio col Papa, e da lui impetrata la facoltà di comporre il ministero senza toccare di altro; era inganno cotesto ma il popolo che di rado si lascia abbindolare quando tiene aperti gli occhi prese a prorompere: «o le altre?» A che il Galletti, colto alla sprovvista rispose: «quanto alle altre provvederebbe il governo non essendo tali da poterlo fare il Papa senza ministero.» Il popolo subodorata la frode, diede nei lumi: «risposta chiara e subito;» e s’incammina a cercarla da sè; trattenuto a stento concede ritorni al Papa il Galletti, il quale va, e lo trova arruffato; preghiere e persuasioni non valgono a smoverlo, bensì ei gl’insinua ad ingannare il popolo, e il Galletti mostra offendersene, ma a torto perchè se lo aveva deluso una prima non si sa perchè non lo avrebe deluso una seconda volta. Popolo, e Svizzeri già cominciavano a barattarsi qualche nespola; preti, e servitorume in palazzo tremano a verga supplicando il Galletti li salvi dallo sterminio, sicchè egli annunzia al popolo non un rifiuto duro duro del Papa, bensì non volere patire violenza. Alle armi! urla il popolo, e sgombra la piazza. Il Papa nella fiducia che la repulsa gli procacciasse reverenza si stava nella sua vanità tranquillo, quando ecco allagare la piazza il popolo armato trainando un cannone per fracassare la porta maggiore del palazzo, con esso lui la guardia nazionale, bersaglieri, reduci, e fanterie regolari; si dà mano a moschettarsi con gli Svizzeri; il sangue gronda; monsignor Palma mentre si affaccia ad una finestra del Quirinale per ispeculare quello che si facesse in piazza, colto da palla nel capo, muore; dicono fosse uno degli scrittori della famosa enciclica del 29 Aprile. Appiccarono il fuoco ad una porta laterale; grave il danno presente, troppo maggiore il futuro, imperciocchè il figlio del Ciceruacchio stesse per dar fuoco al cannone appuntato contro la porta del Quirinale, e lo faceva se non lo avessero tenuto; di ciò si vantano parecchi, il Calandrelli, e il Galletti; forse ci avranno avuto parte ancora essi, ma quegli, che gli strappò la miccia accesa di mano fu proprio il padre del giovane tuttavia parziale a Pio IX. Si mandarono in fretta da più parti persone in traccia del Galletti, che rinvenuto in Piazza Navona andò; il Papa apparve atterrito, ma più che atterrito crucciato, che nel cuore del prete due grandi passioni si davano battaglia, orgoglio e paura; per la composizione del nuovo ministero di leggeri andò persuaso, alle altre domande invincibilmente opposto, onde si ebbe rifugio al ripiego, deciderebbe l’Assemblea su quelle; il popolo non si contentava, ma lo abbonirono con le parole artate; il popolo pretendeva altresì gli si consegnassero nelle mani gli Svizzeri, ma anco su questo lo abbonirono. Dicono i panegiristi di Pio, com’egli al cospetto degli Oratori stranieri protestasse della nullità degli atti come estorti a forza, e non pare, dacchè parte accettò, e parte respinse delle domande del popolo, e se questo fu inganno per celare meglio le riposte deliberazioni tanto maggiore gli riviene il biasimo per la usata fraudolenza; e di ciò si duole amaramente il Galletti lamentando i danni patiti per essersi spencolato in suo pro, la sua sconoscenza come quello che lo aveva sottratto a pericolo sicuro, poichè s’egli non era il popolo in cotesto di aveva mostrato volontà e potenza di troncare ad un punto Papa e papato. Gli uomini del 1818 sperimentarono nemici così i principi come i popoli, e a parere mio meritamente, imperciocchè molti di loro per disposizione propria, e per qualità di tempi, taluni per qualità di tempi soltanto nè salvarono le monarchie, nè impedirono le repubbliche; una maniera di rivoluzionari annacquati: onde oggi Dio non li vuole e il diavolo li rifiuta; e più che tutti ha ragione di spregiarli il popolo, il quale a questa ora non si troverebbe a rifare i passi sopra una via insanguinata dai suoi piè laceri. È fama che Pio IX tra il sì, e il no tenzonasse di partire o rimanere, ma che a traboccare per la risoluzione di andarsene contribuissero assai la lettera, e il dono della pisside, o meglio della teca dove un Chatorusse vescovo di Valenza gli dette ad intendere Pio VI portasse il viatico nelle sue pellegrinazioni; invero a che pro cotesto impaccio se il Papa con due parole e un po› di farina poteva farsi quanto Dio voleva? e la farina da per tutto si trova. Avendogli pertanto mandato Dio la ispirazione per mezzo del vescovo di Valenza, mentre gliela poteva spedire per via diretta deliberò la fuga: in questo passo forte lo stimolava il duca di Harcourt il quale intendeva condurlo a Civitavecchia e quindi in Francia, arnese ottimo, secondo lui, per iscompigliare la Europa pigliando a volo i diritti, o piuttosto le pretensioni dei Papi sul bene altrui. Gli oratori degli altri principi cattolici ben si accordavano coll›Harcourt intorno alla fuga ma dissentivano circa l›asilo, il Martinez della Rosa lo voleva trasportare alle Baleari, il conte Spaur a Gaeta donde con maturità di consiglio avrebbe potuto scegliere fra le Baleari e Francia, così diceva, ma insomma lo voleva commettere nelle mani del Re di Napoli e dell›Austria: ognuno di loro tira l›acqua al suo mulino. Essendo comparsa in quel torno un›aurora boreale, gli scrittori chiesastici, ne traggono argomento ad affermare che la fuga di Pio fu annunziata dai cieli; e questo potrebbe addursi in prova della pertinace impostura, o ignoranza dei preti se il temerario sillabo di Pio IX non assolvesse da ogni prova. Il 24 di novembre l›oratore di Francia arriva al Quirinale in un carrozzone di gala preceduto dai corrieri con le torce a vento, e domandata udienza introducesi al Papa il quale tosto muta vesti pigliando quelle di un pretoccolo, e per mascherarsi meglio postosi sul naso un paio di occhiali verdi scappa per certe stanzuccie conducenti al corridore degli Svizzeri, il duca d›Harcourt rimane nella stanza di udienza dove nel disegno d›ingannare la gente continua a discorrere con voce alta e concitata; se non chè quando egli pensa ormai assicurato il fine dei mal sortiti tiri furbeschi, ecco che ti vede ricomparirsi davanti il Papa disfatto con un moccolo in mano. La porta del corridore degli Svizzeri disusata ab antiquo non aveva potuto aprirsi, chiuso allo scampo ogni via: agevole cosa immaginare la confusione di costoro, e forse imprecavano a coro un Dio avverso quando il foriere Filippani sopraggiunge ad avvertire che il Dio placato sotto forma di olio di oliva aveva fatto scorrere il chiavistello e spalancata la porta: amplessi, e baci, e passi accelerati per rimettere il tempo perduto. La contessa Spaur dopo aver messo in confronto la partenza di Pio VII da Roma con quella di Pio IX, la prima in mezzo al pianto dei fedeli Romani, massime delle donne, che picchiandosi il petto simili alle figliuole di Gerusalemme ululavano: «chi ci rapisce il Santo Padre? Chi?» La seconda alla chetichella a guisa di ladro notturno che porta in salvo la cosa furtiva, esclama: qual differenza! — Questa confessione scappata impensatamente dalle labbra di una donna foggiata a zelantissima cattolica chiarisce le condizioni attuali del Papato, e il fine, che senza rimedio ormai gli si apparecchia. Vulgare fuga fu cotesta, che invano s’industria la contessa Spaur di rendere poetica: bimbi, cameriere, preti, carabinieri, che reggevano il sacco, e nondimanco paura; tutto questo burlevole: pieno però di amarezza vedere cotesto mal Prete recitare il breviario col padre Liebl, e supplicare Dio per la salute degli uomini, che tornato in fiore egli dannò alle galere, agli esilii, qualcheduno alla morte. Giunse il Papa a Gaeta a salvamento, perchè, come disse egli alla Spaur, seco era Dio chiuso dentro la scatola, il quale pure non era bastato a salvarlo dalla paura quando trovò chiusa la porta del corridore degli Svizzeri! Di colta il Papa fu preso per ispia dal comandante di Gaeta, ma poi il Re Ferdinando avvertito gli portò in fretta e in furia camicie, soldati, e marzapani e condottolo seco a Napoli l’ospitò regalmente; per la qual cosa questa belva incoronata, che uomini di stato temperatissimi chiamano addirittura negazione di Dio, diventa ad un tratto: «Re cristiano ammirando nel quale non sai se le virtù del principe cristiano superino quelle del privato, o queste quelle avendo discorso parole, e operato fatti di sovrano il più magnifico e il più pio di quanti si conserva memoria nel mondo.» Dicono il duca d’Harcourt corresse a Civitavecchia nella speranza di trovarci il Papa, e non ce lo rinvenendo rimase come schermitore vinto di scherma; ciò altra creda non io, che se tale fosse stato l’accordo egli avrebbe da lunga mano allestito il naviglio, a mo’ che fece Leopoldo di Toscana mercè la Inghilterra, la quale in quelle rivolture tenne il piè in tutte le staffe, e parve pescatore che intorbida le acque per pescardi dentro. Conosce l’universale come Pio IX fuggito da Gaeta dopo tre giorni deputasse certa comissione di sette persone a reggere il paese: questo gli era vietato per legge: e supposto gli fosse concesso veniva tardi, perchè il Decreto, che la instituiva arrivò a Roma solo il tre dicembre, o si conosceva aperto, che la era preordinata per iscarrucolare la gente, di vero tre dei sette non si trovavano a Roma, gli altri quattro in mal punto, e senza un’oncia di consiglio richiesti arruffavano: ci erano apposta; all’ultimo ricusano. Il Papa depone il ministero, che non gli dà retta e rimane, solo repugnante il Mamiani; mandasi deputazione a Gaeta, ed anco questo parve partito insano, chè ormai era chiaro il Papa, se straniere armi non ce lo riconducevano, non volere restituirsi a Roma. La deputazione come poteva di leggieri prevedersi fu respinta ai confini; avendo ella scritto lettera al cardinale Antonelli fin lì mostratosi zelante di libertà non n’ebbe riscontro di sorte; cessata la commedia aveva deposta la maschera. — La risoluzione forse non poteva salvare, ma la incertezza fu di sicuro ruina; gli operatori dei passati rivolgimenti non si tennero paghi ad avere ragione, ma sì ancora attesero a provare per filo e per segno che l’avevano; nè io dirò che in queste faccende non importa ragione; questo altro dico, che non rileva tu abbi ragione se l’esito ti dà torto. Il ministero revocato continuò a guidarsi come nave senza timone, i deputati peggio che mai; eletta nuova giunta di reggitori, Gaeta, interessata a crescere la confusione, protesta; si scioglie il Parlamento, e si convoca l’Assemblea constituente; il senatore di Bologna membro della Giunta risegna lo ufficio, gli sottentra il Galletti; Mamiani abbandona il ministero e se ne ignora la causa, dove non fosse il cruccio concepito nel vedersi postergato a cui egli estimava, e senza dubbio era, men degno di lui. Precipito la narrazione come quella che si versa su cose a tutti notissime; il Papa col monitorio del primo gennaio 1849 protesta, e vieta ai fedeli di partecipare all’assemblea constituente sotto pena di scomunica; nonostante ciò apresi, e ci concorrono i fedeli; si mette il partito della decadenza del Papa ed è vinto con voto quasi universale, imperciocchè i dissidenti sommassero a quindici sopra 142; posta altresì a partito la dichiarazione della repubblica ebbe contro soli ventidue voti, che per la scarsezza loro e’ furono come se non fossero; l’assemblea elesse ancora un Triunvirato composto di Armellini, Saliceti, e Montecchi: varia di loro la fama come suole nei mareggiamenti politici; però cribrata ogni cosa ad Armellini consentono molta scienza legale, e di ciò porgono preclaro testimonio le sue allegazioni forensi, e nelle altre faccende più ingegno, che dottrina: nello eloquio spedito: Catone in piazza, Epicuro in casa: cupido di primato, nei propositi incerto, di modi, e di parole coperto, prete fu e non sapeva dimenticarsene; altre taccherelle gli appongono, e le avrà avute; fatto sta che stette alla sua fede fermo, non vacillò per danno presente, e per presagio di maggiore pericolo avvenire, visse e morì onorato nello esilio lasciando desiderio di sè in quanti lo conobbero, e nome presso l’universale di cittadino onesto. Il Montecchi eziandio appartenne al foro, buono era, ma di poca levatura; uno dei tanti, che la ruota delle vicende umane pare che abbia bisogno di tirare su per fargli fare, girando, il tomo; il Saliceti entrò nel maestrato con maravigliosa reputazione, lo predicavano giureconsulto solenne, filosofo, ed uomo di stato: ministro a Napoli lo ebbero in pregio: grandi cose si aspettavano da lui, e non le fece, sicchè presto venne meno alla pubblica stima, solito scoglio in cui rompono anco i sommi, i quali non rispondono mai all’eccessivo concetto, che altra si forma di loro. La repubblica non fu accolta bene nè male; la patirono i popoli, nè forse vi era altra uscita, dacchè al Papa non si voleva tornare, nel governo provvisorio non si poteva durare; il Monghini, che questo disse, allora come ora apparve savio, e il Farini male si adopera trafiggerlo con oblique parole: maligno raccontatore costui, contro il quale, percosso da Dio, non lice aggravarsi con dure parole. Quando poi con tanto valore i Romani con gl’Italiani convenuti a Roma difesero la repubblica, furono sospinti ai magnanimi atti meno da svisceratezza per la forma del governo che per mostrare a prova di sangue allo aborrito straniero come gl’Italiani sappiano adoperare l’arme anco in disperata difesa; nè questo è giudizio dello scrittore, bensì dello stesso Giuseppe Mazzini, il quale, interrogato da lui rispondeva proprio così: «il concetto della difesa di Roma fu in tutti concetto di onore, e di ribellione naturale contro la insolenza francese; nei pochi concetto repubblicano, e desiderio di promovere il principio facendo conoscere al mondo ciò, che a petto dei monarchici d’Italia valessero i repubblicani.... Roma era scaduta agli occhi d’Italia, e di Europa: era una popolazione di preti, di servi, di ciacchi viventi su la candela, su le cerimonie, e le corruttele dei sacerdoti, e di trasteverini ignoranti, affascinati dalle pompe cattoliche, comecchè d’istinti veracemente Romani. Ora per noi senza Roma non si fonda unità, però bisognava riconsacrarla all’ammirazione di tutti; farvi scintillare una favilla di virtù prisca e vera.... insegnare insomma di nuovo Roma alla Italia, la Italia a Roma.» Intento a vero dire non pure generoso ma giusto, e checchè adesso in contrario ne appaia portatore in futuro di frutti maravigliosi quanto inopinati. Lo stato di Roma grave perchè quello d’Italia pericolante. Hainau atterrisce a Ferrara, Venezia è stretta di assedio, Sicilia non riconosce la repubblica romana, Piemonte torbido, volente battaglia contro l’Austriaco, aborrente dai moti dei popoli, e più dalle aspirazioni loro, Toscana mal ferma. Qui venne il Mazzini per lo appunto il giorno in cui il Granduca Leopoldo disertava dal paese come il soldato dalla bandiera: coloro, che rimasero al governo della Toscana promossi da tutti, in breve sperimentarono nemici tutti, e non pure nei fatti, ma sì nei detti, e negli scritti: i monarchici pretendevano ch’essi facessero sangue per costringere il popolo a tenersi un principe che fuggiva, i repubblicani li lasciarono perchè non bandirono la repubblica, e adesso col giudizio stesso del Mazzini si chiarisce come nè anco a Roma, dov’ella fu promulgata, i più di cuore la sostenessero. Non comprendevano i reggitori Toscani con quanto, non dirò giustizia, ma senno potesse imporsi per forza la repubblica, di cui è fine consentire al popolo lo esercizio pienissimo della propria libertà; ond’ei se ci repugni, appena datagli la repubblica, te la butta via, e dove poi tu voglia, ch’ei la tenga ti fa mestieri adoperare modi tirannici dai quali aborrivano i governanti Toscani: inoltre bisognava considerare, ch’eglino preposti al governo provvisorio dovevano queste due cose compire; mantenere ordinato il paese, e provvedere, che l’assemblea costituente eletta con sincerità di suffragio deliberasse intorno alle sorti del paese; e tanto ebbero in sorte di compire. Quanto a loro dalla repubblica non rifuggivano davvero, se repubblica aveva ad essere l’universale deliberasse; solo le violenze detestavano, chè modi incivili non furono mai visti partorire costumi civili. Di tanto possiamo porgere testimonianza, che dove lo universale avesse deciso reggersi a repubblica, e avessero eletto a sostenere gli uomini del governo provvisorio la infamia di accorrere allo Austriaco coll’olivo in mano sarebbe stata risparmiata alla Toscana; il come non importa dire, chè gli eroi, scomparso il pericolo, si misurano con lo staio. Giuseppe Mazzini non avendo potuto ottenere per via di conati, a vero dire, non civili nè giusti che il governo provvisorio imponesse tirannicamente la repubblica in Toscana se ne andò a Roma senza essersi fatto tra noi nuovi amici, e disgustato parecchi dei vecchi. Chi sia Mazzini non impora esporre con lungo discorso: se le sue teorie valgano tutte anco meno preme discorrere; questo è certo, che le teorie voglionsi sempre accogliere quando svegliano la passione, e il pensiero; spetta alla esperienza poi sceverare il troppo, e il vano: ora le teorie del Mazzini sopra le altre poterono operare questi due effetti stupendi in tempi nei quai l’uomo sembrava nato per servire di camposanto al cuore, e al cervello proprii: tenace secondo che gli porge la natura genovese, e però disposto ad operare, gli fanno difetto due cose: pratica di uomini, e pazienza di pigliare gli eventi come vengono: di animo mite, cultore di molti studi come di molte favelle, scrittore efficace, comecchè imperito delle grazie della lingua, nondimaneo facile a intendersi e però popolare il suo dettato: di costumi incorrotti, di vita esemplare, donatore del proprio frattanto avendogli appiccato accusa di peculato cadde da sè senza mestiero difese, e adesso vive con le reliquie del paterno censo, accomodate a vitalizio con certo suo parente di Genova: di fede intero così, che anco ai suoi poco amorevoli piuttostochè trista parve strana la taccia di servile sbalestratagli contro da tale, che da un pezzo dimena nel manico, e non è nero ancora, e il bianco muore; più agevole riprenderlo di spietata inconsideratezza di spingere altrui a morte quasi sicura, che negare per questi sacrifizii cresciuto a mille doppi l’odio degl’Italiani contro lo straniero. Se congiurasse contro la vita altrui parecchi affermano, egli nega; ma considero, che uomini i quali fanno professione delle sue dottrine non ci repugnano dove il dannato a perire meriti davvero essere offerto vittima alla pubblica Nemesi, e dal castigo di lui ne venga benefizio all’universale; nè a cosiffati uomini si domanda donde cavino il mandato, imperciocchè ti risponderanno dalla propria coscienza; e neppure li tratterranno la esecrazione o i supplizi mirando per le storie come per gesti di questa maniera tale fine aspetta se infelici; fortunati poi ogni uomo loda, e quasi india. Su di che parmi dovere ripetere un mio antico giudizio, che reputerò sinceri gli abominatori degli omicidi plebei, quando io gli udirò detestare del pari i principeschi, nè vedrò serbata la ignominia a quelli, che per istrage vanno al patibolo gli encomi agli altri i quali la medesima colpa esalta al trono: e rammenterò eziandio, come san Tommaso distingua la uccisione del tiranno, che per fraude o per forza ti si è imposto addosso da quella del tiranno eletto per suffragio del popolo; e nel primo caso l’ammette, nel secondo no; la quale sentenza a cui bene intende parrà, come di vero ella è, piena di senno, imperciocchè il violento tiranno sia accidente, che di un tratto ti colse, e di un tratto può andare via, mentre il volontario cagionato dalla corruttela del popolo per cessare ch’ei faccia non rifiorisce la libertà omai spenta: e questa è la ragione per cui ammazzato in Tebe Alessandro da Pelopida, ed in Atene i trenta tiranni da Trasibulo coteste repubbliche riebbero la libertà, mentre a Roma la strage di Giulio Cesare partorì tre tiranni, e l’ultimo tracollo della repubblica. Ma questo secolo su gli altri piglierà titolo di bugiardo come quello, che i nomi onesti, e le sembianze tutte di virtù inquinava ponendoli a velo di tristi parole, e di peggiori opere. Insomma, bandita ogni ipocrisia, questa è la ragione delle congiure per la strage dei tiranni; se non riescono si rinnegano da tutti, se riescono da pochi, ma nessuno respinge i doni comecchè sanguinosi della fortuna. Taluni scrittori francesi, che scambiano l›arguzia per discorso scrivono, che il Mazzini a Roma, sgombra dai preti, si rinvenne come in casa sua volendo così significare, ch›egli è profeta, di fine diverso, ma di sostanza pari ai profeti cattolici: quanto ai Papi per durare così deboli sovrani tanta parte nelle faccende politiche egli importa sapere, che non si conobbe mai negoziatrice più destra della Corte Romana, e quanto a Mazzini non s›inviluppò triumviro nelle sue teorie per modo, che non rivelasse d›ora in ora intelletto italiano di cui è natura la speculazione sperimentale delle cose. In Roma il Mazzini entrò eletto cittadino comecchè assente, nell›assemblea entrò col suffragio di novemila voti; lo accolsero plaudendo; il presidente Galletti se lo chiamò allato in segno di onore; disse parole brevi, modeste, e degne, le quali insomma si riducevano a questo: alla Roma dei Cesari, ed alla Roma dei Papi aversi a surrogare la Roma del Popolo, la quale raccolta in un fascio la Italia adoperasse la nuova e temuta potenza in benefizio della libertà del mondo. — Storici incapaci a concepire altro stato in Italia tranne quello di un Piemonte ingrandito tolsero a segno di sceda il concetto del Mazzini, e pure in tanta mutazione di casi egli è rimasto coscienza, e passione di popolo, patto di regno. La repubblica Romana avversata dall›odio di tutti i suoi antichi servi cadde impotente a compirlo; adesso se n›è tolto il carico la monarchia: staremo a vedere dove ci mena; per ora ella conduce il can per l›aia. Nè anco si comprende come nel Mazzini diventi follia ciò che nei bandi di Napoleone III si esalta come apice di generosa sapienza; imperciocchè la promessa di fare apparire la bandiera di Francia colà dove vi sia causa di civiltà a sostenere non risponde all›altra del Mazzini di ricomporre prima e adoperare poi il fascio consolare della libertà Romana per la libertà degli altri popoli? E per me credo, e la esperienza lo ha mostrato un›aiuto comunque lieve purchè opportuno ebbe virtù di salvare popoli, e cause maggiori della umanità; se non che la promessa del Mazzini si sarebbe attuata in pro della libertà: quella del Napoleonide per ineresse della sua famiglia, o alla meno trisa per quello della nazione francese. Intanto Pio IX smanioso tornarsene a Roma più assoluto (se fosse stato possibile) di prima chiama in suo soccorso contro Roma non uno bensì tre stranieri, gli Austriaci, i Francesi, e gli Spagnuoli, a cui aggiunge il Re di Napoli; lo avrebbe desiderato solo, ma non lo reputava bastante; avrebbe altresì eletto l›Austria sola estimata da lui più, che capace, ma glielo contrastavano le altre potenze: il Piemonte poi amava come il fumo agli occhi, nè questo, prima di Novara distratto, dopo disfatto poteva risentirsi. Importa con discorso quanto meglio si potrà conciso esporre le ragioni della impresa francese contro Roma, affinchè gl›Italiani facciano senno una volta. La intelligenza umana le più volte in Francia ti fa l›effetto di una pagina di stampa disfatta: alterate nei racconti le cose, i commenti a quelle temerari del pari che sfrontati; pure se savio intendi tu troverai il filo della immane improntitudine francese. Quelli che s›industriano colorire con tinta men rea la faccenda affermano, avere voluto la Francia preporre il Piemonte e Napoli alla restaurazione del regno papale; e non è vero: posto che fosse vero, la impresa non comparirebbe meno iniqua perchè commessa altrui: aggiungono, che il duca di Harcourt si dimenava a Gaeta come il diavolo nel catino dell›acqua benedetta perchè non si chiamasse l›Austria onde terminò col dare nel naso all›Antonelli; e questo può darsi, studioso che il Papa preferisse esclusivamente la Francia, la quale o regia, o repubblicana, o imperiale serva fu sempre e per giunta cristianissima: ma non avendo potuto tirare l›acqua al suo mulino egli propose non ci si adoperassero le armi straniere, nè casalinghe, piuttosto si promovesse il moto interno affinchè la restaurazione pontificia si operasse in virtù del partito costituzionale, ed anco questo rincrebbe o mostrò ad un punto quanto dolce di sale fosse il Duca, dacchè i preti sapessero due cose; la prima che non ci era anima, che li potesse patire, la seconda, caso mai ci fosse, il partito costituzionale non aborrivano meno del repubblicano, come detestano tutto ciò che tocca la superbia, la prepotenza, e l›avarizia loro. Di fatti persone ottimamente informate ci attestano tale lo stato degli animi dopo la partenza del Papa; chi amava non lui ma il papato per suo interesse cruccioso della turpe fuga desiderava nuovo e solido ordine di governo, per avere abilità di continuare anco con questo i suoi negozi; chiamò lui non il papato a un tratto deluso, i benefizi largiti a spilluzzico, e a male in cuore oblia, solo ricorda le colpe, e ragionandovi su le magnifica; se già non sente l›odio gli va dappresso: quelli poi che di Pio diffidarono sempre, ma che pure si misero di mezzo, massime nel novembre, per impedire, che la rivoluzione con danno del paese prorompesse, adesso sbottonavano accesi contro di lui: ciò crebbe l›ardimento ai repubblicani, che trovata la temperie disposta poterono di punto in bianco acclamare la repubblica. Pio IX vanissimo, forse si dette ad intendere, che uscito egli di Roma ella restasse sepolta nelle tenebre pigliando fatte alla sua persona le manifestazioni che s›indirizzavano alla libertà, la quale si tenne promossa da lui, errore che il Papa prese insieme a parecchi, e del quale egli ed altri ricreduti con non mediocre dispetto, oggi procedono smaniosamente contrari alla causa dei popoli. Quanto poi agli ordini costituzionali (e questo dovrebbe porre il frenello in bocca agli scrittori moderati, i quali non rifiniscono lamentare la intemperanza dei democratici come quella che alienò il Papa da cotesta forma di governo) Pio IX così si esprimeva, dopo restaurato a Roma, al ministro di Austria: «egli non dissimula punto, che giudica ogni forma parlamentare proprio nemica allo esercizio libero del potere spirituale, vedrebbe con paura intorno a sè mettere le barbe non solo alle scapestratezze imposte dalla rivoluzione, ma sì eziandio alle forme rappresentative più miti contagiose non meno, e nocive agli stati.» Per ultimo il sillabo per sigillo: onde ormai pongasi questo in sodo, repubblica, o monarchia od istituto altro qualunque, che si proponga a scopo il meglio della umanità non può assettarsi a vivere con la corte di Roma. La Francia al postutto si sarebbe rimasta, ma avendo spillato che l›Austria voleva ad ogni modo prendere parte nei rivolgimenti delle provincie pontificie deliberò moversi per preoccupare i passi, e non mica per imporre il suo volere ai Romani, o al Papa, bensì per volerli mettere d›accordo fra loro: sallo Dio, se le dolse, ma alla Francia per salvare qualche lembo di libertà parve necessario di propria mano stringere il collo alla rivoluzione: quando anco non fosse così, la colpa non ricadrebbe su la Francia, bensì sopra i repubblicani, i quali non dovevano mai concedere al governo facoltà per fare di sua testa, nè credere che il popolo poi volesse mettersi in quattro per raddrizzare il male operato, imperciocchè a fine dei conti ai Francesi piacquero sempre le parti di Carlomagno. Ora se non abbiamo smarrito il senno tutto questo ci pare un mucchio di errori per non dire d›infamie; gli accordi per forza non approdano ad altro, che a inferocire gli animi peggio di prima; nè sta a martello attribuire la colpa all›assemblea, la quale bisogna pure, che commetta la forza al potere esecutivo, salvo a farsi rendere conto del come l›adoperi, e punire i prevaricatori; contro i barattieri il Lamoriciere aperto del pari, che preciso dichiarò: «restaurazione altro non significare che controrivoluzione;» e col Lamoriciere altri, a cui dobbiamo grazie della sincerità loro; forse a taluno parranno le parole invereconde, e sono, ma hassi a confessare altresì, che sono sincere: queste ammoniscono come il fine della impresa romana fosse quello di acquistare balìa sopra la Italia, il mezzo, la restaurazione papale; ovvero, per definire le cose a modo e a verso, il Papa usano i Francesi per arnese di servitù; costoro, da Parigi tengono in mano il capo della catena rinterzata di anelli papalini e cardinaleschi che hanno cinto intorno alla vita d›Italia e lo dicono, e questo altro anco dicono: i Francesi, se confusero il mezzo col fine e se misero innanzi il primo tacendo del secondo ciò fecero artatamente, dacchè sarebbe ingenuità soverchia palesare quello che si molina nell›animo; forse il meglio saria stato dichiararlo addirittura; pure se noi dissero non ingannarono mica: con questo vuolsi intendere che se ci furono ingannati non ci furono però ingannatori: la delusione è colpa degl›Italiani, i quali dovevano capire, che i Francesi non dovevano manifestare tutta la verità, nè potevano. Di vero, la Francia, che marca co› bellicosi Germani sul Reno deve guardare bene a cui l›accosti dal lato le Alpi; là dove la Italia diventasse feudo austriaco la Francia correrebbe pericolo di essere messa in mezzo alle tanaglie incontrando il medesimo nemico così a Magonza come a Torino; e posto eziandio, che la Italia giungesse a costituirsi potenza grande la Francia vedrebbe piuttosto crescere che diminuire il risico, imperciocchè un regno d›Italia probabile confederato un dì della Germania per terra, e della Brettagna sul mare sarebbe minaccia gravissima sopra la frontiera, che oggi la Francia non vigila o custodisce appena. Non è vero niente, che vicinanza sia mezza parentela, o vero nel senso, che parentela non importa amicizia; al contrario gli odii riardono più intensi quanto più gli odiatori sono stretti per vincoli di sangue; e porgono argomento di odio gl›interessi comuni i quali si moltiplicano e si rinforzano appunto a cagione della prossimità: poche per la Francia le cause di litigio con la China, o col Giappone e rare, frequenti e moltissime con la Spagna, la Germania, e la Italia. Pertanto contro questi pericoli la Francia non seppe immaginare mai migliore tutela della inviolabilità dello stato pontificio, il quale entra a mo› di zeppa in corpo alla Italia, e ne impedisce la unità repubblicana o regia tanto esiziale alla Francia. Insomma se il Vaticano difende la Francia, e la Francia difende il Vaticano legati da comune interesse; se questo vincolo venga a mancare la Francia si trova condotta dalla necessità a pigliarsi Roma per sè: non ci sono due vie; Napoleone I. s›ingolò Roma, Napoleone III. la tiene come un calcio in gola agli Italiani. Ancora; i Francesi procederono sempre nemici al sangue latino: sempre ci buttano in faccia Carlomagno per vendicarsi di Giulio Cesare, fingendo ignorare come quegli fosse alemanno, questi veracemente latino, e Macchiavello questo notò, ed altre cose di giunta intorno alla natura dei Francesi; le quali sarebbe pure bene, non dirò ricordare troppo, ma nè anco dimenticarle. La improntitudine loro arriva fino a rampognarci di avversione pei gesti da essi operati quando in Italia vennero per nabissarla da cima a fondo, poi spartirsela con la Spagna, spellarla così, che l›usuraio giudeo se ne sarebbe vergognato, e se tu lettore vuoi pigliarne contezza leggi la vita di Francesco Ferruccio da me dettata, tradirla, e pestarla: essi ardiscono riprenderci d›ingratitudine perchè acclamammo il Souvaroff nel 1799, gli Austriaci nel 1814, e perchè l›esercito piemontese primo aggredì la Francia nel 1815; e qui tu nota, o lettore, che ragion vorrebbe si distinguessero governi da popoli, e di questi la parte contra e la parte, pro; ma la è cosa, che paventa la mala fede dei Francesi quando s›incornano a volere ragione! Essi non vogliono mica ricordare che il Papa, oggi prediletto da loro, fu quegli che andò a trovare in cotesti tempi nemici contro la Francia non pure in Moscovia, ma in Turchia; però non dimentichiamo già noi, che Roma così tenera adesso verso l›Austria non rifuggì per disperdere i Francesi unire il vessillo delle chiavi, con la mezza luna turchesca. I regi sabaudi, che mossero ai danni di Francia nel 1815 non erano stati spodestati da lei? Essi avevano durato nello esilio lunghi anni; l›eredità loro avevano visto convertire in giunta allo impero francese, e dove avesse da capo prevalso la fortuna di Francia nuovamente spodestati avrebber dovuto per la seconda volta ridursi nella isola di Sardegna: i popoli memori rammentavano come i Francesi calati nel 1796 dopo avere con sembianze di libertà false sovvertita da cima a fondo la Italia si partissero portando seco anco i chiodi, e lasciando in balìa del vendicativo vincitore i meschini, che ne avevano seguito le parti: dolorosa storia è quella di Milano, imperciocchè dove il principe Eugenio non avesse o per soverchio d’ira, o per manco di coraggio abbandonato l’esercito i patrizi non si sarebbero scoperti parziali agli Austriaci; insomma i Francesi mettono, come suol dirsi le mani innanzi, e per non essere rampognati rampognano industriandosi di rovesciare addosso a noi le colpe loro facendosene accusatori; ed anco ci accusano di sconoscenza a cagione delle ultime guerre, le quali pure dichiarano altamente avere combattuto pel proprio, non già pel nostro interesse. Nella restaurazione del Papa concorse certo il senso cattolico di cui costuma adesso l’andazzo in Francia, ma non solo però, che insieme con esso accordaronsi il senno politico, e il genio del popolo. Odillone Barrot aprendo la bocca e lasciando parlare lo spirito dalla tribuna bandì: «i poteri temporale e spirituale dovere a Roma rimanersi confusi perchè altrove andassero distinti» e parve sapiente da disgradarne il Macchiavello; ora coteste sono sparate, che pensandoci si sfumano, e quando le fossero vere, con quanta o giustizia, o sagacia si pretende che la Italia sia perpetuo becco emissario delle altrui o colpe o comodità? Ad un popolo, che fu un giorno padrone in casa di tutti i popoli si può egli dire in faccia tu sarai il mio somiere perpetuo? E per arroto lo chiamerete ingrato se non si adatta a simile infamia? Cervelli Francesi! Verun partito, affermano i Francesi, e a ragione, può vantarsi avere restaurato il Papa; tutti ci contribuirono, questo concetto balzò fuori armato di lancia, e di scudo dal vasto cranio della Francia come Minerva da quello di Giove; nè vogliate credere c›io ci metta troppa mazza di mio, che simili sentenze vi balestra nette un tale Gaillard nel suo libro della Spedizione contro Roma. Di vero (e importa che si chiarisca, e faccia senno una volta la Italia), se incominciate dalla rivoluzione del 1831 mentre la Francia bandiva al mondo solennemente la norma politica di non pigliar parte nelle faccende altrui Laffitte, quell’astro di libertà francese, accomiatava il Saint-Aulaire oratore a Roma con queste istruzioni: «voi avrete a difendere contro i sovvertitori l’autorità spirituale, e l’autorità temporale del Papa.» E poichè il Saint-Aulaire gli manifestava il dubbio, ch’egli avrebbe dovuto finalmente condursi a fare la voglia altrui, il Laffitte ripose: «non vi state a confondere per cosa, che intendiate dire; e abbiate per certo, che sino a tanto che io Laffitte rimarrommi ministro del Re, la Francia non sovverrà la rivoluzione in Italia.» Se più tardi la Francia entrò di soppiatto in Ancona, e vi rimase ciò non avvenne per tutela della libertà dei popoli, bensì perchè il papato non diventasse al tutto mancipio dell’Austria, nè contrastante, all’opposto consenziente il Bernetti cardinale; il quale trattato scoperto dall›Austria, il Bernetti ebbe a risegnare la carica di segretario di stato. Nel 1848 il Guizot protestante confidava al Rossi il suo proponimento di sostenere allo aperto l›autorità del Papa, al quale scopo teneva ammannito a Porto Vendres, e a Tolone uno esercito commesso al comando del generale Aupick: non diverso il Cavaignac, uditi i casi Romani del 16 novembre, senza nè anco consultare l›Assemblea ordinava s›imbarcasse a Marsiglia una brigata per correre ratta alla difesa di Pio: e sempre continuando nel medesimo disegno nel 30 marzo 1849 Odillone Barrot domandava all›Assemblea ed otteneva la facoltà di occupare un punto dello stato italiano. Un›altra causa meno avvertita partorì la impresa di Roma, e forse fu la principale per quelli che usi a speculare sanno come la Francia si muova per utilità presente, o per voglia, o per ispinta altrui cercando poi illustri pretesti al povero concetto, ed alla iniquità della opera: si accostava la elezione del 10 decembre, e il Cavaignac pendeva fra due se avesse o no a buttarsi nelle braccia dei clericali, imperciocchè mirasse la repubblica intristire ad occhio veggente, ma tempo di chiarirsi papesco non gli pareva ancora; però quando gli strinse i panni addosso il Bixio Italiano, che i Francesi si hanno tolto dalla Italia, (e se lo tengano che buon pro lor faccia) dichiarava avere, senza consultarne l›Assemblea, inteso appena il pericolo del Papa, spedito armi da Tolone e da Marsiglia, e di più commesso al signor Corcelles di proteggere il Papa, e condurlo in Francia: gli si opponeva allora competitore Luigi Bonaparte, che reputando fare suo profitto col contradirgli chiariva il pubblico per via di due Giornali non potere approvare il soccorso armato come capace di produrre la guerra; tranne in questo, in tutto altro sentirsi disposto ad ogni partito diretto a proteggere la sicurezza e l’autorità del Papa. Parve a costui simile dichiarazione tiro maestro perchè da un lato si accaparrava i pacifici arrabbiati, e dall’altro si metteva nelle grazie dei cattolici, ma non aveva avvertito, che queste due cose insieme non potevano camminare, però persuaso dal Thiers, che nel Bonaparte subodorava un futuro padrone, e sè ammanniva per futuro ministro, si squilibrò co’ pacifici per istringere vie più ai clericali pubblicando da capo nascesse quello che avesse a nascere per lui (che l’aveva combattuta con le armi in pugno) la sovranità temporale del Papa stava legata indissolubilmente con lo splendore della religione del pari che con la libertà, e la indipendenza d’Italia! I clericali allora parteggiarono per lui, così Napoleone prese e fu preso, e questa è la ragione per la quale il Bonaparte dopo avere impugnato le armi per atterrare la potenza spirituale del Papa adesso le impugnerebbe per sostenerla. Queste le cause della spedizione di Roma: se non si palesarono subito, e all’opposto si avvolsero in ambagi ciò fu perchè i Francesi costumano aggiungere la coda di lione dove la pelle di volpe non arriva: veramente, io non lo nego, i nostri Italiani negoziando con esso loro mostrarono avere mandato il cervello al presto: per questi ormai sta allestito l’alloggio al Limbo; in qual parte sarà apprestato quello dei Francesi? Ma ciò riguarda l’altro mondo; in questo i Francesi devono confessarsi in colpa, perchè non possono, com’essi fanno, pretendere a due reputazioni affatto contrarie di fraudolenti e d’ingenui, di mascagni e di generosi; o tutti a Dio, o tutti a Mammone; non puossi servire due padroni a un punto. Alla obbliqua impresa andava preposto obbliquo Capitano, ch’è chiaro come persona retta leggendo le istruzioni commesse dal Barrot all’Oudinot avrebbe notato: «io non ci vedo lume» perchè a cotesti arzigogoli il Barrot deve avere fatto tale chiosa a voce da chiarirne la ribalderia meglio, che luce polare. Naturalmente cosiffatti comandi si danno a cui sappiamo idoneo ad eseguirli, nè osservammo i soldati in simili faccende stare troppo sul taglio, meno degli altri poi Oudinot servo nato da servo; giovanetto fu tolto per paggio da Napoleone III. e con lui stette lungamente in abito servile: suo precipuo fregio l’essersi Napoleone I. appoggiato sul braccio di lui la notte precedente alla battaglia di Vagria mentre assisteva al passo del Danubio; caduto il Bonaparte servì i Borboni della stirpe primogenita, poi Luigi Filippo, per ultimo la repubblica; paiono queste mutazioni, e non sono nella vita del servo, imperciocchè per cambiare di signoria egli stia fermo nella servitù; che se l’Oudinot tirò salario dalla repubblica servendo anco lei ciò fece per distruggere un’altra repubblica, e così adoperarsi in tale atto esiziale tanto all’ucciso quanto a cui gli dava mandato a uccidere: due repubbliche ad un tratto ammazzava; un giorno gli saltò in testa di provare le parti di padrone, ma non essendo cotesto il suo mestiere egli non gli riuscì; lo stritolò Napoleone III. nato a dominare forse iniquo, non a servire. L’Oudinot a nome suo non crebbe lustro in niente, bensì menomò. Difficile così indicare per lo appunto il numero dei morti e dei feriti in battaglia come dire preciso quello dei combattenti: ordinariamente si esagera nel più o nel meno secondo le passioni e gl’interessi dogli uomini; affermano da Marsiglia e da Tolone non essere venuti da prima oltre gli ottomila soldati, forse erano più contando i soldati di marina, gli artiglieri, gli operai, insomma tutta l’altra gente di corredo ad esercito formato; stando al Giornale delle operazioni di artiglieria pubblicato per ordine del governo in Francia portavano seco due batterie complete da 8; ed un’altra da assedio di sei cannoni da 16; imbarcaronsi sopra sette fregate, due corvette a vapore, due piroscafi minori, e due gabarre. — Taluni scrittori francesi raccontano esultante il cuore dei soldati e tranquillo quanto il mare, e il cielo splendidissimi in cotesto giorno, e può darsi, dacchè messaggieri spediti a speculare lo stato delle cose, e le relazioni officiali accertassero i Francesi aspettati a gloria a Roma. Bene è vero, che il governo romano e il Consiglio dei Deputati fino da quando il Cavaignac disegnava mandare gente in Italia per tutela della persona del Papa misero fuori la protesta di volere con lor forza impedire la violazione del territorio nazionale pigliando la difesa dell’onore degli universi popoli italiani, ma non le davano retta: chi avrebbe osato sostenere pure il lampo delle armi francesi, vittoriose sempre anco quando disfatte? Il ministero romano deliberato respingere la forza con la forza preponeva al comando nuovi ufficiali per munire e difendere il porto da qualunque assalto; preside della provincia elesse un Michele Manucci, comandante della fortezza un Bersanti consigliere accesissimo delle estreme difese; però non bastava ordinare, bensì adoperare ogni possibile conato per respingerli, e se era concesso, tuffarli nel mare; imperciocchè co’ Francesi bene si duri amici, e legati, ma ad un patto, che di ora in ora tu apparecchi loro qualche nespola delle grosse; e’ se ne servono a guisa di occhiali per vedere quello, che prima era loro oscuro; nè parevano le difese disperate, dacchè Civitavecchia annoverasse 121 cannoni, di cui almeno cento in buono stato, non difettassero munizioni, ed il presidio contando i lombardi di Mellara giungesse a 1700 soldati; ma il Giornale allegato ci ragguaglia come i parapetti laterizi fossero bassi, i baluardi di terra sfiancati, i ponti levatoi in ruina, insomma tutto apparisse ridotto a tale da torre ogni speranza di possibile resistenza; questo però conobbero dopo, intanto per pigliare lingua, e vedere un po’ se la lancia di Giuda provasse i Francesi radunato il consiglio di guerra sul Labrador statuirono si mandasse innanzi il Panama co’ soldati Espivent, e Durand de Villers, e il segretario di ambasciata la Tour d’Auvergne; i quali ammessi al cospetto del Preside, e dei Comandanti della fortezza e della marina partecipavano certo dispaccio che in breve chiariva volere i Francesi entrare in città, ed essere venuti a mettere fine alle miserie romane, e agevolare uno assetto di governo lontano così dagli abusi antichi, come dall’anarchia presente. Parendo com’era sfrontata improntitudine cotesta l’Espivent con molte parole dette, e talune scritte s’industriava temperarle: non essere venuti i Francesi a contradiare il voto della maggioranza dei Romani, molto meno a imporre forma di governo detestata da loro, solo volere conservare il proprio credito in Italia; il Governatore non sarebbe remosso, liberissimo eserciterebbe il suo ufficio, e così di seguito; e perchè delle sue promesse restasse inalterato testimonio volle si stampassero e su pei cantoni appiccassero. — Il preside Manucci intanto spediva sollecito messo a Roma per avere istruzioni, e le aveva già senza chiederne nuove; le lusinghe francesi attecchivano e sì che ci voleva poco a ravvisare nel bando Espivent ch’egli mirava al futuro non al passato: il popolo aveva a consultarsi da capo co’ preti suggeritori di voti, e raccoglitori i Francesi maestri a fabbricare maggioranze: certo i Francesi non praticarono più tardi tanti arzigogoli per rimettere il Papa, e andarono per la via più corta, tuttavolta anco a quel modo la frode si vedeva formicolare dentro le parole; le quali interessando alla gente poltrona che contenessero assicurazioni, che non ci erano le vollero credere bastevoli, anzi da poterne dare indietro mezze; epperò municipio, guardia nazionale, e commercio raccoltisi insieme con la consueta sapienza deliberarono contentarsi di tanto; che i Francesi la data fede tradissero non si aveva a supporre nè manco per sogno; non doversi perdere tempo ad aspettare istruzioni da Roma per paura ai Francesi scappasse la benevolenza; e poi chi sarebbe il temerario che volesse rompere la guerra contro la Francia? Protestare pertanto contro chiunque mettesse a mal partito la città negando lo sbarco ai Francesi. Che restava a fare? Mettere tutti i protestanti in prigione, e tirarsi su le maniche per menare le mani le sono cose agevoli a dirsi, diverso è compirle; tuttavia il Preside poteva, anzi doveva, protestare e partirsi; invece egli adunava il Consiglio di guerra chiamandoci tra gli altri anco il Mellara, ed il Consiglio tra perchè conobbe le difese impossibili, e tra per la opposizione della gente poltrona, che stabiliti gli accordi, le pareva potersi tirare il berretto su gli occhi continuando a dormire ebbe a cedere, ponendo per condizione l’Oudinot ratificasse le promesse dello Espivent. Parte del Consiglio si recò dal generale sulla nave ammiraglia, il quale ripose di botto: magari! E ci agiunse non se quale vantaggino di parolette toccanti il rispetto dovuto ai governi usciti fuori dal suffragio della maggioranza del popolo; e se togli che le porte della città e dei quartieri avessero a custodire soldati francesi misti ai romani, ogni altra cosa come prima. Appena posto il piè fermo in Civitavecchia l’Oudinot si affretta a chiosare le parole a modo suo: intendiamoci bene, la Francia non manda i suoi soldati a difendere un governo che non ha mai riconosciuto; ella si mette di mezzo perchè s’instituisca un governo lontano così dai vecchi abusi distrutti dalla generosità di Pio IX, come dalla nuova anarchia; insomma in tutto e per tutto come prima, tranne i soliti paroloni che ricorrono in fondo a siffatte dicerie come i picchi sul tamburo al finire delle sinfonie. Il municipio, accorto tardi essersi rinnovato in Civitavecchia l’apologo della cagna pregna entrata in casa all’altra cagna, detta una magnifica protesta nella quale egli sbracia con la pala ai Francesi un flagello di virtù che non hanno mai avuto, si affida alle buone loro intenzioni, dimostra la infamia della opera che stanno per commettere con altre più cose da fare aggricciare le carni a cui legge, le quali avendo appunto questo effetto partorito nell’Oudinot, egli ordinava si distruggessero le copie stampate, la stamperia si chiudesse, soldati francesi la custodissero. Nè qui si arrestava costui, che considerando la guardia nazionale, e il popolo intero aderire al municipio e acclamare la repubblica mette la città in istato d’assedio, disarma il battaglione dei bersaglieri del Mellara, e lo dichiara prigioniero di guerra, ghermisce le munizioni, occupa le torri; quinci rimuove artiglierie e artiglieri, della marina dispone come di cosa sua, rimbrottato si scusa, ma continua a tenere. Nella storia dei Filibustieri occorre qualche cosa di simile, e tuttavia i Francesi si protestavano amici, anzi dell’accoglienza ricevuta in Civitavecchia si valevano per argomento capace a dimostrare le accese voglie del popolo di averli restauratori del Papa. Chi inventò la sfrontatezza a paragone di costoro si daria per vinto. L’Assemblea romana, preside Saliceti, protesta del violato diritto delle genti mercè la invasione ostile non preceduta da dichiarazione di guerra, delibera resistere, e rovescia sul capo alla Francia il sangue, che sta per versarsi. L’Oudinot andategli a bene le fraudolenze a Civitavecchia le riprova a Roma inviandoci col solito Espivent un Leblanc, e un Ferand i quali trovarono nei Triumviri osso duro a rodere; alla esposizione che fecero delle cause che avevano condotto i Francesi a Roma udirono rispondersi: strano consiglio il loro se per preservare i Romani da invasione austriaca li sottoponevano a invasione francese; governo libero, e di propria scelta possedere il popolo romano nè essere punto mestieri ch’essi venissero a manipolargliene un’altro: guerra col Papa non averne, a lui scappato avere sostituto i Romani la repubblica col suffragio universale, appunto come in Francia; dopo ciò insolenze dal lato dei Francesi ebbero a mettere dentro la lingua, misero fuori la spada, e lo potevano fare prima, e conclusero col domandare se intendevano o no ricevere i soldati in Roma di amore e di accordo, e i Triumviri tosto: per loro no, ma doverne consultare l’Assemblea. L’Assemblea consultata dichiarava alla unanimità doversi respingere la forza con la forza. Intanto l’Assemblea commetteva ai signori Rusconi e Pescatini si conducessero al Capitano Oudinot, e meglio a voce gli spiegassero la protesta precedente l’ultima deliberazione, e lo fecero; di che l’Oudinot sgomento giurava tacto pectore del tutto fuori delle sue intenzioni, e delle istruzioni del Governo ristorare il Papa, desiderava il voto del popolo liberissimo si palesasse, qualunque poi il governo uscito da quello egli prometteva osservarlo; un popolo fraterno aprisse le braccia ad un fraterno popolo accorrente a salvarlo onde le bandiere unite sventolassero sul Campidoglio, come a Civitavecchia. Richiesto di dettare un bando in questo senso si obbligò farlo; gli oratori romani parvero contentarsene; e per pegno di animo riconciliato consentì di rimandare con gli oratori a Roma il capitano Fabar, che da vicino renderebbe meglio capaci municipio, ed Assemblea dell’animo del generale; e l’erano le medesime lustre; volevano entrare. L’Assemblea uditi gli oratori, ed i Triumviri Saffi e Armellini, dacchè il Mazzini avverso agli accordi si astenne dallo intervenire e questo fu atto lodato di temperanza civile, confermò il partito già preso. Taluno censura il Triumvirato, e l’Assemblea per siffatte deliberazioni, e a torto perchè i Francesi volessero restaurare il Papa per tenerselo bene edificato in pro del propri interessi, come fu esposto nelle pagine precedenti; e parola più parola meno detta o scritta non rileva, avvenendo nei fatti politici come nei gravi i quali tendono per necessità al centro e al fine loro: se hai forza dell’altro curati punto o poco; se non l’hai i patti; le condizioni, e le promesse bene rendono più iniqua la malafede altrui, non maggiore la tua sicurezza. Una volta i Francesi entrati in Roma avrieno rinvenuto pretesti a carra per fare a loro modo, ed oltre al danno i Romani si sarebbero tirati addosso la beffe: cedere a forza soperchiante non frutta discredito, massime dopo la prova dell’arme, il popolo che si lascia abbindolare si adagia da sè nel cataletto per cantarsi l’esequie. Il Fabar e gli altri compagni uscirono di Roma con promessa di tornarci, ma non si videro più; il manifesto dell’Oudinot comparve; conteneva le solite girandole, che poi sperimentammo di che cosa sapessero. Quello che altrove avvertito da noi qui si rinnuova; credesi agevolmente ciò che piace, e per ordinario le spie, e gli ambasciatori referiscono quanto sanno andare a genio del governo, sicchè gli ufficiali spediti a Roma per gli accordi, e gli spioni che ci stavano di fermo accertarono l’Oudinot come la comparsa di un polso di soldati francesi sotto le mura averebbe di sicuro partorito un rivolgimento in pro del Pontefice; le ammannite difese tali da non doverci pensare nè manco; però se poco trattabili prima, adesso, che si tenevano la vittoria in pugno i Francesi gonfi da insopportabile superbia di accordi non volevano sapere: sicchè vani i consigli, e le preghiere di cittadini cospicui presso all’Oudinot; delle minacce rideva, chè lui affidavano da un lato la trapotenza della Francia, e dall’altro la debolezza di Roma, e questo pur troppo era vero, nè recava infamia; ma più si adagiava nel concetto ingiurioso dello aborrimento negl’Italiani d’incontrare combattendo la morte; si fecero ad occorrergli da capi il Pescantini, e il Rusconi, e furono trattenuti per via; allora gli scrissero una lettera nella quale, tra gli altri avvertimenti, lo ammonivano, badasse bene, il suo esercito non bastare allo assalto di Roma; il capitano di Francia reputando tutte queste manifestazioni paura s’intorava a tentare la impresa. Havvi chi crede, altresì, che il duca di Harcourt giudicando Pio IX ormai deliberato a dare di frego ad ogni istituto, che sapesse di libertà, sollecitasse l’Oudinot ad impadronirsi di Roma, la quale occupata, sarebbe riuscito meno arduo venire ad accordi con lui, o per dirla più aperta, imporgli condizioni; e le sono fandonie, perchè come i Francesi onestamente si sarebbero messi innanzi a tre potenze per compire a danno della santa sede la restaurazione, ch’eglino pure si offerivano fare con patti di gran lunga più vantaggiosi? Per natura di cose i Francesi erano come mandatari delle altre, nè potevano condursi diverso dalla mente, e dalla commissione dei mandanti; e poi l’esito chiari la fallacia di simile supposto. Il generale Oudinot si accosta a Roma sicuro di esserci accolto a braccia quadre, per la qual cosa egli od altri per lui, incontrata resistenza, si dolse come di tradimento patito: le sono improntitudini consuete, però che se nello assedio di Roma occorsero traditori questi furono francesi; e se rimase ingannato, lui indussero in errore le sue spie spedite dentro col sacro carattere di oratori, e i codardi ch’egli mandava a sobillare in danno della Patria: nè venne punto spensierato, bensì guardingo, forte di fanterie, e di artiglieri. Fino d’allora anco a Roma si dimenavano in pro loro i così detti Moderati o Consorti; dei quali taluno pigliava il proprio interesse per pubblica utilità, ovvero non badando se i suoi concetti partecipasse o no lo universale si travagliava a tutt’uomo a metterglieli addosso come un giogo; chè così essi compresero, e comprendono la libertà, ed anco peggio. Tuttavia non ebbero campo a tradire, dacchè a fine di conto un po’ di simulacro di libertà anco da loro si desiderasse, ed oggimai il Papa nell’odio concepito per gl’istituti liberali non faceva differenza da governo temperato a repubblica. Quanto ai preti non era da reputarli schietti come quelli, che procedono sempre pieni di ambagi, e di simulazione anco fra loro; luce non ne vogliono vedere, gli occhi chiudendosi ostinati ed orecchie; e per me credo, che il Papa quando pure rimanesse solo nel Vaticano continuerebbe nondimanco a benedire come se l’urbe e l’orbe aspettassero a gloria la sua benedizione. D’altronde i fuoriusciti anco non preti sempre così, onde bene a proposio Federigo Torre con le parole del Macchiavello avverte: «debbesi considerare quanto sieno vane la fede e le promesse di quelli che si trovano privi della loro patria. Perchè quanto alla fede si ha da estimare che qualunque volta possano per altri mezzi che per li tuoi rientrare nella patria loro, lasceranno te ed accosterannosi ad altri nonostante qualunque promessa ti avessero fatta. E quanto alla vana promessa egli è tanta la voglia estrema, ch’è in loro di ritornare a casa, ch’e’ credono naturalmente molte cose, che sono false, e molte ad arte ne aggiungono; talchè fra quello che credono, e quello che dicono di credere ti riempiono di speranze talmentechè fondandoti su quella, tu fai una spesa invano, o tu fai una impresa in cui tu rovini.» E poi o che armeggiano oggi i Francesi quando cotesto loro capitano Oudinot, per via di un bando che io non riporto però che le sue non sieno mica parole del Macchiavello, chiariva la gente che il fantasma di Governo romano ricambiando con bravate le sue profferte di pace egli accettava la sfida, benchè la fosse bazzecola aspettandolo a braccia aperte popoli e soldati, fanciulli, vecchi, ed anco le donne nè altri aversi a combattere tranne un’accozzaglia di rifuggiti di ogni maniera, che Dio ne scampi e liberi? Per colpa dei repubblicani romani la libertà darebbe il tuffo, mentre i repubblicani fancesi così costumati e per bene si metterebbero in quattro perchè le istituzioni liberali ricevessero tutto lo sviluppo comportabile con gl’interessi ed i costumi del popolo romano. Il Tevere parte Roma, non però ugualmente; alla diritta del fiume sorge da un lato il Vaticano, dall’altro il Gianicolo; qui la cinta di mura prima costruita da Leone IV, poi ampliata da Pio V, e ingagliardita in processo da Pio V, la quale comincia da castello Santo Angiolo, e girato intorno il Vaticano termina a porta Santo Spirito. Urbano VIII edificava un recinto nuovo di mura bastionate, che da porta Cavalleggieri prossima a quella di Santo Spirito va in su pel Gianicolo, arriva a porta San Pancrazio, e quinci avvalla fino alle rive del Tevere a Porta Portese. Da ora in poi Roma non ha difesa eccetto il fiume; ricompariscono mura male fabbricate, e peggio rabberciate, mezzo in rovina, le quali corrono a mezzogiorno, a levante e a tramontana cessando al foro Boario, dove da capo il solo fiume schermisce Roma per un miglio all’incirca; al termine del quale sorge castel Santo Angiolo. I Francesi mossero da occidente facendo capo alla parte più munita di Roma, non già per errore che commettessero, bensì per lasciarsi libera la via al mare pigliando per cardine di guerra, o come con termine di arte si dice, per base di operazione Civitavecchia: qui le difese non potevano essere lunghe, tuttavia di stianto non si poteva sforzare la Città; che se alle mura mancavano fossi, spaldi ed opere avanzate, nè manco ci facevano impressione le artiglierie da campagna, e dentro e fuori stavano uomini a difenderle. Primo Garibaldi con la sua legione. Chi è Garibaldi? Dio ha scritto la sua gloria nel firmamento colle stelle, il Garibaldi la sua con le vittorie per lo universo mondo: invitto sempre, vinto una volta, perchè gli mossero nemici i fratelli, ed egli correva tra le armi da un lato e dall’altro per implorare la pace. Anima e mente di popolo; non so perchè, e per quale vincolo d’idee quando lo miro, ricordo il dipinto dell’Albano che rappresenta Amore, che tocca la lira a cavallo di un lione; lo imperversare della natura non lo spaventa più delle procelle degli uomini, egli ci sta in mezzo, come se queste e quello fossero attaccati al carro della sua fortuna. Dovunque si rammenta la Libertà il nome di Garibaldi le tiene dietro quasi eco di quella. La vittoria è l’ombra del suo corpo; dove comparisce cessano fame, stanchezza, e perfino il dolore delle ferite; a tutte queste miserie subentra per dominare onnipotente su le anime il divino entusiasmo di morire per la Patria, e per la Libertà: tutto splende alla luce dello eroe, tanto vero questo che parecchi uomini i quali apparvero fiamma accanto a lui, da lui discosti diventarono carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i muri una turpe figura o una parola sconcia. La Provvidenza nel crearlo volle segnare sopra la sua fronte destino, ma distratta a mezzo non compì la leggenda: se così non era qual mortale adesso più di lui somiglierebbe Dio? Affrancava popoli, e li donava al regno, e il donator di regni oggi gli manca il pane. È giustizia questa? È castigo? Non so, io piego il capo davanti ai decreti del supremo sapiente. Certo il plebiscito a cui lo vestì pesa peggio della camicia di Nesso, ma che importa? Ormai il primo impeto fu attutito; la fiamma accesa tornò brace, anzi cenere; gli eroi diventarono bottegai; gran mercato delle anime fu aperto; chiunque volle vendersi trovò il suo prezzo, e la mercè offerta pur troppo superò la richiesta.... e più non dico, che la parola mi scorre dalle labbra, corrodente peggio dell’acqua forte. La bandiera della Libertà rimane ferma piantata in mezzo a un mucchio di speranze deluse, il vento contrario tormentandola la fa scoppiettare, e par che dica: «quando si leveranno nuove mani per farmi progredire?» Per ora la nazione ha paura, almeno così ci danno ad intendere: pochi, e poveri ardimmo concepire il disegno della unità italiana, e tentarne il compimento; adesso con ventidue milioni di uomini ci peritiamo; avventatezze i conati primi, le moderne viltà prudenza. Avventatezze Maratona, e Platea; avventatezze le guerre elvetiche, le battaglie americane avventatezze, incliti fatti le regali dimore. Ma guerra senza danaro non si fa, e noi ci troviamo al verde, oppongono i traditori d’Italia; bene sta; ma voi ci stremaste tenendo in piedi e in procinto uno esercito, che adesso a prova conosciamo ordinato non per fare bensì per reprimere la guerra, non per combattere fuori i nemici, ma dentro i liberi cittadini; i soldati appaiono canonici, gli uomini di toga guerrieri: i generali si fanno banditori di pace, i cittadini chiedono battaglia, e impongono ai gladiatori che hanno mangiato il pane a tradimento: tiratevi da parte, combatteremo per voi.... staremo a vedere quanto la durerà: per me sento, senza tema d’ingannarmi, che la ira dei popoli e di Dio matura nel suo segreto. Torniamo a Roma. E la legione del Garibaldi quale, e come composta? Da prima la formarono alcuni uomini, nè manco una compagnia, superstiti ai combattimenti di Moranzone e di Luino, vi si aggiunsero poi i bersaglieri mantovani i quali licenziati a Torino nell’ottobre, vennero a Pontremoli nel novembre del 1848 dove ebbero dal ministero democratico toscano armi, vesti, ed anco un po’ di danaro; sul finire del mese raggiunsero il Garibaldi a Ravenna, nella quale città egli menava vita stentata; allora crebbero fino a 700; altri soldati racimolarono in più parti, massime a Ferrara, Mambrini capitano, e Ferrari tenente; difettavano di armi, di vesti, di tutto, ed in questi arnesi furono spediti a vigilare i confini verso Napoli; alla metà di aprile in Anagni ottennero armi, vesti poche, causa di contesa fra loro. Costà giunse la nuova dei Francesi sbarcati a Roma, e dicevano per combattere al fianco degl’Italiani, nè poteva correre diverso il grido, perchè una repubblica mossa ai danni di altra repubblica partorita in certo modo da lei pareva mostruoso, ma presso cotesta gente le opere quanto più assurde credibili. I legionari di Garibaldi da un lato lieti di tanto appoggio e al punto stesso zelatori della propria fama sbracciavansi a segnare un foglio, col quale chiarivano ch’essi intendevano combattere separati dagli ausiliari; non si confondano i meriti; il cimento distinto stimolo alla emulazione; quando a torli d’inganno ecco arriva un messo perchè si avaccino a Roma minacciata dai Francesi, e i legionari andarono; taluno di loro pensoso delle sorti finali della Patria, tutti anelanti conoscere chi più valente al paragone delle armi o i Tigri di America (com’essi sè medesimi chiamavano) ovvero i Lioni di Affrica, essendo stati cavati la più parte dei Francesi dall’Algeria. Da tanto che i Francesi furono sorpresi, basti sapere che addosso ad un ufficiale nemico morto in battaglia furono trovate le istruzioni per lo assalto, giusto nel vero modo in che fu fatto: il quale era irrompere con forze bipartite contro la porta Angelica, e sopra la porta Cavalleggeri punti fra loro distanti 630 metri in linea retta dentro Roma e quinci, sperdendo ogni impedimento dinanzi, fare capo dai diversi lati nella piazza San Pietro che giace in mezzo a cotesto spazio: di fuori poi girando le mura lo intervallo fra le due porte cresce fino a 2490 metri: ma poichè sotto le mura di città difesa male camminano eserciti, per poco che ti allontani a cercare più sicuro sentiero ti toccherà discorrere fra le due porte un tratto ben lungo di 4000 metri; così i due corpi si ponevano in avventura senza che l’uno potesse per la soverchia lontananza sovvenire all’altro; mentre ai Romani sortendo da castello Santo Angiolo era fatta abilità pigliare gli assalitori di porta Angelica di fianco, ovvero alle spalle, gli altri spinti contro la porta Cavalleggeri con mosse uguali potevano essere combattuti dai nostri usciti da porta San Pancrazio. I Francesi mossero da Civitavecchia a Roma la mattina del 28 aprile: erano 6000 e più provveduti di tutto; la sera giunsero a Palo e vi si fermarono; il 29 accamparono a Castello Guido 18 chilometri più in su verso Roma; di qui il Generale spediva innanzi a speculare il fratel suo capitano Oudinot, che ritornò referendo guasti i ponti, sfondate le strade, però difficile non impossibile procedere innanzi; avere incontrato non so quale pattuglia romana che seco lui ricambiò parole, ma sul punto di tornarsene gli aveva fatto fuoco addosso, onde due cavalli erano rimasti morti, e prigione un cacciatore impigliato nelle redini del cavallo caduto. — Così il giornale delle operazioni dell’artiglieria dettato dal Generale Vaillant; altri poi addirittura afferma, che i Romani al primo apparire dei Francesi avevano spulezzato a scavezzacollo; lasciando a chi leggeva la cura di accozzare insieme la fuga dei fanti romani con la prigionia di un cavaliere francese. Ma la faccenda si crede altrimenti. Il rapporto ufficiale consegnato al ministro della guerra romano racconta come i nostri al comparire dei Francesi gl’intimassero lo stare; l’Oudinot negò; interrogando con quale argomento lo impedirebbero essi risposergli: con la forza; di qui mano alle armi, e i Francesi fuggirono, non già i nostri. Il Generale Garibaldi nelle memorie inedite, di cui per somma cortesia volle farmi copia, a questo modo discorre intorno a siffatto particolare: «al far del giorno io aveva davanti a me un soldato francese di cavalleria inginocchiato chiedendomi la vita. Io lo confesso comecchè poca cosa fosse l’acquisto di un prigioniero, me ne rallegrai, ed augurai bene della giornata. Era la Francia inginocchiata facendo ammenda onorevole per la vergognosa condotta dei suoi governanti.» Ci vorrebbe altro per la Francia se volesse fare ammenda per tutte le sue vergogne! nè tale le consente la indole superba solita a coprire le antiche con le nuove vergogne: umiliata si umilia, ma bisogna che prima ne tocchi, e di molte: ora la perdita di un prigione non era capace ad esercitare tanta virtù; vuolsi piuttosto considerare non dirò l›abiettezza, bensì la ignoranza del soldato francese comune a troppo grande parte di loro, imperciocchè quel pauroso supplicare mercede da altro non poteva partirsi eccetto dalla credenza, che barbari e atroci noi altri le leggi di guerra anzi quelle della umanità non osservassimo. Un›altra cosa non isfuggi allo arguto Garibaldi, e furono le armi, che cadute nella fuga ai Francesi, e da lui esaminate considerò come troppo di lunga superassero le nostre. Omero invocò le Muse per rammentare i nomi dei gloriosi, che si travagliarono allo assedio di Troia; io in questo tempo scarso di poesia mi sono raccomandato a quanti si trovarono allo assedio di Roma per salvare dall›oblio più che per me si potesse prodi Italiani, però seppi che il primo sortito all›onore di adoperare le armi contro lo straniero si chiamava Maestri genovese, reduce da Montevideo monco di un braccio perduto a Moranzone: la intera pattuglia poi comandava il Bicchieri, nizzardo; e ciò non senza legittimo orgoglio nota nelle sue memorie il Garibaldi. I Francesi giunti al bivio della strada di Civitavecchia distante 1500 metri da Roma non si bipartirono, ma conforme loro persuade la consueta superbia tirano innanzi di conserva per la via che mena a porta Cavalleggieri. Di tratto in tratto incontravano scritto sui muri, ovvero sopra cartelli pendenti da pertiche l’articolo quinto della loro costituzione, e i Francesi leggevano e ridevano, usi a tenere le costituzioni in pregio di fazzoletti da naso, e peggio. Anco il giornale del Generale Vaillant ricorda queste iscrizioni; erano della libertà che trucidavano, ma il soldato non volle vederci altro, che sceda, e ne tolse argomento a inviperirsi, chè il disposto a male fa di ogni erba fascio per attutire il grido della coscienza. Il Masi pistoiese gentile intelletto, caro alle Muse, e sacro affatto agli studi letterari di subito diventa non pur soldato, ma capitano, intrepido quanto arguto; da ciò piglino esempio quei soldati a cui par bello ostentare barbarie quasi ornamento della milizia: il soldato italiano è bene, che sappia come i supremi capitani antichi ponessero il brando a segno del volume, che leggevano meditando, anco in campo; Bruto vigilava la notte precedente alla battaglia di Filippi su i libri di Platone, e Cesare nel tumulto di Alessandria null’altro ebbe a cuore eccetto salvare i suoi commentari i quali tenne levati sopra l’acqua con la mano sinistra, mentre notava con la destra; e degli altri mi taccio. Dei moderni soldati italiani basti dirne questo, ch’essi (parlo di quelli che militarono per la repubblica e per lo impero) decorarono la Paria delle migliori versioni delle opere greche: negli zaini loro portavano pane, e libri, quello pel corpo, gli altra per l’anima. Il Masi pertanto difendeva la porta dei Cavalleggeri, l’altra detta Angelica, e le mura del Vaticano con la seconda brigata di milizia citadina, e col primo battaglione leggero di fanteria. Il colonnello Calandrelli mirabile a trattare artiglierie, dal fato avverso condotto a dare la opera, e la vita in lontane regioni per causa non nostra, e nè manco della libertà sosteneva co’ suoi cannoni da Santa Marta il Masi. Appena l’uffiziale posto a vedetta in cima alla cupola di San Pietro accennò lo appressarsi dei Francesi i campanoni del Campidoglio e di Montecitorio chiamarono a raccolta; della qual cosa menavano i nemici inestimabile allegrezza, taluno reputando che sonassero l’Angelus, altri a gloria per riceverli in trionfo. Il Petrarca nostro lamenta che ai suoi dì con le campane si desse il segno di battaglia: «Nè senza squille si comincia assalto Che per Dio ringraziar fur poste in alto.» Il Petrarca se intendeva favellare di guerre fraterne, senza fallo aveva ragione, se poi di battaglie in difesa della Patria certo ebbe torto; però che la vita offerta in sacrificio della Patria minacciata dal furore straniero, sia la migliore preghiera, anco a giudicio dei sacerdoti di Cristo. Ma il cannone del Calandrelli ecco, che arriva a levare via lo inganno delle campane; due palle una sopra l’altra aprono un pertugio sanguinoso nella colonna stipata che si avanza. Allora degli assalitori alcuni sbandaronsi pei vigneti, o ripararono dietro gli archi dell’acquedotto dell’acqua Paola, altri sparpagliaronsi su i clivi fiancheggianti la strada, affermano per comando del Generale, e sarà, ma lo sbandarsi l’ordinava il cannone del Calandrelli, non l’Oudinot. Però dietro ai muri gli assalitori presero a trarre colpi, pur troppo bene aggiustati, atteso la molta loro prestanza, e la bontà delle armi. Il sangue, che primo lavò le mura di Roma dalla secolare infamia fu versato da Paolo Narducci romano, anima grande, che memore delle glorie antiche non pianse, ma esultò vedendosi tronco il fiore della gioventù: misero chi vive troppo! Dopo lui cadde Enrico Pallini aiutante maggiore mentre confortava con le parole, più con lo esempio i soldati ad usare ferocemente le mani; altri pure, massime artiglieri, lamentammo noi morti o feriti, i nomi dei quali sommerse nelle sue acque buie l’oblio; di qui nasce, e non può fare a meno, scompiglio; il fuoco delle nostre batterie rallenta, di che approfittansi gli avversari, i quali, così ordinando il capo di squadrone di artiglieria Bourdeaux piantano su certa altura due cannoni; da questa però poco frutto cavavano, lontana dal bastione 900 e più metri; allora partonsi di galoppo con due altri pezzi di artiglieria, e non curando mitraglie, corrono gli artiglieri francesi a collocarne altri due in batteria dietro il riparo di un’arco degli acquedotti; i nostri consolata un po’ la tristezza, ripigliano il trarre; pietà ha luogo nei combattimenti più o meno secondo la indole benigna, ma in tutti prevale l’ira; tre quarti belva l’uomo fuori di battaglia, in mezzo della battaglia tutto. I Francesi obbedendo ai comandi del Capitano senza stringere ciglio secondochè vogliono la disciplina militare, e il proprio ardimento attraverso un turbine di ferro e di fuoco si avventano contro i bastioni: erano due reggimenti di linea, il 20, e il 33; li conduceva il generale Molliere cercando una via per penetrarci dentro; i bersaglieri francesi rincalzavano l’audace impresa con lo spesseggiare di mortalissimi tiri; per essi stramazzò spento il brigadiere Della Vedova soldato vecchio, e modesto quanto animoso; ne andarono malconci di ferite il capitano Pifferi, il tenente Belli, il cadetto Mencarino, e il maresciallo Ottaviano; insomma tanto per loro si operò, che uno dei nostri cannoni tacque per manco di artiglieri; tacque, ma per poco, chè sottentrano ai caduti il soldato De Stefanis, il caporale Ludovich, e il capitano Leduc con sorte punto migliore dei primi però che entrambi stramazzassero a piè del pezzo colpiti nel petto; Leduc nacque belga, ma dove si combatteva per la libertà quivi era la sua Patria: illustre per gesti operati contro gli Austriaci presso Este, dove li vinse prima, poi gli affamò con lo impedire che fino a loro arrivasse la vettovaglia. Riposa in pace nella terra dei nostri padri, o eroe, e come avesti per madre la Italia, ella ti onora per figlio raccomandando la tua memoria ai più tardi nepoti: altra mercede ella non può darti; nè altra ne vorresti tu generoso. Nel cuore degl’Italiani accesi dallo amore di Patria la smania della vendetta fa come vento in fiamma; dalle mura di Roma grandina ferro, chè il celere trarre risponde al palpito concitato, nè ci resistono i Francesi i quali laceri, duramente respinti danno indietro addopandosi alle asperità del terreno, o cercando in luoghi meno esposti iparo. Ira fosse o virtù tornano ad arroventarsi i Francesi, che balzando fuori dai ripari con raddoppiato ardire piantano cannoni nel bel mezzo della strada; un’altra batteria assestano sopra la terrazza di una casa, e due volte irrompono contro le mura, e due infrangendocisi dentro si ripiegano addietro scemi di morti, e grondanti sangue. Se cerchi la causa della bestiale ostinazione la troverai agevolmente, ma agevolmente non la crederai: pure è vera, e la racconta lo stesso Giornale del Vaillant; il supremo capitano Oudinot teneva per fermo che nel luogo dove spingeva i suoi occorresse una porta, la quale immaginava potersi fracassare mercè alcuni sacchi di polvere a questo fine portati dagli assalitori: per voglia di credere quanto più giova rimase ingannato, però che mai in cotesto lato ebbero porta le mura di Roma, bensì una postierla detta Pertusa da tempi remotissimi murata, e rincalzata per di dentro di terra. Oh! se le male fatte loro i Francesi non rammendassero con la soverchianza delle armi come piangerebbero lutti patrii più lunghi e più miserabili dei nostri. Tuttavia questo errore scemerebbe la censura dell’altro errore commesso dall’Oudinot pel disegno di assalire ad un punto due luoghi tanto fra loro distanti, porta Cavalleggeri, e porta Angelica. Poichè a prova di sangue i Francesi rimasero chiariti come di là non si passava deposero il pensiero di fare cosa, che approdasse da cotesta parte. Intanto il Garibaldi dall’alto del casino dei Quattro Venti notava l’assalto, e il respingimento dei Francesi, sicchè gli parve cotesto tempo da mostrarsi percotendo di fianco: però spinse fuori della porta San Pancrazio alcuni drappelletti alla spicciolata, affinchè cauti ed improvvisi cascassero addosso al nemico, il quale dal canto suo stando su l’avvisato accortosi della insidia spiccò senza indugio un rinforzo per sostenere i cacciatori di Vincennes commessi alla cura della difesa di quel lato, onde non venissero sopraffatti. — I nostri volevano spuntarla, i Francesi risoluti a vincere pur essi, o a morire; in loro prepotente lo studio di mantenere l’antica fama di prodi, nei nostri il furore di torsi via dalla faccia la turpe nota di codardi: si venne a battaglia manesca dove si adoperarono non pure le armi, ma i morsi; rotti gli ordini ne successe una baruffa promiscua donde uscivano aneliti, guaiti, e aria densa, e sangue. Qui tra i primi periva il capitano Montaldi. Chi egli fosse gl’Italiani imparino dallo stesso Garibaldi, il quale favella di lui nelle sue memorie inedite in questa maniera: «chi conobbe Goffredo Mameli, e il capitano De Cristoforis avrà idea delle fattezze del Montaldi e della età sua; nella pugna feroce e pure pacato come se fra amici si trattenesse in geniali colloqui; di lettere sapeva meno dei due rammentati, ma pari a loro in costanza intrepida, ed in militare virtù. Fino dagl’inizi egli fu parte della legione italiana a Montevideo, giovanissimo si versò in innumerevoli combattimenti per terre straniere, ma quando la Patria ebbe bisogno dei suoi figli, tra i primi il Montaldi passava il mare per offrirle tutto il suo sangue. Genova può incidere con orgoglio il suo nome a canto a quello del suo poeta, e guerriero Mameli: egli esalò la sua grande anima per diciannove ferite!» Caddero pure per non rilevarsi più i tenenti Righi, e Zamboni; feriti rimasero il giovane Statella figliuolo del generale napolitano, il maggior Morrocchetti, e i tenenti Dall’oro, Tressoldi, e Rota. Di questi altro non seppi, che virtuosi furono e degni figli d’Italia; più lunga storia narrerò del Ghiglione genovese: ogni ricordo è sacro; balusante negli occhi, o come oggi si direbbe miope si cacciava imperturbato davanti a tutti, però che, egli diceva, avesse bisogno di vedere il nemico da vicino, ma ciò non gli bastava, onde sovente si recava la lente all’occhio per mirare dove avesse a trarre, poi quinci rimossala, sparava, e sparato a pena col suo occhialetto sul naso speculava se avesse imberciato giusto; mentre così si travaglia, stando con la gamba sinistra sporta innanzi, ecco una palla francese ferirlo nei glutei, e cadde; lo soccorse tosto Pietro Ripari chirurgo, uomo di cui la Italia avverebbe mestiero crescesse il seme mentre pur troppo a mano a mano se ne perde la razza. Ora egli possedeva un cavallo vecchio, e magro, tuttavia inglese schietto già appartenuto al Duca di Torlonia di cui la storia come stranissima merita essere raccontata. «Così concio il giovane Ghiglione diceva al Ripari, mi toccherà starmene a letto per mesi, però tu piglia il mio baiardo e servitene.» Con questo cavallo il Ripari andò a Palestrina, tornato a Roma lo lasciava infermo in mano al manescalco perchè lo guarisse, senonchè gitosene a Velletri una sera lo incontra alla fontana dove lo avevano condotto ad abbeverarlo; di che egli stizzito mentre cerca chi fosse colui il quale a quel modo alla spiccia tornava in uso la pristina comunione delle cose trova essere stato il Mameli; glielo lasciava il Ripari e fu sventura, perchè il Mameli incavallato sopra cotesto altissimo animale potè facilmente essere tolto di mira, e vi ebbe la ferita ond’ei miseramente perì. Scrivono taluni, che vi rimanesse ferito anco Ugo Bassi, ma non è vero; cadde prigione soltanto ed ecco come: di lui diremo sparsamente più volte, intanto si sappia com’ei preso da sacro furore in guerra sembrasse una spada brandita dall’angiolo della sterminazione: in pace tanto nel suo petto soprabbondava l’amore, che non pure amava i propri simili, ma di smisurato affetto proseguiva anco le bestie; pari in questo a San Francesco, che chiamava sue sorelle le rondini, e fratello il lupo; però non è da dirsi quanto egli fosse attaccato a certa sua cavalla storna compagna inseparabile dei suoi perigli e delle sue pellegrinazioni: ora mentre montato su questo animale egli scorre lungo la fronte del nemico, tutto fiamma nel volto con forti parole soffiando nella virtù dei nostri perchè divampasse più gloriosa, ecco otto colpi di moschetto mandano sottosopra cavalcatura, e cavaliere: per fortuna tutte le palle penetrarono nel corpo alla bestia, il Bassi andò incolume, che rilevatosi indi a poco e vista morta la compagna le s’inginocchiò a lato, con molto pianto abbracciandola e baciandola; le chiuse gli occhi, le recise parte dei crini e se li ripose in petto conforme costumano gl’innamorati con le chiome dell’amata donna: i Francesi lo colsero in cotesto atto, lo pigliano, lo spogliano, e se lo cacciano innanzi percotendolo con isconce battiture, in modo pari a quello che gli Spagnuoli praticarono con Ignazio da Loiola; se non che la leggenda narra, che Ignazio rapito in estasi o non sentiva i calci, o gli aveva per grazia, mentre il povero Ugo, io metto pegno, che non ne provasse piacere. Le storie raccontano che il Generale Garibaldi in cotesta battaglia riportasse contusioni non ferite, e male si appongono. Verso sera del 30 egli salito su di un poggiolo di pietra porgeva lodi e grazie agli studenti che in cotesta giornata combatterono come persone cui paia ventura cambiare la vita con la fama di martire per la Patria, e gli animava a perdurare nell’alto proposito, gli avrebbe avuti desiderati compagni in altre prove; intanto abbassati gli occhi e visto il suo chirurgo Ripari piegandosi verso lui gli sussurrava nell’orecchio: «venite stanotte da me, perchè sono ferito, ma nessuno lo sappia.» Difatti egli aveva riportato una ferita di palla nel fianco destro, che senza penetrare dentro gli aveva lacerato i muscoli dell’addome; pericolosa non fu mai, molesta sempre, e di guarigione difficile, sicchè non ne uscì guarito, che pochi giorni prima della caduta di Roma; — egli ne tacque sempre, ora lo dice, ed il Ripari, che tutte le sere gliela medicò conferma. — Ma questo accadde sul declinare del giorno; adesso il Garibaldi non ha tempo per pensare alle sue ferite; chiamato rinforzo e venuto da Roma condotto dal colonnello Galletti si scaglia con nuova lena contro i Francesi, i quali sopraffatti si ritirano; scopo del Garibaldi era circuire il nemico, ed assaltatolo con tutte le forze alle spalle troncargli la ritirata su Civitavecchia, e costringerlo a deporre le armi; e certo gli riusciva, se in cotesto suo moto mettendosi diritto alle batterie romane non fosse stato lacero dai fuochi di quelle, le quali traevano senza posa su la massa non distinguendo amici da nemici, ed anco se i Triumviri gli mandavano oltre i primi nuovi rinforzi; nonostante ciò il Garibaldi prosegue il corso della prospera fortuna, si lascia addietro la villa Valentini occupata da un battaglione francese, e si spinge fino alla villa Panfili, che espugna a furia di baionetta. — I Francesi da per tutto in rotta: intanto quattro compagnie dei nostri si dispongono a conquidere il battaglione della villa Valentini tutta cinta di mura; il Bixio siccome lo porta l’ardore del sangue afferra il cancello, che chiude la cinta e squassando forte e urlando da spiritato tenta schiuderlo, mentre le palle strepitano schiacciandosi contro i ferri del cancello rasente alle dita dell’audace soldato; altri non meno animosi gli si uniscono, e con forze riunite lo schiudono; nè i Francesi aspettano gli assalitori, presi dallo spavento si danno alla fuga. Aperto appena il cancello una spaventosa apparizione agghiaccia i cuori dei più feroci: un cavallo e un cavaliere tornano dal campo verso Roma, quello muove i passi a stento, l’altro vacilla a destra e a manca ciondolando il capo; aveva abbandonate le redini, che strisciavano sul terreno: le mani teneva pendenti ai lati della sella; la criniera, il collo, il petto, le gambe davanti, lo bordature del cavallo grommose di sangue; di sangue del pari rappreso il ventre e le gambe del cavaliere sordidate: il volto di lui più che cera bianco, ed inclinato sul petto: qualche palla ferendolo nella grande aorta ventrale lo aveva di certo concio a quel modo. Veruno ebbe ardimento di fermare cotesto cavallo che se gli bastò la lena sarà entrato in Roma, e lento lento tornato alla stalla consueta per morirvi a canto al suo signore già morto. Cotesto cadavere pauroso era di giovine leggiadro, e ricco a Vicenza: apparteneva alla cavalleria di Masina dove pel suo valore ottenne sollecitamente grado di ufficiale. Il Masina, che venuto a Roma per ragguagli e per ordini tornava a sprone battuto al campo incontra il morto a cavallo, e ferma in quattro, poi si mette a guardarlo con occhi sbarrati; lo riconobbe, si diede di un pugno nella fronte prorompendo in fiero sacramento, poi si slanciava a briglia abbattuta, e scomparve. — La madre del giovane dimorava lontana, e quando le annunziarono la morte del figlio le tacquero certo i particolari del caso, se ella lo avesse veduto l’avrebbe fulminata il dolore. I Francesi movono lamento di certo strattagemma adoperato dai nostri per fare di un tratto prigioni un due centosessanta Francesi: ecco come sta la faccenda. Il maggiore Picard con trecento allo incirca soldati del 20° di linea su le ore antimeridiane aveva preso certa posta in prossimità alla villa Valentini, e quivi stette fino al termine della giornata, il quale venuto, alcuni dei nostri furbescamente presero a sventolare fazzoletti bianchi mostrando volersi abboccare col Maggiore, cosa da questo più che volentieri accettata, allora gli dissero le milizie francesi entrate per accordo in Roma, andasse a vedere, lo condurrebbero eglino stessi; il Picard accettava, e raccomandato prima ai suoi che vigilassero su le armi, li seguiva. Vedovo il corpo del suo capo lo circondarono i Romani due o tre volte più numerosi, e sforzatolo a deporre le armi, lo menano prigioniero a Roma. Posto vero il fatto, paiono peggio che strani i lamenti; gli strattagemmi consueti in guerra; la morale condanna quelli, che arieggiano di tradimento, e di ferocia codarda, si accomoda agli arguti; la ragione di stato si approfitta di ambedue: i Francesi poi immaginosissimi a inventarne dei nuovi, ma della prima specie, in copia, scarsi i secondi: Affrica parli, e parlerà anco Roma. Il comandante, il quale lascia per lusinghe i suoi soldati peggio, che stolto; ed egli non unico a condurli; dopo lui rimanevano altri ufficiali quanto egli capaci, e forse più di lui; nè i nostri li colsero alla sprovvista, dacchè partendosi, egli ordinava loro stessero vigilanti: dunque non cessero per inganno bensì per forza di arme; tagliati fuori essi giudicarono ogni resistenza vana: per me credo che tale operasse il Picard per non trovarsi presente alla resa volendo piuttosto comparire gaglioffo, che poco animoso. — Però diverso raccontano taluni dei nostri l’avventura e affermano il Bixio avere messo le mani addosso al Picard tentennante ad arrendersi, il Franchi di Brescia avere fatto altrettanto col sottotenente Rennelet, ed ambedue disarmati, e bendati trassero al Generale Garibaldi il quale li mandò al Ministro Avezzana. Poichè alla porta dei Cavalleggeri fu respinto lo assalto non potendo patire i Francesi di aversene a tornare indietro con l’onta di una sconfitta (molto più che a rimprovero o a scherno della pecoraggine loro i nostri allo strepito delle artiglierie, e delle moschetterie alternavano i suoni dell’inno nazionale di Francia, la marsigliese, capace un dì come vantava il suo autore a movere centomila uomini, ed oggi diventato tanto innocente presso cotesto popolo, che lo insegnano per sollazzo ai pappagalli. — A siffatte ruine può precipitare un popolo per manco di virtù sua, e per malignità altrui!) il capitano Fabar, quel desso, che venne già in Roma per abbindolare i Romani voltosi al Generale Oudinot così prese a favellargli: «Generale ho riconosciuto più innanzi certa stradella la quale senza pericolo di restare offesi dal fuoco dei bastioni conduce alla porta Angelica, dove accadrà il tumulto concertato per aprircela.» L’Oudinot ridotto ad appigliarsi ai rasoi, crede al parabolano, ed ordina al Generale Levaillant di mettersi dietro al capitano con la seconda brigata, e due cannoni. Questo sconsigliato caccia dentro le milizie nel sentiero che si aggira per le muraglia dei giardini del Vaticano, e di vero potè procedere nascosto fino a duegento braccia dalla porta Angelica, ma appena i nostri lo videro sboccare fuori della strada, presero a sfolgorare la testa della colonna con una grandine di palle. La brigata balenava alquanto, non retrocesse; all’opposto si attelò di faccia, e postò i due cannoni. Di qua e di là si rinfocola la battaglia, ma sopraggiungono di corsa i carabinieri romani, il Calandrelli parve in quel dì trasformarsi nel centimano Briareo con le sue artiglierie: la morte menava baldoria, che i Francesi cadevano giù come insetti strizzati dal primo freddo di novembre; i cavalli dell’artiglieria esanimi a terra, e a terra pure percosso per non rialzarsi il Fabar. Possano gli oltraggiatori della nostra Patria non provare destino migliore del suo! Anco qui laceri i Francesi ebbero a ripararsi a frotte scompaginate per gli avvallamenti del terreno, o dietro ai muri continuando il fuoco scarso e languido anco per parecchie ore; i cannoni rimasero derelitti; potevano i nostri andare a pigliarli, ma non essendo consentito l’uscire, alle due dopo la mezzanotte i Francesi vennero a tirarli di cheto a braccia; a braccia pure si portarono i feriti. — Mille e più dei nemici morti, o feriti, o prigioni resero funesto per la Francia quel giorno; noi avemmo a rimpiangere dei nostri meno di duegento fra morti e feriti; e ci contiamo anco due cittadini morti, e quattro feriti; chi fossero i morti non mi occorre scritto; i feriti due giovanotti uno di 14, e l’altro di 16 anni, Mondavi Michele Romano il primo, l’altro Paolo Stella della legione romana con tre ferite, Bernardino Proietti da Spoleto ebbe il corpo trapassato da un pezzo di mitraglia; Giuseppe Caterini da Foligno con gran voce esclamò: viva la repubblica mentre gli amputavano il braccio ferito. Se la storia registra di Giovanni delle Bande nere il quale resse la candela al chirurgo mentr’ei gli tagliava la gamba offesa ci è parso giustizia non tacere la virtuosa ferocia del cittadino romano. Respinti da per tutto, a ragione paurosi di essere circuiti ed oppressi, o fatti prigionieri i Francesi passarono la notte su le armi, e la mattina maravigliando che quanto temevano non accadeva si ritirarono a Castello di Guido. Il terrore dei Francesi non era indarno, imperciocchè i generali Garibaldi, e Galletti pestassero mani e piedi per ottenere rinforzi, e sterminare il nemico, agevole il moto dacchè dalla villa Panfili, e dagli Acquedotti dominando la via Aurelia antica con celeri passi si poteva precorrere l’Oudinot a Castel di Guido, e chiudergli la strada; i Francesi poi rifiniti da dieci ore di combattimento, senza cavalleria, che nella ritirata li proteggesse, e sgomenti come porta la indole loro quando ne hanno tocche; noi altri avevamo due reggimenti di linea di riserva, due reggimenti di dragoni a cavallo, due squadroni di carabinieri, e il battaglione dei bersaglieri lombardi condotti dal colonnello Manara: questi nella giornata del 30 stettero su le armi, e non presero parte alla battaglia, perchè traditi a Civitavecchia davano la parola in pegno di non combattere prima del 4 maggio, e tanto bastava all’Oudinot fidente di tenere Roma prima di quel giorno, conto che gli andò proprio fallito; per ultimo le forze di un popolo ardente d’ira e di pietà! Si oppose Giuseppe Mazzini, e con lui gli altri Triumviri per risparmiare alla Francia la vergogna della piena sconfitta, e per non isperdere invano il sangue dei nostri giovani soldati combattendo allo aperto con veterani spertissimi: di tale partito i più degli scrittori riprendono il Mazzini, taluni spiegano il suo concetto, ma non lo lodano: di vero se la Francia avesse voluto procedere sempre con la consueta iattanza ne aveva tocche troppe, e male per non doversi vendicare, e se all’opposto con giustizia quanto più solenne la lezione, tanto più persuasiva: e poi co’ Francesi due nespole delle buone non guastano nulla; la esperienza ammaestra che fornita una impresa con la sua ruina si procede riguardosi a incominciarne un’altra, mentre la mezza batosta porge quasi lo addentellato a ripararla: arrogi l’acquisto delle armi, e alla verosimiglianza che di tanti prigioni in mano potenti per credito, e per autorità qualcheduno si mettesse paciere di mezzo proponendo condizioni comportabili. Per me giudico, che a perseverare nella lotta più che altro animasse il rapporto dell’Oudinot al Ministro della guerra a Parigi, il quale con l’arte nella quale i Francesi non conoscono non dirò pari, ma nè anco secondi affermava a faccia tosta: «non era nostro intendimento assediare, ma riconoscere la piazza, e ciò compimmo; così che dopo le nostre grandi guerre non si conosce per le nostre armi fatto più di questo glorioso!» E da tanto ch’ei lo giudicava glorioso che per l’angoscia ne infermò, e il Rusconi visitandolo lo rinvenne pallido e scontraffatto, e male con un diluvio di parole dissimulante l’ansietà dell’animo suo. All’opposto un medico francese scriveva agli amici suoi così: «temevamo una sortita e nel cammino occupato da tutte le parti, mi perito a dire che mai sarebbe accaduto; basta, come Dio volle, il nemico si rimase dietro le mura.» E nè anco questo è vero, però che il Garibaldi il giorno dopo li seguitò con la legione italiana, e qualche squadrone di cavalleria, ma indi per ordine del Governo retrocesse a Roma. Fra le altre non so se io mi abbia a dire fisime o bugiarderie dei Francesi ci fu quella di negare i danni per essi recati ai monumenti di Roma, senza accorgersi che smaniosi della lode per le virtù che non hanno, da sè medesimi si screditano nello attribuirsela per cose che fra loro contrastano, nè possono stare insieme; ed invero come avrieno potuto battere Roma dal lato del Vaticano senza offendere il Vaticano? Il generale Torre narra che una palla cristianissima frantumò certo immane triregno di travertino simbolo del potere temporale rotto per sempre dalle potenze cattoliche quando per forza di arme dentro le carni di Roma anzi d’Italia a mò di chiodo della passione lo riconficcarono. I rapporti dell’ingegnere Grass testimoniano quante palle di cannone e quante di moschetto offendessero il palazzo, e la basilica del Vaticano: due palle bucarono l’arazzo di Raffaello rappresentante la predicazione di S. Paolo nell’Areopago e il pezzo rimase attaccato alla palla: quattro fracassarono il tetto della cappella sistina; insomma menarono strage in quel giorno, e peggio fecero poi. Enrico Cernuschi per la sua piacevolezza, e per lo indomito ardire delizia del popolo romano andava dicendo non si affliggessero per cotesti danni, perchè la Francia aveva promesso pagarli e gli avrebbe pagati, che rigida osservatrice di sue promesse era la Francia, e ne porgeva fede cotesto caso perchè avendo eglino bandito volere entrare in Roma ci erano entrati di fatto; veramente non vincitori, bensì prigionieri, ma ciò non toglieva che al compito assunto non avessero dato recapito. Comecchè io abbia tolto a favellare unicamente dei fatti di arme dello Assedio di Roma, non devo tacere delle donne patrizie o no ma nobilissime tutte che si consacrarono alla cura dei feriti. — Taluna di loro poi girò nel manico, e da per sè volle guasta la sua bella fama; anco gli scrittori clericali non si rimasero da turpi contumelie, ma se questi insudiciano non però fanno macchia, ed io con dolore sì ma non senza orgoglio registro, che Cristina Trivulzio principessa venne meno a sè medesima, chi crebbe fu Giulia Modena popolesca. Quando ci fu mestieri panni pei feriti si rinvenne mezzo spedito a procurarli oltre il bisogno; si tolsero carrette, e ad esse dietro parecchi uomini dabbene aggiravansi per la città con voci pietose facendo appello alla carità dei cittadini, e dalle finestre furono viste volare giù per la strada lenzuola, e di ogni maniera biancherie. Un vecchio, si narra, si condusse per verecondia dentro l’androne di certa casa, e quivi toltasi la camicia la porse lacrimando per sollievo ai feriti; senz’altro costui avrebbe offerto il cuore, e questi casi occorrono sempre là dove il popolo commosso da passione buona si lascia in balìa del proprio affetto: più arduo sciogliere i cuori impietriti dalla ira sacerdotale, però che a loro paia essere religiosi mostrandosi crudeli; tuttavia nelle donne prevale sempre la pietà, massime se le sieno giovani; di vero la mirabile carità delle signore conviventi nella casa di Tor de’ Specchi rappresentate dalla cittadina Galeffi dette il destro al virtuoso Aurelio Saffi di volgere loro queste nobilissime parole: «a fronte del sublime compenso, che queste amorevoli cittadine aspettano in un mondo migliore dalla loro carità, la prima delle virtù cristiane, i Triumviri ardiscono appena esprimere a queste gentili anime la più sentita gratitudine in nome della Patria.» La ferocia dei barbari quantunque addolori pure non contrista tanto come la ipocrisia dei popoli, che si vantano civili, ed è ragione, che i primi in parte scusa l’ignoranza, mentre i secondi commettono due mali, il danno, intendo dire, e la menzogna per onestarlo; e poichè i Francesi bandiscono ai quattro venti la bandiera loro sventolare sempre colà dove appaia una causa civile a difendere, appena possiamo credere con quanta sfrontatezza negassero le ingiurie, che con le palle di cannone, le bombe, e perfino co’ moschetti recassero ai monumenti romani: si leggono tuttora i rapporti degl’Ingegneri commessi a verificare i danni, ed a ripararli; il pezzo lacerato, dall’arazzo del Sanzio senz’altro testimonio saria bastato a condannare i Francesi in giudizio. Gli è tempo perso; negli amici nostri ribolle sempre il mal sangue di Brenno; forse un giorno si correggerà tutto, ma la natura dei popoli cacciata via dalla porta torna dalla finestra. — Affermarono altresì, che i feriti loro patissero truci asperità dai nostri, ed i prigioni ingiurie; coteste le sono turpitudini che non importa rilevare nè anco; chi gli abbandonava senza pur visitarli fu un Forbin de Janson oratore di Francia a Roma, i nostri non misero differenza nell’opera della carità tra Francesi, e Italiani; anzi concessero, che gli amici loro dal campo venissero a consolarli con la nota faccia, e la favella del natio paese, chè lontani della Patria ogni conterraneo ci sembra parente. Nè importa a noi, e sarebbe bassa voglia, chiarire le bugiarderie dei rapporti dell’Oudinot, che francese egli era, ed aveva per dirle più bisogno degli altri; piuttostochè improvvido volle passare per gaglioffo; e tale sia di lui; la superbia offesa gli diede la febbre, e il Rusconi, chè lo vide in quel torno a Castel di Guido scrisse, secondochè notai averlo trovato stravolto, angosciando in mezzo ad un vaniloquio di errori, di minaccie, e di sospetti per non dire paure; poteva acchetarsi ad essere argomento di scusa, dacchè la fortuna delle battaglie stia in mano di Dio, prescelse farsi oggetto di scherno di faccia alla Europa: e’ sono soldati. Somma la fede nostra come somma la perfidia dei Francesi: i bersaglieri del Manara bene stettero schierati a tutela della città, ma al combattimento del 30 aprile non pigliarono parte perchè riputaronsi vincolati dalla promessa di astenersi dalla zuffa fino al giorno quarto di maggio, e fu coscienza sciupata sia perchè non essi bensì il Preside di Civitavecchia aveva fatto la promessa, nè vincolava perchè estorta a forza e iniquamente, e poi i Francesi non osservarono mai promesse, nè patti: per ultimo quel dabbene Manara che fu quanto onore visse al mondo non andò immune da accusa per parte dello impronto nemico, il quale ardì appuntarlo di essersi rimasto in ordinanza con l’arme in collo durante la giornata del 30 aprile. La miseria dell’animo pari al sofisma dei nostri avversari si palesò nello scambio dei prigioni; mandarono a negoziarlo certo loro medico, e il povero Ugo Bassi pedestre e senza cappello; recavano lettere del generale Regnault di San Giovanni di Angely, il quale vedremo rassomigliarsi all’Oudinot come uovo ad uovo: rinfacciava costui la libertà concessa ai bersaglieri lombardi, sostenuti a torto, contro il diritto delle genti, e per di più sotto la condizione, che ho ricordato pocanzi: offeriva rendere in baratto 500 uomini del Melara sorpresi a tradimento, e disarmati a Civitavecchia; parlava di diritto internazionale, di accettare lo scambio, egli che per offerire scambio siffatto aveva violato tutte le norme del diritto e della giustizia: che più? E fu questa suprema prova della fronte di bronzo dei nostri nemici, vantavano essi avere distribuito le paghe alle milizie romane a Civitavecchia, e fu debito adempiuto dai Francesi con pecunia romana. — Le armi dei prigionieri chiedeva, e quando noi domandammo le nostre arraffateci con rapina nei depositi di Civitavecchia presero a bindolare; anco sul luogo per la consegna dei prigioni perfidiarono, sicchè i Triumviri sdegnosi per siffatte pidocchierie in virtù di nobilissimo decreto li rendeva liberi, senza patto, e con le armi; ma prima li convitarono a pubblica mensa; colà si abbracciarono popolo, e soldati, e baciaronsi in bocca, dissero parole e fecero atti di sviscerata tenerezza; tutto di fuori li dimostrava fratelli, non ci mancava che il cuore; cessato il banchetto, i Francesi tenendo su ritte bandiere italiane, e gl’Italiani bandiere francesi mossero alternando canti festosi a San Pietro. All’aspetto di cotesta gloria di arte, i Francesi si sentirono domi, parve a taluno commossi ad ammirazione, sicchè taluno cogliendo il destro a volo per solcare bene nella mente loro la memoria del fatto con voce solenne vibrò gli echi della fabbrica immensa che ripeterono dall’alto come un comandamento di Dio, dal basso come preghiera dei mortali e dei morti: «Francesi ed Italiani prostratevi tutti qui dinanzi l’Onnipotente, e sollevate a lui una prece per la libertà dei popoli e per la fratellanza universale.» Prostraronsi tutti, e tutti giurarono: i giuri, gli abbracciari, i baciari rinnovaronsi fuori della porta Cavalleggeri; ma non erano i Francesi andati oltre cento passi, che tutto avevano messo in oblio; per cotesti cervelli affetti, e memorie passano come acqua per mezzo alle grondaie. — L’Oudinot ringraziava; restituiva i bersaglieri ma senza moschetti e senza bagaglio, e nè manco rendeva le armi rapite, sicchè all’Avezzana toccò mandarne loro onde entrando in città comparissero armati, avendo saputo com’essi fossero risoluti di cogliere alla sprovvista gli ultimi avamposti francesi, e ricuperare così gli schioppi rubati. Che importa a noi contristare l’animo ed abiettare queste carte col racconto delle infamie dell’assemblea di Francia, e delle insanie dei nostri vantati amici? Con costoro non possiamo nè manco saldare il conto su la traccia del proverbio: «tanto è il ben che non mi giova, quanto il mal che non mi nuoce;» dacchè ci nocquero pur troppo tenendoci a bada con promessa di opere, che poi comparvero troppo insufficienti allo scopo, e con parole dubbiose; tale correndo il vezzo oggidì, che anco i più audaci non ardiscono rompere il guscio dello equivoco, la verità scotta le labbra: sotto il velame delle parole ambigue, ognuno tratta i suoi negozi come gli Arabi costumano toccandosi le dita sotto il mantello. Il voto dell’Assemblea sonò ordine al ministro di fare in modo, che la spedizione a Roma non deviasse dal suo scopo; il quale a fin di conto era rinnovare ai Romani un governo, che di già essi avevano deliberato ed accettato; la quale presunzione che altro mai significa se non tirannide? Di vero, il presidente Bonaparte, ed i suoi ministri in tanto bandivano volere sostenere con le armi il nuovo plebiscito del popolo romano, quanto che confidavano che al solo mostrarsi i Francesi sotto le mura di Roma, il popolo vero, onesto, e buono, alla santa sede devotissimo avrebbe buttato nel Tevere i pochi nemici dell’ordine, chiedendo smanioso di essere ricondotto all’estasi del bacio dei pontifici piedi. Se il popolo vuole la restaurazione del papa tutelino le baionette francesi questo libero voto, dove così non voglia le baionette voteranno per lui. — Io narro proprio per passare il tempo, dacchè mi accorgo che gli esempi antichi non valsero mai a mettere la gente in cervello: i nostri confidando nella equità dei Francesi accettano la tregua come indizio di più durevole accordo; i Francesi poi nel proporla intesero acquistare tempo per mandare rinforzi, forse per assopire gli spiriti nostri, e più verosimilmente per attendere lo esito delle nuove elezioni all’Assemblea, che non si volevano sturbare sommovendo novità: a questo intento spedivano a Roma il Lesseps per dare erba trastulla, e condurre il cane per l’aia; ed egli gli servì maravigliosamente perchè agguindolato lui stesso: anzi scrittori, non mica scarmigliati, bensì mezzo liberali ravviati, e per bene non biasimano già il Governo della frode ma sì il Lesseps che se uomo svelto fosse stato doveva pure accorgersi, che la sua missione era un tranello. Il Lesseps per tanto mandava all’Oudinot non si movesse, fallaci i rapporti delle spie: per entrare in Roma bisognava premere del piede il petto ad uomini, e Mazzini, anch’egli, Dio lo perdoni, scriveva all’Oudinot: avvertisse bene, taluno nella Assemblea romana essersi scoperto avverso alla Repubblica, non uno alla durata del potere temporale del Papa; dopo l’Assemblea gli animi essersi posati; la pace ottenuta, dopo eletti i Triumviri, libera e tranquilla essere successa la elezione dei deputati, i quali avevano rafferma in ogni sua parte la forma del governo: egli era un dire sua ragione agli sbirri che di questo arrovellava appunto l’Oudinot il quale invece di rispondere al Mazzini scriveva al Radetzky non s’inoltrasse, attendesse l’esito delle elezioni di Francia per non suscitare procelle nel seno dell’Assemblea. — Più tardi vedremo Lesseps comporsi col Triumvirato, l’Oudinot non badargli; quegli tempestando appellarsene all’Assemblea, il governo non più bisognoso di ambagi dare ragione all’Oudinot, torto al Lesseps; e per di più beffarlo; ebbero cuore di chiamarlo anco dinanzi i tribunali, ma intanto essendo riuscita a bene la trama, assai agevolmente lo licenziarono, non senza però biasimarlo di avere oltrepassato la commissione: egli per giustificarsi alle parole ambigue del mandato opponeva le chiarissime del ministro Barrot, le quali gli erano come commento, e non gli valse; le parole e le penne il vento porta via; contano gli scritti e questi anco poco. Ora di altre cose; non sola l’Austria con Francia, ma sì con Napoli, eziandio e con Ispagna. Di Austria non dirò, quantunque mano a mano ne circondasse come dentro un cerchio di ferro. Quanta ira di Dio, e potenza di uomini per rompere una canna incrinata! Gli altri stati acattolici stettero in pace, la quale cosa dimostra che tirannide regia rinterzata di tirannide pretesca supera ogni altra tirannide. I Romani timorosi di assalti tenevano custodito il confine dal lato di Napoli, con molto loro non meno incomodo che jattura, chè la gente sparsa non potè esercitarsi nelle armi, onde l’avemmo a provare poi valorosa sì non perita; nè erano le diligenze del governo o inopportune o troppe, che fatta anco la tara, come di giusto, alle jattanze napoletane, non si poteva mettere in non cale la perpetua minaccia di rompere i confini: quotidiane per di più le provocazioni, imperciocchè parecchie barche scorressero su e giù pel lago di Fondi acclamando a gran voce: «viva il Papa! viva il Re!» a cui come di ragione i nostri rispondevano sempre: «viva la Repubblica!» Peggio di tutto un laidissimo tradimento: gli ufficiali napoletani di presidio al confino venendo spesso ai quartieri dei nostri per conversare, e per bere indussero i nostri a visitarli nei quartieri loro dove festosamente accolti si trattennero alquanto in compagnevoli sollazzi, ma sul punto di congedarsi si vedono circondati da molta mano di carabinieri ed odono intimarsi la resa: non ci era da fare riparo, andarono, eccetto due il quartiermastro Bizzani che appiccato un solenne ceffone su la faccia di un gendarme si prevalse del costui stordimento per fuggire, e scappò del pari il sargente maggiore Bemi che giocando di pugni e di calci usciva loro dalle mani; si richiesero tosto con minaccia, e con minaccia fu risposto averli mandati a Mola di Gaeta perchè il Generale supremo Casella gl’interrogasse; allora misero le mani addosso ai fratelli dello Antonelli ammonendoli, che essi sapevano, e non per nulla, la legge mosaica occhio per occhio, dente per dente. I prigionieri furono tosto restituiti; le ragioni spiccie a persuadere i preti crescono nei boschi. Il re Ferdinando concupì la gloria di conquistatore; solo voleva conquistare a man salva, però quando seppe sgombra la frontiera pel richiamo della milizia a Roma si attentava allungare il passo oltre il confine Romano: secondo la natura speciosa di lui lo precedeva un proclama col quale mostrando le granfie rattratte diceva avere speranza di non essere costretto ad usare le armi per restaurare il supremo Gerarca della Chiesa; varcò il confino in compagnia, chi dice di 12, e chi di 15 mila uomini; gli stavano attorno principi, duchi, ministri, e perfino monsignor Giraud per ripigliare il possesso in nome del Papa, delle provincie ripurgate con la spada di Ferdinando re, il quale messa la gente alle stanze tra Velletri e Albano, là attendeva per rivincere i Romani, quando fossero vinti. La tregua dei francesi con Roma arriva inaspettata a Ferdinando, e gli parve tradimento; forse fin d’allora statuì ritirarsi, ed in cuor suo maledisse il momento di essersi messo a repentaglio, ma fu il pentirsi tardo, che gli si spinse addosso il Garibaldi. Questo capitano si traeva dietro il battaglione dei lombardi, e Manara. In brevi accenti importa dire chi fossero gli uni e l’altro: reliquie i primi di corpo più vasto, che mal seguendo le orme del re fu secondo il solito derelitto da lui; non bene fra loro concordi perchè volevano ad un punto piacere al Piemonte, e non alienarsi i Repubblicani; umiliaronsi ai ministri regi e ne ritrassero onte, e strazi: ingannati su la strada da farsi per la perfidia dei medesimi ministri ebbero a lasciare le artiglierie per via; quando meno se lo aspettano i soldati del Piemonte si rovesciano su loro e gli artiglieri disperdono, i cannoni tirano dentro in Alessandria. Questo narra il Dandolo che ci si trovò presente, ma egli non lo piglia in mala parte, perchè di stirpe aristocratica; però le regie offese ha per carezze, mentre in odio degli ordini popolari, quanto sa di popolo lacera senza pietà. Strenui giovani furono per certo i nobili lombardi, ma schifiltosi, e saccenti: combatterono i nemici valorosamente sempre, le proprie passioni non combatterono mai. A Bobbio sbandaronsi, che madre di discordia è la sventura: nel tumulto rimase ucciso un’ufficiale; i cavalli venderonsi quasimente per nulla. Anco dal Dandolo si ricava, che i pochi rimasti insieme passando per Chiavari vennero con inestimabile esultanza festeggiati, perchè creduti ausiliatori di Genova; quando poi i Chiavaresi seppero, che non andavano per quello cagliarono; dond’ei cava argomento per deplorare la insania degl’Italiani! Certo per cui sa, che in quel punto il Lamarmora bombardava Genova adoperando contro una città italiana, quelle armi, che su i campi di Novara rimasero inerti è mestieri che dica le opere di questo Conte valere troppo più delle parole. Avviaronsi verso la Toscana in cerca di miglior fortuna, ma ci giunse il loro messaggio nel punto in cui cadeva il governo popolesco per le mene di nobilissimi ribaldi; il Conte chiama cotesto governo spregevole, e tuttavia ei ne sperava sollievo ed altri soldati italiani ributtati dalla monarchia sabauda ebbero da cotesto governo vesti, armi, e danaro, e quello che più importa fratellevole accoglienza; ma poco sono da curarsi le parole del Conte contro il governo toscano, se la dicacità sua egli spinge fino agli ultimi oltraggi contro i propri commilitoni, e valga il vero; egli afferma com’essi accettassero recarsi a Roma per paura che stretti fra l’appennino e il mare di un tratto il pregiabile governo di Piemonte non li consegnasse all’Austria, e poichè costà non poterono rimanere si avviarono a Roma senza amore, all’opposto odiando il governo del Mazzini e quasi per dimostrazione dell’animo loro portano sopra le cinture la croce sabauda; accettano il soldo della repubblica solo per vivere reputandosi liberissimi, appena giunti, di piantarla; così forse non pensava la moltitudine dei soldati che il Manara conduceva: non convincimento, non passione essi sentivano disposti a servire per bisogno la repubblica, o la restaurazione regia, se privi di bisogno non avrebbero servito l’una nè l’altra: insomma, a sentire questo Conte, i 600 lombardi, che furono miracolo di valore e di costanza, volgono a Roma per non farsi, spinti dalla fame, ladroni. — Nè meno sbalestrato è il giudizio del giovane Conte intorno alla milizia Romana; a lui erano segni di sicura disfatta la moltitudine delle sciarpe, bandiere, coccarde, e durlindane ond’ella andava ornata ed armata, le moltiplici assise, che vestiva, e le spallette delle quali taluno a mirarlo solo nel volto era indegno, gli parve cotesto il carnovale della licenza; e tuttavia cotesta gente seppe morire per la causa della libertà; ma al Conte Dandolo va molto perdonato, imperciocchè molto abbia amato, e troppo più patito per la Patria. Manara capitano dei Bersaglieri, di patria lombardo, fu il Tancredi di questa inclita epopea; di forme ampie, ed anzi pingui che no, marziale nel volto, nel portamento, e negli atti; padre e marito non invilito negli affetti privati, con tutto il cuore amava la moglie, e i figli e nondimanco sopra questi amò la Patria; si sarebbe detto avesse avuto due cuori; costumi alteri ma urbani, senza troppo addomesticarsi affabile; quasi un profumo di nobilesca gentilezza lo circondava: da prima repugnò dal Garibaldi, ma all’ultimo si accorse come vi abbia una gentilezza d’intelletto, che vince l’altra di educazione perchè questa può talora dimenticarsi, l’altra non mai; allora egli prese il Generale e il Generale lui; onde all’ultimo diventarono non pure amici ma inseparabili. Segreti furono lo scopo della impresa, e le vie; le varie milizie per comando superiore si raccolsero alla villa Borghese; dicevano per essere passate in rassegna, e quivi rimasero fino a sera; su lo imbrunire ecco il Garibaldi; al solo vederlo comprendono tutti, che per rassegna ei non viene; tranquillo anzi immobile sopra un cavallo feroce; dopo le spalle gli svolazzano le chiome fulve, e i lembi del mantello bianco; sotto il mantello egli veste la camicia colore di sangue, e come ombra lo seguita il negro americano dalle vaste membra coperto di mantello nero, ed armato di lunga lancia intorno alla quale si agita la bandiera vermiglia. I gridi andarono al cielo; egli fece della mano silenzio, ed arringò i soldati; che diss’egli? Veruno ardisca riportare le parole del Garibaldi, imperciocchè la virtù delle sue arringhe consista meno nelle parole che nello sguardo, nel suono, insomma in un torrente di fluido elettrico, che si prova, ma non si descrive. Ora dunque come mai dei giovani scolari nei quali abbonda ordinariamente il cuore ne rimasero soli nove? Forse un demonio di quelli, che governano la Caina passando su l’anima loro vi soffiò un’alito gelato e gli avvilì? Ecco la cagione del fiero caso, che forse lo scusa in parte ma non lo assolve: nella giornata del 30 aprile fu preposto a questi cervelli giovanili mobilissimi per natura un côrso, di cui non si ricorda, e non importa ricordare il nome; però giova avvertire che indi a breve se ne andò in Francia al soldo dello Imperatore, e con esso lui forse tuttora rimane; nel 30 Aprile pertanto ben’egli a squarcia gola gridava ai giovanetti: avanti! avanti! ma ei se ne stava addopato ad una pianta schermito dalle palle con un fiasco di vino al fianco dove di tratto in tratto attingeva voce, e sembianza di valore: però sospettando i giovani di mal capitare sotto la trista guida spulezzarono. Di qui l’uomo, si accorga come la poca fiducia nei condottieri soldateschi o politici di un tratto smorzi ogni entusiasmo, e muti condizioni di animosi in codardi. Procedeva il Garibaldi co’ suoi tacito in mezzo alle tenebre e descrivendo un grande arco attinse la via prenestina, che mena a Palestrina, la quale risponde alla Porta maggiore di Roma mentr’egli era uscito dalla Porta del Popolo; di tratto in tratto spediva il Garibaldi stracorridori a speculare il sentiero frugandolo argutamente nelle più recondite latebre; pareva, che navigasse per iscogli dolosi, e veramente ei camminava in mezzo ai pericoli: sovente egli medesimo in compagnia del suo moro si allontanava per tentare i meandri del terreno, e come improvviso si partiva così del pari improvviso ritornava; e questa, che pareva faccenda strana perchè inusitata fra noi, era cautela appresa dai selvaggi i quali come pongono ogni loro gloria a sorprendere il nemico con gli agguati, così adoperano ogni sottile accorgimento per ischivarli; senza intoppo procederono fino al mattino, allora appartatisi alquanto dalla via prenestina s’indirizzarono verso Tivoli. Per questa guisa l’astuto condottiero illudeva il nemico il quale stimò dai rapporti delle sue spie, che pigliando egli per la via Flaminia andasse ad assaltare i Francesi a Palo onde di un tratto si scopriva di subito minaccioso sul fianco destro di lui accampato intorno a Velletri; e per ultimo marciando di notte confortato dalla ombra, e dalla frescura aveva potuto camminare per bene ventiquattro miglia in nove ore. Ed è questo successo notabile imperciocchè la prima qualità che si ricerca nelle fanterie consista nella gamba, onde Omero ricorda Achille ordinariamente col titolo di piè veloce; e mettendo dal lato Omero gli scrittori tutti di cose militari in questo consentono: i soldati austriaci vanno lenti ed è bazza quando, camminando grossi, percorrano un miglio l’ora; i Francesi condotti da Napoleone compirono marcie, che emularono quelle di Cesare, e di Alessandro. Taluno opina, che i soldati due miglia l’ora possano farle, un uomo giovane ne fa tre nel medesimo spazio di tempo, ma non per durare: comunemente però i grossi battaglioni muniti di artiglierie poco più di un miglio l’ora vediamo, che camminano; Garibaldi ed i suoi quasi tre ne trascorsero, e parrebbe miracolo, se non costumassero sempre così; dacchè appunto nei moti incredibilmente celeri stia riposta la precipua arte di guerra del Garibaldi, e quantunque egli abbia detrattori in copia tuttavia si conosce come per diverse vie adoperi la medesima tattica di Napoleone in terra, e del Nelson sul mare, voglio dire raccogliere in un punto la maggiore quantità di forze possibile per rompere la linea nemica; i primi ottenevano lo intento con lo avvolgersi accorto delle milizie e delle navi, il secondo col piombare giù inopinato con mosse celerissime, e per sentieri reputati inaccessibili. Ma volere è vinto dal non potere; quindi poichè i suoi compagni attriti dal digiuno, e dalla fatica ormai balenavano cadere ei fece sosta in mezzo a un prato. Qui agli occhi maravigliati dei giovani lombardi apparve uno spettacolo nuovo; appena il Garibaldi ebbe dato fiato alla tromba ecco i fanti buttare là le armi, e mescolarsi insieme vari di vesti, di armature, di tutto; nella camicia rossa pari; soldati, e capitani non solo uguali, ma i secondi sovente servi ai primi, tutti alla busca, ognuno è macellaio, e cuoco; nè si desidera molta perizia in questo, chè cibano le carni appena rosolite; i cavalli liberi di sella e di freno in balìa di loro stessi; poi li ripigliano col laccio nel modo che agguantano pecore e buoi; dopo sazi si giacciono giù in terra e somministra ai cavalieri letto e guanciale la sella; ai pedoni un sasso, e se nè anco questo trovano, sottopongono al capo un braccio, e basta. Intanto il Garibaldi s’incammina su le alture, e col cannocchiale fisso su gli occhi sta vigilando per tutti, poi scese, dettò alcun ordine, e si ammannì la tenda per riposarvi sotto, la quale in un battere di occhio fu lesta però che in questo modo la costruissero; la sciabola ignuda ficcarono alquanto in terra, legarono per traverso il fodero in croce, appoggiarono al punto d’intersecazione una lancia, sopra essa gettarono il suo mantello e la tenda fu fatta; il Garibaldi ci si stese sotto riposando alcun poco le membra. Il conte Dandolo s’inalbera per cosiffatti costumi del Capitano e dei soldati, ma pure ci correva poco screzio con quelli dei suoi bersaglieri, anzi dello stesso Manara; dacchè l’Hoffstetter racconta com’essi nella medesima maniera agguantassero pecore, e bovi, li scorticassero, e arrostissero mettendocisi intorno il Manara come gli altri con le maniche tirate su fino al gomito; ed anco il nobile giovane non si dà pace perchè nella legione del Garibaldi a molti prodi e dabbene si mescolasse gente di ogni risma; e’ sono fumi aristocratici senza costrutto; di vero s’egli senza commoversi racconta come i suoi bersaglieri militassero per fame sotto bandiera aborrita poteva non arricciarsi degli altri considerando, che il bel morire onora la vita, nè meritava spregio chi travolto da ree passioni in mezzo ai traviamenti pure rinveniva forza in sè da ritrarsene, nè molto meno si potevano essi respingere dal santo proposito di espiare le passate colpe con magnanimo fine. Col Garibaldi brevi sempre i riposi; egli primo in piedi, ed allo squillo della sua tromba ecco tutti balzare su ritti, sparpagliarsi, rimescolarsi, ricondurre i cavalli col laccio, cercare le armi, forbirle, mettersi in ordinanza, e subito dopo in marcia. Su lo imbrunire il tempo si annuvola, e si mette prima a piovigginare, poi giù acqua a brocche; verso mezzanotte arrivano a Palestrina; dove i soldati furono distribuiti per diversi conventi; toccò ai lombardi il convento degli Agostiniani, ma Agostiniani o Cappuccini od altri cenobiti usciti un dì dalle viscere del popolo, oggi atrocissimi nemici suoi e della libertà; quindi ritrosi a dare perfino ricovero ai nostri soldati i quali incolleriti si pigliarono ricovero, e cibo, e bevanda, ed altre più cose rompendo casse ed armari; dicono trovassero altresì libri, e stampe, e lettere di laidi amori; nè mi maraviglio se le rinvenissero nascoste mentre dimorando io in Genova presso il convento di San Francesco di Paola, il nipote del mio giardiniere avendomi recato il breviario, che un dabben frate lasciava nel confessionario ci trovai fra le carte lettera di certa penitente la quale rinfacciava a costui il suo abbandono dopo averla condotta a rompere fede al marito. Nè grande, nè bella si mostra Palestrina un dì arx prænestrina precipua città degli Equi fondata innanzi Roma; quivi edificò più tardi Silla il tempio alla Fortuna, preferendo cotesto truce al nome di virtuoso quello di felice; la città ricingono da tre parti mura debolissime, le vie sono fatte a scale; tutto dintorno deserto, solo lontano su i colli circostanti appaiono borghi, che si vantano città. Il re di Napoli in fine avvisato come il Garibaldi lo cercasse a morte è da credersi che si sentisse andare giù per le ossa il ribrezzo della quartana; ma poichè con 20 mila soldati non poteva fuggire davanti a meno che 3 mila per disperazione animoso si dispone moversi a combatterlo; ho scritto moversi ma non egli mutò un passo, bensì spinse da Albano il generale Lanza con 5 mila uomini muniti di artiglieria da campagna per conquidere il Garibaldi, o almeno circondarlo per guisa, che il regresso a Roma gli fosse impedito; al generale Winspeare fu ingiunto che per la via di Montecompatri sostenesse le mosse del Lanza. Ora trovo scritto come il Garibaldi sparpagliasse qua e là manipoli di bersaglieri ed anco di cavalli per tribolare il nemico; anzi affermano, che il Winspeare dopo scambiato con loro un trarre lungo e sanza pro fino a sera, dubitando dalla pertinacia dei nostri che fossero molti, o se pochi altri aspettassero calata la notte si ripiegava fino a Frascati; — certa cosa egli è che da queste lustre altro non volle cavarsi eccetto lo abbandono del nemico delle sue posizioni per trarlo a battaglia, e questo il Garibaldi ottenne, imperciocchè il generale Lanza nel giorno di poi uscisse ad assaltare Palestrina; lo precedeva il colonnello Novi camminando sopra una delle due strade, che mettono capo alla porta del Sole; su l’altra strada veniva più grosso il Lanza per dare dentro alla città di fronte; e vuolsi credere che il Novi avesse a scorrere oltre per pigliare alle spalle la città dalla via che da mano diritta mena piu in alto al colle. Lo aspettavano i nostri; il Manara dei suoi rimastigli (chè alcuni bersaglieri col tenente Bronzetti aveva spedito a infestare il nemico a Valmontone nè si ricongiunsero col Garibaldi fuorchè a Roma) mandò una compagnia col Rozat alla porta del Sole; un’altra pose col Ferrari nella parte inferiore della città; la terza col Maffi tenne nel convento degli Agostiniani pronta alla riscossa; la quarta col Bonvicini aveva fino dal giorno innanzi preposta al presidio del Castello San Pietro in vetta al colle dove con fatica si ascende in mezza ora, e donde con facilità in quindici minuti si cala. L’Hoffstetter descrive diffusamente questa avvisaglia, come se fosse capitale giornata, e a se non senza molta prosunzione attribuisce il merito di ogni mossa; nè questo è il più breve su la scorta degli scritti, che possiedo. Parte della legione italiana era inviata fuori della porta del Sole per sostenere la zuffa con la colonna del Novi; lei comandava un gentile dozello, biondo, e roseo, di cui le guance ombreggiava appena la prima calugine; quale avesse nome non mi occorre scritto: non importa, aveva nome popolo; mi dicono che prevalsa la tirannide in Italia, andò a combattere per la libertà in America, dove cadde in battaglia: il nostro cuore geme nel vedere la universa terra seminata di ossa italiane, ma la ragione lo consola però che la libertà sia anima del mondo, e tutto avendolo per patria ella patrie particolari non conosce o disprezza; ebbe per comando tenesse il posto, o ci morisse: dopo lui la compagnia Rozat; questa la nostra sinistra. Verso le quattro del pomeriggio un mille di nemici raendo seco due cannoncini da sei presero a bersagliare i nostri, e i nostri salutarono con acclamazion festose lo strepito delle prime palle come se incominciasse la danza desiderata; cessate le grida risposero con fuochi spessi e terribili, ma alla scoperta, e alla scoperta il giovanetto capitano agitava la spada, bersaglio ai colpi nemici, e per venura non tocco mai. Durava un’ora la mischia quando ai nostri vennero meno le munizioni sicchè si udiva i soldati garosi domandare l’uno all’altro: «deh! per amor di Dio, prestami una cartuccia delle tue, ch’io le ho finite.» Allora il buon Ripari, anima grande senza ch’egli se ne sia accorto mai, trasse davanti al giovanetto capitano dicendo: «vuoi tu ch’io vada per le munizioni?» E quegli: «magari!» Il buon Ripari andava non pigliandosi cura delle palle, che lo precedevano, e lo seguivano in cerca di munizioni fino al luogo dove la strada che sale a Palestrina s’inselva; dopo cinquanta circa passi s’imbatteva in soldati conduttori dei multi con le munizioni, i quali sbigottiti dal rumore della battaglia si peritavano a sbucare fuori del bosco; adoperandoci acerbe parole, ed atti violenti li costrinse a correre, poi compreso del pericolo in cui si versavano i nostri, scorse oltre verso la città per affrettare lo aiuto: «poco lungi dalle mura, egli racconta, mi occorse il Manara a cavallo sotto l’arco della Porta; le late membra e pure leggiadre, la guerresca sembianza e l’atto fiero mi empirono di maraviglia, sicchè il pensiero mi trasportò ad Ettore su la soglia della porta Scea in procinto di combattere per la Patria.» Rinforzando i passi con lena affannata in parlare succinto lo avverte: «i nostri perigliano.» Ed egli: «qui corsi per sovvenirli.» «Ma tu sei solo, ripiglia il Ripari.» L’altro «odili, corrono.» Di fatti in quel punto sboccano i compagni fuori della Porta, e poichè la città posta in alto avvalla alla pianura a modo di anfiteatro di cui i gradini sono piantati di viti, e seminati di biade, pigliano a saltare giù alla dirotta di scaglione in iscaglione sospinti dal furioso squillare della tromba del Manara, che gl’incalza come pungolo nei fianchi: a questo spettacolo non potè tenersi ferma la compagnia Bonvicini di presidio alla Rocca, ond’ella pure precipitava di rincorsa a basso. I Napoletani spaventati da cotesta cascata di prodi anelanti alla battaglia non istettero ad aspettarli, e fuggendo disperatamente lasciarono in abbandono i due cannoni. — Però a quanto sembra e’ fu in cotesta occasione, che cadde spento Pio Rosa di Vicenza, il quale quasi sdegnoso di non incontrare più virile resistenza nel nemico mentre lo inseguiva con la spada nei reni, un paltoniere volta faccia improvviso e a bruciapelo gli scarica l’archibugio nel cuore; anch’egli giovane, e cultore dei buoni studi massime legali; nel 30 aprile colpito parimente di palla nel petto cadde, e fu reputato morto; poteva rimanersi a Roma a curarsi, e non volle, sacro alla Patria egli reputò conchiusa bene la vita esalando l’anima al grido: «Viva la Repubblica!» Così a manca: più duro certame a destra, e al centro dove irruppe il nemico grosso di novemila uomini; e munito di artiglierie: qui dunque convertono i nostri le forze, la più parte comandate: il Bixio poi spontaneo però che spedito a circuire i fuggenti a sinistra udendo a destra strepito di battaglia colà si volge, conforme lo porta la bollente natura: allora non costumava annoverare i nemici. I Napoletani si erano impadroniti del caseggiato opposto sul margine del campo, e dell’altro, che sorge la dove si tagliano le strade per Roma, quinci sfolgoravano i nostri accalcati dolorose. Il Bixio molestamente sopportando il fatto muove con audace ma non avvisato consiglio di contro alle case funeste, e perde parecchi prodi invano: già i superstiti balenavano quando l’Hoffstetter potè ripararli dietro certo avvallamento di terreno aspettando l’esito della mossa ordinata al capitano Ferrari, la quale consisteva nel circondare le case poste su l’argine riuscendo alle spalle del nemico per tragetti e per coperte vie, come accadde, di che pigliando spavento ei le vuotò in un attimo. Ora sì, che il Bixio non si poteva reggere instando di avventarsi in massa co’ nostri contro l’altro caseggiato del crocicchio; lo tennero, ponendo ordine allo assalto il quale fu ammannito così: dinanzi i legionari e gli emigrati traevano palle a grandine mentre due squadre di bersaglieri stretti correvano di contro alle case, dove giunti un cinquanta di passi forse lontani sbandaronsi; precipitano i nostri nello spazio, che passa tra l’una casa e l’altra, il quale così era breve, che la fiamma dei fucili nemici bruciò i capelli a parecchi dei nostri. Avanti a tutti il Bixio; così penetrarono dentro le case per le porte atterrate, e per le finestre scalate; molti ammazzarono, molti presero, troppi più fuggirono. Quale lo esito dello assalto sul centro, non importa dire; colà erano pochi, ma con essi il Garibaldi, e basta. Il nemico a rendere più infame la infamissima fuga si volta ad un tratto su la via di Roma e scarica i suoi moschetti addosso ai nostri; la mano dello schiavo tremante non aggiusta i colpi, nessuno rimase ferito: e’ fu il saluto della viltà! Questo insomma il combattimento di Palestrina, il quale partorì vantaggi, che in parte andarono perduti a cagione del sollecito richiamo del Garibaldi a Roma, durarono però la baldanza nei nostri di vincere quante volte fossero stati messi di fronte ai Napoletani, e la facilità di cavare fodero dalle provincie meridionali. Deplorammo diece morti, tra i quali anco il tenente Mengarelli, feriti venti e più; dei nemici rimasero spenti cinquanta, altrettanti e più feriti; fra i morti parecchi ufficiali stranieri, e tra i feriti altresì; ferite, e morti ignobili però che coloro i quali vendono l’anima e il sangue a prezzo altro meritino che precipitare per via di sangue nel sepolcro illacrimato: molti i prigionieri coperti di amuleti, abitini ed altre siffatte idolatrie abolite da Cristo e ritornate in fiore dai preti come merce fruttuosa su tutte per la religione bottegaia; nondimanco costoro maledicevano Dio, i Santi e il Papa. Non si narrano le esultanze, ed i falò dei Romani per la vittoria di Palestrina; questo solo si nota, che i feriti udendo eccheggiare l’aria del grido: Viva la Repubblica, sporgevano il capo e le mani fuori delle carrette sclamando anch’essi «oh! viva, viva.» Incerto il numero della gente che mosse da Roma alla impresa di Velletri, chi dice 8,000, e chi 10,600, certi corpi, e li comandava il colonnello Morrocchetti, ed Haug erano preposti all’avanguardia, il Garibaldi alla battaglia, alle dietro guardie ed alla riserva il Galletti. Altri notò e bene quanto malvagio partito fosse quello di mettere a capo di una divisione due Generali pari in grado permanente, all’uno dei quali si conferiva il supremo comando; di fatti indi a poco il Garibaldi si faceva cedere dal Morrocchetti anco il comando della vanguardia, dissidente o non consapevole il Rosselli, e certo questo fu grave fallo del Garibaldi: non importa ricordare qui gli esempi rigidissimi co’ quali i Romani mantennero la disciplina, imperciocchè ogni uomo comecchè imperito di milizia vada persuaso come senza disciplina si abbiano torme di predoni non già soldati; ed io per quanta reverenza porti al Garibaldi non posso difenderlo dalla colpa commessa; lui scusano l’amore immenso per la Patria, l’anima ardente di sacro entusiasmo, ed il sentimento del sapere e del potere, e tuttavolta la colpa rimane. Chiunque vuol conoscere come fossero disposti i Napoletani può cavarsene la voglia leggendolo nell’Hoffstetter, e nel Torre, ma in questo meglio che nel primo, il quale assai mi ha l’aria di arruffone e di millantatore; al mio bisogno basta esporre, che i nostri instando sul centro del nemico avrebbero fatta mala prova sempre, perchè difficile vincerlo in questo lato difeso stupendamente dalla natura e dall’arte, e quando vinto egli poteva ritirarsi senza una molestia al mondo; nè compariva più savio partito assalirlo al fianco sinistro, dacchè il nemico poteva ripiegare l’ala sul centro, e noi inoltrati circuire col centro stesso disteso dietro le nostre spalle, costringendoci a deporre le armi, ovvero a morire senza pro; ottimo avviso battagliare dal lato destro, dacchè qui il terreno montuoso si adattasse meglio al modo di combattere scompigliato dei nostri, i quali arieno potuto esercitare la prestanza individua, mentre per converso il nemico poco vantaggio o punto avrebbe cavato dalla sua disciplina; oltre questa occorrevano altre ragioni e del pari gagliarde, che per istudio di brevità si tacciono. I nostri delle due vie che conducono al nemico stanziato presso Valmontone, Frascati, Albano, Genzano. Velletri, e per le terre, che si avvicinano al mare presero quelle che da Zagarolo mena a Valmontone ed a Montefortino più lunga, ma meno esposta alle molestie nemiche. Le spie messe dietro allo esercito napoletano riportavano come egli con celeri moti si raccogliesse intorno a Velletri non lasciando indovinare se per allestirsi alla battaglia, ovvero per evitarla con la ritirata; per noi qualunque fosse il concetto di lui urgeva assalirlo, chè riusciva impossible ad uomo frenare lo impeto dei soldati; ma dove non valeva l’uomo, valse la fame: mancarono i viveri; di quì le querimonie scapigliate contro l’amministrazione ed a torto, imperciocchè non a lei, bensì allo stato maggiore corresse l’obbligo di vigilare che gli ordini del supremo Comandante sortissero adempimento, i quali furono che ogni soldato si portasse le cibarie per due giorni. Questo negozio delle munizioni in ogni tempo sperimentammo arduo. I Romani recavano seco armi di ferro atte così alla offesa come alla difesa, scudo, lorica, elmo, e per di più il palo onde ad ogni fermata costruivano il vallo, e per giunta il nudrimento di quindici dì: oggi le razze non so se nascono più affrante, ma certo per manco di esercizio, o per uso intempestivo, e troppo delle forze vitali le proviamo di nerbo sotto alle antiche e di molto. Al pane si potrebbe surrogare biscotto, il quale se fatto nelle regole, e di roba buona risparmia macinatura, cottura ed altre faccende di simile sorte nè facili nè brevi per le milizie in campagna, dacchè lo vediamo quotidianamente sopperire ai lunghissimi viaggi di mare. Perderono dunque per via tempo maggiore, che non avessero voluto; pure il Garibaldi trascorrendo oltre arriva co’ suoi la mattina sotto Velletri avendo però mandato avviso al Generale Rosselli perchè si affrettasse a rinforzarlo, e questi gli rispose: andasse cauto, si astenesse da ingaggiare battaglia, solo attendesse a spiare ogni mossa del nemico, ricordasse essergli giunte testè le vettovaglie in campo, ed esperienza, e insegnamenti dissuadere la zuffa con milizie sconfortate di cibo e di bevanda. Ora gli emuli del Garibaldi lo appuntano della seconda colpa, la quale fu, postergato ogni consiglio o piuttosto ordine, avere continuato la marcia, anzi pure attaccato la mischia, e non è vero. Velletri è città di 12,000 anime, situata in cima ad un colle; la via che mena a lei per circa tre miglia prima di arrivarci è tagliata ad angolo retto, a destra ed a sinistra, da talune eminenze fra mezzo alle quali essa procede; il Garibaldi con disegno accorto dietro queste eminenze dispose grosse squadre di soldati regolari mentre egli coi legionari, e volontari suoi prosegue per la via: passate coteste alture la campagna si stende con piano inclinato, e la via continua traverso a quelle, quasi chiusa, fra due argini che la sovrastano una trentina di braccia e più; tutta questa stesa appellano i colli latini; e qui pure il Garibaldi ordinava i suoi dal manco lato e dal destro in modo che tagliassero la strada con linee parallele e diritte. Il Garibaldi disposte le sue genti a quel mo’, dopo avere spediti qua e là stracorridori a speculare si mise a sedere sotto un pino che ombreggiava la via, ed essendo ormai le ore otto voltosi ai compagni disse loro: «Orsù vediamo di rompere un po’ il digiuno.» Dentro un tovagliolo allora gli portarono tre panini, quattro once di salsamento, e forse altrettante di cacio cavallo; non mancava il vino, forse un bicchiere e nemmeno: i convitati otto, col Garibaldi nove. Taluno disse al Generale: «mangi tutto lei, almanco uno di noi si caverà la fame.» Egli al contrario: «no abbiamo a mangiare tutti, capisco che non ci è pericolo di morire per ripienezza.» Mentre egli recatosi in mano un panino faceva atto di spezzarlo ecco un lanciere sopraggiungere da Velletri a briglia abbattuta, e domandare da lontano: «dov’è il Generale?» Qui, fugli risposto, ed egli tostochè lo vide: «Generale dalla città sboccano in massa cavalleria e fanteria.» Il Garibaldi, che teneva fra le dita un pezzo di pane lo depose per bene nel tovagliolo, si levò, e fregatasi due o tre volte col palmo della destra la fronte si abbassava la falda del cappello su gli occhi, poi con voce forte e pacata ordinò al lanciere: «Tornate addietro, e date ordine che tutti i corpi avanzati si ripieghino in ritirata.» Il lanciere volte le groppe del cavallo, tocca di sproni, e via; dopo ciò il Garibaldi accenna della mano al dottore Ripari e gli dice: «tu fa voltare le mule ed i cannoni, e torna indietro a piccolo passo.» Il buon Ripari che di queste cose m’informa, ingenuamente aggiunge: «voi capite, che anco al medico col Garibaldi tocca a fare un po’ di tutto.» Gli ufficiali di stato maggiore furono lanciati in questa parte ed in quella a portare ordini, il dottore se ne torna bel bello in giù a capo di quattro cannoni, e di quaranta mule cariche di munizioni rasentando l’argine a manca per lasciare libera per quanto più poteva la strada, il Generale anch’egli seguitava lento a cavallo dietro l’ultimo cannone. Intanto giovanetti a corsa passano domandando l’uno all’altro: «dove vai?» A chiamare il Rosselli, rispondevano. «Ed io pure.» Già i traini erano giunti alle eminenze negli intervalli delle quali il Garibaldi aveva disposto i soldati regolari, quando dalla parte di Velletri fu udito strepito di moschetteria, e indi a breve arriva tempestando un cavaliere che sussura nelle orecchie al Generale un motto, per cui questi mutata fronte va via di corsa col cavaliere. Il Ripari piantato lì in asso non sapeva, che farsi; statosi alquanto sopra di se ordina sostino le mule, e i cavalli della batteria, ed egli pure dietro al Generale. Adesso narro cosa che a parecchi saprà di agrume, ma io la vo’ dire perchè tante sono le prove del valore italiano, che davvero egli non può patire manco di fama per qualche colpa commessa; e poi tanto mi uggisce la jattanza francese di non averne tocche mai, che quasi mi piace raccontare come gl’Italiani non repugnino dal confessare per essi talvota non essersi compito il debito. Il Masina capitanava novantasei lancieri, bolognesi la più parte; prodi uomini tutti ma nuovi, egli poi comecchè giovane di anni, vecchio di perigli e di prove; militò in Ispagna, e da pertutto dove si combatteva per la libertà; per lui niente impossibile, il numero non contava come pel Garibaldi, usi a mutare in vere realtà le fantasie dello Ariosto: costui vedendo ruinargli addosso due squadroni di cavalleria napoletana si volse ai suoi, e parendogli che nicchiassero, con parole di obbrobrio li vituperava aggiungendo poi: «e che vi ha da importarre che i nemici sieno mille? O che me ne importa? O che fa averne di fronte quattro od otto? Su giovanotti alla carriera.» Ed egli via a precipizio; comecchè fosse cavaliere se non unico raro, pure montando certa cavalla inglese ardentissima storna di pelame, appena gli riusciva tenerla agguantando con le due mani la briglia; a quella guisa correndo primo e solo andò a dare di fronte nella cavalleria napoletana. Il Colonnello di quella vecchio di anni e di mestiere facendosi cuore gli si avventò contro menandogli un gran fendente sul petto il quale per ventura non lo arrivò; Masina allora abbandona le briglie, e trae in un attimo la sciabola tenendola voltata e ferma al collo nemico; la cavalla libera scorre via come saetta, il colpo coglie fulminando il Colonnello, che rovesciato a terra perde la vita. Il Sacchi nelle sue memorie afferma che il Masina trapassasse il Colonnello napoletano con un colpo di lancia, ma non è vero, chè egli non andava armato di lancia in cotesta congiuntura. Ora mentre il Masina tutto bollente si volge per incorare i suoi ecco si trova solo, imperciocchè i suoi lancieri, essendosi appressati ai nemici, e scorto com’essi di cinque volte e sei li superassero, e subito dopo venissero le fanterie a battaglioni, invilirono; presi da paura voltate le groppe fuggono. Il Generale Sacchi ne incolpa i cavalli sbrigliati, non assueti alla vampa ed allo strepito delle armi, ed è menzogna pietosa: i lancieri del Masina sotto Velletri scapparono abbandonando il Capitano a morte quasi sicura; ed anco peggio essi fecero se pure peggio si poteva, imperciocchè il Garibaldi pensando che il suo aspetto bastasse ad arrestarne la fuga, si pose col cavallo di fianco traverso la strada, e seco lui il moro Aguiar; ma lo aspetto non valse, nè il grido, nè il cenno, chè via trascorrendo lui, e il moro mandano sossopra, alcuni in essi inciampando rotolano per terra, onde in breve cotesto luogo fu ingombro da un mucchio di cavalieri caduti, e di cavalli. Afferma il Torre, che Garibaldi caduto stesse sul punto di restare trafitto dal Colonna maggiore napoletano se prevenendolo un lanciero non lo avesse morto prima di vibrare il colpo, e confonde forse col fato del Masina; altri, l’Hoffestetter, racconta come il Garibaldi avesse feriti la mano e il piede di palla, e nè manco questo è vero. Crediamo il Garibaldi che così mi narra il fatto, ed io tal quale lo trovo scritto nei suoi ricordi lo riferisco altrui. «Una compagnia di ragazzi che si trovava alla mia destra vista la mia caduta si scagliò su i napoletani con tal furore da fare stupire: io credo dovessi la mia salvezza a cotesti prodi giovanetti poichè essendomi passati parecchi cavalli sul corpo ne rimasi contuso per modo, che a fatica poteva rialzarmi, e rialzato mi toccava le membra per vedere se vi era nulla di rotto.» Il Ripari visitandolo dopo la vittoria trovò il Generale ammaccato in tutta la parte destra del corpo, al malleolo esterno, al ginocchio, all’avambraccio, al cubito, ed alla spalla; la mano destra sul dorso riteneva la impronta di un ferro da cavallo; però finchè durò la battaglia il Garibaldi pareva non sentisse dolore, e forse l’anima sua tutta versata altrove non lo sentiva. Dei ragazzi di cui parla il Garibaldi così mi occorre scritto nelle note fornitemi dal Generale Sacchi: «erano giovanetti di 16 anni o meno, che componevano insieme una compagnia comandata dal Capitano Airoldi bergamasco, e formavano parte del mio corpo: qui a Velletri si distinse per prova di stupendo coraggio assaltando i nemici alla baionetta, e molti di essi facendo prigionieri, i quali poi strana figura facevano di sè, tratti in mezzo a cotesti fanciulli; nè a Velletri solo ma nello assedio di Roma, e nella ritirata a San Marino sempre comparve indomita di coraggio, e pagò largo, ahimè! troppo largo tributo di sangue alia Patria.» Il Garibaldi rimontato a cavallo ordina a talune milizie disposte per le frastagliature dei colli latini avanzino celeri e chiudano la strada, alle altre poi comanda non si movano, rimangano ai lati del nemico, il quale improvvido delle insidie era trascorso oltre, lo fulminino nei fianchi, e così fecero, sicchè le palle percotevano sopra masse dense e compatte, però quanti colpi tante morti e forse più morti, che colpi; cascavano giù come frutti colti dalla grandine; miserabile il luogo, impossibile vincere; da prima venne meno la baldanza, poi subentrò la voglia di ritirarsi, all’ultimo cadde su l’anima di costoro la paura, e a rifascio per cotesta via incassata i cavalli tempestando stornarono, le colonne della fanterie susseguenti rovesciano, pestano, e passano; anco i non percossi disposti sopra i rialzi laterali della via sono travolti nella fuga. Il re Ferdinando era presente alla battaglia, e la stava mirando, col cannocchiale da una finestra del palazzo Angelotti; visto il caso non volle saperne altro; ordinato pertanto ai suoi soldati il celere ritirarsi, nei passi retrogradi, li precedeva: il suo posto era dietro quando essi camminavano avanti; avanti quando camminavano indietro. Nella fuga ruinosa lasciarono cavalli, ed uomini feriti, armi sparse, zaini, e vesti; tanta carta avevano addosso costoro, che sparsa a terra parve ci fosse nevicato. Al Masina, cercando, venne fatto rinvenire il Colonnello napoletano morto da lui, scese da cavallo, e gli tolse la tracolla orrevole di dorature, della quale come di spoglia opima meritamente si decorò. E nè anco voglio omettere un fatto strano, perchè anch’egli dimostra a qual misero stato di errore conduca la falsa religione il volgo di Napoli, e forse il volgo tutto dei cattolici; i soldati napoletani ripresi agramente della poca resistenza opposta rispondevano a scusa, che tanto avevano visto il combattere inutile, dacchè la gente del Garibaldi uccisa, appena tocca terra resuscitava; errore, che ebbe origine da questo: i giovanetti di membra agilissime e spigliati appena esploso il moschetto si lasciavano ire a terra dove giacenti lo ricaricavano,e poi di un tratto sorgevano a replicare i colpi. I soldati di Garibaldi non paiono contenti di ricacciare il nemico; lo vonno spento; e’ fu lo inseguimento feroce: dove i napoletani levano il piè, lo pongono i Garibaldini; il Daverio, il Masina con altri animosi cacciaronsi in mezzo a loro lupi fra pecore, e stette a un pelo, che menati via dalla corrente non entrassero alla rinfusa con essi nella terra, e vi cadessero prigioni; altri si spinsero fin sotto l’altura dei Cappuccini ira di cannoni, e senza curarsi della mitraglia, che schizzava a diluvio, dissero: «qui siamo venuti per combattere, e combattere vogliamo,» pregaronli a ritirarsi, e non approdavano; non l’Hoffstetter vi riusciva, non il Manara; intanto la mitraglia semina la morte, e non per questo rimovonsi dal disperato proposito; allora i due ricordati si consigliano andarsene ad avvisare il Generale e così facendo poco oltre incontrano una mano di soldati, i quali ebbri dallo strepito dei cannoni, e dall’incessante clangore delle trombe incuranti delle granate, che ruinavano giù in mezzo a loro ballavano; appena essi giunsero ecco un colpo di mitraglia ferisce due danzatori; sostano tutti, ed esitano un momento, ma il Manara subito grida alle trombe: «musica!» e gli altri più frenetici che mai ripigliano i salti. Anco il principe di Condè si legge, che in Ispagna quando i suoi si accinsero a salire su la breccia di Leira fece sonare i violini: queste jattanze non invidinsi ai Galli; devono gl’Italiani affrontare la morte da eroi, non irriderla come giullari. Ma che tarda il Rosselli? Se arriva in tempo questo combattimento non si risolverà solo in onoranza delle armi italiane, ma forse avrà virtù di mutare le condizioni della guerra: disperso l’esercito regio, in potestà nostra le armi, e gli arnesi guerreschi di quello, sbigottiti i nemici già ciondolanti, i popoli levati a novità, aperte le porte dello stato, il re vinto dalla paura più che dalle armi; a Napoli tutto procede a mo’ di lava, tanto il fuoco che irrompe dal Vesuvio, quanto la passione, che trabocca dall’anima degli uomini. Ecco arriva finalmente il Rosselli non con la foga di cui voglia avventarsi allo sbaraglio, bensì con la circospezione di quale teme venire sorpreso; il Garibaldi lo attende dentro una casupola a destra, dove ei si sta speculando lo irrequieto affaccendarsi del nemico; appena lo vide in questi precisi accenti li favellò: «Generale, mirate; se vi regge la vista vedrete ad occhio nudo, se no pigliate il mio cannocchiale; ponete mente a cotesta linea nera sopra la strada, quegli è il nemico, il quale non si ritira, ma fugge.» — «È vero! È vero! Risponde il Rosselli.» Orsù via, soggiunse il Garibaldi, «addosso alla coda del nemico, e pigliamogli più roba che possiamo: due strade ci si parano davanti per agguantarli; la prima è quella, che gira sotto le mura, e a questa non ci si ha da pensare, perchè esposta troppo ai cannoni, ed ai moschetti nemici; l’altra più lunga, ma più sicura ci corre qui a sinistra in mezzo ai campi, che potendosi tagliare a diagonale ci lascia agio di giungere a tempo: è l’ora di Marengo, le 4 e mezzo pomeridiane. — Sì, sì, replica il Rosselli, bisogna fare a quel mo’ e lo faremo.» — «E sia Generale, replica il Garibaldi, «ma avvertite, che i miei uomini stanno al fuoco dalle 8 di stamattina fino ad ora, bisogna rilevarli.» — «Avete ragione, così faremo;» conchiuse il Rosselli. Presenti fra gli altri a cotesto colloquio il colonnello dei Dragoni Marchetti, e il colonnello di stato maggiore Daverio, il quale disse al primo: «Marchetti, quanti cavalli hai teco?» — «Adesso quaranta o cinquanta, l’altro rispose.» — «Ebbene soggiunse il Daverio, va tu innanzi per campi di traverso con quanta gente più puoi, e acquattata dove ti paia più destro: io mi ti lego per fede di sovvenirti fra breve.» Il Marchetti andava, il Torre dice con 120 uomini (forse questi più gli si saranno aggiuti per via) e si pose in agguato nella selva che spessissima fiancheggia la via consolare fra Velletri e Cisterna. Però nonstante la buona volontà dimostrata dal generale Rosselli tanto egli che il suo colonnello di stato maggiore Pisacane non procedevano di buone gambe in cotesta impresa però che eglino le mosse del nemico non giudicassero fuga, all’opposto maneggi per circuirli, e mettersi in parte da presentare battaglia con profitto il prossimo giorno. Mirabile il giudizio subitaneo del Garibaldi quanto il concitato comando: entrambi quasi sempre infallibili: le prove di ciò replicate e continue: onde quanti con esso lui militarono in America gli avevano cieca fede; non così gli altri un po’ perchè lo conoscevano meno, un po’ per saccenteria di regole e un po’ per astio, le quali cose tutte, comecchè in particole pure si appigliano anco allo spirito dei migliori. Da siffatto screzio nacque, che invece di spingersi gagliardi contro Velletri si gingillarono in avvisaglie alla spicciolata fino a notte; fu spedita sopra la strada di Terracina una scarsa banda di gente buona a raccattare prigioni, non atta a combattere nemici: le tenebre posero termine al combattimento, e diedero principio al votare della città: bene si accorse della ragia il Marchetti, che non essendo rinforzato mandò messi su messi affinchè lo ingrossassero; aspettato lunga pezza invano, da una parte egli si vedeva tolto fare cosa che approfittasse, e dall’altra non gli pativa l’animo di tornarsene senza costrutto: tenendosi sempre prossimo alla selva per rintanarsi al bisogno si gittò su la strada dove mise le mani addosso sopra nove mule cariche di gallette, e per poco non fece preda troppo più importante, il fratello del re che in quel punto giungeva: fu salvo in grazia della stupenda velocità dei suoi cavalli. Verso le due ore del mattino il tenente colonnello Leali ebbe ordine di occupare col battaglione del 5.º reggimento l’altura dei Cappuccini, che trovò deserta. Emilio Dandolo con soli 40 uomini stracorso ad esplorare la città s’imbatte in due contadini, i quali lo accertano della partenza dei Napoletani; fattosi oltre scavalca le barricate, ed entra nella città abbandonata del pari; solo il nemico ci aveva lasciato i feriti e i prigionieri. Con questi esempi lo esercito napoletano non si educava a gesti eroici; e più tardi a piccolo urto noi lo vedemmo cedere; però prima di cotesta infamia fu chiaro in armi, e lo ridiverrà in breve, chè la colpa non ispetta a lui, bensì al codardo guidatore ed educatore. Di rado i Borboni di Napoli mostraronsi prodi come sovente feroci, chè ferocia e viltà paiono più presto sorelle che cugine, e Velletri se con Ferdinando vide una fuga vergognosa, lei fecero illustre i medesimi napoletani condotti da Carlo III quando colà percotendo gli austriaci salvarono le terre del regno dalle offese di cotesti barbari. Ferdinando fino al Dumo di Gaeta sostenne la parte di cui turpemente fugge; nel Duomo assunse quella di vincitore, e in rendimento di grazia per la ottenuta vittoria cantava il Tedeum; cosa da fare ridere i celicoli, se lassù in cielo queste nostre miserie toccassero; intanto i diari del governo annunziavano le milizie regie congiunte alle francesi combattere aspre battaglie; vinta Roma; con maschio valore averne i Napoletani espugnato due porte; nè diversamente era da aspettarsi da uomini, quali avevano promosso santo Ignazio da Loiola, stipite dei Gesuiti, al grado di perpetuo maresciallo di campo del re di Napoli! Chi poi non si sapeva consolare di cotesta vittoria era il Masina; sbuffava, e tempestava urlando, che a quel modo non si espugnano terre; se gli fosse riuscito avrebbe preso pel collo il re di Napoli e costrettolo a rientrare in Velletri, perchè se da re non aveva saputo difenderlo lo difendesse da uomo; ma intanto che col re non si poteva sfogare non dava pace ai compagni, e gli destava a calci, pur sempre sclamando: «e ora bella forza prendere Velletri! Sono stato in città e non vi è più nè manco l’odore di Napoletanni.» Adesso nelle mie note trovo scritto un caso che parmi ottimo a riferire; forse taluno osserverà, com›ei non si addica al sussiego della storia e di ciò non curo, però che io reputi degno della storia tutto quanto ammaestra la vita: Garibaldi a Velletri pose stanza nel medesimo palazzo dove albergò il re Ferdinando; colà adagiato sul letto mandò pel medico perchè gli visitasse l›affranta persona, e vedesse un po› se vi era verso di farlo soffrire meno: il medico venne, e gli ordinò il salasso, ma ei non ne volle sapere; allora un bagno, e a questo aderì: mentre per tanto ei se ne stava immerso nell›acqua fu udito dalla contigua stanza dare in iscoppio di riso, onde il trombetta Colonna che lo serviva da cameriere entrato nella stanza gli domandò: «che ci è da ridere Generale?» Ed egli: «rido perchè mi è caduta la camicia nel l›acqua, ed io l›ho figlia unica di madre vedova.» — «Aspetti un minuto, replicava il trombetta, vedremo di rimediarci.» Ed uscì fuori interrogando i presenti se potessero prestargli una camicia, ma quanti udi si trovavano nei medesimi piedi del Generale, eccettochè a loro la camicia non era cascata nell›acqua. Messo alle strette il giovane Colonna si accosta al dottore Ripari e si gli dice: «io ce lo avrei il ripiego, ma non mi attento.» Il dottore di rimando: «parla franco.» Allora il trombetta: «oh! la senta, nel convento degli Agostiniani a Palestrina nella camera di un frate, mi saltarono, sto per dire, da se nelle mani parecchie camicie, ed io per non fare il superbo con la Provvidenza me le riposi nello zaino, dove a tutt›oggi si trovano; però se le paresse cosa io ne darei una al Generale... — Certo, che la mi pare cosa da farsi, rispose il dottore.» — A quel modo Garibaldi potè adagiarsi nel letto di un re con la camicia di un frate! Vicende del mondo, bizzarrie di cervello secondo la indole italiana. Nella sala del palazzo Angelotti o Ancillotti a Velletri ci era un trono, tutto damasco ed oro, dove si assideva nella sua maestà il Cardinale legato: al dottore Ripari prese il capriccio di mettercisi a sedere fumando la pipa: il dottore notò che ci si stava come in qualunque altra seggiola ordinaria; forse peggio; ed io poi aggiungo, che l›azione che ci fece egli, certo fu la migliore di quante il Cardinale ce ne avesse mai fatte. E un›altra ventura non meno piacevole è questa: i ragazzi del Sacchi, co› feriti meno gravi stanziarono dentro un convento, distribuendoli soldatescamente, con le sentinelle, le veglie, e con gli altri tutti ordini, per bene: non andò oltra un›ora, che da quella parte fu udito uno schiamazzo da assordare la gente a un miglio di distanza: accorsero per vedere che disgrazia fosse accaduta; non trovarono sentinelle, le porte sprangate, più e più volte chiamarono, e in mezzo a quel diavolìo non fu possibile farsi sentire; atterrarono le porte, e rinvennero i ragazzi, non esclusi i feriti, a corrersi dietro urlando freneticamente inebriati di chiasso; li ripresero, e si misero a ridere, li minacciarono e risero più che mai: che pesci pigliare? Soldati erano di undici a sedici anni. Il Garibaldi inseguiva i Napoletani, ma per quanto affrettasse il cammino non li potè raggiungere; lo abbandonava il Rosselli richiamato a Roma, ed egli aggiuntasi la brigata Masi si gittò su la provincia di Frosinone a purgarla dalle bande dello Zucchi, uomo nel trentuno tenuto in pregio e più tardi comparso a prova cattivo soldato, e pessimo cittadino; il peggio è vivere troppo. Allo accostarsi dei nostri le bande dello Zucchi spulezzavano; i nostri dovunque mostravansi come liberatori venivano acclamati; forse erano coteste accoglienze sincere, ma siccome i popoli le profferiscono a tutti, così riportando l›effetto non giudichiamo lo affetto. Questo poi è sicuro, che i Napoletani non opposero resistenza nè ad Arce nè a Rocca di Arce: stavano in procinto di avviarsi a San Germano quando richiamati a Roma rifecero i passi per Frosinone, Anagni, e Valmontone. Anco questa questa impresa andò fallita perchè al Rosselli pareva zarosa troppo, dovendo assalire un nemico potente di artiglieria, e di cavalleria, e due cotanti più forte appoggiato alle fortezze di Capua, e di Gaeta; le sono saccenterie di uomini mediocri, che a sè, e ad altri danno ad intendere per sapienza; con cento volte meno di forze il Garibaldi più tardi mandava in fasci cotesto reame; e il Rosselli avrebbe dovuto dirmi se reputava più agevole tornarsi addietro per combattere con le forze della repubblica romana la repubblica francese. Il Triumvirato poi fra i due partiti o di richiamare tutte le milizie a Roma, o di spingerle tutte contro Napoli e› si apprese ad un terzo e fu il peggiore, le scisse in due senza saperne il perchè. Adesso prima di accostarci a Roma per non dipartircene più fino al fato supremo ci occorrerebbe per via di episodio favellare dei casi di Bologna e d Ancona; altri gli ha descritti, e non potendo io agiungere nulla di nuovo me ne passo; solo rilevo, ma importa poco (non già perchè non lo meriti, che anzi lo meriterebe moltissimo, ma sì perchè la gente non ci bada, e non ci ha badato mai) che ci furono minacce terribili del soldato Wimpfen, ed anco terribili fatti, ma questi meno acerbi di quelli, e furonci eziandio minacce del prete Bedini, ma blande così che parevano carezze; i fatti poi atrocissimi, pari in tutto alla mente di quel piissimo Pio IX, il quale come notai sul principio di questo libro, fuggendo a Gaeta pregava Dio pei suoi traviati figliuoli, chetornato poi faceva paternamente decapitare. Questo altro importa di più. Bologna con le armi alla gola intimata a sottoporsi al Papa risponde: no; messa la proposta a partito avanti al Municipio sopra quaranta, trentasette rispondono per la repubblica, tre pel papa; allora gli Austriaci adoperarono le armi, e il popolo le respinse con valore piuttosto stupendo, che raro: sopra gli altri si mostrarono feroci i volontari viennesi, e non fu male, chè su l›odio di razza versarono olio a renderlo più duraturo, e più intenso. Col giorno declinava il cuore al Municipio, chè la notte porta consiglio, ed egli pensava ai casi suoi; all›opposto cresceva nel popolo a cui i danni patiti erano argomento di vendicarli, non già d›invilirsi: mentre pertanto questo apparecchia le armi, quello manda deputati al campo per implorare armistizio, e l›ottiene per dodici ore. Nelle dodici ore furono per la parte dei patrizi e dei borghesi adoperate viltà, che nè manco dodici secoli basteranno a cancellare perocchè mirassero tutte ad abiettare l›animo del popolo; decorso il tempo dello armistizio invano, si riprese da una parte, e dall›altra il combattimento, poi lo cessarono fino al giorno undici maggio: nè ciò si attribuisca a cortesia, ma sì a voglia di accertare la vittoria, aspettando rinforzi, che di ora in ora accorrevano: per cui è uso a toccarne, nè manco in venti contro uno pargli stare sicuro. — Le arti della persuasione andate a vuoto si tenta altra via per tagliare i nervi al popolo: il Preside, ceduta ogni sua autorità al Municipio, fugge; il Municipio si dichiara incapace a sostenere la guerra, e nomina una commissione; non per questo il popolo ciondola; combatte più furibondo che mai, anzi per troppo ardore peggiora le cose sue; ostinazione pari non fu mai vista, chè l›Austriaco si ostina a vincere a suono di cannonate; così tra morti, ruine, ed incendi si dura a tutto il quindici; la mattina del 16 verso le sette il Municipio bandisce chiusa allo scampo ogni via, necessaria la capitolazione; per ira il popolo si strappa i capelli, ed urla vada piuttosto sossopra la terra; il nemico avvisato torna sul bombardare senza misericordia fino alle due: allora ci si mette di mezzo l›Opizzoni arcivescovo reverito meritamente, ed amato: il popolo da tanti lati conquiso reluttante piegò I Patrizi e i Borghesi dicevano altrui, e forse se ne persuasero anch›essi, almeno qualcheduno, che provvedevano alla pubblica utilità, e non pensavano che alla propria, operando a quel modo. Il popolo solo dura fino agli estremi o perchè abbia più cuore o perchè abbia meno quattrini; che se penuria di beni fa copia di anima maleaugurate sieno dovizie, e civiltà. Lasciando gli antichi esempi di Sagunto, e di Numanzia ai giorni nostri solo i Russi osarono ardere Mosca vetustissima capitale, e per giunta città santa, i Francesi all›opposto apersero le porte ai nemici collegati contro loro, e li festeggiarono. O questa nostra non è civiltà, o vuolsi abominare la civiltà, se inetta a partorire i gesti dei quali si palesa feconda la barbarie. Riportano gli storici un fatto, il quale io non ho potuto a posta mia verificare: però sopra la fede loro lo ripeto, pure notando, che ci si mostra in tutto conforme alla natura dei prelati romani: al maresciallo Wimpfen repugnante ad ammettere il quinto articolo della capitolazione, il quale portava non si molestassero gli abitanti di Bologna pe le cose fino a quel punto commesse, il Bendini consigliava accettasse tutto; entrato in città avrebbe fatto a modo suo; della quale indegna proposta incollerito il soldato rispose al prete: «questo sta bene a voi, non a me, uso ad osservare la fede data!» Ed Ancona eziandio oppose resistenza gagliarda, ma di Bologna minore assai, e senza misura più debole di quella, onde essa va illustre, opposta un dì alla gente tedesca condotta dallo Imperatore Federigo. Il Viceammiraglio Belvese profferiva a Livio Zambeccari comandante della piazza il sussidio delle armi francesi; accogliesse in città soli trecento soldati, gli consentisse inalberare sul forte la bandiera di Francia, e poi vedrebbe: forse sarebbe stato sagace mettere male biette fra l›Austria e la Francia perchè venissero a screzio tra loro, ma era ingeneroso, quindi a dritto il colonnello Zambeccari con parole acerbe disse al Francese, si vergognasse, stupida cosa nonmenochè iniqua parergli, che mentre i suoi ruinavano col ferro e col fuoco le sacre mura di Roma egli si profferisse a difendere quelle di Ancona: si allontanasse, Germani e Galli a noi un dì tutti servi, tutti di noi al presente nemici. — Il Francese scorbacchiato si partiva nè mai più si rivide. Gli Austriaci rinvenuto maggiore intoppo che non credevano, trassero milizie dalla Toscana come quelli a cui premono poco gli onori, moltissimo gli utili della vittoria. Incendiarono la polveriera di Santo Agostino con tale e tanto danno che dei prossimi fabbricati alcuni tracollarono, gli altri ne rimasero intronati: nel medesimo giorno ventotto case andarono in fiamme: tagliarono i condotti delle acque; affinchè un›oncia di cibo non s›insinuasse in città rigidamente vigilarono; l›ospedale dei feriti presero sopra tutti di mira; il cardinale arcivescovo mandava al Wimpfen per l›amore di Dio risparmiasse la città, fulminasse le fortezze; ma il soldato rispondeva attendesse a pregare pure Dio, quanto a lui dovere apportare al nemico il maggiore danno che potesse. Certo non erano gli Anconitani ridotti a vedere i guerrieri attriti dalla inedia giacersi per terra, e la razza delle donne che spartivano il latte fra il proprio figlio, e il soldato perchè si rinfrancasse e tornasse a pugnare non ci era più. Dopo ventisette giorni Ancona capitolava; le sue chiavi ingrommate di sangue portò un tedesco a Pio IX a Gaeta, e Pio IX ricevendo da mani tedesche coteste chiavi esclamava: «dopo Dio avere posto ogni sua fidanza nell›Austria.» Di Dio non so, nè credo, nell›Austria sì, annodati insieme da comuni interessi i quali di presente essendo venuti meno il Papa all›Austria sostituiva la Francia. A Roma diede Ancona il delitto, ne conservò il dominio co› tradimenti e con le morti; ed ora che la giustizia di Dio gliel›ha tolta di mano empie il mondo di guaiti: che il lupo urli per fame s›intende, per naturale istinto ha bisogno di sangue, ma che il prete smanii perchè gli manchino popoli a trucidare non s›intende: le vittime di sangue abolì Gesù Cristo. Anco la Spagna venne a dare del suo pugnale nel petto alla Libertà pensando, che trafitta in Italia, non sanguinasse per lei: dicono, che ciò si disponesse a fare per conseguire l›approvazione papale alla vendita dei beni ecclesiastici, perocchè da prima la cupidità persuase gli Spagnuoli a stenderci sopra le mani nulla curando se putissero di zolfo, adesso poi la beghineria loro li voleva ripurgati nell›acqua benedetta. Ottimo quanto essi operarono in Ispagna, ma udendo che l›Assemblea romana aveva fatto lo stesso a Roma la chiamarono ladra, e assassina. Se in queste dolenti pagine avesse luogo il riso noi vorremmo raccontare la intimazione grandiosa mandata alle autorità di Fiumicino consistenti in un ufficiale di sanità, ed in un piloto; quantunque nè anco questa valga a giocondarci, allorchè ci feriscono gli occhi queste parole sinistre d’iniqua verità, la repubblica romana «agonizzava sotto l’assalto della forza armata di quattro nazioni unite insieme per distruggerla.» La Spagna mandò novemila uomini, e quattrocento cavalli: il danno a noi fu poco perchè non presero parte ai fatti di armi, molto a loro se consideri la grave spesa, e l’erario stremato; moltissimo poi se poni mente che manomettevano insensatamente nelle nostre terre quei diritti, che con tanto travaglio, e tanto martirio in casa loro appena possono difendere dalla antica tirannide. Nella tragedia romana alla Spagna piacque la parte di Tersite; quella di Calcante sostenne la Francia. Il Garibaldi entra in Roma appena curato dai Triumviri; da memorie mie particolari so, che egli non possedeva tanto da comperarsi un cappello nuovo, e un paio di stivali: e’ fu Daverio che lo notò al Ripari intanto che questi gli medicava le contusioni e le ferite, onde senza tenergliene motto sostituirono al cappello sfondato, ed agli stivali, che seminavano le suola altri comperati dei loro denari, e il Generale se ne valse non addandosene, ovvero fingendo non addarsene. — Lui posero in misero albergo alle Carrozze, la legione alle Convertite; nè parve di buon’occhio lo vedessero a Roma, conciossiachè gli proponessero spedirlo subito ad Ancona, ed egli assentiva a patto fornissero di scarpe i suoi soldati; ai suoi calzari pensavano gli amici, a quelli dei soldati non poteva provvedere egli. La speranza degli accordi cullava i Triumviri i quali durante la tregua conobbero, ma non curarono, come contro le consuetudini militari i Francesi occupassero i luoghi onde rendere vana qualunque difesa; però essi presero la basilica di San Paolo, e Monte Mario; anco provvidero a stabilire un ponte traverso il Tevere, e poichè i nostri inviarono taluni ufficiali a speculare i Francesi dissero essere cosa da nulla e provvisoria fatta allo scopo unico di andare a raccogliere i disertori e gli ubriachi; e non era vero, però che tentato il luogo di un tratto ci costruirono un ponte di barche, e per arroto un fortino per difenderlo. Chiunque ha fiore di senno non vorrà biasimare o biasimare troppo i Francesi per essersi avvantaggiati della ignavia nostra, ma gli spregerà come meritano quando sappia, che da questo spingersi innanzi senza contrasto cavassero argomento per versarsi elogi a bocca di barile; molto più, che il Lesseps mandato per abbindolare i Triumviri li scongiurava a non inviare gente da coteste parti, o almanco a non inviarcele armate per timore di risse le quali arieno mandato all’aria lo accordo lì lì per conchiudersi. Ingannato il dabbene uomo ingannava. Quando la brigata Sauvan conquistò il Monte Mario ci ebbe a trovare pochi lavoratori inermi; a rimbeccare il malnato orgoglio di questa gente nemica del nome latino ci valgano le parole stesse del Lesseps all’Oudinot: «se a Monte Mario non rinveniste contrasto voi lo dovete al continuo assicurare che io faceva i magistrati non s’inalberassero dei vostri moti, i quali miravano all’unico intento di tutelare Roma dagli eserciti nemici accorrenti ai danni di lei; se ciò non era le campane della città avrebbero sonato a stormo e voi avreste veduto lo universo popolo, anzi perfino le donne armate di coltello correre ad assalirvi a Monte Mario.» Intanto che dal Lesseps si affermava una cosa e l’Oudinot la disdiceva, il Generale domandava a costui che intendesse insomma di fare, e l’altro gli rispondeva il primo luglio 1849 che avendo ordini di assalire la piazza non poteva cansarsene nè voleva, solo avrebbe differito a investirla fino a lunedì mattina per lo meno. I Romani dopo questa dichiarazione se ne dormivano fra due guanciali: forse si confidavano nella custodia delle oche tradizionali del Campidoglio. Adesso vuolsi toccare così di volo qual’era Roma quando fu combattuta dai Francesi dalla parte in cui si ridussero le offese, e le difese. Il Trastevere si congiunge col sinistro lato della città con tre ponti di pietra, e lo difende giù a valle il castello Santo Angiolo, che sporge in fuori quasi ferro di lancia; quinci un bastione va su su a destra, e chiude il monte Vaticano con un’angolo risentito, indi riavvalla fino alla porta Cavalleggieri, e di là da capo si erpica sul Gianicolo fino a porta San Pancrazio; indi si distende sopra parte del monte Verde, dove svoltolando a un tratto dechina giù fino alla porta Portese. Il bastione poi non ha fosso davanti a sè, non via coperta, non opere avanzate, per di dentro archi sopra archi; dai colli circostanti possono batterlo a livello pari, dal monte Mario a cavaliere. Da porta San Pancrazio esce una via, che dopo breve tratto si bipartisce, e un ramo piglia tra la villa chiamata Vascello di Francia, e quella Valentini, mentre l’altro passa fra la Villa Corsini, e il Parco Pamfili, ma poi entrambi mettono sopra la strada maestra di Civitavecchia. Dista il Parco Pamfili un tiro di cannone dalle mura di Roma, e quivi il nemico ha facoltà di ordinarsi riparato in battaglia; dove però avesse preso anco le ville Corsini e del Vascello acquista modo di approssimarsi al coperto e quasi non visto fino sotte le mura di Roma. — Se poi non gli riusciva impadronirsi di queste due ville allora nè manco gli avrebbe giovato il Parco Pamfili, dacchè da esse si tira a fittone in mezzo di quello; al contrario presi tutti questi casamenti, e rafforzatocisi dentro, quanti si affacciavano alla porta San Pancrazio tanti sarebbero iti al bersaglio, e quindi impossibile qualsivoglia sortita. Da questo lato fu nel campo francese deciso assalire Roma, e ciò pei conforti del generale Vaillant uomo di guerra eccellentissimo; certo in apparenza più arduo, ma insomma il contrario, però che dalla parte meridionale se riusciva più agevole abbattere le mura più difficile, anzi terribile inoltrarsi nella città irta tutta di tagliate condotte con maestria grande, e difese dal popolo non immemore della sua prisca fierezza. Quì poi aperta la breccia si saliva sul Gianicolo; donde, dopo incoronatolo di artiglierie, potevasi esortare il popolo a cedere alla onnipotenza della forza. Questo disegno prevalse all’altro del Leblanc, ed affermano altresì, il Vaillant lo portasse bello, e approvato dal Presidente della Repubblica; aggiungono ancora, che il Vaillant riconosciuta ben bene la città lo ebbe a reputare sempre più migliore. I Francesi, e lo stesso Vaillant scrissero avere prescelto questo lato alle offese per istudio di non ingiuriare i monumenti di Roma, e sono solite vanterie, onde i Francesi da per tutto il mondo vennero in fama di sazievoli: difatti da cotesto lato appunto occorrono i più gloriosi monumenti della Chiesa, e dell’arte; e nonchè essi andassero immuni da ingiuria furono guasti e malconci. Che dal riconoscimento della piazza fato dal Vaillant ne uscisse danno irreparabile non credo, tuttavia importa notare, ch’egli ci entrò sotto mentite spoglie di medico quando l’Oudinot, pei consigli del Lesseps mandava in dono ai Romani un carro pei feriti. Così tutto o buono, o reo dei francesi doveva cascarci addosso pernicioso, la generosità del Lesseps, come la perfidia dell’Oudinot: i Romani commossi ricambiavano cotesto dono da Sinone con altro carro carico di sigari, e davvero sarebbe grulleria dolercene, chè simili arguzie formano parte degli strattagemmi di guerra per cui il capitano piuttosto lodasi, che no. E poichè da quanto siamo venuti esponendo la villa Corsini si reputasse meritamente la chiave dei vari punti di offesa fuori della porta di San Pancrazio, così l’Oudinot attese ad occuparla ad ogni patto anco con frode: a questo modo gli uomini vulgari per procurarsi plauso fanno fango della nobile fame, barattandone l’apparenza con la sostanza. Costui pertanto dopo la promessa che non avrebbe investita la piazza prima del lunedi mattina, almeno, ch’era il 4 di giugno, proditoriamente nella notte del tre assaliva i posti avanzati fuori della porta San Pancrazio: vilipeso della sua perfidia da nostrani come da stranieri rispondeva: invano rinfacciarglisi la tradita fede; altro essere piazza, ed altro posti avanzati; ma un uomo riputato di guerra ebbe a dirgli, che i soldati di onore non devono farsi a pescare cotesti sottigliumi dagli azzeccagarbugli. Certo dal nemico bisogna sempre aspettarci ogni guaio peggiore; e chi si fida suo danno se poi si trova deluso: e nei tempi antichi, che risentivano tuttavia del salvatico non si stava tanto su lo spilluzzico, pure le immanità, e i tradimenti espressi si narrano non si commendano: ai tempi nostri spettava ai Francesi, i quali pretendono a un punto il vanto di civili, e i vantaggi sanguinosi della barbarie, non solo pareggiare, ma vincere le truculenze tartare, e scitiche. Se da un lato non si scusa cui si lasciava prendere alla sprovvista, dall’altro poi vituperiamo la frode del Francese tanto più rea quanto che commessa da popolo gagliardissimo su le armi contro un popolo debolissimo ed innocente. Prima del giorno il chirurgo Ripari stava medicando le ferite al buon Garibaldi il quale nel tumulto della battaglia se l’era dimenticate, ma ora posando, esse si ricordavano di lui, quando il cannone si fece sentire, ond’ei rimase sospeso con le fasce in mano: ecco allo improvviso salta in mezzo della stanza il pro’ Daverio esclamando: «su per Dio!» senonchè visto lo stato del Generale soggiunse: «dunque finisci di medicarti, e tu fa presto e vieni via; intanto io vado.» «Va pure, rispose il Garibaldi, ma qui vi è la bandiera, e bisogna provvedere a cui darla, e per cui mandarla; da una parte e dall’altra per questa operazione ci vogliono ufficiali.» «La è presto fatta, mandala per Ripari al Masina.» E il Ripari come gli ordinarono fece, ed avendo trovato il Masina a dormire lo tirò per un piede gridando: «come! si sparano cannonate contro ai Francesi e tu dormi?» — «Mo’! esclamava il Masina, io non sentiva niente» e calzati gli stivali scappò via con le altre vesti in mano abbigliandosi in fretta e in furia per le scale, e per la strada intantochè correva. Era prima del giorno, nè la legione italiana del Garibaldi dormiva; ella all’opposto vegliava facendo cosa che nè anco in mille anni la s’indovinerebbe se io non la palesassi ad un tratto: cantava la messa! Ed ecco come; appena tornata da Anagni la stanziarono nel Convento delle Convertite in prossimità dei Condotti; eranci bensì delle monache, le quali nè furono mandate via, nè se ne vollero andare, e tutta volta il luogo capacissimo albergava comodamente milleseicento uomini e più: i giovani baldanzosi, ed anco protervi presero a scorrazzare pei luoghi donde si erano ritirate per paura le donne, e trovarono vaghe logge, cortili, camerette discrete, lettere erotiche, ed anco altri arnesi del regno ampio di amore che qui non importa ricordare, e molto meno descrivere: le donne rimaste poi così non osservarono la clausura, che prima una, poi due, all’ultimo la più parte non comparissero fuori, come costumano le rane negli acquatrini, nè già smarrite, o fuggenti i rimorchi, o sogguardanti sottecchi, mai no; al contrario dagli occhi fermi mandavano faville, sicuramente di amore non divino; pallide però tutte, e con un cerchio intorno ai cigli nero per modo che pareva fatto con un carbone spento cavato di su l’ara a Venere pandemia; lo incesso poi, e gli atti procaci a bastanza le palesavano addestrate nella palestra di amore, e «Generose così come una madre Di dieci eroi. La gioventù irrequieta frugando i luoghi appunto in cotesta notte era capitata nella Chiesa del Convento dove avendo rinvenuti ammitti, camici, pianete, piviali, dalmatiche, ed altre di questa maniera sacerdotali vesti, se ne abbigliò e fatta prete volle dire la messa; nè mancò il suo bravo organo, sebbene pareva che sonasse piuttosto a stormo, che a laudi; chi seduto nei confessionali confessava, chi battezzava, ma il battezzato talora troppo bagnato rendeva al battezziere la sua acqua co’ cambi; le candele, e i ceri quanti ve n’erano accesi, canti vari moltiplici nè sacri veramente tutti, nè tutti musicati al medesimo modo, quindi un baccano accompagnato da risa, urli, e fischi, ed anco da qualche infrazione al primo comandamento del Decalogo; a compire la confusione nuvole fitte ingombravano ogni cosa mandate fuori dai turiboli, e dai bracieri dove a piene mani gettavano i sacri timiami. Allo improvviso il tuono del cannone ruppe cotesti saturnali, quasi bacchetta di mago che sciolga gl’incanti; spogliano a furia i mal vestiti panni, ed assunta in breve sembianza, e atteggiamento soldatesco corrono colà dove li chiama il pericolo della Patria. Andarono, ma ormai per sorpresa erano cadute in mano dei Francesi le ville Pamfili, Corsini, e Valentini; le due compagnie che presidiavano la villa Pamfili sopraffatte dal numero riboccante caddero in potestà altrui, tuttavia resistendo sicchè il Mellara che le comandava offeso da mortale ferita fu raccolto da terra sfidato di vivere; le altre compagnie considerando di nulla potere divise si raccolsero nella villa del Vascello. Il generale supremo Rosselli avendo preposto alla difesa della porta San Pancrazio il Garibaldi, questi mena la sua legione alla porta Cavalleggieri nello intento di minacciare di fianco i Francesi, e sloggiarli dalla posizione presa: facile comprendere come se non si fosse liberata, la difesa di Roma più che altro sarebbe stata agonia: di qui pertanto la smania dei Francesi di occuparla anco con la frode, e la pertinacia del Garibaldi a volerla riconquistare. Egli però bentosto si avvisava sarebbe riuscita la immaginata mossa indarno avendo ormai i Francesi raggiunto lo scopo al quale miravano, e quinci agevole per loro percotere chiunque arrivasse dalla parte dei prati; per la qual cosa ei riconduce la legione dalla porta Cavalleggieri a quella San Pancrazio. Colà uno dopo l’altro arrivarono a ingrossarlo i Dragoni, gli Scolari, gli Emigrati, i Finanzieri, ed altri; insomma in tutto un tremila persone: con queste milizie, dopo presidiato le mura, e le prossime case si spingeva ad assaltare la villa Corsini. Che dirò io di questo fatto di guerra, che altri non abbia già detto troppo meglio di me: solo un’ufficio mi avanza ma sopra tutti è sacro aggiungere qualche notizia di alcun gesto glorioso di cui andò smarrita la memoria; e dissotterrare qualche nome, che fu sepolto col corpo di cui lo portava per esporlo alla lode e alla pietà dei posteri. La villa Corsini disposta ai sollazzi della vita, si trovò eziandio (così volle fortuna), mirabilmente acconcia alle difese guerresche; forte il palazzo situato in alto dove si arriva per vari avvolgimenti di boschetti spessissimi seminati su di un terreno rotto da viali profondi; intorno intorno circonda la villa un’altissimo muro. Poteva anzi doveva rompersi il muro in più parti e penetrarvi per quelle; ma non fecero così, sempre ostinati a procedere per la via diritta, e questo a parere dei savi si giudica il primo errore; l’altro più grave fu di non assalire grosso occupando prima co’ bersaglieri i boschi, le siepi, ed ogni altro riparo dentro la villa come ogni prominenza fuori di quella, e quinci senza posa bersagliare i Francesi, finchè colta la occasione fosse dato avanzarsi di fronte con lo sforzo dell’arme: invece mandaronsi manipoli dopo manipoli come si caccia il grano sotto la mola perchè lo macini: di ciò appuntano il Garibaldi, il quale unico nelle guerre guerreggiate sembra non sappia fare buona prova, quando si tratti di movere poderose falangi di gente armata. A forza umana non era dato resistere allo impeto col quale si avventarono i legionari del Garibaldi; urtati a furia di baionetta i Francesi ebbero a rovesciarsi dandosi a fuga precipitosa verso la villa; ma il riparo di questa nè anco giovava, che fin là dentro gl’inseguivano, e ammazzavano; nè già le sole fanterie ma sì anco la stessa cavalleria capitanata da Angiolo Masina, la quale salita a sua posta al primo piano si dette a imperversare per camere e per sale, e quanti Francesi incontrava tanti metteva a filo di spada. Ajaci tutti in questo sforzo di guerra, ma sopra gli altri stupendi Daverio, Sacchi, Morocchetti, e Bixio; vi rimase ferito non morto il Masina, che andato a medicarsi tornò più tardi a pigliare parte ai nuovi assalti, imperciocchè in cotesta giornata non meno di otto volte fossero presi e perduti i posti messi dinanzi, quasi a premio della battaglia: nel terzo o nel quarto degli sforzi per isnidiare i Francesi dal Casino dei Quattro Venti il buon Masina mentre cavalcando forte arriva circa a mezzo il viale della villa Corsini con la voce e col gesto animando la gente a prove di valore estremo ecco una palla lo colpisce in mezzo al cuore, rasente non so quale croce riportata da lui nelle guerre di Spagna; egli precipitava giù da cavallo boccone, a braccia aperte senza nè un grido, nè un gemito; i suoi si fecero a ricuperarne la salma, contrastarono i Francesi, donde nacque una terribile pugna sul morto, forse quale non fu altrettanta sul corpo di Patroclo; ma con fortuna diversa, perchè i nostri non poterono avere il Masina, che giacque insepolto, miserando spettacolo, nella villa Corsini, finchè durò la difesa di Roma. Angiolo Masina fu da Bologna, e con la sua morte la Italia perdeva una delle prime sue glorie; di aspetto giocondo, d’inclita stirpe, provvisto di largo censo, di mente arguta, e comecchè di cuore tenerissimo feroce in guerra per modo da comparire piuttosto temerario, che animoso soldato intero così nella virtù come nei vizi; propenso alla buona cera, ma se non si poteva avere altro, che pane secco, egli con questo lietissimo cenava: amava molto, non già un’oggetto unico, bensì il suo amore diffondevasi sopra la universa parte femminea del genere umano. Il drappello dei cavalieri, che comandava egli vestì, e incavallò a proprie spese, ed erano tutti giovani di persona aitanti, di una terra stessa, e battaglieri al pari del loro capitano. Il primo assalto come il maroso iemale che dopo avere attinto il sommo dello scoglio, quivi si rompe, e storna gorgogliante, era respinto dai Francesi, e ne rimasero i nostri lacerati orribilmente. Qui rimase ferito il Bixio, che trasportato a braccia fuori della mischia urlava a squarcia gola: «scrivete a mio fratello a Parigi, che una palla francese mi ha ferito all’anguinaglia,» e non si sa che cosa volesse dire; forse fidava il suo fratello avesse maggior credito nell’assemblea di quello, che veramente possedeva, o forse immaginava il popolo parigino più facile ad infiammarsi di quello ch’ei sia. Il popolo francese, parigino o no per cotesto quarto di ora dormiva, e i quarti di ora dei popoli durano secoli. E tu Mameli Tirteo, e Köerner italiano in questo combattimento riportasti la ferita, che inciprignendo ti tolse all’ammirazione della gioventù italica, allo amore delle Muse, e al culto della Libertà: la nemica palla ti colse sul terzo superiore della tibia vicino all’articolazione del ginocchio sinistro nè parve grave sicchè ti forniva argomento di motteggio: ora sei scomparso, e le notti di Genova proviamo più buie perchè uno dei suoi astri è tramontato per sempre; l’altro tengono lontano da te l’ira dei tiranni, e la viltà del popolo. Al contrario del Mameli, Girolamo Indunio quel pittore, che Dio ha concesso per celebrare le geste del Garibaldi col pennello, intantochè si aspetta il poeta che deve celebrarle col canto, in questi assalti più e più volte trafitto era lasciato per morto a terra; di lui si prese pensiero Enrico Guastalla il quale lo fece removere di costà per dargli onorevole sepoltura, nondimanco, comecchè gli contassero sopra la persona bene ventidue ferite sopravvisse, e tuttora vive decoro della democrazia e dell’arte. Ebbe altresì sfracellata la destra in cotesto combattimento il Giorgeri di Massa o di Carrara, leggiadro di volto, di persona grande e di cuore anco più; mentr’egli afferrata la baionetta di un soldato francese lotta con lui, questi gli spara a brucia pelo il moschetto contro, donde gli venne lacera la mano: come a Dio piacque guariva ma per incappare in ventura peggiore; rimasto a Roma i tribunali del mite Pontefice lo condannarono in galera a vita per avere, così dichiarava la Sentenza, contribuito moralmente alla morte di certi perfidissimi, i quali comecchè italiani furono colti fuori di Roma a tendere agguati per trucidare italiani: corse voce fossero gesuiti; il popolo inferocito avventatosi li scannò e gittò nel fiume, il Giorgieri desideroso di salvarli, trovandosi separato da loro da molta mano di popolo, tentava fendere la folla, ma gli tornò ogni sforzo invano: fu avvertito in quell’atto, che interpretato poi dai giudici cortesi eccitamento alla strage gli fruttava la galera a vita: adesso, se male non mi appongo, regge non so quale comando di piazza. Dei nostri scrittori chi afferma che i Francesi non adoperassero cannoni in cotesta giornata, chi sì e dice due, e nomina l’ufficiale che li pose in batteria, ed indica il luogo; dalla parte di Roma si adoperarono certo, e la eccellenza degli artiglieri nostri se non potè fare fortunato cotesto giorno certo lo rese meno deplorabile assai. Imprevidenza assai ripresa dai pratici dell’arte fu, come si disse, quella di non abbattere i muri di cinta delle ville, però che non le volendo distruggere, nè le volendo, come si doveva, munire, era mestieri renderne agevole l’assalto caso mai prese dal nemico si avesse quinci nella prima puntaglia a sloggiare. Più degli assalti, micidiali le ritirate, dacchè nei primi i nostri sboccati appena dai cancelli si sperperassero per la villa, mentre nelle seconde si stipassero all’uscita, onde un colpo solo uccideva talvolta parecchi; cadevano boccone con le mani innanzi abbrancando la terra; da prima fu creduto che o per soverchia fretta, ovvero per impedimenti paratisi loro fra i piedi stramazzassero, ma il gemere profondo, lo storcersi angoscioso, e la rigida immobilità sorvegnente assai chiaro chiarivano non si sarebbero rilevati più mai. Il numero soperchiante dei Francesi, l’arte con la quale essi combattevano, e le armi elette avrebbero in quel giorno nefasto fatto correre fiume del nostro sangue se il trarre mirabile delle artiglierie del Calandrelli non gli avesse sfolgorati irrequieto e mortale. Alla legione, che in compagnia degli altri combattenti sostenne prima gli assalti sottentravano i Lombardi del Manara. Una compagnia di bersaglieri fu mandata a pigliare certo casino trascurato fin lì, e l’occupò agevolmente, senonchè avendo scorto poco dopo come fitti, e ordinati venissero contro a loro i Francesi sbigottirono come se fossero stati condotti al macello; volgendo gli occhi scorrucciati verso i loro capitani quasi per rimproverarli di avergli cimentati a cotesto sbaraglio li videro fermi come statue di marmo; per la qual cosa vinti da ira, e da paura, urlando come vesani si rifuggirono verso il Vascello; i Capitani Manara, Ferrari, Rosaguti, ed Hoffstetter commossi profondamente cacciandosi tra loro ne trattenevano la fuga, compito che riuscì loro più agevole per la sopravvegnenza di altre due compagnie una comandata dal Dandolo, l’altra dal Rozat. È da credersi che il Manara col sangue acceso per cotesto brutto scompiglio ora avventasse i suoi soldati a gesto, che si potrebbe giudicare piuttosto disperato che magnanimo; avanti! avanti! gridava il feroce, e primo di tutti entra nel viale di villa Corsini; precauzioni, e ripari egli sdegna e con lui gli uffiziali, che splendidi di virile bellezza, e di vesti dorate senza piegare collo se ne stanno ritti e scoperti in mezzo al viale. Qui cadde Enrico Dandolo, qui furono feriti Signorini, Mangini ed altri parecchi, ma gli altri non si mossero per la quale cosa ai soldati i quali pure dietro ai vasi di limoni, o ai piedistalli, o ai pilastri si schermivano prese talento di mostrarsi non da meno dei capitani; la paura della vergogna aveva superato in essi la paura della morte. E ci hanno i gaudi della battaglia, certaminis gaudia, e questo si capisce; ci hanno altresì i gaudi del morire, e questo s’intende meno, tuttavia è così; nè solo nel più forte sesso, ma eziandio nel debole, e di ciò porgono testimonianza le fanciulle milesie prese dal furore di uccidersi; e non fu trovato rimedio a cotesta insania, fuorchè minacciando, che il corpo della violenta contro se medesima sarebbe stato esposto ignudo al ludibrio del vulgo. Adesso cade Enrico Dandolo antica stirpe non degenerata; a lui nocque la troppa fidanza; imperciocchè avendo visto una compagnia di Francesi sbucare da un lato del palazzo Corsini si mise in procinto di combatterla, ma si trattenne; e la cagione ne fu il capitano francese, il quale sollevata la sciabola gridava con parole italiane: siamo amici! Il Dandolo e i suoi allora accostansi come chi sa e desidera avere amplesso fraterno; e l’amplesso fraterno fu che il capitano di Francia di un tratto saltato da parte ordinava ai suoi scaricassero l’arme a trenta passi di distanza: un terzo e più della compagnia Dandolo giacque spenta, degli ufficiali Ludovico Mancini ebbe forata una coscia, alcuni soldati accorsi a sollevarlo riportarono gravi ferite, e lo stesso soccorso fu da capo trapassato nel braccio; Silva lamentò una mano lacera, a Colomba toccava una palla in bocca che stracciata tutta la carne gli uscì dalla guancia. Al Dandolo una palla traditora trapassò il corpo da petto ai reni: i suoi rincalzati dai Francesi,lasciaronlo solo; ma solo non si poteva dire perchè rimase al morente il Morosini gentile sangue latino. Dopo breve intervallo i soldati nostri ripresero animo irruppero a corpo perduto contro i Francesi: allora due pietosi si fecero a mettere in salvo il Dandolo e il Morosini; questi come a fortuna piacque illeso, l’altro ahimè! boccheggiante nella morte. Dopo breve egli periva bello, elegante di forme, di costumi santissimi; non contava ancora ventidue anni. Percuote la mente di pietà la trepidazione del fratello dello spento capitano Emilio Dandolo, il quale fermo sotto l’arme non poteva sovvenire, nè andare in traccia del diletto capo; ne domandava ai feriti i quali gli passavano vicino, e il Mancini gli disse: «tuo fratello....» e più non potè dire; più aperto ma sempre dolorosamente incerto un Bersagliere; «or’ora cadde per ferita mortale.» Il dabbene giovane trafitta l’anima senza potere porgere aita al pericolante, senza potergli dare l’ultimo bacio, e chiudergli gli occhi con passi concitati camminava su e giù di fronte alla compagnia vinto da ira, da pietà, e da dolore, mordendo la canna di una pistola per impedire le lacrime che traboccassero. Mentre durava il giovane in cotesta agonia, ecco sopraggiungergli addosso il Garibaldi e dirgli: «andate con 20 dei più valorosi dei vostri a pigliare con la baionetta la villa Corsini.» Al Dandolo parve sognare; arduo conoscere la cagione dello spietato comando; forse, nonostante la calma olimpica che ostentava il Garibaldi, anche a lui la febbre avvampava il sangue, o forse conoscendo come da tutte coteste morti non potesse uscirne altro bene eccetto quello di mostrare al mondo la virtù nostra disegnasse fargli toccare con mano, che molti anco adesso la Italia novera dentro a se Leonidi alle Termopili, e Fabi a Cremera. Cotesto era comando disperato da darsi ad anima disperata, e tale si sentiva in quel punto Emilio Dandolo; trovò i venti perduti, e andò con essi, correndo tutti, a capo basso, senza contare chi cascava, arrivati sotto il palazzo erano dodici; di faccia fulminavano i Francesi da tutte le finestre del palazzo, dietro le spalle mulinava un turbinio di mitraglia dei nostri cannoni, e’ fu mestieri uscire di là se pure non volevano coi frantumi delle proprie membra lacerate seminare il terreno; nel ritirarsi una medesima palla ferì nella stessa parte, la coscia, il Signoroni, e il Dandolo; di ventuno, al Vascello tornarono sei. Trasportato ferito all’ospedale volante l’amoroso fratello se ne prevale per andare attorno zoppicando in mezzo a dolori atrocissimi in cerca del fratello, e in ogni giacente appuntava l’occhio bramoso per riconoscere le dilette sembianze, e già gli era vicino, e stava per iscoprirlo quando un pietoso fu pronto a celarglielo: il Manara vedendo quello strazio fece cuore di ferro, onde cessasse, e chiamato col cenno della mano il Dandolo lo trasse in disparte; quivi strettegli ambe le mani gli disse: «non travagliarti più a cercare tuo fratello... io ti farò da fratello!» Trasportavano da capo il Dandolo all’ospedale e questa volta più morto, che vivo. Non io per certo mi stancherò ricordare i fatti, e i detti dei nostri eroi nella memorabile giornata, bensì lamenterò sempre che tutti non mi sieno potuti giungere; per la quale cosa mi è tolto consolare coteste anime di laudi, e di pianto. Il sergente Morfini lombardo giovane di 18 anni con la mano squarciata da un colpo di baionetta, dopo messa un po’ di fasciatura alla ferita, torna in battaglia. «Che fai tu qui? Gli diceva il Manara, ferito come sei non giovi a nulla.» Ed egli replicava: «lasciatemi stare; alla peggio farò numero.» Rimase in fatti, e fu visto sempre combattere fra i primi, finchè colpito nella testa cadde e spirò. Si rinnuova il caso di Eurialo e Niso nel Bronzetti tenente, il quale sapendo il suo soldato di servizio giacersi morto presso la villa Corsini caduta in potestà del nemico, tolti seco quattro uomini risoluti di mettersi allo sbaraglio, cacciatisi fra mezzo le scolte francesi, rinvennero il cadavere, se lo recarono su le braccia e per ventura che sa di prodigio, trattolo in salvo gli diedero pietosa sepoltura. Peggior sorte, non però meno degna di onorata ricordanza toccò al soldato della Longa milanese, il quale non volle lasciare in balìa dei Francesi irruenti il suo caporale Fiorani cadutogli allato, caricatoselo sopra le spalle mentre con lenti passi procura scansarsi dalla mischia, colto di palla nel petto stramazza in un fascio col cadavere del caporale per non rilevarsi più. Tanto infiammava i giovani petti l’ardore santissimo di Patria, che la più parte dei feriti non mandava lamento, e taluni mordendo fazzoletto, o panno, e per fino le proprie carni s’industriavano attutirlo, affinchè i compagni che li surrogavano nella lotta mortale non ne ricavassero cagione di sgomento. — Fuvvi un’ufficiale, ma non ne trovo il nome, che trasportato su di una barella all’ospedale col ventre orribilmente lacero, strappava il fazzoletto dalla ferita e gittandolo ai compagni rimasti, con forte voce gridava: «addio, rimanga con voi questo saluto di sangue.» Un altro giovane e bello, ferito nel costato da una palla di archibugio, seduto anch’egli su la barella, scoprivasi la ferita dalla quale detergeva il sangue di mano in mano che colava, onde pareva una rosetta vermiglia, sicchè additandola, e amaramente ridendo diceva: «i nostri amici di Francia e’ mi hanno fatto ufficiale della legione di onore.» Fu visto un’altro ufficiale che fracassati il piede, e il braccio destri, tuttavia con la sinistra agitava il suo berretto messo sopra la punta della spada animando i combattenti coi gridi: «viva la Repubblica! viva la Italia!» Di cuore invincibilmente giocondo porgono testimonianza le parole profferite da certo soldato bergamasco nell’atto, che gli amputavano la destra: «manco male, che mi rimane quest’altra, (e sollevava la sinistra), per battermi, e per bere.» Il colonnello Morrocchetti ferito nel braccio, ci si avvolgeva intorno un fazzoletto, e co’ denti il legava, nè per quanto fu lunga la giornata si posò un momento da battagliare. Parlammo del Bixio, e quello, ch’ei dicesse ferito, riferimmo; però leggo nelle memorie che mi vennero fornite, che alle parole aggiunse atti, che tacere è bello, imperciocchè la mia indole non consenta andare in visibilio, come sembra che accada a Vittore Ugo, di cenni, o di detti all’usanza del Cambronne della vecchia guardia; ma mi sento sforzato a notare le parole meste, e solenni di rassegnazione e di grandezza con le quali conchiudeva la sedicenne vita il Savoia da Mantova: «guarda me dispiass soltant a meurar perchè vedi miga l’Italia libera.» Corrono diciassette anni dopo quella morte e noi proseguiamo affranti cotesto fine supremo del viver nostro, che ogni giorno più ci sfuma davanti; miserrimo fato è il nostro, prima avemmo gli uomini e ci mancarono le cose, oggi le cose sovvengono, e ci fanno difetto gli uomini. Tra i morti trovo Sivori, e Canepa ufficiali di Montevideo Genovesi, Borelli di Mantova, Rasori di Soresina, Falgari di Romagna; Boldrini Cesare, in cui non sapevi che cosa tu avessi a lodare maggiormente o la umanità, o la scienza, o lo amore smisurato verso la Italia, vi rimase ferito e poichè egli aveva votato la sua vita alla Patria sciolse il voto a Maddaloni undici anni più tardi combattendo con fortuna migliore per la Italia, più dolente per lui. Gruppi di soldato a Montevideo diventato capitano a Roma stramazzò ferito, ma potè rilevarsi e vivere, e così pure Bassano Bignami di Mantova sempre presente a tutte le patrie battaglie finchè si spense rifinito dalle fatiche nel 1859 formando parte dei Cacciatori delle Alpi. Allorchè il pro’ Daverio tentando un disperato assalto alla villa Corsini con una mano di eroi, rimase spento a mezzo del viale con una palla in mezzo del petto, cadde l’animo un’altra volta ai soldati, e sgomentatisi si volsero con frettolosi passi verso la porta San Pancrazio, la quale cosa notata dal Garibaldi via precorrendo si pose fra la porta, ed i fuggenti a cui quando furono vicini favellò con parole vibrate: «voi avete sbagliato strada; non è per di qua, che si va a combattere il nemico.» A mo’, che la lampada per olio nuovamente infuso si ravviva, per coteste parole ripresero ardire i soldati, e quantunque laceri, e stanchi tornarono a perigliarsi nella lotta mortale. Anco Angiolo Bassini non una ma due volte si avventò seguito da pochi ad assaltare il Casino dei Quattro Venti; la prima volta rimasto solo indietreggiò lento fra mezzo ad una grandine di palle; poco dopo avendo una granata appreso fuoco al Casino egli volle mettersi da capo alla ventura, e lo prese cacciandone via i Francesi con la baionetta nei reni, e forse sarebbe riuscito a tenerci fermo il piede, se in quel punto cadendo per gravissima percossa ricevuta non avesse, per così dire, con la sua assenza levata l’anima ai soldati; nè a restituirli alla fiducia di vincere valse il Manara che sopraggiunto in soccorso co’ suoi Lombardi prese altri posti, e non li potè tenere, chè i Francesi con numero quadruplicato di gente fresca corsero a riscoterli. Qui mi vo› pigliare licenza, che so che ai miei lettori parrà dovere, di stendermi alquanto nel racconto di Luigi Binda da Cremona figlio unico di padre dovizioso: costui amava di profondissimo affetto una fanciulla popolesca onesta nonmenochè bella, nè il padre suo consentendogliela a sposa egli menava vita desolata; finalmente il padre, considerando come tentata ogni via non fosse riuscito a distorlo da cotesto suo decennale amore, accolse la fanciulla, e la benedisse per figlia: pochi mesi il giovane Binda andò lieto nei santissimi amplessi, chè rotta la guerra all›Austria dopo stato alquanto in forse tra la sposa, e la Patria, l›amor della Patria vinse, e versandosi su i campi di battaglia egli combattè con l›ardore cui non seppe vincere lo smisurato affetto dell›amata donna: tuttavia si consolava della lontananza sempre di lei favellando, lei in mezzo ai pericoli invocando, e di tratto in tratto tra la furia del fuoco traendosi dal petto i capelli di lei baciandoli, e ribaciandoli. A Rieti lo fulminò la nuova della morte della sposa diletta, non pianse, non disse motto, ma gli amici che lo videro orribilmente mutarsi in volto procurarono badarlo attentissimi, onde per ventura furono a tempo a trattenerlo quando allo improvviso egli volse contro di sè le mani violente. Lo consolarono, e il forte uomo si consolò da sè, sentendo come ad ogni minuto gli si parava la occasione dinanzi di morire per la Patria; da per tutto ei fu, in ogni parte combattè sempre nella ferocia pacato, vigile, e previdente così, che la milizia gli conferiva il nome di perfetto soldato. La storia dolente della morte della amata sua donna è questa; ella usava la mattina per tempo recarsi in chiesa a supplicare Dio per la conservazione del carissimo capo, l’adocchiò un ufficiale austriaco, e prese a perseguitarla per libidine assai, ma più per istrazio sapendola moglie di un ribelle; non valse alla meschina di starsi con riguardi, non di fuggire via un giorno, ch’egli in agguato la colse; nello androne della casa la raggiunse, la mano le pose fra i capelli, ed ogni sforzo tentò di brutale violenza, ma la valorosa si difendeva adoperandoci anco i denti, finchè la gente accorrendo tratta dal rumore del tumulto, costrinse il malnato a lasciare la donna non prima però di averla pesta co’ piedi sul petto così, ch’ella infermatasi gravemente non ci lasciasse la vita. Il Binda difese prima la villa Panfili, il tre di Giugno in una delle volte, che dopo respinti i Francesi, occupammo il Casino dei Quattro Venti lo preposero a tenerlo contro gli assalti nemici; toccò a lui la parte che prospetta Roma; i Francesi tornati tumidi e grossi instavano con tutte le forze a girare dietro le spalle dei nostri attelati davanti il palazzo: orribile lotta fu quella, la compagnia del Binda ne rimase quasi disfatta, gli ufficiali tutti morti o feriti, ma respinse sempre gli assalitori; lui pure colse una palla nella gamba sinistra, che lo rese inabile alla milizia. Ora se viva ignoro: possano queste inculte parole, se morto, cadere come corona di gloria sopra la sua tomba, se vivo di giusta mercede, e di consolazione all’animo tribolato di lui. Qui in Toscana si formò già una legione di Lombardi, cui il governo provvisorio, come seppe meglio provvide: le cose di Toscana andate a male ella divisa in due corpi uno dei quali capitanato dal Mezzacapo, e l’altro dal Medici s’incamminò verso Roma; non però tutti furono generosi i Lombardi, al contrario gl’irridevano per cotesto partito l’Allievi, e il Griffini, ed altri che io non nomino poco prima avventati, allora rimessi, un po’ più tardi servili, secondochè menava il vento, ed essi ci trovavano il conto. Altri narrò, sebbene non sia peranche palese lo scritto, le vicende, i rischi, e i patimenti di cotesta schiera di giovani ammirandi; basti per ora dirne tanto, che il generale Mezzacapo un dì volle metterla a prova di coraggio, e spediti innanzi gli stracorridori procurò gli riferissero circondarli da ogni lato i Francesi, chiusa allo scampo ogni via, o cedere le armi o morire. Morire, gridarono i giovani, e si disposero in battaglia per combattere fino agli estremi: sotto la sferza di cocentissimo sole gli fece durare per molte ore il Generale schierati su l’arme; all’ultimo assai commendatili dell’animo disposto concesse loro riposo. — Pel comune dei soldati più dura prova quest’altra, ma pei nostri gentilissimi e’ mi sembra si potesse risparmiare: il Generale per via dei comandanti di compagnia annunziò finiti i danari della cassa, non sapere come sopperire alle spese, vivere di accatto male, di rapina peggio: chiunque si trovasse a possedere danaro lo mettesse fuori accomodandone il corpo: quei poveri giovani appena udito lo annunzio in un attimo si rovesciarono le tasche e chi diede cinque chi cento franchi: appena raccolto il danaro fu reso; rimase la memoria del fatto, ed io lo narro a lode e ad esempio. Ora a questi toccò la volta di entrare in battaglia, sebbene ormai volgesse il giorno a vespero: prima di uscire di porta San Pancrazio sostarono alquanto per riordinarsi: cotesto fu un duro quarto di ora, imperciocchè sfilasse davanti alla presenza loro la processione dei feriti trasportati all’ospedale; e pure il fiero spettacolo, che avrebbe sgagliardito i meglio animosi, non isbigottì i giovani i quali udirono il comando di accorrere alla mischia lieti così come li chiamassero a pigliar parte ai balli; appena usciti ecco accorrere loro il Garibaldi quasi volando; di un tratto fermato il cavallo egli s’inchina loro, e con quella sua voce, che vibra come metallo battuto, stupendo di tranquillità dice loro: «avanti bravi giovani, vinceremo anche oggi.» Le grida di viva Garibaldi, viva la repubblica furono il saluto col quale essi accolsero le palle che lanciarono contro di loro i Francesi. — La prima schiera appena fuori della porta venne spartita, e parte andò ad occupare certa casa di fianco al Casino dei Quattro Venti, la quale poi ebbe nome di Casa bruciata, parte di rinforzo al Vascello dove dopo avere respinto i Cacciatori francesi, si ricongiunsero con l’altra della Casa bruciata; qui sostennero un battagliare tremendo, e comecchè con ogni precauzione si riparassero tanto non poterono schermirsi, che parecchi di loro non giacessero morti o feriti; così durarono fino a sera, quando Giacomo Medici pensando, che non ci si sarebbe potuto sostenere ordinò si raccogliesse nelle stanze terrene di parecchia paglia per abbruciarla nel punto in cui l’avessero dovuta abbandonare; ma fortuna volle che di un tratto andasse tutta in fiamme: al mirare cotesto incendio unanime si levò il grido: «i nostri morti!» E moveva da pietà d’impedire, che le amate reliquie andassero in cenere: in un’attimo ecco immemori, o non curanti del fuoco gittarsi in mezzo i giovani soldati per sottrarli a cotesta maniera di distruzione, quasichè importasse, che o in cotesto, o in altro modo rientrassero in grembo alla terra; tuttavia se pensi come i superstiti intendessero seppellire con le proprie mani i loro morti per religione alla memoria dei caduti per la libertà troverai che passione vince ragione così in questa come in molte altre cose. Nè qui finiva; il Mangiagalli quando ormai la notte, la fatica, e i mutui lutti persuadevano quiete, ecco raccolto un manipolo di compagni avventarsi da capo, e forse riusciva a fugare i Francesi se non gli si fosse sgominato per via, lì sembra fosse ferito il Rozat; la ritirata fu due cotanti più luttuosa dello assalto; quel cadere senza pure esser visti, i gemiti confidati al buio della notte, l›atroce pensiero di sè, che nella sventura disperata ripiglia il sopravvento ricordavano gli affanni dell›Erebo immaginati dai Poeti. Il Garibaldi poi compariva da per tutto, vestito di bianco, sempre immobile sia che col destriere sostasse, sia ora qua ora là su le groppe di quello scorresse; più che conforto adesso metteva spavento: sembrava il simulacro del Destino venuto a contemplare il compimento dei suoi decreti. Il Sacchi aveva difeso il Vascello; dopo lui venne il Manara, che lo presidiò co› suoi e in fretta in furia lo convertì in ridotto formidabile; i Francesi trasportati dal furore della vittoria irruppero per espugnarlo, ma non la poterono spuntare; allora il Manara lo consegnò al Medici, il quale per la virtù sua, e dei suoi lo rese monumento inclito del valore Italiano. Poichè il perduto non si poteva più riacquistare il Garibaldi vigilò, affinchè quello, che ci era rimasto si conservasse; crebbe le artiglierie sul bastione, provvide l›annona, imperciocchè in tutto quel giorno i soldati non che con altro, neppure con un sorso di acqua si fossero confortati: insomma perchè io in troppe parole non mi dilunghi non omise diligenza che a capitano solerte, ed avvistato convenga. Giorno miserabile fu quello dacchè la legione italiana deplorò 500 tra morti, e feriti, i Bersaglieri piansero 150 di loro; in tutti furono 1000, ovvero un quarto della divisione del Garibaldi, fra cui 100 ufficiali; fiore di giovanezza e di virtù; dei nemici ne caddero molti, noi non li potemmo noverare, nè potendo avremmo voluto farlo; i Francesi sogliono alterare in meno le loro perdite, tra gli altri privilegi quasi pretenderebbero essere ciurmati, ed i romanzi loro rubata questa qualità ad Achille la regalarono ad Orlando; la quale cosa non tolse che tanto Achille quanto Orlando di ferita perissero. Il Generale Garibaldi, nelle memorie manoscritte, di cui mi fu cortese compie il racconto della infelice giornata con queste parole: «nel 3 Giugno furono decise le sorti di Roma. I migliori ufficiali morirono o giacquero feriti: il nemico rimase padrone dei Quattro Venti chiave delle posizioni dominanti: ci si stabilì gagliardamente, e cominciò i suoi lavori di assedio come se Roma fosse piazza forte di primo ordine.» Adesso mi occorre narrare il fatto di cui si trova memoria nelle storie dei tempi in diverse guise; il caso andò in questa maniera. Il Garibaldi dopo la giornata del 3 Giugno venne a pigliare stanza nella villa Savorelli dentro le mura e si pose in certa cameretta terrena che guardava la villa Spada sul bastione a sinistra; per giungere costà occorreva passare per una galleria la quale illuminavano quattro finestre aperte al medesimo livello di quella dove abitava il Generale. Colà si trattenevano parecchi i quali venivano a visitarlo per cagione di ufficio, tra gli altri un dragone di ordinanza. I Francesi come quelli, che erano informati delle minime particolarità di quanto avveniva a Roma un giorno trassero un colpo sì bene aggiustato, che se non fallivano di finestra ammazzavano di un tratto il Generale che per lo appunto si giaceva su di un lettuccio alto un po› meno della finestra; la palla, trapassato il muro, che per vero troppo spesso non era, colpì il povero dragone nel ginocchio destro intanto, ch›ei se ne stava seduto su di una seggiola coi gomiti appoggiati alle cosce e le mani sotto il mento: tanta fu la violenza del colpo, che tutta la gamba, sfracellato il ginocchio, era volta alla rovescia, per guisa che dove stava prima la punta del piede ora ci si vedeva il calcagno con lo sprone. — Atroci gli spasimi, atroci i gridi ond›ei feriva le orecchie, e l›anima, trasportato all›ospedale volante lo amputarono di corto. Fatto sosta il dolore, il dragone voltosi al cerusico gli disse: «ora pregovi di una carità, che voi non mi potete negare.» — «Ed io, riprese il cerusico, non te la negherò di certo solo che stia in me di potertela fare.» — «In voi sta, chiamatemi il mio brigadiere a cui io vorrei raccomandare certa mia faccenda prima di andarmene allo spedale grande.» Avvertito il brigadiere, venne il dragone chiamatoselo e vicino al letto così gli parlò: «brigadiere date retta, voi capite, che a cavallo ormai non ci è verso ch›io monti più, però desidero come la grazia più grande, che voi possiate concedermi, ed io chiedervi che la mia cavalla... la mia buona... la mia cara cavalla non sia montata da altri che da voi; me lo promettete brigadiere?» — Sì, sì, con voce arrangolata rispondeva il brigadiere, te lo prometto, povero giovane, te lo prometto.» — Oh! soggiunse il ferito, voi non potete comprendere quanto bene mi faccia la vostra promessa; e voi non mi mancherete... no... abbiatene cura, sapete, non le manca, che il parlare.» E così favellando piangeva. Così è; gli uomini, se non tutti, la più parte sente altissimo il bisogno di amare, e dove manchino loro oggetti più naturali di tenerezza come i congiunti, i figli, e le mogli si attaccano agli animali, e talvolta anco ad enti inanimati; di vero Plinio ce ne porge di parecchi esempi, ed è noto che Serse spasimava per un›albero intorno alle radici del quale spargeva spesso libamenti, e l›ornava con corone, e monili di oro. Il Garibaldi poichè vide, che i parapetti non bastavano a ripararlo sapete voi dove andò a pigliare stanza? Nella torretta della medesima villa; quivi giacevasi nelle brevi ore di riposo, e quivi vegliava continuo le mosse del nemico; sopra la torretta havvi un terrazzino a cavalcioni del quale egli si tratteneva sovente dondolando le gambe, e fumando il sigaro. — Con esso viveva il Manara, che dopo il pasto, chiamato a sè certo giullare bergamasco gli ordinava rappresentargli qualche farsa volgare co› burattini di legno; di ciò prendeva il prode uomo maraviglioso diletto: ora è da sapersi, che la stanza dove cotesti giuochi si facevano (che era la sala dipinta da Salvatore Rosa) stava per lo appunto esposta alle batterie francesi, ma a ciò niente pensavano nè il Manara nè i compagni suoi, e nè manco il burattinaio: ventura fu, che di ora in poi veruna palla di cannone investisse cotesta casa, e delle palle di schioppo lanciate dagl›infallibili cacciatori francesi nessuna colpì il Generale, nè il Manara, nè veruno dei tanti, che affacciatisi al terrazzo della torretta se ne stavano a speculare il campo francese: onde vi ha chi pensa, che tirando di sotto in su la palla proceda diversamente che in linea orizzontale, e il colpo vada fallito: su di che giudichino gl›intendenti. Per me referendo simili spavalderie ho notato, e noterò sempre, che il soldato della Patria non deve mai atteggiarsi scenicamente, nè da gladiatore, bensì nel modo solenne del sacerdote che si offre vittima alla religione della libertà. Innanzi di mettere parole intorno ad altri fatti, chi m›incolperà se io mi trattengo ancora a raccogliere qualche nome, e consegnarlo con intera fiducia alla storia? La religione della cosa non già la potenza dello scrittore varrà a mantenerla perenne nel cuore degl›italiani: in cotesta giornata caddero spenti altresì, che troppo ci vorrebbe a dire dei feriti, il Polini di Ancona colonnello, Cavalieri, Bonnet, e Grassi tenenti; allo Scarani, mentre agita il moncherino lacerato e se ne serve a guisa di aspersorio di sangue gridando: «vendicatemi» una palla nei reni tronca ad un punto la parola e la vita. Ed anco a voi Loreta di Ravenna, Gazzaniga di Roma, Meloni di Forlì, Bucci di Ancona, Marzari di Macerata, Santini e Covizzi la terra dei forti diede l›ultimo albergo. Visanetti di Cesena come fu riservato a più lungo martirio così porse maggiore testimonio di virtù, percosso nei fianchi dopo sei giorni in mezzo ad atroci dolori sempre invocando con devoto cuore la sacra Patria spirava. Scarcele sul fiore della vita, di forme leggiadre squarciato orribilmente il ventre, di una sola cosa pareva si pigliasse cura, ed era disporre il proprio censo, che possedeva larghissimo, a prò di persona diletta; la principessa Belgioioso che lo assisteva, sollecitamente ebbe chiamato il notaro per calmare l›ansietà del moribondo, ma forse più per udire il nome della donna, che così imperava sopra i pensieri di lui; la donna era la Patria, la quale redò le sostanze dello Scarcele. L›assalto del Ponte Milvio per altro non merita andare rammentato, che per un gesto degno dell›antica storia, e veramente dei così fatti se ne incontra nella greca, come nella romana, ed eziandio nella nostra italica del decimoquinto secolo; se nonchè temo forte, che ogni popolo abbia voluto vantare il suo di simile natura copiandolo da un altro, il quale forse non sarà successo mai tranne nella immaginazione dello scrittore; ma quello, che io narro come accaduto ai giorni nostri, e che molti vivi lo possono testimoniare non può fornire argomento di dubbio. Il ponte Milvio si allarga una dozzina di braccia, ed è lungo circa a trecento: lo reggono cinque archi di quindici braccia di luce, e cinque piloni alquanto meno larghi; rotto il primo su la sinistra sponda per dodici braccia gli altri avevano minato con polveri artificiali per rumarlo, secondo la occorrenza, in un›attimo. I Francesi qui come altrove ci colsero inaspettati, e con infallibile colpo uccisa la sentinella sostarono per paura di scoppio; pure bersagliando alla lontana chiunque si attentasse di porre il piede sul ponte dalla sponda sinistra. Per accertare l›esito della impresa un Leblanc colonnello del Genio francese aveva ammannito più sotto al ponte una zatta con armi da servire a parecchi bersaglieri che avrebbono traversato il fiume a noto; a troncare il disegno ecco un Fulgenzio Fabbrizi di città di Castello si tuffa ignudo nel fiume, e stretta co› denti la fune a cui stava ormeggiata la zatta, adoperandoci gli sforzi supremi la tira seco; se lo fulminassero i Francesi, che se l›erano vista fare proprio sotto gli occhi, non è da dire, e crebbero la furia quando cotesto animoso si trovò in mezzo alla corrente a contrastare coi vortici, che lo tiravano in fondo, e con la zattera, la quale sbalzata a urtoni gli ammaccava la persona, tuttavolta così egli provò amica la fortuna, che pesto sì, ma incolume di ferite potè attingere l›altra sponda. Ma il ponte cadde in potestà dei Francesi, i quali padroni delle alture menavano strage dei nostri, senzachè potessimo offenderli noi. Narra il Torre, che millanterie ne corsero da una parte e dall›altra; infermità comune massime ai popoli meridionali, ma alle millanterie i Francesi aggiunsero le menzogne più sbardellate; a mo› di esempio l›Oudinot dava ad intendere ventimila dei nostri impegnati alla difesa di villa Pamfili, ed in tutti noi non arrivammo mai a tanti: il vero era che appena toccavano i quattrocento: si gloriava avere conquistato tre bandiere, e n›ebbe invece una, non mica conquistata, bensì rinvenuta da lui dentro certa rimessa; vantava come sforzo solenne di guerra la occupazione di Monte Mario, e veramente utile gli fu, ma egli se lo recò in mano indifeso durante il tempo dello armistizio. I Francesi non istettero a perdere tempo e nella notte del quattro al cinque giugno condussero la prima parallela di assedio a trecento circa metri dal punto designato da loro per lo assalto; in ciò essi seguivano i precetti dei loro maestri di guerra Vauban, e Cormontaigne; altri ingegneri operarono altramente, chi allontanandosi, e chi più accostandosi alle mura nemiche; mentre si rammenta Marescot che allo assedio di Landrecy aperse le trincee a 300 metri dalle opere estreme della piazza, Chasselup a Mantova le fece a 100 metri più presso, e Rognat a Tortosa anco meno discosto: ai giorni nostri la distanza di trecento metri non basta in virtù delle armi perfezionate che ti ammazzano anco da 1000 metri lontano, sicchè tornare ai 600 metri come si costumava prima del Vauban non parrebbe troppo, ma i Francesi senza un pericolo al mondo poterono praticare a Roma il modo, che tennero conciossiachè i Romani possedessero solo armi ordinarie e nè manco delle buone. Costruita la trincea alzarono due batterie, una per combattere il nostro baluardo, l›altra per rimbeccare la nostra artiglieria del monte Aventino. Nè i nostri rimasero a vedere, solleciti palancarono e terrapienarono la muraglia per quanto lungo è il tratto che passa fra Porta Portese e Porta San Pancrazio, voltarono i cannoni del monte Testaceo contro il campo francese, e condussero un camino per recarsi incolumi al Vascello; però in paragone delle apprestate offese le nostre difese languide; sarebbe stato mestieri irrompere con gagliarde sortite, ma le ci venivano dissuase dal difetto di fosso intorno alle mura, e dalla perdita dei tanti valorosi ufficiali da noi patita fin qui, tuttavia scambiaronsi di parecchie moschettate da una parte e dall›altra, si tentò anco pigliare certe case fuori del Vascello, e non si potè a cagione della grandine di palle, che i nostri dal bastione ci rovinarono addosso scambiandoci per nemici, e fu jattura gravissima. Verso sera il capitano David su la via del Vascello, percosso il ventre periva, feriti rimasero Giuseppe Brachi, Guglielmo Belluzzi, Emanuele Griffi aiutante del Generale Garibaldi, e più illustre di tutti il colonnello Pietro Mellara da Bologna, che una palla di moschetto colse nello interno della coscia sinistra, e lì rimase; parve da prima lieve piaga, o per lo meno sanabile; il fato rese monco lo augurio; egli periva dopo lunghi dolori; di lui più tardi a infamia del popolo, che vanta il primato di civile. I colonnelli Buenaga per la parte di Spagna e D›Agostino per quella di Napoli recaronsi al campo di Francia offerendo aiuto, e concorso; l›aiuto accettava l›Oudinot dal Re di Napoli, il parco dell›artiglieria d›assedio, come se dei suoi cannoni egli non ne avesse di avanzo, tanto gli premeva vincere a mano salva; altro concorso no; bastargli i suoi; a questa ora se quei cialtroni dei diplomatici non erano sarebbe entrato in Roma non mica una volta ma dieci. Ciò era conforme al fine riposto della impresa di Francia, il quale consisteva nel surrogare il suo al patronato dell›Austria in Italia e durò sotto lo Impero quando ella parve venisse ad affrancarci da un›oppressore, e ce ne impose due; nè punto menoma, almeno per ora; di ciò ne porge testimonio la respinta proposta testè messa innanzi dalla Spagna di formare una lega cattolica per proteggere la ragione del Papa in Italia; di vero avendo la Francia (a suo parere) ottenuto con forza, e con astuzia simile patronato in Italia intende esercitarlo sola, non già in società con altrui, che chi ha socio ha padrone, e questo è detto antico. Al deputato Minghetti pare altrimenti, ed ebbe cuore e fronte per affermarlo in Parlamento; basta, il meno che possiamo dire di costui gli è che e› venne al mondo dalla parte dei piedi. Valentissimi gl›ingegneri francesi, e indefessi non menochè intrepidi gli esecutori; riparato il guasto fatto alle opere loro dalle nostre artiglierie costruiscono la terza batteria e l›armano di obici per battere con fuochi verticali i bastioni sesto e settimo; i Romani dal canto loro compiscono le trincee del Vascello, altre ne imprendono a sinistra di porta San Pancrazio a fine d›impedire, caso mai che qualche sortita venisse respinta, che vinti e vincitori entrassero in Roma alla rinfusa; ripigliasi il fuoco nel giorno sesto, e con maggior furia di prima, anco il cielo si commuove e piglia parte alla lotta; tempesta in terra, tempesta in cielo; fuoco, e strepito da empire di spavento da una parte e dall›altra; natura ed uomini parevano risoluti a sconquassare il mondo, nè il peggio sarebbe stato se fossero riusciti. Il Vaillant vigilissimo sospettando sorpresa alle ville Corsini, e Valentini asserraglia le prossime strade, e si avanza senza intromissione; non così i Romani i quali cominciano opere grandi, e per certo utilissime, ma poi lo smettono o che mancasse loro la costanza o piuttosto, come credo, la potenza; per siffatta guisa idearono erigere un trincerone il quale servisse a mo› di piazza di arme dove milizie nostre ad ogni evento si assembrassero per contrastare al nemico, il quale, superate le trincee giungesse e scacciarne i difensori; ed altre più difese si disegnarono, ed anco fu statuito condurre a termine per asserragliare le strade, forare le case onde porgersi aita scambievole giusta la imminenza del pericolo per quinci rifuggire senza danno. o con poco nella città leonina, dove potesse rinfocolarsi la guerra più acerba, più feroce, e forse meno disperata di esito propizio. Tutto questo o non si fece del tutto, o principiato appena fu smesso, per lo che ai Francesi venne agevolato, e di molto il conquisto di Roma. La nostra artiglieria durante la notte o rallentava i tiri o li cessava dando occasione al nemico di spingere innanzi le sue opere, alacre, e sicuro, nè andavano con miglior fortuna le cose pel contado dintorno a Roma, che il generale Morris scorrazzando per la campagna dalla sinistra del Tevere sovente s›impadroniva del fodero avviato alla città penuriante. E pazienza si fossero rimasti i Francesi a pigliare le robe, ma per atterrire straziavano le persone, nè solo le nocenti, bensì ancora le pacifiche: veruna arte di barbaro nonmenochè vile predone tralasciarono per accertarsi la vittoria: e perchè non paia che io mi comporti narrando più passionatamente che a storico non convenga scerrò tra i moltissimi due casi, dei quali il commissario Andreini riferì all›Assemblea. Gervasio Pasquali, e Vincenzio Sandroni mitissimi agricoltori alieni da ogni rumore pensarono potersi rimanere alla cura delle proprie vigne fuori delle mura, che chiudono il Vaticano: spaventati poi dagli orrori della battaglia s›intanarono dentro certe grotte scavate lì presso la vigna, il primo solo, l›altro, il Sandroni, con la moglie e tre figli uno dei quali pargolo alla mammella. I Francesi spintisi sotto le mura, e disseminati a combattere non tardarono a scoprirli, e ad incrudelire su cotesti inermi supplicanti la vita; furono esauditi a colpi di fucile; nè contenti di tanto il Pasquali stramazzato e stretto a gridare: «viva Pio IX» poi rovistategli le tasche dei pochi baiocchi che possedeva io rubarono. — Più lacrimevole fato incolse al Sandroni però che di prima colta rimanessero feriti lui e due figliuoli, e poichè ricaricati i moschetti con cera micidiale inoltravansi i Francesi, la misera madre genuflessa al fianco del giacente marito, e circondata dai due figli insanguinati, sporgeva il lattante gridando: pietà! Come alla prima invocazione fu dato alla seconda una risposta di piombo: tutti ne andarono da capo percossi, eccetto il pargolo per ventura che parve e fu creduto miracolo. Il Sandroni poi per coteste ferite periva nell›ospizio di Santa Maria lasciando desolati la moglie e i tre figli: dopo ciò, neghi chi ha cuore, che là dove occorre una causa di civiltà a sostenere quivi non isventoli benefico il vessillo di Francia. Che cosa di peggio potessero fare gli Ostrogoti, o gli Unni noi per verità non sappiamo; e tuttavia non mancò chi scrivesse a cotesti tempi; «la missione di Francia avere per fine speciale la tutela delle libertà europee contro le dottrine del comunismo.... per lei il diritto combattere il socialismo di cui il santuario di Vesta con orribile profanazione era diventato centro e sinagoga.» Nè simile mostro di concetti e di favella si partiva di Francia, bensì d’Italia, e neppure da papisti interessati o fanatici ma sì dal preteso autore del risorgimento italico abate Gioberti; però meritamente la sua fama periva prima di lui, e la sua memoria si conserva nel gelido simulacro di marmo a Torino, non già pio affetto nel cuore degl’Italiani. Tolsero i Francesi pertanto l’acqua alla città, ma di un tratto gliela resero con gli arretrati, ed ecco come: sospettando essi che i nostri insinuandosi per gli acquedotti ci caricassero mine, col consiglio di distruggerlo vi spinsero dentro le ritenute acque, la quale cosa fu origine di una assai piacevole avventura alla fontana di San Piero in Montorio. Questa fontana di apparenza mirabile, fra le vaste romane vastissima, nudrisce di acqua il lago di Bracciano che ce la versa quasi a fiume ed è chiamata Paola; sotto la fontana altissima una vasca stragrande la riceve, e nelle ore calde tra per l’ombra, che manda la fabbrica, e tra per le acque rotte dal rimbalzare, ch’esse fanno vi si gode refrigerio di frescura: ora l’acqua cessata, restava l’ombra, sicchè da cinquanta e più soldati sdraiatisi nel cavo della vasca in santa pace dormivano; quando ecco di repente una fiumana di acqua prorompere, precipitarsi dalla altezza di ben venti e più piedi e con fracasso orribile riempirla in un’attimo. Pensate voi la meraviglia e la paura dei tapini a forza desti: chi schizza di là, chi di quà, per fuggire fanno gruppo urtansi e si rovesciano da capo; ìa fretta disordinata raddoppia le dimore; gli atteggiamenti vari e tutti burlevoli; non incolse male a nessuno, tranne trovarsi bagnati fino all’osso. Il Generale Garibaldi dalla sua torretta di Villa Savorelli contemplava quel continuo avanzarsi delle opere francesi, e comecchè forte temesse di poterle impedire tuttavia sentiva, che ormai a lui e agli altri correva l’obbligo di far prova di disperata virtù; nè ciò solo per rintuzzare la insopportabile iattanza del nemico, quanto per non parere da meno nello indomito coraggio delle stesse donne romane, le quali senza porre mente, alle palle che fioccavano recavansi verso sera a udire i suoni militari davanti alla sua villa, e non pure donne popolane erano, ma altresì nobili donne: i soldati poi inuzzoliti dal suono su quel luogo ballavano, e se taluno tocco da qualche palla cessava gli altri datagli la buona notte continuavano. Ma la buona notte, che augurarono al centurione Molina fu eterna, imperciocchè nel trasportarlo ferito morisse per via; spreco di vita non mai abbastanza deplorabile, e deplorato! Ma parliamo delle donne romane; e’ non si può rivocare in dubbio, che in esse viva latente, e talora si palesi nella sua magnificenza il sangue della madre dei Gracchi e di Lucrezia; tra i miei ricordi noto come un mio amico passando per una contrada presso ponte Sisto di Roma vide due fanciulle bellissime intente a cucire panni in certa stanza terrena senza curarsi della pioggia di bombe, che mandavano i Francesi; di un tratto una bomba lì presso sfonda una casa, e cascata sul letto dove riposavano due vecchi gli ammazza; placide e chete esse lasciarono i lavori per recarsi a vedere che mai fosse successo, e ad apprestare soccorso; udito il caso funesto, levarono gli occhi al cielo e sospirarono: «pace all’anima loro!» e senza più parole tornavano a riprendere il compito interrotto. E noi pure avemmo le nostre Cammille, e le nostre Pantasilee, anzi, quotidianamente, ed alla stregua, che il pericolo cresceva, si presentavano fanciulle per arrolarsi come soldati e combattere, nè tutte si poterono rifiutare; le rimaste si distinsero non solo nella ferocia (cose che notiamo ordinaria nelle femmine una volta, che piglino le armi) ma nella costanza, ed è più difficile, di sopportare di ogni maniera disagi. Non il dolore della ingiusta aggressione, nè i danni sofferti così ci fanno forza, da negare ai Francesi il pregio del valore, nondimanco è vero, che in questa guerra procederono oltremodo cauti e anzichè no rispettivi; forse la prima batosta rilevata li persuase a questo: certo quel risoluto consacrarsi che fa la gente alla morte commuove l’animo dei mortali e li sgomenta. Taluni dei loro scrittori immaginando cose vane, ovvero usurpando per loro tratti di magnanimità che da loro furono uditi soltanto, seguendo l’usato costume attribuirono ad un soldato francese l’avventura di essere andato a cogliere albicocche sur un’albero in mezzo al tempestare delle palle nemiche; ciò è vero, ma invece di albicocche elle erano fragole e fin qui non monta, ma il soldato invece di francese era italiano anzi il Cadolini nostro, che se nella gloria della eloquenza valesse quanto vale nelle armi, la Italia moderna non avrebbe ad invidiare Cicerone all’antica; egli, nè solo, si attentò andare a raccoglierle negli stessi giardini occupati dai Francesi, e farne dono al Medici l’Aiace dello Assedio di Roma. E siccome noi sopra tutto detestiamo la taccia d’ingrati, pessimi tra i rei, i quali dovrebbero nelle nostre contrade come presso i Chinesi punirsi, dacchè giudichiamo la ingratitudine non solo delitto in se, ma sì generatrice di ogni altro delitto, ci guarderemo di passare inonorati nelle nostre scritture due generosi stranieri uno francese, l’altro pollacco di cui mi occorre memoria nei libri, e nelle note del Generale Sacchi. Chiamavasi il primo Laviron capitano di stato maggiore presso il Garibaldi, il quale un dì avvampante di sdegno per le spesse morti cagionate dai Cacciatori di Vincennes salta sul parapetto, e additando la croce della legione di onore, che gli fregiava il petto si mise a gridare: «assassini! tirate su questa croce, che ebbi dal grande imperatore.» E venne pur troppo esaudito, imperciocchè nonostante che allora fosse tregua, i Cacciatori non potendo stare alle mosse lo colsero per lo appunto nel petto: ond’ei periva esclamando: «viva la Italia!» La notte, che successe a cotesto dì il cielo mandò giù acqua a bigonce; dissero averla mandata per lavare la macchia fratricida di cui i Francesi avevano polluto la sacra terra romana, e non è così, Iddio raccatta il sangue versato proditoriamente, e lo conserva là dove non si cancella; paiono fisime queste, ma se ne accorge chi reietto Dio persuasore di vivere incolpevole lo prova più tardi come chiodo confitto nelle tempie di Sisara. L›altro caso è affatto simile a questo, sicchè dubitai fosse il medesimo applicato a diversi; ma adoperataci debita diligenza trovai essere due: non importa ripeterlo, basterà dire che il nuovo accadde al capitano pollacco chiamato Vert o Wern; e che lo esito per lui non volse sinistro come al francese essendo rimasto unicamente ferito nell›omero destro. La sortita disegnata ebbe luogo a vespero del giorno nove, il suo scopo era guastare i lavori nemici, precipuamente quelli di faccia al bastione secondo; ci presero parte 200 finanzieri, e 500 uomini del primo reggimento leggero: questi per assalire; un›altro battaglione ed una compagnia di bersaglieri si attelarono fuori della porta San Pancrazio per riserva, e per proteggere la ritirata: proposero al Generale operare simultaneamente altra sortita fuori della Porta Portese, e non l›approvò: perocchè conosciuta la mala prova degli assalti alla spicciolata, ora volesse attenersi ai corpi grossi. L›assalto di faccia in colonna serrata fu respinto dal fuoco che proruppe turbinoso dalle trincee francesi; con incredibile valore i finanzieri lo tentarono una seconda volta, e con pari fortuna; virtù non valse contro la forza soverchiante, e si ebbero a ripiegare laceri verso la porta. Questa fazione riuscì senza utilità non però senza compianto; tante e tante furono le morti che resero non so bene se io mi abbia a dire sacri od esecrabili cotesti luoghi, che a raccontarle tutte non ci basterebbe. la lena: questo giovi sapere, che da ora in poi il popolo a diritto prese a chiamare la porta San Pancrazio, porta San Crepazio, il Vascello Macello, e San Pietro in Montorio San Pietro in Mortorio. In questo giorno deplorammo il tenente Bolognesi, e Bartolommeo Rozat capitano: sopramodo pietosa la morte di questo ultimo; nacque a Ginevra, e militò volontario; apparve un giorno su i confini del Tirolo al cospetto del Manara, e gli si profferse fratello di armi; il Manara lo accettò a braccia quadre, e amaronsi nè l›uno quindi in poi si vide disgiunto dall›altro nei pericoli; li scompagnò la morte: ferito, il 3 il Rozat non potè tenersi il 9, e armato di eletta carabina non come ufficiale ma come volontario volle pigliar parte al combattimento dal secondo bastione: senonchè dopo i primi colpi fastidì il parapetto, e si scoperse a un tratto dalla cintola in su agitando il berretto in ispregio del nemico: avendoglielo una palla portato via di netto dalle mani, i soldati, che assai lo amavano lo costrinsero a scendere: egli però scivolando si recava subito dopo davanti la più larga apertura del muro; quivi una palla, lo colse nell›occhio sinistro; il resto lo dica l›Hoffstetter, che per me a raccontare di tanto sangue scelleratamente tradito mi sento inverdire: «fu portato all›ospedale fuori di sensi; e quivi spirò fra le braccia di una signora, unica cura, ch›egli accettasse, dopo due giorni di orribili patimenti. Io fui due volte a trovarlo, ma il meschino non mi riconobbe più; egli era tutto sfigurato: aveva la cavità dell›occhio piena di sangue, e la parte sinistra del capo soprammodo gonfia. La donna romana con un braccio lo sorreggeva, e con l›altro lo impediva ch›egli nell›angoscia disperata si strappasse la benda.» Trentasei ore, che tanto si prolungò la sua agonia, la donna stette a canto al moribondo senza lasciarlo mai: affermano lei ignota al Rozat, e questo alla donna; se così sta lo affetto superando la natura terrena diventava divino, ed io per me lo giudicherei divino dove anco ci si fosse mescolato qualche po› di amore men puro: ottimamente immaginarono gli antichi di origine celeste ogni amore, che avesse l›ale per sollevarsi da terra. Continuano i lavori, e le jattanze francesi; essi però conducono a termine la batteria quinta prima per far tacere il nostro fuoco del bastione settimo, e poi per aprire la breccia; mandano scorrerie sul Teverone per rompere i ponti Salaro, Nomentano, e Mammolo, e così chiudere da questo lato ogni comunicazione con Roma; sorprendono il colonnello Pianciani, che in compagnia di un suo ufficiale veniva nella carrozza del corriere, e lo tengono prigioniero di guerra: l›Oudinot vanta questa presa come una conquista, ed è ciurmatore; aggiunge nel rapporto averla conseguita dopo combattuta aspra pugna, ed è bugiardo: fa una funata di poveri contadini, e gl›invia in Francia trofei di guerra, e così conferma la sentenza che sopra tutte le passioni la vanità è crudele. Testimoniano alcuni storici come ora dai supremi capitani si concepisse il disegno d›ingaggiare una battaglia campale assaltando la sinistra dei Francesi, e prese le opere loro a rovescio, spingerli nel Tevere; ma a ciò io non credo; forse taluno lo desiderò e lo disse, ma dal detto al fatto ci ha gran tratto, nè con tanta disparità di forze poteva avventurarsi anco dagli audacissimi; all›opposto fu tentata una sortita notturna: notte tempo a lume di torce assembraronsi 7500 uomini; 1500 rimasero col generale Avezzana fuori della porta San Pancrazio; agli altri 6000 si pose a capo Garibaldi, e li menò alla campagna uscendo dalla porta dei Cavalleggieri; suo scopo dar dentro la sinistra dei Francesi: consigliato a moltiplicare gli assalti nega, e non fa bene; la colonna lunga disadatta a pigliare parte con molta forza al combattimento; se respinta di fronte si rovescia sopra i sorvegnenti con non riparabile scompiglio. L›ordine della marcia questo, la legione polacca all›antiguardo; 200 uomini o poco più; subito dopo tre coorti della legione italiana; alla dietroguardia due battaglioni di bersaglieri lombardi; quattro battaglioni del Rosselli, e i lancieri del Garibaldi alla riscossa. Il Garibaldi non volle moversi prima che sorgesse la luna, che fu verso le dieci, e ciò per impedire confusione, lasciando perduto per questa via il vantaggio di cascare addosso ai Francesi; ed al medesimo intento ordinò eziandio i soldati alle vesti soprammettessero la camicia, gli uffiziali intorno al braccio legassersi un panno bianco; pratica di guerra antica, che chiamasi incamiciata, ed è fama la inventasse Alfonso Davalos il vecchio marchese di Pescara; i pratici di guerra la giudicano in varie maniere: anco quì il fine loda l’opera. Opinione, ed anco comando era si avesse a camminare per via retta, ma il Garibaldi, che precedeva la colonna vestito del mantello bianco di un tratto piega, conforme in questo a se stesso, che dei suoi riposti consigli di guerra non conferisce con alcuno, e caso mai lo venisse a sapere la sua camicia, io penso, ch’ei la brucerebbe. Così procedendo arrivano al convento di San Pancrazio dove l’ufficiale di guardia annunzia verun moto essersi osservato da tempo in qua nelle Trincere francesi, e gli pareva buon segno; altri tenne avviso contrario; volle inoltre porgere istruzioni alla guida sul cammino da farsi, ma questa prosuntuosa vantò saperne di avanzo: allora il Garibaldi scese e seduto sopra un tronco di albero tolse a dirigere le mosse; e innanzi tratto ordinava all’Hoffstetter precedesse co’ 200 Pollacchi a schiarire il cammino, lo seguitasse la legione italiana; il Manara non comandato, consentendo all’impeto della sua generosa natura lo seguita; ammonito dall’Hoffstetter che una scarica potrebbe ammazzarli tutti e due in un punto con danno della impresa, si allontana, ma poi non regge e ritorna. Persuasi dalla guida si cacciano dentro ad un canneto, oltre il quale, pensano sboccare davanti le Trincee francesi, onde si raccomanda ai Pollacchi ripongansi sotto la camicia la quale ormai non poteva apportare altro che impaccio e danno; la legione italiana rimane su l’orlo estremo del canneto; i Pollacchi dopo molto avvolgersi si trovano avere girato il convento di San Pancrazio, chè la guida prosuntuosa aveva sbagliato strada: toccò loro rifare i passi, e questa volta senza errore, sicchè riusciti ormai davanti una siepe, oltre quella, affacciandosi, vedevano le opere francesi. Mentre pertanto si accingono a saltar su, ecco nel canneto udirsi strepito come di cavalli ch’entrando a furia atterrino, e pestino le canne troncate. — Non erano cavalli ma fanti, non nemici ma amici; la colonna del Sacchi, la quale sbarattando senza riguardo il canneto mosse cotesto rumore, che riuscì esiziale, imperciocchè non pure i soldati, ma gli ufficiali altresì temerono ruinasse addosso loro la cavalleria nemica; per la qual cosa taluni, i più forti, fatto di se gomitolo con la baionetta calata si disposero a mo’ di istrice; gli altri, e furono troppo più, vinti da subito terrore fecero impeto l’uno sopra l’altro, urtaronsi, rovesciaronsi, e pestaronsi; chi perse l’arme, e chi i berretti; molti i feriti; pareva un fiume che straripi; il Manara, il quale pretese opporsi stramazzato ebbe a sentirsi ammaccare tutta la persona; Garibaldi agguantandosi a un albero non buttarono a terra; la legione italiana non resse meglio degli altri, e andò sossopra nella fuga; chi resse furono i bersaglieri, i quali incrociate le baionette, le opposero al petto dei fuggenti e li trattennero; il Garibaldi montato in furia, riavutosi appena, salta a cavallo e con lo scudiscio frustando intorno urlava: «ah! codardi, ah! svergognati!» Anco il Mezzacapo in cotesta occasione fece mostra di coraggio a tutta prova. Riordinata alla peggio la milizia scomposta domandarono gli ufficiali al Generale se si avesse a proseguire la impresa, dacchè per somma ventura pareva che i Francesi non se ne fossero addati; rispose nulla potersi imprendere con gente codarda; rientrassero: ultimo come sempre alla dietroguardia; passate le porte o sia che la stanchezza lo vincesse, o sia che ormai sentisse lo interno turbamento dell’animo non potere più reprimere si gettò a terra fingendo dormire. Le sortite e gli agguati in guerra per ordinario, o non finiscono a bene, o tornano in capo a cui le ammannì, e Omero ab antiquo mette innanzi così nel coraggio come nella gloria il guerriero che aspetta celato, e di piè fermo il nemico, all’altro, il quale salta su con la lancia in pugno a zuffa manifesta; per condurre le sorprese a buon termine si richiedono mente serena, cuore inconcusso, e vigilanza mirabile; e cosa strana a considerarsi è questa, che forse gli uomini preposti alla sortita, ovvero allo agguato presi da solo a solo le qualità descritte posseggono anco in copia, uniti insieme ne mancano, dimostrando che le passioni superano nel contagio la stessa morìa. L’annotatore all’Hoffstetter volendo per via di esempio chiarire come un nonnulla mandi a monte siffatte imprese riporta il caso degli Oddi entrati notte tempo in Perugia per cacciare i Baglioni, i quali omai occupavano la città e solo rimaneva loro spezzare la catena della via che sbocca alla piazza, quando colui che doveva romperne i serrami, stretto dalla turba sorvegnente, mal potendo levare le braccia per menare la mazza ferrata esclamò: «fatevi indietro!» La quale parola propagandosi di grado in grado valse a impaurire gli ultimi; gli altri del costoro spavento atterrironsi, sicchè con grandissima furia si ruppero. Questo narra il Macchiavelli; questo altro più notabile assai riferisce Teofilatte Simocatta. Gli Avari invasa la Tracia avevano messo le tende vicino al monte Emo; di ciò avvertiti i Romani, su i quali imperava allora Maurizio, nello intento di sorprenderli ed opprimerli notte tempo si ficcano per certa forra angustissima camminando in due colonne con i bagagli nel mezzo; all’improvviso incespica e casca un somiero di cui il conduttore essendo andato innanzi, i sorvegnenti impediti nel cammino lo richiamano per rimettere in piedi la bestia gridando: «retorna, retorna fratre.» Queste parole passando di bocca in bocca fecero supporre, che trovato il nemico all›erta fosse mestieri ritirarsi: i più paurosi subito sbandaronsi, e gli altri, scomposti gli ordini, si trovarono costretti a seguitarli nella fuga. Agevole moltiplicare gli esempi, bastino questi per dimostrare come gli orditi con lungo studio dalla sapienza, la fortuna sovente in un attimo disperda al vento. Troppo mi ha proceduto infesto nel suo libro dei Bersaglieri Emilio Dandolo perchè io trascuri di ricordare com’egli dolente per la riportata ferita, e più pel lacrimabile caso del suo fratello, non potesse rimanersi all’ospedale in cotesta occasione; volle andare co’ compagni, onde fra la fatica durata, e il turbamento dell’animo gli si inacerbì la piaga non poco. A me piace la vendetta, e così mi vendico, dolente di non possedere maggiore ala d’ingegno per onorare conforme ai meriti il giovane egregio. La legione italiana rinvenuta alquanto dalla turpe battisoffiola, non poteva darsi pace; le sembrava, e veramente si era coperta d’ignominia: per ultimo deputava messi al Generale supplicandolo le concedesse lavarla avventandola a qualunque più arrisicato assalto; gli udì il Garibaldi con gli occhi fitti a terra senza nè un motto nè un gesto, poi li licenziò con la mano, e parve non volesse rimoversi per istanza nonchè degli indifferenti degli amicissimi suoi: verso sera piegò l’ardua mente; stessero apparecchiati, li proverebbe domani. Però mentre il prode uomo mulinava il modo di picchiar forte il nemico accadde un’avvisaglia inopinata, la quale ci fu e per morti, e per altre sequele oltre modo funesta. Stavano il colonnello del Genio Amedei e i marraioli suoi lavorando il contrapproccio alla villa Corsini, e i Francesi lo andavano molestando con piccoli manipoli, sicchè egli per levarsi cotesto pruno dagli occhi ordinava al maggiore Panizzi, che lo rimbeccasse nelle regole: questi o trasportato dal proprio ardore, o tratto dallo impeto dei soldati muove col battaglione intero contro lo approccio nemico serrato in colonna: ne nacque una orribile mischia, nè il moschetto, nè la baionetta valevano, così erano venuti a corpo a corpo, ma i Francesi dettero indietro per adoperare le armi: ai nostri facevano difetto le munizioni; non per questo essi stornarono, somministrò nuove armi il furore, e i Francesi maravigliati si sentirono percossi da una sassaiola, che ridusse parecchi al lumicino. Dei nostri morì, e fu pietà, il buon Panizzi romagnolo, soldato vecchio, che aveva militato in Ispagna, e di fresco in Affrica co’ Francesi; il giorno innanzi era stato promosso maggiore: tre palle nel petto lo freddarono, cadde nelle trincee nemiche, ma i suoi non consentendo lasciare il suo corpo prigioniero, tornarono allo assalto per riscattarlo: erano quindici, tutti sangue romagnolo; soli sei ne rimasero illesi: non importa, questi sei portarono seco il cadavere del diletto maggiore; il Fanti di Ferrara antico soldato del regno italico offeso nel braccio destro, ne sofferse il taglio con mirabile pazienza, e guariva, ma tanto lo strinse il dolore per la entrata dei Francesi a Roma, che di passione morì. Il Poggi da Imola soldato, a cui recisero il braccio sinistro, tagliato che l’ebbero se lo recò nella destra e guardandolo alquanto uscì fuori con queste parole: «mandatelo in Francia, e dacchè costà hanno fame di carne umana i Francesi se lo mangino.» Quaranta furono dei nostri morti o feriti. Il Garibaldi corrucciatosi per cotesta sconsigliata fazione, se la prese coll’Amedei, e a torto; lo mandò in castello e pretendeva sottoporlo a giudizio militare; se ne astenne meglio consigliato, ma da quel dì in poi fra il corpo del Genio, e lo stato maggiore del Garibaldi non corse più buon sangue, massime ch’egli surrogava al colonnello Amedei il maggiore Romiti; da ciò ne avvenne che si disfacessero i trinceramenti alle gole dei Bastioni, preparando in questa guisa facile l’accesso al nemico, e a noi togliendo l’abilità di difendere le breccie; la casa Savorelli non si volle atterrare, nè fabbricarci il ridotto come avevano divisato gli ufficiali del Genio, capace se non a preservare dalla caduta Roma, almeno a ritardarla. In questa giunsero parlamentari dal campo nemico, e si dovevano respingere, perchè le sono spie, e gli armistizi si chiedono dal nemico perchè ha bisogno di tempo per nocerti meglio; portavano lettere pel Generale dello esercito, per quello della Guardia nazionale, pel presidente della Assemblea, pei Triumviri, proclami pel popolo, e come se tutto questo fosse poco, inviti al Cernuschi, e al Lombard di recarsi al campo: sonavano tutte le carte lo stesso sermone; essere venuti a sostenere la libertà del Papa, e poi a sostenere quella del popolo, li lasciassero entrare e si troverebbero contenti: caso mai resistessero, guai! con sette Batterie allora allora messe in punto gli fulminerebbe.» Risposero per le rime: non si accettano le prepotenze, si sopportano dopo gli estremi sforzi per repulsarle: degne le parole di tutti, degnissime queste del Generale Rosselli: «considerando che vi è uno stato di vita per gli uomini peggiore, che morte, se la guerra, che ci fate arrivasse a porci in questo stato, meglio sarà chiudere per sempre gli occhi alla luce, che vedere le interminabili oppressioni, e miseria della nostra Patria.» Il Cernuschi e il Lombard andarono in campo dove udirono proporsi una maniera di rappresentanza scenica mercè la quale aveva a stabilirsi, che dopo aperta la breccia, e salvo a questo modo l’onore soldatesco Roma si arrendesse: risposero, che i popoli si ammazzano col ridicolo, ma caduti nel sangue risorgono. Accettabili simili temperamenti pei Francesi, per gl’Italiani contennendi, e abominati. Dopo l’Oudinot tentava nuovo assalto di viltà il Corcelles, gli rispose il Mazzini, e fece male; con nessuno valsero mai ragioni, e meno che con altri co’ Francesi quando si sentono in dieci contro uno. Cessate le frodi ritornano le violenze: già i Francesi stavano presso un sessanta passi ai Bastioni primo e secondo, le Batterie per abbattere il Vascello, e le case circostanti erano compite; trentacinque cannoni, e più gli altri, che come avvertimmo, fornì il Re di Napoli si trovavano in punto di fulminare le mura; nè basta, anco i mortai in procinto d’incominciare il fiero lavoro, che di vero incominciò e terribile; nè si creda, che i Francesi rispettassero gli Ospedali, o i Musei; venivano giù le palle senza misericordia; forse un giorno i Francesi diventeranno civili, per ora si contentano dirlo. Le mura di Roma non potevano resistere, sarebbe stato buona provvidenza terrapienarle, ma non lo fecero, sicchè ruinavano, scheggiavansi, e i frantumi schizzanti provavano i nostri più dannosi delle palle; essi però non si sgomentavano, e quando vedevano le bombe precipitare urlavano: «ecco Pio IX!» Appena cadute con temerità piuttostochè con audacia saltavano loro addosso, e ne staccavano la spoletta, o la troncavano portandole con grande allegrezza al Garibaldi, il quale le pagava uno scudo l’una, sicchè, per questo modo, veniva al difetto delle munizioni a sopperirsi con quelle tolte al nemico. Anco allo stesso Garibaldi accadde, che mentre visitava le difese una bomba gli cadesse forse dieci passi distante, fuggirono tutti, egli rimase imperturbato e solo; per ventura scoppiando lo coperse di terra senza fargli altro male; allora gli si strinsero tutti alla vita gridando con immenso entusiasmo: «viva Garibaldi!» In quei giorni il capitano Castelnau recatisi a bordo del Magellano buona quantità di soldati si recava a sobbissare la fonderia di Porto Anzo, la quale cosa gli venne molto agevolmente conseguita; sovvertì le fabbriche, ed inchiodò i cannoni; fatto questo, ripartiva per Civitavecchia portando seco ottocento palle di vario calibro, e novemila libbre di mitraglia; ed anco questo stroppio accadde per imprevidenza, dacchè ogni qualunque soldato comecchè mediocremente esperto avrebbe avvertito di tenere le polveriere, gli arsenali, i magazzini insomma delle cose necessarie alla guerra in parte dove il nemico non potesse agguantarle con subita scorreria. La procella del fuoco, e del ferro imperversa più furiosa che mai, ad onestare la barbarie i Francesi penseranno più tardi, e poi facile impresa è per loro perpetuamente mentire; muoiono combattenti, muoiono non combattenti, cittadini inermi, vecchi, donne, e fanciulli; il tempio della Fortuna virile è manomesso, guasto il dipinto dell’Aurora di Guido Reni, e gli altri del Pinturicchio, e del Domenichino. I nostri quanto potevano facevano; anzi sopra le altre preclara l’opera degli artiglieri, i quali non mai domandavano sollievo non che sollazzo; tranquilli, taciturni surrogavansi a vicenda, i vivi venivano a riempire i vuoti, che lasciavano i morti senza osservazione, o lamento. I nostri ingegneri nel presagio che la prima cinta sarebbe superata intendevano compirne un’altra, e ci posero mano, ma anch’essa non fu condotta a termine, per mancanza di braccia, però che i soldati del Garibaldi non potessero sopperire a tutto, e il governo non provvide che 700, ovvero 800 uomini al dì, non bastevoli all’uopo; forse non era sua la colpa; facile sempre la censura, ed i Governi, comecchè solertissimi, nel tumulto degli eventi, e nella perturbazione dell’animo provvedere a tutto non possono; chi sta su la fossa piagne il morto: di ciò parleremo anco altrove. — Certo buona volontà non mancava, e i cittadini solo, che fossero stati chiamati, non sarebbero rimasti sordi allo appello, però che fosse mestieri piuttosto cacciarli, che spronarli, ed in fatti un giovanotto essendo stato respinto dalla trincea perchè troppo piccolo, se ne tapinava esclamando: «o che forse il Generale è grande!» Questo è il combattimento, che accadde al ponte Molle. I Romani temendo sorpresa, e danno dal lato dei monti Parioli attesero ad allungarsi sopra queste colline; scontratisi col nemico ne successero molte e varie avvisaglie di cui fu il fine, che i nostri snidassero i Francesi da certe case ch’essi occupavano, e le incendessero; però il giorno di poi non patendo essi cotesta cacciata, di buon mattino valicarono grossi il ponte Molle, senonchè bersagliati dai nostri cannoni che dalle alture li fulminavano ebbero a ripiegarsi su l’altra sponda; ma nel pomeriggio il generale Guesviller li riconduceva all’assalto contro la diritta difesa dal colonnello Masi; da una parte e dall’altra incerta la fortuna, pari il valore; i capitani di stato maggiore Podullack, e Taczanowski entrambi pollacchi accorsero al quartiere generale per rinforzi, egli ebbero ma tardi e pochi comandati da quel fiore di uomo Berti-Pichat nel quale ammiri in bellissima concordia congiunte la dottrina, la probità, e la virtù militare; bolognesi tutti. Quando arrivarono, le cose volgevano al peggio però che i Francesi di cheto presero per di dietro il luogo dove i nostri combattevano, i quali non potendo reggere si ritirarono, e i Bolognesi essendosi di troppo avanzati tardi si accorsero del passo disperato nel quale erano caduti; venticinque ad un tratto colpiti giacquero per non rilevarsi più; intimato il Podullack a cedere le armi rispondeva: «a voi altri cani vituperati io non mi arrendo:» e uccise due Francesi uno di spada, l’altro di pistola; giacque trafitto da cento punte, e lì rimase; reso il giorno veniente agli amici supplichevoli ebbe onorata sepoltura. Egli forse poteva salvarsi e non volle, non bastandogli il cuore di lasciare in terra l’amico suo Taczanowski col ventre lacerato; questi però scampava la vita; l’altro adesso riposa nella nostra terra. Ah! non sarebbe stato così, che noi avremmo voluto ospitarti cortese amico; pure abbiti quello che solo possiamo darti pio ricordo nelle nostre famiglie, ed augurio di libertà alla tua Patria; e forse un dì, affrancati anco noi dal grave aere, che ci opprime, compenso di sangue al sangue tuo. Il Tenente Brugnoli bolognese, comecchè squarciato, e grondante sangue ebbe balìa di uscire dalle mani ai Francesi, il soldato Schelini vedendo un Francese che aggavignato il Berti-Pichat intendeva strascinarlo seco, lo ammazzò di botto, dando facoltà al suo comandante di svignarsela incolume. Deplorammo il capitano Fiume spento sul campo, e Oliva da San Severo. Questi con più lunga angoscia lasciava la vita; sul punto di pigliare di assalto una casa tenuta dal nemico colto a sommo il petto casca su la soglia di casa; quattordici giorni si travagliò il misero lontano dai suoi, che non lo consolarono di conforti, nè di lapide funerea, inconsapevoli del luogo dove fu adagiato in grembo alla terra. — Io trovo scritto come in questa fazione morisse un›altro giovanetto di anni diciassette di gentile sembianza, e fiorentino; ferito nella gamba destra, all›ufficiale francese, che gl›intimò la resa ruppe la testa gridando: «va via soldato del Papa,» trafitto da cinque palle cadde sul nemico spento; si chiamava Gherardi: perchè queste anime nella mia terra non sono seme, che frutti? Quando ci si novereranno copiose come ora ci appaiono rare Firenze meritamente vanterà per impresa il suo leone; fino a quel dì le conviene molto meglio l›agnello di Calimara. Si stringe intorno a Roma la fiera cintura di ferro e di fuoco, e il nemico moltiplica le artiglierie a porta San Pancrazio, donde si aspetta resistenza maggiore; apronsi finalmente dai Francesi le batterie di Breccia, le rintuzzano i nostri cannoni dai monti Testaceo ed Aventino; rabberciate le Trincee i nemici ripigliano il trarre, il Bastione VI non senza danni pure fa buona prova; tracolla tutto il muro di cortina al bastione VII, ma la terra non gli smotta dietro, anzi rimasta diritta a picco difende, nè per lanciarvi contro granate punto si smuove. I Francesi accatastando Breccia su Breccia ne costruiscono tre per tempestare il Vascello, la Villa Savorelli, e le case di fianco alla porta San Pancrazio: qui cadde il tenente Cesare Covelli cui il colpo stritolò il braccio; tribolava due giorni, e poi chiuse gli occhi alla vita, non infelice affatto perchè morì nella speranza, che Roma la potesse sgarare contro i Francesi; altri sei artiglieri morirono a un tratto per colpa di una palla, che imboccò dentro la cannoniera; anco il buon Ludovico Calandrelli percosso nel petto da un frammento di ruota ebbe a cessare le difese; chi lo vide mi dice, che portò lungamente la parte lesa nera più che carbone. Il Garibaldi considerando come cotesto Bastione armato di pezzi da campagna mentre al nemico non arrecava danno era causa di lutti deplorabili ordinò lo disarmassero; ed anco dalla Villa Savorelli gli toccava a sloggiare; ormai l›avevano tolta di mira, che non meno di 80 a 90 bombe al dì ci cascavano dintorno; una entrò in camera al Manara mentre stava facendo colazione, e tu pensa se sobbissassero soffitte, pavimento, porte, e finestre, un›altra fra i cavalli nella stalla di casa e non ne uccise veruno; invece un›altra caduta nella casa attigua ne ammazzò due; con questa pioggia di bombe pure bastava il cuore al Garibaldi di tenere lì dentro la villa un barile di polvere; nè per questo ei faceva le viste di andarsene; il giorno seguente le bombe caddero nella stanza dei segretari e ci appiccarono il fuoco, la prossima casa sfasciarono, e il Garibaldi non si decideva; alla fine gli misero in frantumi la torretta, e allora gli fu mestieri ricoverare altrove. Nè vo› tacere come un›altra bomba ruinata fra i galeotti i quali lavoravano alle trincee in un colpo ne ammazzasse sei; di sessanta ormai si trovavano ridotti a quaranta quando supplicarono il Generale gli avventurasse agli estremi pericoli, e premio di tanto fosse la morte onorata, o la colpa espiata, ed ei rispose loro sperassero, intanto continuassero a chiarire il mondo come nocenti cittadini fossero stati contro il prossimo, ma della Patria figli pur sempre: tutti si comportarono da valorosi, taluno da eroe, ed ecco come. Al Garibaldi, che certo giorno visitava le opere condotte da questi sciagurati, uno di essi parlò e disse: «posso io discorrervi? — Parlate. — Generale, perchè mo› ce lasciate là e› Francesi?» E gl›indicava il Casino dei Quattro venti; a cui il Generale sorridendo: «perchè non ci riesce a cacciarli via. — Ma scusate Generale se ce andiamo noi, loro non ci possono stare. — Qui appunto sta l›osso. — Scusate Generale questa difficoltà non ce la vedo, se me date quaranta omini di fegato, io ve caccio li Francesi da quel posto.» Ebbe il servo della pena i quaranta compagni, e andò diritto al palazzo Corsini pigliando per la porta e per lo mezzo del viale fiancheggiato da cipressi; appena i Francesi li scorgono con le infallibili carabine li fulminano, taluni cascano, altri riparano dietro ai cipressi, ma il condottiero di cotesta impresa non curante di loro procede imperturbato col suo moschetto sopra la spalla; il nemico riseconda la scarica, e per questa eziandio taluni ristanno per ferite, altri per paura, nè costui piega collo, solo passa la linea delle scolte nemiche, e solo arriva a piè del palazzo, dove per mostrare ai Romani, che dalle mura lo seguitavano trepidanti coll›occhio, come in lui non allignasse jattanza o se pure jattanza non superiore alla virtù si pose a sedere su la gradinata davanti all›uscio col fucile fra le gambe. Il Garibaldi acceso in volto eccitava i circostanti ad avventarsi con lui al soccorso dell›animoso; il forzato intanto poichè si fu rimasto tempo più, che bastevole per essere veduto così dagli amici come dai nemici, si leva in piedi, e con l›archibugio su la spalla ripassa la linea delle sentinelle francesi, e di bel nuovo per lo mezzo del viale s›incammina a Roma; ormai ne aveva trascorso più che un terzo quando una palla lo ferì nei reni, ed egli tracollando inforcò con la testa un cipresso dove finì la mal vissuta, ma ben conchiusa vita. Il Garibaldi a quella vista si picchiò del pugno su la fronte, e volto al cielo mormorava non so che parole; forse avrà invocato Dio; io però non lo guarentirei. Pochi giorni dopo successe un›altro caso, il quale dimostra come facile si apprenda in cuor di popolo l›agonia di gesti generosi, ed io lo racconto non solo per questo, ma altresì perchè si vergognino (se mai fosse possibile) coloro, che per essersi messi un dì al cimento per la Patria non rifinano mai di rinfacciarlo pretendendo di essere adesso mantenuti del danaro pubblico oziando nel Pritaneo, o di risucchiare eterne mignatte le tasche dei privati. Certo Barabba, che tale hanno nome i facchini a Milano, avendo osservato come i Francesi lavorassero indefessi ad alzare un terrapieno dalla sinistra parte del Vascello, se ne andò in fretta ad avvisarne Giacomo Medici, il quale rispose breve: saperlo. Il Barabba incollerito ripiglia: «o perchè non s›impedisce?» E il Medici più aggrondato, che mai: «non si può.» Il Barabba sta cheto, e quinci partitosi si accorda con alquanti dei suoi compagni, gente pronta a mettersi in qualunque sbaraglio, e con essi esce dal Vascello; di celato si accosta ora nascondendosi dietro a un vaso di limoni, ed ora dietro una siepe al terrapieno; alla stregua, che sparisce lo spazio ai compagni viene manco il coraggio, sicchè all›ultimo resta solo, nè di ciò si accorge: solo pertanto arriva al terrapieno, e solo di un salto piomba giù fra i soldati gridando: «siete tutti morti!» I Francesi naturalmente temendo gli tenesse dietro grossa mano dei nostri, gittati via i badili, e le vanghe scappano via a pigliare i moschetti, per difendersi; ma il Barabba volgendo allora gli occhi per contare un po› con quanti moveva all›assalto, si scorge solo: pianse di rabbia, e per questa volta la fortuna risparmiando l›animoso gli concesse tornare salvo al Vascello, dove il Medici dopo avergli concesso le meritate lodi lo volle con una moneta ricompensare: il Barabba gli ficcò gli occhi addosso a squarcia sacco, ma il Medici pronto riparava la svista dicendo: «tienla per cambiarla in una medaglia.» Molti i feriti da questo continuo grandinare di palle; fra i morti ricordansi il Lenzi tenente, Tavolacci, Marucci, Fedeli, pure tenenti, e il capitano Minuto. Ora al Vascello; forte edifizio, con alcune case dintorno: di giorno lo difendeva il Medici con 150 soldati, cui nella notte rinforzavano ora con una mano di uomini di questo, ed ora di quell›altro corpo Unione, Finanzieri, Studenti, o legione Arcioni. — Avendo il Medici condotto una Trincea dal Vascello fin presso la casa Giacometti proprio di rincontro alle Trincee dei francesi, questi per levarsi cotesto pruno dagli occhi, che del continuo li molestava, si giovarono di una nebbia che sorse densissima nella notte del 21 Giugno, pensando cascare improvviso sopra i trentacinque uomini custodi della nostra Trincea e della casa: però tanto non seppero studiare il passo che intralciati dalle vigne non dessero la sveglia; onde il comandante dei nostri trentacinque ordinava, non fiatassero, sfolgorassero il nemico appena pestasse le canne stese oltre la porta un dieci passi, poi fuori a ributtarlo con la bajonetta; e così fecero; erano i Francesi due compagnie di granatieri del reggimento trentesimo sesto; scorate scapparono lasciando in terra morti il capitano, con altri dieci soldati; moribondo un sergente, con parecchi granatieri feriti. Per ora taccio del Vascello, ci tornerò in breve; intanto si sappia che il Medici lo difende sempre, e che i Francesi sfogando sopra quello la soldatesca rabbia lo hanno lacero in modo, che se si regge ancora pare miracolo. Fra le dolenti mi occorre narrare adesso dolentissima storia; correva la notte del 21 al 22 fosca per fitti nuvoli, e piovigginosa: anco dai più imperiti si comprendeva essere mestieri raddoppiare vigilanza, e di vero si raddoppiò, perchè temendo l›assalto appunto dalla parte donde venne furono mandate per tempissimo nel pomeriggio del 21 sei compagnie del Battaglione della Unione a presidiare il luogo; quivi erano state fatte tre Breccie facili a salirsi, se non che i nostri vi avevano a poca distanza scavato una fossa, e riempitala di materie infiammabili, che avrebbero dovuto scoppiare appena fossero comparsi i Francesi, la quale opera avevano confidata a certo ingegnere prussiano, e a lavoranti stranieri. Delle sei compagnie tre ne posero a custodia del Bastione secondo, una dietro la Breccia della Cortina, due di presidio al Bastione terzo: anco due sentinelle furono collocate su i palchi rimasti ritti ai fianchi del Bastione secondo, e sei altre su l›alto della Breccia dietro a macerie di sassi; venne loro ordinato: «stessero vigili, appena udissero rumore gridassero: all›armi! meglio spaventarsi indarno, che rimanere sorpresi.» E poichè lì presso sorgeva un folto canneto ebbero avvertenza di metterci un›uffiziale con quattro soldati con ripetuto comando, che al menomo stormire di gente incendiassero il canneto; furono eziandio disposti due punti di ritirata; diligenze pari adoperaronsi al Bastione terzo; anzi ammoniti gli ufficiali a volere persuadere i soldati a vegliare tutti, questi senza attendere domanda con gran voce esclamarono: «noi veglieremo, e faremo tenere desti i compagni. — Al Bastione quarto si raccomandò conservassero a qualunque costo la casa vicina per avere adito di ripigliare ad ogni sinistro la breccia, e siccome pareva, ed era il presidio debole fu sollecitato il maggiore Cenni a rinforzarlo. — Per non mancare poi alla più minuta diligenza, che l›arte della guerra suggerisce al Bastione secondo venne deputato a soprastare l›ufficiale di stato maggiore Capitano Stagnetti; al Bastione quarto il capitano Caroni. E malgrado tuttociò verso le ore undici di notte un aiutante del maggiore Delaj comandante le sei compagnie della Unione, arrivava tutto smarrito a riportare al Generale Garibaldi come i Francesi senza colpo ferire avessero preso le tre breccie. — Quello che il Garibaldi in cotesta occasione facesse e dicesse mi occorre scritto nelle memorie di tale che ci si trovò, presente: «verso la mezzanotte il Generale scese taciturno, e torvo, Manara scriveva; incontrato il centurione Zannucchi il Garibaldi gli domandò: — che ci è di nuovo? — Generale i Francesi hanno superato la breccia. — Gli hai tu veduti? — Non vi state a confondere pur troppo ci sono. — Allora mosse frettoloso quattro passi o sei per uscire, poi di un tratto si volse a me dicendo: — chi sa, che cosa hanno mai veduto! Avete pronta la vostra gente? Mandate un›uomo capace a scoprire. — Io vi mandai il sergente Marcheselli mantovano, e al tempo stesso schierai la coorte; di un tratto il Generale senza aspettare l›arrivo del Marcheselli mi ordina seguirlo coi miei soldati; così camminammo un pezzo, quando fummo prossimi alla breccia a tramontana levante della Villa Spada, mi disse: «voi andate per di lì, e mi additava un sentiero verso la breccia, egli poi avendo incontrato il maggior Leggiero si avviò con quello verso porta San Pancrazio, ma non fornirono insieme il cammino perchè indi a breve il maggiore ferito malamente in un piede non potè più andare. — Io proseguii, e mutati appena duegento passi una voce si fece sentire che domandò: êtes-vous français? Ed io senza gingillare ai miei: «fuoco!» Cotesta risolutezza ci salvò, perchè ne surse un diavolìo di moschettate da altre parti, e noi potemmo non curati salvarci senza morti, come senza ferite.» Nè al Garibaldi solo parve incredibile il fatto, ma alla più parte dei suoi, segnatamente a quella anima virtuosa di virtù antica Ugo Bassi. — Adesso del Bassi veruno parla come pur si dovrebbe: troppi morti ci domandano ricordo e compianto, e poichè tutti in affetto sono pari così non si distinguono, e non si possono distinguere: ma il Tempo agita continuo il ventilabro, e lo sceveramento si opera necessario; più tardi verrà chi di lui amoroso ricerchi, ed arguto ragioni: singolare miscela fu di due nature non pure diverse ma contrarie, ora avvampante, ora riserbato e freddo, tra pochi timido, male e scarso favellatore; tra molti turbine di parole, e temerario; quando sentiva strepito di cannone, o di moschetti non si poteva tenere, e gli era forza avventarsi là in mezzo al fumo, e al fuoco senza nè manco sapere, che cosa ci andasse a fare: che cosa lo reggesse davvero non si sapeva, poco si nudriva, meno beveva, di rado lo visitava il sonno: sottile e pallido e tuttavia infaticabile, e di nervi gagliardo. Quando sovveniva qualche caduto poteva scoppiargli una bomba accanto non che ci si fosse mosso, non l›avrebbe nè anco sentita. Certo dì cavalcando in compagnia del Garibaldi casca vicino a loro una bomba; potevano sottrarsi al pericolo con la fuga, ma il prode uomo non ci pensa nemmeno; in un›attimo è sceso, strappa la spoletta, la spenge, ed impedisce, che scoppiando danneggi altrui e sè. Il Garibaldi frugatosi nelle tasche ne cavò un baiocco e sorridendo gli disse: «piglia, questa è la decorazione, che sola può darti il capitano del popolo.» In questa notte pertanto il Bassi facendosi a trovare il medico del Generale tutto affannoso gli diceva: «O Ripari mio; i Francesi hanno preso la breccia; possibile mai! Io non ci credo. Bisogna saperlo di certo. — E come possiamo fare? Rispondeva il Dottore. — Andare noi stessi a vedere. — Questo non si può, troppo lunga è la strada, pioviscola, e sul cammino si sdrucciola. — Vieni, ma vieni, fammi la carità, non mi mancare amico.» E il Ripari, che mai non seppe negare siffatte voglie allo amico andava con lui. — Le mura si vedovano per l’aere fosco a cagione della linea anco più nera, che disegnavano in quello; di un tratto la mirano spezzata, con molta cura accostansi, ma non rinvengono persona, che occupasse lo spazio vuoto; proseguirono fino alla seconda cinta, e qui notarono incoronate le macerie di punte. «Eccoli lì, parlava sommesso il Ripari, coteste le sono baionette. E il Bassi, — non si può negare, ma come ci chiariremo se le sono nostre o piuttosto nemiche? Aspetta mo’, che ti chiarisco io, riprese il Ripari; poi a voce alta gridò: «chi va là?» Dalla trincera con accento strano risposero: «amizi, amizi.» Nè di tanto pago il Ripari da capo esclama: «avanti!» E la medesima voce di rimando: «non puole, non puole.» «Ti basta?» Il Bassi strinse la mano al Ripari come convulso, e questi lo persuase a gettarsi seco nelle vie coperte praticate dai nostri lungo le mura per iscampare ad imminentissima morte. La breccia era presa: ora come mai avvenne questo? Corse subito il grido di tradimento, e tuttavia dura, però importa considerare come quante volte simili sorprese succedono, la voce di tradimento venga a galla sempre, e la cosa ci sia di rado: qui dissero, che un’ufficiale corso calatosi dalle mura andasse ad informare i Francesi, che lì presso alla breccia occorreva un antico acquedotto, e per questo i Francesi inoltrandosi sicuri, e d’improvviso apparissero sopra la breccia come usciti di sotto terra, e non fu vero: di acquedotto non si rinvenne traccia, nè ai Francesi faceva mestieri di fuggitivi, che gli ragguagliassero; come altrove accennai, molte lettere arrivavano loro pel Tevere chiuse in boccie vuote, e quasi queste non bastassero col favore dei preti entravano ufficiali francesi ad ogni momento per ispiare lo stato delle difese: fantasticarono altresì, che l’ingegnere prussiano co’ suoi lavoranti invece d’incendiare le mine praticate nelle vie coperte se la intendesse co’ Francesi e loro consegnasse per pecunia le vie dond’essi sbucarono: ed anco questo sembra falso; vero questo altro: che i Francesi cadutigli addosso repentini, lui, e i suoi menassero prigioni: non mancarono attribuirne la colpa al maggiore Delaj, ed anco si ventilò se avesse a sottoporsi a Consiglio di guerra, ma poi si lasciò correre. Per chi costuma leggere storie conosce come non ci abbia diligenza per accurata che sia, che il nemico solerte non arrivi a vincere. Nella vita di Arato il Plutarco egregiamente racconta il modo col quale cotesto eroe penetrava in Sicione malgrado l’abbaiare dei cani, e il continuo aggirarsi delle guardie, sicchè la scalata accadde per lo appunto dopo il passo di due di loro, strepitose per campanelli agitati, e schiarite da molte fiaccole. Narrando io di Andrea Doria ricordai come questi, il quale sapendosi in odio a Francesco I, e il nemico quasi in casa, stando pure su l’avvisato la sgarò di un pelo di cascare in mano ai Francesi, che con notturna scorreria assaltarono Fassuolo, e non la scampava se per ventura taluni soldati non avessero preferito al sonno il giocare a carte: e se la fama porge il vero quando il generale Lamarmora s’impadronì nel 1849 di Genova trovò le guardie messe a difendere la Lanterna le quali senza un pensiero del nemico su le porte si sollazzavano parimente con le carte. — Posto da parte l’ultimo esempio, se le altre due sorprese compironsi a danno di uomini vecchi, sospettosi, e guardinghi che stavano a buona guardia, tanto più agevolmente poterono condursi a termine in questa occasione in cui forza è pur dirlo, le provvisioni furono o fatte male, od omesse, parte per difetto di facoltà, e parte per imperizia: abbondavano nei nostri impeto, e ardire, ma di pazienza non volevano saperne; soprattutto la disciplina avevano in uggia, è mancando questa all’ultimo le imprese riescono sempre a male: poi come succede ognuno saltava su a dire la sua, nè solo la diceva ma pretendeva si eseguisse, e se inesaudito empiva la città di querimonie e di sospetti; il corpo degl’ingegneri nostri eccellentissimo di peregrini ingegni, ma imperito nelle opere militari, quello dei Francesi all’incontro superiore a molti, secondo a veruno, ed il suo capo Vaillant celeberrimo per meritata fama. Anco il nostro ministro della guerra, ch’era quel prode uomo che il mondo conosce, Avezzana, sapeva di barricate, non d’ingegneria militare per difendere piazze, e mentre a quelle dava opera premurosa ed inefficace, di queste poco si prendeva pensiero. Del Garibaldi parmi senza esitanza potersi affermare, che a lui non si confanno i modi dello star chiuso a difendere mura; egli ama i campi aperti, le selve, i monti; secondo il suo genio i colpi arditi, lo avvolgersi impenetrabile, lo avventarsi prodigioso come di aquila, che piombi giù dalla rupe. — Rosselli per indole, per istudi, tutto diverso a lui, egli ricercatore di teorie, e a quelle ossequente minuzioso. A comandare troppi, troppi pochi a obbedire: forse anco un po’ di screzio si era intromesso fra i capi; i continui sforzi non allietati mai dalla vittoria, e la certezza di avere pure a cedere il primitivo ardore in parecchi più speculativi avrà sboglientito di certo, e chi altramente si avvisa non conosce o non vuole conoscere il cuore dell’uomo; nè il Garibaldi lo dissimula nelle memorie che mi manda, dove trovo queste parole notabili; «i corpi ormai andavano privi dei migliori ufficiali e soldati: anco fra quelli che prima si erano comportati mirabilmente, adesso che vedevano le cose incamminarsi a male, si manifestava una tal quale reluttanza, ed anco, se vuoi, resistenza, massime tra gli ufficiali che ormai tendevano ad acconciarsi con la restaurazione del Papa: resistenza, che era ad un punto causa di continui imbarazzi, e preludio di quasi certa rovina.» Tali, con breve sermone io lo esporrò, l’apparecchio, e l’assalto dei Francesi: allestirono dodici compagnie della seconda divisione, e sei divise in tre colonne preposero all’assalto delle brecce: ad ognuna di queste assegnarono centottanta tra zappatori, e lavoranti perchè rimovessero gl’impacci, e con gabbionate costruissero subitanei ripari; le altre sei alla riserva: ancora due battaglioni della guardia della trincea al bisogno dovevano soccorrere la riserva; soprattutto badassero a impedire che i nostri sortendo da Porta San Pancrazio circuissero gli assalitori alle spalle. Tutta la prima divisione in arme nelle ville Pamfili, e Corsini in procinto di accorrere alla riscossa là dove se ne fosse manifestato il bisogno. — Con accorgimento vieto di guerra, e tuttavia sempre efficace i Francesi dissimularono il vero assalto con due finti alle mura di Porta San Paolo, e ai monti Parioli in vicinanza della villa Borghese adoperandoci cinque battaglioni, e artiglierie a macca, le quali diluviarono bombe, granate, e di ogni maniera arnesi di distruzione sopra la più bella parte di Roma. Alle undici di notte dava il segnale dello assalto il colonnello Niel, i Francesi procedendo cauti, ed ordinati, colgono i Prussiani nella via coperta, e presili a man salva, impediscono la strage che avrebbero menato le allestite mine se fossero state accese; una sentinella sola porse avviso, ma tardi, o per sua negligenza, o per mirabile celerità del nemico, che davvero parve ai nostri trasognati balzasse fuori di sotto terra; la paura (che paura fu) s’impadronì dei soldati della Unione, i quali ripiegaronsi, scaricate le armi a tumulto, sopra le due case, nè li ristettero, anzi dando indietro alla dirotta, travolsero nella turpe fuga i difensori di quelle, e gli altri, che dovevano tener fermo alla cortina. — Il tenente colonnello Rossi preposto alla difesa della seconda linea non si potendo dar pace per cotesto inopinato rovescio, e reputandolo uno dei soliti spaventi senza causa andò a speculare per lo quale inoltratosi fino in mezzo ai nemici che lo lasciarono avanzare cadde prigioniero. Se la fuga vergognosa arrugginisse il cuore del Garibaldi pensi chi legge, molto più, che egli aveva dichiarato, come il Palafox a Sarragozza, volere difendere le breccie col coltello mostrando la faccia alla fortuna; chiamato pertanto il Sacchi gli comanda tolga seco due compagnie, e corra a ripigliare ad ogni costo il Bastione: «scelti, scrive il Sacchi (il quale si compiacque anch’egli sovvenirmi in questo lavoro) la terza, e la quinta centuria entrambi comandate da due ufficiali di Montevideo: ricordo il nome di uno ch’era Cuccelli; ho dimenticato l’altro, ma si diceva Corso; si spinsero innanzi con maraviglioso ardimento, ma giunte forse venti passi discosto dal nemico un fuoco micidialissimo le decimò: ciononostante gli ufficiali animosi s’ingegnano spingere i soldati contro i Francesi, i quali se ne stavano al coperto dentro ad un fosso scavato dai nostri a danno loro dirimpetto alla breccia, e che adesso li protegge a danno nostro: alla prima scarica successe un grandinare di palle dal ciglione esterno del bastione occupato del pari dai Francesi: per colmo di sventura un colpo di mitraglia diretto contro i nemici investe i miei poveri soldati, i quali laceri da due fuochi si scompigliano e cedono dopo avere dato prove di valore disperato.» Quivi morì Sampieri giovane vicentino, bello di corpo e di animo bellissimo, il quale non si sapendo trattenere saltò nel fosso e rimase sopra le baionette francesi trafitto; altri giacquero spenti sul ciglione, sicchè alla dimane i nostri ci raccolsero ben ventidue cadaveri; tra questi Quirino Bernardini sergente nella prima centuria della legione italiana: a questo prode giovane sembrando possedere virtù pari a coloro, che innanzi a lui erano stati promossi (e certamente l’avea), tenne che ciò accadesse non per colpa degli uomini, bensì per malignità della fortuna, la quale gl’impediva illustrarsi con qualche generoso fatto, onde deliberato di mettersi allo sbaraglio nella prima occasione, depose il suo testamento in mano amica, e poi cercò il destro di condurre a fine il suo proposito, per la quale cosa comecchè non chiamato volle spontaneo far parte della gente del Sacchi commessa a cacciare via i Francesi dalla breccia; andò, combattè come uomo che ormai si era votato alla Patria: per ferite non si rimase, finchè alito gli durò percosse, e fu percosso; coll’ultimo colpo abbandonò la vita, spettacolo di orrore, e di stupore ai suoi medesimi nemici. Già accennai come in quella notte nefasta andasse perduta la villa Barberini; alla difesa di lei fu un tempo preposto Carlo Gorini; quinci egli doveva custodire la breccia, e tenne lo impegno disperdendo a suono di archibugiate il nemico ovvero lanciando granate a mano in mezzo di lui. Il Cadolini ch’era dei soldati del Gorini ci narra perigliosissimo il compito loro, imperciocchè avendo a vigilare scoperti al lato della breccia di frequente andassero feriti dai frantumi, che schizzavano dai sassi percossi dalle palle nemiche. Mi parrebbe mancare al mio debito se tacessi quali nella massima parte fossero i soldati di Roma, e qual genio gli animasse: giovani illustri, delle più inclite famiglie italiane, pieni di grandezza l’anima, come di valore nel braccio; e tuttavia la gente turpe, che altrove e in Francia, ma più in Francia, che altrove, fa mercato di sè ardì infamarla; però che il costume di tempi perdutissimi insegni accusare altrui per nascondere il delitto proprio; ma di ciò basti, ed è troppo. Tali e siffatti i pensieri di quei giovani soldati: «quelle ore (scrive nelle sue note il buon Cadolini che stese a posta per me) di servizio notturno erano le più solenni per noi. Dalla cima dei bastioni del Gianicolo donde si vedeva da un lato torreggiare il Vaticano, da un altro distendersi la campagna romana, e finalmente la valle del Tevere, le immagini più sublimi venivano ad affollarsi alla nostra giovane mente. Roma cuna della civiltà antica, e sede della più estesa, e più durevole potenza a cui sieno giunti i popoli del mondo. Dove più che in Roma esempi immortali di glorie militari, e di virtù cittadine? E se di Roma antica porgono testimonianza il Gianicolo campo un tempo delle contese dei vetusti abitatori dell’agro romano, e delle guerre dei Vejenti, il Tevere, i Sette colli, il Panteon di Agrippa, la mole Adriana, e gli altri innumeri non meno che stupendi monumenti, Roma moderna attesta, sopra ogni altro edificio, la basilica Vaticana, prova di quanto potè il Papato, e tuttavia possa il cattolicesimo ora fatto ostacolo in mezzo alla via al cammino della Libertà. Questo spettacolo, che la luna illuminando co’ pallidi raggi rendeva più solenne sublimava il nostro intelletto facendolo capace dell’altezza sopra umana del mandato impostoci dalla Provvidenza di rigenerare un popolo caduto, e che tanta parte ritenne della divinità; sicchè sovente meditavamo fra noi: quì per noi hassi a calpestare il nido delle vipere che attossicano la umanità; quì per noi deve rifiorire l’antica libertà; quì al cospetto degli spiriti magni ci corre il debito di mostrarci non al tutto degeneri da loro: anima e corpo dobbiamo intendere perchè la storia di questi colli aggiunga ai molti passati qualche odierno gesto degno dei grandi propositi di cui ci lasciarono gli antichi padri esempi immortali.» Certo di questa maniera concetti non mulinano nel capo delle macchine tirate su a suono di raspa dalla obbedienza cieca, e passiva: e ci somministra argomento di riso la gagliofferia di coloro, che mentre imbestiano l’uomo più delle bestie pretendono poi che per la Patria dieno il sangue, e la vita; arrogi di rincalzo, che la Patria per questi non si deve capire come la comprendiamo noi, bensì Patria ha da essere un’uomo, che spesso la vera Patria strazia, e sempre la risucchia, togliendo per sè solo quello che diviso basterebbe a quattromila famiglie: nè quì finisce, chè la ricchezza smodata come corrompe chi la gode così è causa che altri si corrompa: ed invano il consorzio umano si affatica sanarsi, finchè gli duri perenne il fradicio in corpo. Perdonsi a tagliuzzare le fronde, e aborrono capire, che con l’accetta si vogliono dare colpi a due mani nel ceppo. Certo i luoghi esercitano virtù grande su le menti, nè l’uomo può mostrarsi vile a Maratona, o a Roma; e credo anch’io che dalla terra, e dall’aria romane venisse un senso, che valse a mutare pochi giovani imperiti di milizia in eroi prestanti a resistere alla forza materiale di eserciti meglio agguerriti del mondo; i quali tanto più fieno argomento di eterna maraviglia quando tu pensi, che speranza di vincere ormai più non avevano; di aiuti dagli amici di Francia erano sfidati; come se non bastasse la Francia stavano lì pronte a sovvenirla le monarchie di Austria, di Napoli, e di Spagna; e tuttavia essi si mantennero uniti allo scopo di chiarire i posteri come i presenti che dove la Libertà è il retaggio, che il popolo difende, la impresa può annegare nel sangue, nella viltà non mai. Alla gente del Gorini richiamata dentro Roma la mattina del 21 surrogarono alcune compagnie di soldati di linea; perdute le breccie verso la mezzanotte di nuovo la spingevano verso la porta di San Pancrazio; le ordinavano presidiasse la villa Spada e la difendesse; potendo ripigliasse la villa Barberina, ma prima ne aspettasse il comando: non se lo fece dire due volte, e appena giunta incominciò a fioccare moschettate alla dirotta contro i Francesi annidiati nella villa Barberina: quando appena si fu messa un po’ di luce la gente domandava con alti gridi la conducessero allo assalto; ella vedeva pur troppo, che dal riacquisto di coteste linee pendevano la vita o la morte di Roma, ma l’ordine di moversi non venne: intanto il nemico ultimò le sue opere di difesa, e i nostri in cotesta avvisaglia senza costrutto andavano stremandosi con danno irreparabile. Le storie delle battaglie vanno piene di singolari presentimenti palesati intorno alla propria morte da coloro, che in effetto perirono; forse ciò avviene perchè quando la morte presagita tiene dietro al presagio la gente ne serba conto, mentre in caso diverso passa inavvertito, o ne omette il ricordo; tuttavia confesso, che vi hanno successi nel mondo dei quali è difficile per non dire impossibile rendere ragione: adesso vuolsi sapere come certo Giuseppe Magni da Milano sergente parlando in quel giorno della battaglia del 3 giugno ebbe a notare: «cotesto fu il dì dei caporali (e di vero assai ne morirono allora) oggi viene quello dei sergenti, ed io sarò tra i morti,» e così accadde: dopo non bene un quarto di ora colpito di palla nella fronte periva; indi a breve pari sorte toccava a Carlo Ramesi: tale ugualmente auspicava di sè un Vigoni di Pavia, che incamminandosi verso Roma diceva ai compagni: «là una delle prime palle mi aspetta;» e come disse avvenne. Tardi e in mal punto davano alla gente del Gorini l’ordine dello assalto alla villa Barberina; erano le dieci del giorno ventidue di giugno: notava il Gorini con centosessanta uomini, (che tanti sommavano i suoi la più parte studenti lombardi) si poteva combattere non vincere; lo assicurarono andasse senza sospetto, altra gente sarebbe mossa a rincalzarlo: di ciò non dubitando il Gorini co’ suoi si pose per calli dirotti, e segreti, onde trafelando giunsero alla distanza di cinquanta forse passi dalla Villa. Il Gorini ordina di abbassare le punte delle baionette, e primo si avventa. Perchè primo si avventa l’animoso, pure accennando con la mano ai compagni si tengano lontano? Egli quando per lo addietro presidiò cotesta villa erasi industriato praticarvi fornelli e mine caso mai l’avesse dovuta abbandonare, adesso nello accostarcisi notando, com’ella apparisse deserta dubitò i Francesi non usassero a danno suo, e dei suoi gli ammanniti eccidi: quanto a sè non gli premeva, dei compagni sì: saliva pertanto solo la scala esterna, che mena su la terrazza; quinci scese nel cortile; di lì penetrava nel piano terreno, dove riscontrò che i Francesi avevano omesso di caricare le mine; di tanto sicuro tornava sopra la terrazza per confortare i suoi ad occupare senz’altro indugio la villa, dacchè i Francesi da certe trincee condotte lì accosto durante la notte li bersagliassero a man salva; si appressano, e cominciano a salire a rilento per non mostrare, che lo facessero per voglia di schermirsi dietro ai muri, quando appena sette ne sono saliti ad un tratto la villa si converte in Mongibello, fuoco dalle cantine, fuoco dalle feritoie durante la notte praticate nei muri, fuoco finalmente prorompe dai piani superiori: come per virtù d’incantesimo ingombra in un’attimo la terrazza di Francesi; ristettero gli altri presi da stupore piuttostochè da spavento; incominciò una pugna terribile fra i nostri sette sopra la terrazza e lo universo sforzo dei Francesi, che nascosti nei penetrali della villa mano a mano sbucavano fuori. Non iscrivo jattanze, ma verità mi costringe a dire, che se i Francesi avessero avuto più cuore avrebbero trucidato i sette, e circuito gli altri da pigliarli prigioni quanti erano; la ferocia dei nostri al tutto decisi di morire li sbigottì, onde i Francesi vibravano appena il colpo della baionetta, e fuggivano, sicchè male assestato poco feriva: ciò spiega come Girolamo Indunio, di cui tenni altrove proposito, malgrado, che in questo scontro riportasse ben venticinque colpi di baionetta nel corpo, nondimanco andò salvo, veruno di cotesti essendo mortale, e gli concedessero perfino balìa di lasciarsi andare giù dalla terrazza alta tre metri, dove i nostri lo raccolsero tutto sangue. Il Gorini già ferito di palla nel braccio, e di baionetta nella coscia considerato lo assalto fuori di speranza di riuscita, nè si vedendo da veruna parte sovvenuto pensava a ritirarsi meno lacero, che per lui si potesse, quando sdrucciolando sul sangue rotola giù per la scala a capo fitto con risico di spaccarsi il cranio; nel duro picchio, o piuttosto nei molti cozzi gli si ruppe la sciabola di cui, anco dopo la caduta agitava convulso il troncone quasi in testimonio, che i nemici venti volte superiori non fossero riusciti a disarmarlo. Il Cadolini si trovò fra i sette, ed ebbe la sua ferita di baionetta nel braccio; i calci di fucile non si contano; poi giù anch’egli a rotoli per le scale: tuttavia ne uscì a salvamento ed oggi lo vediamo nella Camera dei Deputati rappresentante, certo industre, e soprattutto onestissimo, ma che pure io vorrei esercitasse il suo ingegno in cosa molto più confacente alla indole, ed al talento di lui. Con esso, ma con più rea fortuna rimase ferito Bartolommeo Ramesi giovane lombardo appena diciottenne, il quale comecchè di animo mitissimo, ed aborrente dal sangue pure si trovò ravvolto in cotesta terribile mischia, nè già fortuito, ma sì pensatamente, e spontaneo tanto prevalevano in lui la coscienza del dovere, e lo studio dell’onore. Impallidì, ma fu dei primi a salire, tremò ma dal fianco del suo Capitano non si rimosse mai; ferito nel capo rimase; caduto di un’altro colpo in prossimità del cuore lo rilevarono i suoi. Cotesto giovane dabbene per candore di mente, costumi austeri, dottrina, ingegno, e per altre doti bellissime sarebbe stato una cara gioia della Italia, e di tanto più cara, quanto oggimai di rado ella se ne ingemma; sventura fu che egli quindici giorni dopo perisse. Gli conceda Dio nei cieli la mercede, che meritò in terra, e gli uomini forse non gli avrebbono dato. Narra donna Marianna contessa Antonini di Udine come preposta da Malvina Gostabili di Ferrara alla cura dell’ospedale di San Giacomo in Corso essendovisi recata sul principiare del luglio insieme con la degnissima socera, appena entrata il Capitano Bagni di Ferrara, che là dentro giaceva percosso nel capo, accennandole un letto vicino così le disse: «il povero Venezian poco fa è morto!» Chi era il Venezian? A noi corre triplice l’obbligo di favellare di lui onde ne venga gloria ed infamia a chi la merita. Giacomo Venezian nacque a Trieste di stirpe ebrea, penultimo dei suoi fratelli mercanti, egli solo si compiacque di studi; dopo alternati i libri con la spada (chè quante volte la Patria chiese sangue, sangue le offerse) tolse a Pisa la laurea di dottore; tornò su i campi di battaglia cacciatore delle Alpi; non si avvilì per Novara, anzi riarsero in lui l’ardimento, e la speranza; recatosi a Roma combattè come uomo, che abbia fede stieno a contemplarlo gli eroi onde la Italia si mantiene maraviglia, e spavento. Dei soldati del Gorini, mentre egli si aggira per le stanze della villa Spada in traccia di uno amico smarrito ebbe da palla nemica traversato il polmone: morì il due luglio dopo lunga, e dolorosa agonia. La madre, udito il caso, accorse frettolosa, ma lo trovò cadavere, indi a breve tribolando seguiva nel sepolcro il figliuolo. Gli amici davano al cadavere del giovane egregio sepoltura onorata nel cimitero isdraelitico presso il Circo massimo, in prospetto al palazzo dei Cesari, e gli ponevano lapide funeraria in testimonio di pietà: non patì che la lapide durasse il Papa tornato a Roma: anco ai morti fu dichiarata la guerra, nè solo il Papa, ma bensì anco i Francesi, incliti banditori di civiltà nel mondo com’essi dicono imperturbati, nulla curando il sibilo che loro mena dietro la gente. Il Venezian non fu solo da Trieste che pugnando cadeva per Roma, e le cause che ci persuasero a fare di lui peculiare ricordo sono queste. Dalmati, ed Istriani in tanto solenne occasione vennero anch’essi a sigillare col sangue il patto di famiglia, che lega tutti gl’Italiani intorno a Roma come le verghe intorno alla scure; nè il Venezian solo fra gli ebrei diede la vita per la Italia, più che con parole insegnando ai suoi correligionari con lo esempio a rompere anch’essi il giogo di ferro delle credenze salvatiche, che li tiranneggia; tutti figli di Dio suona empietà la prosunzione di reputarsi popolo eletto. Gerusalemme agli uomini ha da essere la terra dove nacquero, goderono, soffersero, e li nudrisce, e gli ha da accogliere estinti, e le ossa dei padri nostri nel suo grembo conserva; e per ultimo odio di prete, è odio immortale, che non perdona; tra gli uomini solo va rovistando i sepolcri il sacerdote, tra le bestie la jena, la codardissima delle bestie feroci. Un Casati di Milano anch’egli (vaghezza lo traesse od affetto) si attentò penetrare per le sale della Villa, nè fu più riveduto dai nostri: senz’altro i Francesi gli saranno cascati addosso in cento, e gli avranno bevuto il sangue. Avventuroso su tutti il Vismara popolano milanese, non pure perchè scampava la vita, ma troppo più perchè la fortuna gli concesse vendicare ampiamente i suoi fratelli caduti; egli invece di salire su la terrazza, girata intorno la casa, s’imbattè nella porta principale; comecchè fosse chiusa co’ suoi ingegni l’aperse, e quinci procedendo cauto fece capo ad una stalla vastissima dove maravigliando si accorse starsi nelle mangiatoie appiattati tanti Francesi: uomo avventato egli era e feroce anzichè no; onde posto mano al ferro, menò in un baleno fiera strage intorno a sè; usciva poi esultante in cuore ed illeso; in seguito lo rividero rappezzare ciabatte a Genova; più tardi combattere a San Fermo dove cadde per grave ferita sul campo. Là dove giacque morì, ovvero si rilevava? Se sopravvisse in qual parte si trova? Come tira innanzi i suoi giorni? Il popolo non ha storia individuale; egli è ente solo, continuo, di tutti i secoli, e la sua storia racconta lo infaticato progredire verso il perfezionamento; l’orma di un suo passo si chiama Cristo, di un’altro Stampa, del terzo Elettrico, e via via finchè si riposi nel tempio della fratellanza umana. L’eroe di cotesta giornata fu il Gorini, che sollevato da terra, tutto pesto, con due ferite pure esclamava: «nulla, nulla, appena sono ferito, coraggio!» e da tanto che ell’erano lievi due mesi penò a guarire nè si riebbe mai: visse esule un tempo rigido, e intemerato; rinnovatasi la guerra combattè a Varese, e a S. Fermo; nello esercito italiano ebbe grado di maggiore: io lo conobbi deputato al Parlamento italiano; pallido di faccia, di sembianze severe, e pure belle; non rideva mai; parlava raro, e risoluto, anzi tagliente: mi pareva consacrato a morte precoce, e non ha guari noi lo perdemmo, e con noi l’Italia si lamenta vedovata di uno dei suoi più nobili figliuoli. Ora vuolsi da noi rammentare un caso, che bene potevamo a prezzo di sangue desiderare non fosse accaduto, ma che la religione della storia c’impedisce tacere. Il Generale Garibaldi ai Generali Rosselli, ed Avezzana, i quali alla nuova di tanto disastro accorsi sui luoghi gli offersero un reggimento intero di rinforzo, promise all’alba si sarebbe messo allo sbaraglio per rincacciare i Francesi dalle breccie; e non lo fece, invano la campana del Campidoglio sonava a stormo, e il popolo traeva a frotte inferocito, ei non si mosse; promise da capo assalirebbe nel pomeriggio alle cinque, e nè manco attenne il patto. Di questo si dolse amaramente il Mazzini scrivendo al Manara, e diceva: «avere l’anima ricolma di amarezza... tanto valore, tanto eroismo perduti!» Reputava, se gli assalti fossero stati impresi, sarebbero riusciti a buon fine, e faceva «giuramento, che il Manara intorno al Rosselli calunniato da molte parti, e i buoni dello stato maggiore pensavano com’egli stesso pensava» per ultimo conchiudeva: «a me rimarrà la sterile soddisfazione di non apporre il mio nome a capitolazioni, che io prevedo infallibili. Ma che importa di me? Importa di Roma, e d’Italia.» Luigi Carlo Farini nella storia dello stato Romano ci narra come le insolite cuntazioni del Garibaldi, derivassero dal continuo aizzarlo, che faceva lo Sterbini, perchè costringesse il Governo a commettergli la dittatura, proponendosi poi lasciarne al Garibaldi il nome, e per sè pigliarne il potere ed aggiunge altresì, che lo Sterbini andava menandone rumore per Roma, e già la plebe si commoveva, quando un giovane gli occorse minaccioso increpandolo: «portasse le accuse in tribunale, non in piazza, smettesse gli scandali in coteste ore supreme,» e dacchè quegli non cessava, minacciandolo con l’arme lo pose in fuga. Nelle memorie del Garibaldi non trovo nè manco una parola sopra siffatto caso; e le note del Mazzini ne tacciono parimenti: tuttavia il fatto è vero, e l’uomo che minacciò lo Sterbini non era giovane, nè di buona fama: si chiamava Bezzi. Carlo Pisacane scrivendo delle Guerre d’Italia giudica, che le breccie arieno potuto ripigliarsi la notte, là dove le artiglierie romane invece di cominciare il fuoco alle 2 del mattino, avessero fulminato i Francesi subitochè vi furono saliti; tre ore bastarono al nemico per alzare ripari capaci a difenderlo; ed altresì censura il Garibaldi per l’assalto senza costrutto ordinato al Sacchi, e generalmente il modo da lui tenuto di avventurare sortite con sottili manipoli, confortando il suo giudizio col parere del Folard commentatore reputatissimo di Polibio, il quale ammaestra: «le sortite ove non mirino a grave intento, a nulla giovano, eccettochè a fare ammazzare gente senza pro.... le ritirate sollecite e tumultuarie del pari delle sortite; jattanze inani per poco di vantaggio ottenuto; la perdita della piazza affrettata atteso lo sperpero dei soldati più prestanti del presidio;» e sono parole di oro. Per somma ventura l’Hoffstetter solve ogni dubbio chiarendoci proprio come andò la faccenda. Il Generale Garibaldi fermo di assalire sul far del giorno le breccie comecchè ormai si vedessero in punto di essere difese dal nemico ordinava si ammannissero i necessari apparecchi; l’Hoffstetter condottosi a speculare le opere del nemico dalla casa del Bastione vide il nemico sceso con tre tronchi di parallela fino alla gola della tagliata e questa disporre alla difesa; coronata riconobbe pure la breccia di cortina, occupate tutte intorno le case, i lavori di zappa compiti; l’assalto laterale dalla parte del Vascello non sarebbe giunto nè manco a piè della breccia, pensate se avesse verosimiglianza di riuscire diretto; poteva tentarsi l’assalto sboccando dalla seconda linea, ma anco qui bisognava sostenere il fuoco terribile dal nemico schermito; noi scoperti a 200, o 250 passi: sette cannoni piantati nella villa Corsini ci avrebbero distrutto per fianco: finalmente la più parte dei nostri ormai rifinita, e disperata balenava: queste ed altre considerazioni espose l’Hoffstetter, al Garibaldi il quale sbadato appena lo ascoltava tenendo fisso lo sguardo sopra le breccie perdute; dopo lungo silenzio il Generale di un tratto esclamò: «lo vedo anch’io, non ci è più rimedio, ma se avessi meco la mia gente del 3 nessuno avrebbe potuto persuadermi.» Anco l’Avezzana tanto acceso da prima per assalire, all’ultimo, dato spesa al suo cervello convenne, che bisognava smetterne il pensiero. E se la mattina non fu creduto spediente assalire con milizia scorata, e con le breccie così alla lesta difese, peggio poi era da tentarsi la sera imperciocchè le milizie a quell’ora non avessero avuto causa da rinfrancare gli spiriti, e le difese del nemico fossero state con celerità pari alla molta perizia compite in formidabile maniera. Anch’io bene ponderati i fatti giudico, che gli assalti con tanto ardore caldeggiati dal Mazzini ad altro non avrieno messo capo, eccetto che a sperpero lacrimabile di sangue umano; al Garibaldi nè allora nè mai venne meno il cuore, e penso, che quando egli diceva: «non ci è più rimedio,» potevano credergli senz’altro: non nego lo impeto, e se vuoi il furore del popolo romano di trarre in massa all’assalto, ma contro parapetti, e trincee irte di cannoni, e munite da bersaglieri schermiti, e nei tiri infallibili furore non rileva; ed io pur pensando, che sdrucio avrebbe fatto in cotesto popolo spesso una scarica di cannonate rabbrividisco. Il Mazzini confida troppo, anzi io conobbi a prova, che a lui piace esagerare le forze così morali come fisiche, ch’egli può allacciare pel compimento dei suoi disegni, nè ama cui lo chiarisce del vero; forse per la necessità del suo compito a lui importa credere, che quello che immagina sia: se ciò deva lodarsi o riprendersi mi passo da giudicare; solo mi stringo a dire, che piace a me metodo diverso, anzi contrario. Pertanto il popolo accorrente alle brecce non era forza; ma sì creature, che andavano al macello; dietro ai muri la faccenda sperimentiamo diversa, in campo aperto poi, massime in assalto di trincere di tutto punto munite, alle prime scariche di mitraglia il popolo spulezza: i Lombardi in Milano combattono e vincono gli Austriaci, a Granprè gli stessi Parigini davanti ai Prussiani scappano. Tuttavolta non mi è ignoto come screzi parecchi si fossero insinuati fra i capi, e tu ne rinvieni la traccia nei libri del Pisacane, del Rosselli, e del Dandolo: Fra il Garibaldi e il Mazzini si interpose un po’ di ruggine, che tra quei due generosi non durò un pezzo: anco i generali si accordavano poco; e gli stessi colonnelli di stato maggiore si puntigliavano, onde il Garibaldi mandò il colonnello Morrocchetti al comando di Porta Portese non potendo rimanersi sottoposto al Manara meno anziano di lui. Ma se le breccie non furono assalite i Romani tentarono ogni estremo conato per renderle inani; inutilmente però, che dopo avere reso cotesti luoghi sacri di sangue per la Patria versato, ebbero a ritirarsi nella seconda linea di difesa. Troppi sono i generosi defunti che domandano da me un ricordo e lo meritano, ma io già sento, che di soverchio grave è il peso che mi recai su le spalle, nè lo spazio dell’opera, nè il libro, che precipita al fine mi consentono discorrere di tutti, ma io meriterei che veruno o uomo o donna, che ama la Patria, e per la Patria patì volgesse lo sguardo sopra queste pagine dove da me si trascurasse raccomandare alla memoria dei posteri questo pietosissimo caso: già lo narrava il Rusconi nel Libro della Repubblica Romana, ed io per vendicarmi di lui a mo’ che mi vendicai del Dandolo per i giudizi nè giusti nè veri balestrati contro di me, quasi mi lascerei andare alla voglia di riportarlo con le sue stesse parole, che davvero io provo piene di profonda compassione e nobilissime tutte, ma oltre al dubitare ch’elleno male s’innestino con le mie, paionmi troppo lunghe. Aperte le brecce ferve l’opera per metterci riparo; un vero turbine di ferro e di fuoco mulinava su l’area avversa alle breccie francesi, ed una moltitudine di cannonate la solcava per seminarvi pur troppo la morte; tu vedevi i Romani brulicare come formiche portando sacca, sassi, e trainando carretti di terra, nè i romani soli, bensì ancora le Romane, e fra queste Colomba Antonietti, che non potendo lasciare solo il marito esposto al pericolo volle ad ogni costo parteciparlo ed in cotesta vita ella aveva durato due anni, che lo sposo suo accompagnò in tutte le guerre d’Italia, e a Velletri fu vista, precorrendo, incorare i soldati: in quel giorno la supplicarono di là si rimovesse, ed ella sorridendo, «ma se ci lascio il marito morirei di affanno.» Intanto la gente cadeva giù a rifascio, e parecchi scontorcendosi nell’agonia andarono a morire ai piedi della donna; ora ella mentre porgeva allo sposo certi arnesi rimase colpita da una cannonata nei reni; cadde in ginocchino, levò le mani al cielo, e disse: «Viva l’Italia!» e più non potè dire. Sorse dintorno un grido straziante, e il marito in sembianza morto anch’esso, trasportarono altrove. «Le onorate spoglie (e qui si adattino o no le parole del Rusconi con le mie, le vò ad ogni modo riferire) di quella cara infelice composte sul cataletto menarono a processione per le vie di Roma, spettacolo di compianto universale, e il popolo trasse in folla dietro al feretro coperto di bianche rose, simbolo della candidezza di lei spenta così crudelmente sul fiore della gioventù. Deposto il feretro nella Chiesa la moltitudine genuflessa con molte lacrime supplicò da Dio pace ad una delle anime più elette che mai abbia vestito quaggiù spoglia mortale.» E pure questa, e siffatte donne il vile sacerdote non aborrì denigrare calunniando, che non amore di Patria le movesse, bensì prurigine di lascivia: bene sta; le Arpie, quello, che toccano contaminano, e i Sacerdoti che altro sono mai se non Arpie? Solo resta a vedersi per quanto tempo ancora dureranno a contristare la umanità. Allo scopo di fornire notizia, che sia più conforme al vero intorno all’orribile strazio fatto di nostra gente in cotesti giorni io ricercando per le effemeridi dei chirurghi, e più particolarmente in quelle dell’ottimo Ripari trovo, che sovente nel bastione sinistro fulminato con rabbia canina dai Francesi furono di un colpo morti o feriti più di dodici soldati, e di che razza ferite! L’ospedale provvisorio addetto alla divisione del Garibaldi avevano posto nella Chiesa e nel Convento della Madonna dei Sette Dolori sotto San Pietro in Montorio, e quivi affermano per tutto Giugno non si annoverassero meno di venti morti al dì per termine medio, feriti un sessanta. Tra i molti fieri casi mi occorse fierissimo questo, che sto per narrare; una rovina di uomo giovane, e di volto assai bello fu un giorno gittata là sopra una tavola dove il Ripari esercitava la sua arte; ho detto rovina perchè quanta parte della forma umana fosse rimasta intera non si poteva discernere; mancava di ventre, le coste anteriori denudate e bianche come di cadavere da lungo tempo sepolto mentre non apparivano anco morti il viso, il collo, ed i bracci; il buon Ripari per pietà austero, visto cotesto spettacolo gridava cruccioso: «perchè mettete qui quel cadavere ad impacciare la medicatura degli altri?» «Ma non è morto,» risposero. «Or come non è morto?» Disse il medico e lo guardò in volto... Dio di misericordia! Quel tronco di uomo teneva gli occhi aperti, e li girava per mirare chi movesse per la stanza: occhi neri, e smaglianti, sede ultima della vita che lì prima di spegnersi si raccoglieva. Se avesse udito, il Dottore non sa dire, nè afferma, solo narra che indi a poco gli occhi del mutilato si chiusero ad un tratto nelle tenebre della morte come face per forza spenta. Questo orribile caso nel mentre, che si spiega come la rapidità fulminea della offesa, ebbe virtù di cauterizzare i vasi sanguigni quantunque capitali e di ottundere i nervi superiori alle parti colpite, dimostra, come nelle parti illese per tempo più o meno breve duri senso, e vita conforme alla loro natura, onde tu lettore puoi mettere questo esempio con gli altri, i quali ti ammaestrano, che testa mozza non è vita spenta. Anco successe in questo ospedale un’altro caso, e fu novello testimonio come la fatalità che tiene l’uomo pei capelli, nè meno dopo morte lo abbandoni. Certo di quattro bersaglieri lombardi del battaglione del Manara condottisi a cotesto ospedale dissero: «fateci vedere i morti, che tra loro ci ha da essere un nostro compagno, e gli vogliamo dare sepoltura a parte.» Menati giù nei sotterranei cercarono tanto, che fermandosi davanti ad uno sclamarono: «eccolo è questo, domani verremo col cappellano a levarlo, intanto manderemo la cassa per riporcelo dentro:» E come dissero fecero, senonchè i becchini vennero col carrettone quando tutti gli astanti rifiniti dalla stanchezza dormivano, onde il bersagliere con gli altri levarono via: la cassa consegnata più tardi a persona ignara del convegno rimase depositata sopra l’altare della Chiesa. Il Dottore Ripari memore della promessa avendo veduto sul fare del giorno la cassa domandava se il cadavere del bersagliere si trovasse tuttavia nel sotterraneo, e venne a sapere, che a quell’ora era stato insieme con gli altri sepolto; parve al Dottore essere proprio il caso di ricorrere ad una frode pietosa, e procurò nella cassa vuota s’inchiodasse il primo morto venuto (e di morti come vedemmo non si pativa penuria!); il cappellano venne, vennero con esso i bersaglieri, e con lacrime e con esequie proseguirono un morto, che sebbene incolpevole, le usurpava; — l’egregio uomo questo evento scrivendomi mi domandava: «ho fatto male? Mi parve allora, che confessare il fallo sarebbe stato peggio; non ebbi coraggio di contristare cotesti valorosi, e dabbene giovani: temei di spargere su l’anima loro amarezza inestimabile e dannosa se avessero pensato quale cura i vivi abbiano dei morti, quando anco morti per la Patria.» No gentile spirito, non operasti male, che non per questo l’esequie giovano al defunto perchè celebrate sopra il suo corpo; le preci, e gli amorosi ricordi fanno più bene a cui le recita, e li conserva, che a quelli che ne sono argomento; Dio rimuneratore nella vita da me sperata seconda, non ha mestieri eccitamenti per consolare le anime immortali, e per premiarle. Abbandonata la prima linea di difesa i nostri si ritirarono alla seconda, la quale come accennai veniva formata da parte delle mura costruite dallo imperatore Aureliano prima che movesse alla impresa di Palmira: elleno per bene dodici miglia circuivano l’antica Roma lasciando fuori il Trastevere e il Vaticano; Urbano VIII le squarciò da un lato addentellandoci le nuove mura, che dalla porta Cortese scendono fino a porta Cavalleggeri, sicchè parte della cinta dello imperatore Aureliano rimase dentro di quelle, e precisamente tutta la porzione, che arrivava fino alla porta Settimiana; questo frammento, e nè meno tutto somministrò le ultime difese ai Romani. Ultime, e inferme. Gl’ingegneri non avendo saputo adempire lo ufficio loro a dovere o voluto, il Garibaldi li prese in sospetto per modo che ordinava in villa Spada li custodissero, li vigilassero, ed egli fu che dispose la seconda linea, e l’ala sinistra a dare aspro rimbecco al nemico, approfittandosi del colle del Pino per piantarci una batteria di un’obice, e tre cannoni di diverso calibro, siccome un’altra ne piantò al Fontanone parimente di un’obice, e di cinque cannoni da 24, da 18, e da 12 libre di gittata: ancora, armava una batteria di tre pezzi di artiglieria davanti alla villa Spada, ed una seconda tra l’angolo della Cortina e il muro Aureliano; munì eziandio San Pietro Montorio con due cannoni. Le artiglierie dal monte Testaceo, e da Santa Saba furono trasferite su l’Aventino; il Vascello quasi promontorio battuto dalla tempesta sporgeva dall’estrema destra sentinella avanzata della nuova difesa. Qui si rinnuova più acerba che mai la rampogna al governo romano, e peculiarmente al Mazzini di avere prolungato le difese, imperciocchè le regole della milizia persuadano a cedere la piazza una volta, tosto che vengano coronate le brecce; ed è vero, ma vero è del pari, che tanto più merita lode il capitano, il quale dura imperterrito, finchè l’anima gli basti. E poi adesso si trattava di lasciare (dacchè altro non si poteva,) ricordo fruttuoso ai Francesi di quanto ardissero pochi Italiani appena usi alle armi, quasi inermi, e sprovvisti; nè questo ricordo andrà perduto, comecchè forse se ne avvantaggerà cui meno meriterebbe; e avverti ancora, che l’alea correva asso o sei; conciossiachè nonostante le furbesche gagliofferie dei Francesi si comprendesse ottimamente, che eglino intendevano rimetterci il Prete netto; ora il Prete non può governare, eccettochè tiranno essendo la libertà, e il pensiero affrancato titoli di ribellione contra di lui; una sola libertà ti consentono i Preti, quella d’imbestiarti dentro ogni infamia, chè quanto più ti abietti e più gli diventi schiavo; abbassa pure la tua anima al pavimento, che egli te la passeggerà più sicuro. — Enrico Cernuschi, il quale molto operò nello assedio di Roma, e corse estremi pericoli per lei con molto senno tale dava ragione della difesa, la quale comecchè occorra in altri scrittori pure mi sembra pregio della opera riferire a mia posta. «Noi ci siamo da prima difesi così consigliandoci l’onore ed il vantaggio nostri; ci siamo difesi poi perchè ci confortava il voto della Costituente francese; più tardi il trattato col Lesseps. Perdurammo nella difesa nove giorni dopo entrato il nemico a Roma, e dopo il lacrimevole annunzio della prevalenza della nuova tirannide a Parigi per dimostrare, che non eravamo dietroguardia di un partito, bensì vangardia di un popolo deliberato a risorgere in nome di Dio, e della Libertà: qui non siamo comunisti, nè socialisti, nè montanari: siamo italiani!» Per ultimo; altro il dovere del Re, ed altro quello del magistrato del popolo, ed è chiaro, non avendo il magistrato popolesco in verun caso mai il diritto di sostituire il suo al volere del popolo, massime in ciò che attiene ai proponimenti d’importanza suprema; il re al contrario arbitro in tutto e per tutto, e sempre: il re passa, le regali stirpi tramontano, onde dei sacrifizi può darsi, che al re non tocchi altro, che il danno, ma il popolo, che dura sa come scrive il Gioberti: «che non si sparge mai umano sangue indarno, nè mai rimane invendicato, e nulla nel mondo sociale come nel giro della natura va mai totalmente perduto:» e sa eziandio, secondochè Federigo Torre ammaestra: «che il sangue, che si sparse oltre all’essere seme per lo avvenire diventò consecrazione di principi, fu testimonianza, che la rivoluzione non era delirio di pochi, ma bisogno e convincimento di tutti, i quali dove avessero posto mente alle debili forze in paragone di quella onde lo straniero veniva armato a combatterli, non avrebbero mai dovuto mettersi al cimento, in ispecie contro la Francia tanto copiosa di soldati, e potente in armi: Forse i Romani di per se stessi la impari lotta non vedevano? O non sentivano la necessità inevitabile di piegare il collo? Con tutto ciò deliberarono difendersi, lo fecero finchè poterono, ed oggi gli stessi avversari lodano la ostinata difesa, e il popolo italiano ne va altero come il suo migliore titolo di onore, e avverti di più, che il proponimento di cedere agli estremi sorse spontaneo, ed unanime; non di discussione dell’assemblea ci fu mestieri, nè di partito, nè di ordine di Governo, le cose procederono per corso naturale senza intervento di autorità.» Che se domandi o lettore perchè il Gioberti, che tale un dì pensò e scrisse, poi tanto infesto si mostrasse al Mazzini io ti chiarisco in un motto; il Gioberti fu prete, e non impunemente, pare, si tosano i capelli sul vertice del capo, e poi si lascia scoperto alla temperie dell’aria. Quanto al Torre seppi, che ora tiene ufficio nel ministero della guerra, ed ha titolo di Generale, e col titolo il salario: forza di pane stringe più di manetta di giandarme. Il libro delle memorie storiche sull’intervento francese in Roma vivrà, e fie patrimonio del popolo, il suo autore, comunque mangi, beva, e vesta panni non vive più, e in breve diventerà patrimonio della terra: di lui non piace, nè giova mettere altre parole, e le dette sono troppe. E’ pare impossibile, e credo, che i posteri non ci presterebbero fede, dove non lo attestassero testimonianze solenni muniti di poche artiglierie noi resistemmo ai Francesi 26 giorni con la breccia aperta, mentre gli è raro che per così lungo tempo durino le fortezze principali. Il Generale Vaillant affermava dentro quindici giorni compito l’assedio, e andò il presagio indarno, onde se ne deve arguire o che incontrasse virtù inopinata, ovvero prendesse un granchio, e davvero fu così; cotesto generale reputando facile sopra tutti ad essere conquiso il punto più incavato delle mura lì rivolse lo sforzo supremo, e su questo non errò; ma non pose mente, che da quella parte del pari riusciva agevole moltiplicare le difese; di vero non lì stava la chiave dell’assalto, sibbene pochi metri dietro il Bastione nono a manca della porta San Pancrazio. Quinci circuivansi tutte le difese interne non escluse quelle del recinto Aureliano, quinci potevasi percotere la città intera, o il punto reputato meglio spediente, quinci infine tornava destro nascondere ogni moto di milizie, e conseguire i vantaggi che c’industriamo raccogliere dalla parte nostra prima d’ingaggiare battaglia: a questo i Francesi non avvertirono; per la quale cosa superati i Bastioni 6 e 7 si trovarono davanti i Bastioni 8, e 9 intorno a cui ebbero a travagliarsi nove altri giorni; e siccome essi nel dare specie di argutezza alle follie valgono oro, così dissero averlo fatto a posta per pigliare dalle breccie 6 e 7 di fianco i Bastioni 8 e 9, e questo veramente eseguirono ma al tempo stesso assaltarono il Bastione 8 con le colonne principali di fronte. — Per condurre a buon fine simile disegno importava ammannire l’assalto con una furiosa battaglia di artiglierie, e a questo partito si accinsero; la storia militare rammenta una maniera di duello combattuto fra la Batteria del Pino, e quelle francesi: armavano la prima sei cannoni, ed altri quattro la sostenevano all’ala destra; i francesi cominciarono ad aprire il fuoco da certa Batteria costruita durante la notte sopra la breccia della Cortina, lo accrebbero con copia di mortai, che piovevano bombe a scroscio, per ultimo ci sfolgorarono con otto cannoni di traverso da villa Corsini. Ai nostri cannonieri comandavano un tenente Sortari, un maresciallo Grimaldi, e un brigadiere Maccaferri: assisteva Garibaldi: in breve una nuvola di polvere coperse le opere nemiche, ma egli aguzzando gli occhi conobbe volare frammenti all’aria di carretti fracassati; non istettero due ore, che i cannoni de’ francesi ridotti a tacere fecero abilità ai nostri d’infestare per la giornata intera le gole dei Bastioni francesi. Onde la gente abbia contezza del come i Francesi spesseggiassero con le bombe basti dire, che nel corso della notte 20 ne caddero nella Batteria del Pino: mentre Garibaldi, Avezzana, Manara ed altri stavano consultandosi una bomba cadde loro allato, e scoppiò: quantunque veruno di essi si gittasse giù in terra (e forse non ci pensavano) tutti rimasero illesi. «Le sentinelle per le bombe non si turbavano, solo avvertivano: «ragazzi ecco una bomba!» E con iscede infinite l’accoglievano; cacciato via il Garibaldi dalla villa Spada aveva stabilito il suo domicilio fra il terzo e il quinto cannone della Batteria a destra; bastò un’ora a costruirgli la casa composta di alcune stoie fitte su quattro lancie piantate in terra; fin costà andavano a visitarlo le gentildonne romane, e a questi giorni mentre ei ci s’intratteneva sotto in compagnia di due dame, una bomba ruinando dall’alto mise in fascio la casa, e ospite ed ospitate ricoperse con un mucchio di terra; il Generale le accomiatò, comecchè repugnassero, e da quel giorno in poi per amore di schivare sventura non consentì, che più oltre lo visitassero. Sul mattino, narra l’Hoffstetter, mentre giaceva sotto la tenda udì passare il Generale, e dire a taluno il quale forse voleva svegliarlo: «lasciate ch’ei dorma, tardi tornò questa notte dal servizio» ond’ei riprese sonno; di repente gli trema sotto la terra, un picchio terribile gl’introna il capo, sicchè a rotoloni si trova balestrato lontano; proprio a canto alla testa gli era caduta una bomba, che scoppiando portò via stoie, lancie, assiti in mezzo a nuvoli di terra e di fumo; fu tosto in piedi stravolto, e si presentò al Garibaldi anco questa volta rimasto illeso per miracolo, il quale bevendo a centellini il caffè come se non fosse fatto suo gli domandò sorridendo: «perchè vi siete levato così presto? e pure aveva ordinato che vi lasciassero dormire.» Se il niego levasse infamia qual mai candore di colomba pareggerebbe quello dei francesi? Ma il niego di faccia alla verità, che ti opprime vale coscienza e confessione di colpa, e poi la storia ci ammaestra, e noi provammo come agli Austriaci piaccia la sostanza del terrore, ai Francesi non pure talenti la sostanza, ma sì eziandio la ostentazione di quello. Centocinquanta bombe nello spazio di una notte ruinarono in Trastevere, nei quartieri Santo Andrea della Valle, Argentina, e Gesù; in un’altra più del doppio; si rammentano malconci dalla barbarie francese l’Aurora di Guido Reni nel palazzo Rospigliosi a Montecavallo, il tempio della Fortuna virile; percosse rimasero la statua di Pompeo a piè della quale cascò trafitto Cesare, e l’Ercole di Canova. Andò distrutto nel palazzo Costaguti un’affresco bellissimo del Pussino con tanto maggiore querimonia quanto che non lo avessero mai ritratto nè con pennello nè con bulino. Contro questa salvatichezza, che i francesi vituperano in altrui, a mò di quello che inquina la pietanza ond’altri se ne schifi, ed egli possa mangiarsela tutta per se, protestarono gli artisti, e il municipio romano, con essi, e più autorevoli di tutti, i rappresentanti delle potenze straniere, i quali (per adoperare le medesime loro parole) contestavano a viso aperto al Generale di Francia, il profondo dolore pel bombardamento di Roma per più giorni e più notti continuato non solo con danno di donne e di fanciulli innocenti, ma altresì con pericolo degli abitanti neutrali; di già parecchi innocenti perirono, parecchi capi di opera di arte, che veruno potrà rifar mai andarono perduti; quindi s’intima il Generale a desistere dal bombardamento, che distruggerebbe la grande città cui le nazioni civili del mondo moralmente proteggono. Tutto questo era niente, il Generale Oudinot confessava esserne uscito questo male, ne stava per nascerne altro maggiore, ma così ordinare il Governo, ed egli ne adempirebbe i comandi; tale e quale avrebbe parlato il carnefice: ancora; colpa di tutto i Romani: o perchè si ostinano a resistere tanto? La Francia volerla spuntare ad ogni patto perchè ci entravano di mezzo i suoi interessi, e il suo sangue: veramente nel dispaccio prima veniva il sangue, e poi gl’interessi, ma quell’ordine era messo per figura rettorica. La storia, ed anco la Nemesi eterna vendicatrice delle colpe umane tanto più devono raccogliere cotesti casi quanto, che le regole della scienza, e la perizia dei francesi potevano far sì che le palle colpissero a punto colà dove intendevano briccolarle. Oltre queste testimonianze ci occorrono le seguenti, lo Spettatore militare, il Rapporto del generale Vaillant intorno l’assedio di Roma, il Ragguaglio storico, e militare, il libro intitolato Roma dell’abate Boulangè, ed altri parecchi; i Preti non lo nascosero mai, anzi si compiacquero a bandirlo nei libri loro, e lo puoi riscontrare nella Civiltà cattolica, e ciò nonostante il Corcelles scriveva al Governo di Francia, che lo poteva negare di reciso, e il Governo negò: dopo lui negarono tutti, negarono perfino contro la perizia compilata dalla Commissione preposta a verificare i danni del bombardamento, e ad avvertire il modo e la spesa per risarcirli. Dei caduti in mezzo a cotesta procella di fuoco noi lamentammo il capitano Laviron francese, il quale si sporse fuori dei parapetti per mirare un pò come i Francesi accogliessero il colonnello Ghilardi appunto in quei giorni arrivato in Roma, e che ora in qualità di parlamentario spedirono al campo nemico; lo presero a fucilate, ma scampò la vita per lasciarla più tardi in altro emisfero sotto le medesime palle francesi: preso nel Messico a man salva febbricitante nel letto gli davano morte assassina: volle il fato, che su quel capo la Francia si tirasse addosso un fiero conto di delitto, forse egli ora lo ha già messo in pulito per farselo pagare. — Tornando al Laviron, egli aveva indossato in quel dì la camicia rossa, e non fu savio; quindi, preso facilmente di mira cascò ferito nel ventre, allora subito gli si versava addosso Ugo Bassi a confortarlo con parole di affetto divino, ma egli profferita appena la raccomandazione della sua anima a Dio spirò baciando il Bassi; non per questo il dabbene Ugo lo abbandonava, bensì a lui morto proseguiva prodigare cure fraterne, nè valsero a strapparlo di là supplicazioni, nè comandi, tanto che una scarica di palle nemiche lo rinchiuse come in mezzo a un nugolo dentro di sè; veruna lo colse che il suo fato lo aspettava a Bologna. — Il Garibaldi quando lo vide fuori di pericolo ebbe a dire ai suoi: «voi non potete credere quanto questo uomo mi contristi, dacchè io lo veda dominato dalla voluttà, per dire così, dalla morte.» Insieme al francese Laviron morirono il capitano Giordani, ed i tenenti Fattori, e Giovannini, ed anco talune guardie nazionali Romane di cui non trovo registrato il nome. Vi perse la gamba, e il piede destro Giuseppe Brambilla da Milano; forse adesso egli vive, e il cielo gli consenta anni quanti bastano per vedere che non espose invano le membra del suo corpo per la redenzione della Patria; altri altri premi ambiscano e gli ottengano; ai magnanimi davvero tanto basta, e ne avanza: suo fratello Emilio Brambilla felice ingegno con altra opera secondò la fortuna di Roma, amministrando la finanza; ora è morto: pianta di buon seme fu la famiglia Brambilla, e i buoni patriotti hanno a desiderare che sia perpetuata; in altri ricordi trovo notati, morto il capitano Baj per dolorosa ferita, che gli portò via di netto ambedue le gambe, tra i feriti meritano speciale menzione il Brusco genovese appartenente alla Cancelleria del Garibaldi, e certa Orsolina da Foligno scemata da scheggia di bomba del tallone destro. Si stringe la cintura di ferro, e di fuoco intorno a Roma, il nemico indefesso durante la notte scava pozzi per le mine, edifica, e munisce piazze di armi, drizzata una trincea compie la quarta parallela, poi imprende un cammino il quale passando rasente alla casa Giacometti avrebbe messo capo sopra la via, che mena a San Pancrazio; dalla parte nostra si agitavano come naufrago in mezzo all’Oceano, che non vuole e deve morire, tuttavia impediscono la costruzione delle Batterie dodicesima, e decimaterza; e alla mattina del 26 scassinano anco la undicesima, sicchè i Francesi non poterono avvantaggiarsi che con le Batterie seconda, e decima, la quale più di ogni altra prese a fulminare il Vascello, nè senza ragione, che quinci si menava incredibile strage dei Francesi; il nostro Medici il quale non pure si difendeva, ma andava escogitando senza requie un qualche trovato per fare uno sdrucio dei solenni nello esercito avversario esplorò le catacombe, e l’acquedotto Paolo donde avvisava spingersi fin sotto la villa Corsina, e colà con mine, e fuochi artificiati sobbissare il ridotto in uno alla Batteria decima; ora o di tanto si accorgessero, o come credo piuttosto, i Francesi avvertiti diedero la via alle acque, che irrompendo ruinarono ogni apparecchio soffocando tre lavoranti, e se più ce n’era più ce ne rimanevano. Da capo la rabbia francese si volta contro al Vascello; stupendo ad un punto e orribile a vedersi lo stato in cui si trovava ridotto; del piano superiore non avanza traccia, dello inferiore il muro di fronte ruinato lasciava vedere negli spazi più interni le colonne, le statue, le stanze elegantissime; insomma presentava la figura, che gli Architetti chiamano spaccato. — Molti possono per impeto superare il Medici, veruno, io penso, per costanza, e tranquilla severità: di che mi piace riportare uno esempio: in cotesto giorno non ci fu riposo: notte e dì i soldati ebbero a vegliare ed a combattere; ora parendo a parecchi cotesto comando duro, uno di loro più rotto ardiva presentarsi al Medici mentre ei beveva una tazza di caffè e dirgli ch’egli non intendeva recisamente montare la guardia. «Ed io, rispose il Medici senza guardarlo in faccia ed accostandosi la tazza alle labbra — ti farò fucilare.» Batti, e ribatti ecco con altissimo scroscio casca il Vascello, schizzano violentemente legni tronchi, marmi rotti, e una nuvola di polvere chiude intorno la ruina; il peso immane rompe le volte del terreno, ed ormai del superbo palazzo non avanza altro che un monte di macerie; fino dallo interno di Roma fu udito il fracasso; venti dei nostri sepolti sotto le ruine persero la vita; e non pertanto il Medici non si decise mica ad abbandonare cotesto mucchio di sassi: noi lo vedremo su quelli maravigliare con nuovi gesti di valore il nemico, che i muri poteva vincere, i petti no. Avanti, avanti, il nemico dalla quarta parallela spicca un camino nuovo verso il piede della cortina, bersagliato furiosamente dai nostri lo smette per ripigliarlo più tardi, ma non può protrarlo di là da 65 metri, che lì lo arrestano la virtù romana, e l’ardore della disperazione; anco i lavori verso le ville Giacometti e Barberini si mettono da parte; si aspettano le tenebre, e i Francesi sostituendo alla gente stanca gente riposata e molta le batterie ultimamente costruite armano, nuove ne drizzano, e di mortai le muniscono. Si levava il giorno 27 fosco in vista; il sole procedendo cinto intorno di nebbia pareva che presago della strage imminente repugnasse illuminarla: i francesi tuonano con cinquanta cannoni messi in batteria; il casino Savorelli all’incessante tempestare si sfascia; giù il tetto della Chiesa di San Pietro a Montorio, dopo il tetto vacilla il campanile, poi anch’esso giù a pezzi, di cui parte dentro la Chiesa, e parte fuori; la Villa Spada sottosopra; i nostri non isbigottiscono alla bufera, le Batterie undecima, e duodecima del nemico scassinano, ma i Francesi ne hanno drizzate su tante, che ometterne una o due non nuoce; e’ ci fu pompa per la parte loro di distruzione, lusso, prodigalità vera: se nell’amministrazione dei propri interessi i Francesi adoperassero come in guerra quando scotta loro di vincere bisognerebbe sottoporli a curatore. Dalla Batteria decima essi presero a colpire in breccia il Bastione nono; dalla decimaquarta apersero il cammino di scarpa al Bastione ottavo. Il Garibaldi da per tutto era, ma sopramodo instava perchè la Batteria del Pino si mantenesse ritta, dalla quale a dir vero, o per la posizione sua, o per la molta attitudine degli artiglieri fioccava la morte nelle fila nemiche: non importa dire se i Francesi contro questa Batterla si sbizzarrissero; ogni sforzo adesso è volto a rompere la cinta traversa, che già difendeva la villa Savorelli, ed ora ne copre le rovine; di fatti la rompono; lo intero campo è minacciato, il fianco della Batteria del Pino battuto. Tosto alla riscossa; l’apertura della traversa forse si allarga 8 piedi, a 9 non arriva, ma si può dilatare vie più, e poi anco così basta onde il nemico irrompendo allaghi; accorre la legione italiana, e fa prova infelicissima; ad un sergente appena si affaccia una palla di cannone fracassa il petto schizzandone il corpo in brani a destra e a sinistra, le prime fila della legione vengono spazzate via dalla mitraglia; non si sgomentano i sorvegnenti per questo, e passano sul corpo dei compagni per accorrere là dove li chiama il dovere: intanto una palla tronca una gamba al Capitano della Batteria a destra, steso su la barella lo portano all’ospedale, ed egli fiero in sembiante agitando il membro mutilato come una bandiera grida ai soldati: «viva la Italia! Coraggio!» Bersaglieri, Linea, Legionari quasi tratti fuori di loro per tanta costanza plaudono con la voce, e co’ gesti, nè si potendo contenere accompagnano la barella del dolore come se fosse stata un carro trionfale fuori del tiro. La rottura della traversa rendeva impossibile sostenersi nella Batteria di destra, il Garibaldi dal Pincio vedendola deserta, scende con passi frettolosi, e all’Hoffstetter, che primo gli si para davanti dice: «adoperate chi volete, sieno pure uffiziali tutti, ma importa sia turata la rottura della traversa, andate.» Mentre l’ufficiale partiva per racimolare quanta più gente potesse, il Garibaldi si rimase ad attenderlo seduto sopra un carretto di cannone; l’Hoffstetter s’imbatte in trentacinque bersaglieri reliquia ultima della terza compagnia del secondo battaglione, li trae seco e li conforta con alquanto di vino, perchè davvero erano rifiniti di forze: dall’apertura sboccava una fiocinata di palle, allora i bersaglieri si divisero, parte porgeva i sacchi pieni di terra, e parte li riceveva; l’apertura scema, si chiude, è chiusa; nè cannoni, nè mortai, nè moschetti nemici valgono a trattenere l’opera; anzi i bersaglieri passando dal coraggio alia temerità vogliono salire su la breccia ristorata, e bravare il nemico alla scoperta; a rattemprarne la baldanza ecco giù una bomba, che in un’attimo ne ammazza sette; balenarono gli altri ma i morti furono rimossi, sul sangue si sparse un pò di terra, un bicchiere di vino, un grido: «viva la Italia e le cose tornarono come prima. Si richiamarono i cannonieri, e quattro cannoni ripresero il fuoco contro il nemico, tre maneggiavano i Romani, il quarto li svizzeri; il Garibaldi esulta, la batteria del Pino rimane sollevata perchè i francesi contro la traversa ristorata voltano le armi, e le ire; i cannonieri presi da entusiasmo raddoppiano lo zelo, e rendono ai francesi due pani per coppia; così i tiri infallibili spesseggiano; che ai Bersaglieri non patisce l’animo privarsi dello spettacolo, lì stanno spettatori, e ad ogni tiro battendo palma a palma gridano: «bravi!» Ma lo spettacolo era pieno di pericolo per modo che una seconda bomba uccise e ferì altri sei Bersaglieri. Di trentacinque, in piedi n›erano rimasti ventidue, il Generale donò loro due scudi a testa, e, secondo il vecchio costume spartì tra i feriti la parte dei morti, e permise se ne andassero; chi ebbe il danaro lo serbò per distribuirlo per tempo meno tristo perchè lì per lì i lombardi lo avrebbono rifiutato; a veruno sarebbe bastato il cuore di toccare la eredità luttuosa dei fratelli caduti. — I cannonieri rimasero; più tardi taluni domandarono licenza di ritirarsi, ed ecco perchè: intorno ad un cannone di vivi restavano due soli, nè senza permesso volevano abbandonarlo! Però prima in compagnia di altri trassero il pezzo in sicuro. La processione lugubre, e continua dei morti e dei feriti in questo giorno non si può senza stringimento di cuore descrivere, troppi i morti per ricordarli nonchè tutti, pochi; solo non vada inonorato in queste povere carte il capitano Giuseppe Varenna generoso pavese, e tu bel fiore di giovanezza Gustavo Spada romano, che glorioso per morte magnanima andavi fra le ombre dei tuoi padri testimonio che ai figli stanno avversi i fati, ma la virtù non manca. Ora quì successe uno strano caso, che assai fornì materia al dire degli uomini, e nei libri ne occorrono le traccie con varia maniera riportate, e il fatto fu questo: il Generale Garibaldi di repente si leva dalle mura, e gli subentra al comando il Generale Rosselli, se ne va con quello la legione italiana, viene altra gente con questo. — Siccome il Garibaldi tornò il giorno appresso sul far dell›alba e con la legione vestita di novella assisa, così fu detto e creduto ch›egli e i suoi recedessero dalle trincee per riposare una notte, e per mutare l›abito turchino nel rosso: ora di lieve comprendi come questo fosse pretesto non causa del fatto, e la causa vera occorre nelle memorie del Generale. Egli fu informato, che a Roma stavano in procinto per dichiarare la resistenza impossibile, i battaglioni primo, quinto, sesto, settimo, ed ottavo della guardia nazionale tambussavano il Senatore Sturbinetti, tranquillati partivano; allora veniva la volta dei popolani; furono da prima trecento, crebbero poi alla stregua, che le disgrazie si facevano maggiori, e le sollecitazioni dei nemici occulti peggiori; per la quale cosa egli propose uscire da Roma con quanta più gente, e quante più armi, e arnesi di guerra, e pecunia, o cose capaci a ridurre a pecunia fosse possibile; ottomila uomini non potevano mancare, con essi andassero i rappresentanti del popolo, giovani, e di corpo gagliardi, di seguito grande nei propri paesi: da cosa nascerebbe cosa; intanto terrebbero fermo su gli Appennini; Venezia reggeva; non vacillava Ungheria: arride la fortuna agli audaci; non piacque il partito, comecchè trovasse nel Mazzini fautore caldissimo, il quale lo ripropose più tardi; onde il Garibaldi mulinando fino d›allora quello, che in seguito compì, reputando la capitolazione sicura pel giorno veniente si partiva, persuaso in seguito che per converso si era deliberati resistere fino allo estremo tornò di gran cuore a sostenere le ultime prove. Per cessare della luce non s›interrompono le opere di guerra; i Francesi ripararono durante la notte le ingiurie patite nelle batterie, ma co› lavori nuovi di poco si avvantaggiarono, imperciocchè la vigile fanteria romana molestando con fuochi incessanti i marraioli sconciarono i lavori che intendevano condurre intorno al casino Barberini; però cavarono una quinta parallela per riuscire a separare il Vascello dal corpo della difesa, il quale fin qui come guerriero ferito a morte, e giacente pur sempre pugnava, e di conserto col Bastione ottavo fracassò il cammino già spinto a buon termine dai Francesi a casa Giacometti. All›alba ripigliano il trarre da una parte, e dall›altra: pari il furore, impari troppo la forza; le nostre batterie mancavano di parapetti, le trincee apparivano ammasso informe di terra, vennero meno a ripararle le braccia; la Batteria del Pino quasi messa a pegno di gara agli artiglieri francesi sfasciata d›incamiciature, priva di gabbioni, senza difese di fianco sparava i cannoni all›aperto e come si dice a barbetta. — Ora fulminando i Francesi con le Batterie undecima, decima seconda, e decimaterza la seconda linea di difesa costringono il Bronzetti a cedere, ben tosto posero mano alla zappa passando oltre la cortina per chiudere il Vascello; da questo lato irreparabile ormai il proseguimento della Breccia; altro non potè farsi, che provvedere, affinchè lo irrompere del nemico fosse lento così da lasciare campo a nuove difese più interne; non si pretermisero gl›incendi delle case circostanti; meste tede funeree, esclama l›Hoffstetter, alla morente repubblica! il Bastione primo di sinistra si lasciò presidiato; e del presidio era parte la compagnia Rosagutti nella quale militava il dabbene Morosini; ma il Dandolo, che di quel diletto capo trepidava ottenne supplicando dal Manara, che a cotesta compagnia si desse lo scambio; altri si oppose ma non potè spuntarla; la compagnia Rosagutti fu rilevata; con essa andò il Morosini; lo tirava il fato. Durante la notte del ventotto al ventinove i Francesi tentarono sorprendere il Vascello o piuttosto le rovine di cotesto edifizio; ma dal Vascello si partì tale violento rimbecco, che dimostrò agli assalitori essere consiglio buono starsi lontano dal morente lione; venti di costoro caddero tra morti e feriti. Prosegue la dolentissima storia, i Francesi su l›alba del 29 tempestano il Bastione nono; nell›ottavo, mercè la Batteria decimaquarta, lacerando ogni riparo, aprono la Breccia; le nostre artiglierie rispondono languide; palpiti di cuore, che accenna cessare; solo la Batteria dell›Aventino avventa fuoco come chi disperato della vittoria non vuole morire senza vendetta. Ora i Francesi si ammanniscono a salire la breccia, e bene si palesano previdenti ed arguti. Sei compagnie della divisione Rostolan comandate da un Lefebvre si dispongono a colonna di assalto principale; altre tre compagnie capitanate da Le Rouxeau stanno pronte alla riscossa: per esse gli ordini portavano, si avventassero; quanto più potessero s›inoltrassero; trecento zappatori, che tenevano dietro subito dessero mano a costruire ripari co› gabbioni, e con altri argomenti avvertendo però di lasciare lateralmente adito al ripiegarsi della colonna caso mai ella avesse incontrato qualche duro intoppo. Eravi altresì una terza colonna di assalto la quale guidava il Laforet, di cui il compito consisteva dare dentro di fianco, ed alle spalle al Bastione ottavo. Preposto a tutti il tenente colonnello Espinasse che si teneva in procinto con altra riserva: accompagnarono tutte le altre colonne assalitrici proporzionato corredo di zappatori; finalmente perchè nulla mancasse di quanto nelle imprese guerresche suole accertarne l›esito felice furono commessi due assalti simultanei alle porte S. Paolo e del Popolo. Queste le apparecchiate offese, queste altre le difese: la batteria della Montagnola armata con tre cannoni volti allo sbocco della Breccia; quivi davanti ove arieno per necessità messo il piede i nemici, facendosi oltre, sparsero i nostri canne secche, e vasi di materie infiammabili per ispaventarli, e scottarli; in luogo riparato collocarono due sentinelle perchè vigilassero, cinquanta lancieri della legione italiana capitanati dal Muller stavano lì dintorno schierati per difenderla con le lancie, cui rinforzarono con una compagnia di fanti. Al Bastione ottavo mandarono alcune compagnie della seconda legione di fanteria, ed una di bersaglieri lombardi; alla manca della batteria attelati altri bersaglieri, ed altre compagnie della legione italiana; il colonnello Pasi col sesto reggimento alla riscossa. La Villa Spada difendevano i Bersaglieri lombardi, e giù per la strada schierato un battaglione di legione italiana. Lo spazio tra la batteria del Pino e Porta Portese occupava il colonnello Morrocchetti, che teneva la riserva nella piazza di San Pietro Montorio. A dritta della porta San Pancrazio il colonnello Ghilardi con alquanta gente sparsa stava per simulacro di difesa, piuttostochè per difesa; il Medici sempre fra le sue ruine del vascello. Scese la notte minacciosa, e non pertanto il governo volle, che secondo il consueto la cupola della basilica Vaticana s›illuminasse, nè manca chi il biasima come atto d›ipocrisia, e non è vero, imperciocchè mettendo in disparte ciò che nell›intimo nostro ognuno di noi possa credere o no, non fa buona prova l›uomo di stato che vada contropelo alla fede degli uomini: solo, mostrando assentirci bisogna vie via rimondarla del troppo, del vano, e del maligno, che c›innestarono i preti e soprattutto poi importava ed importa chiarire i popoli, che la religione non istà nelle zimarre sacerdotali, nè negli arnesi del culto: molto meno poi la è privativa dei preti. Cristo vive impresso nei cuori dei Cristiani, e risponde a tutti senza mestiere di mediatori; con Cristo voi vincerete Roma, a patto che non cessiate mai di chiarire come i sacerdoti prima lo ammazzarono, poi se ne servirono per paretaio. Intanto l›uragano, che nelle prime ore del vespero si ammassava scoppiò empiendo il cielo, e la terra di fracasso, di terrore, di acqua e di fuoco: il nemico alla rabbia degli elementi mescola la sua, ed il bagliore dei lampi congiura in suo prò; imperciocchè la luce sfolgorante di quelli impedisse la vista dei guizzi delle bombe, e togliesse per questo modo la facoltà di schermirsene a tempo: i soldati fastiditi fino alla morte dalla pioggia incessante, con le gambe fitte fino al ginocchio nel fango, si struggevano nello scoraggiamento; ai percossi non isfuggiva nè manco un sospiro, chè durare in cotesto stato pareva loro peggio, che morte, e forse era. — Su pei ricordi dei tempi trovo segnato con nota d›infamia il Carroni preposto alla custodia del Bastione ottavo come quello che rinvennero alla seconda vigilia avvolto nel suo mantello e addormentato; certo non correva stagione di sonnecchiare, ma davvero la stanchezza, la temperie, l›umido uggioso, e le altre tribolazioni sofferte prostravano i corpi, e le anime altresì. Un›ora prima dello assalto principale il generale Guesviller partendosi a capo della sua divisione dal ponte Molle si avvicina alla villa Borghese dove si precipita contro le mura per isquarciarle e quinci penetrare in città; se riesce meglio, se no richiama l›attenzione, e le armi dell›assediato da questa parte e le menoma altrove; di vero fu respinto, ma per tenere sempre i Romani in sussulto piglia dai monti Parioli a grandinare giù su Roma bombe, granate, che pareva un›inferno, dall›altura di San Paolo non si adoperava diverso: il trarre dei cannoni assordante rintronava il terreno, molte le morti di creature innocenti, e grave il danno negli edifizi più incliti. La belva ustolava la preda. Alle due e mezzo dopo la mezzanotte fu dato il segno del vero assalto, nè lo cominciò la prima colonna, sibbene la terza condotta dal Laforet la quale baldanzosa nel presagio della vittoria, riposata, ed ebbra a mezzo si precipita contro il Bastione ottavo. Oh! perchè non mi è dato confermare anch›io, che i Romani fermi, e audaci con furiosissimi tiri li tempestarono? Valga il vero, comunque amaro, i nostri fuggirono, ed erano bersaglieri; allo improvviso in mezzo ai lampi si vede comparire il Garibaldi, che brandendo la spada nuda, e cantando un›inno di guerra si scaglia contro il nemico, dietro a lui si aggruppano alcuni animosi, i fuggenti presi da maraviglia stanno. I Francesi primi entrati stramazzano per non rilevarsi mai più, ma gli altri sorvegnenti prorompono impetuosi, e dispersi, o spenti quanti si paravano loro davanti arrivano alla barricata di gabbioni costruita fuori del cancello di Villa Spada; qui pure si ravviva la virtù dei nostri, che visto l›Hoffstetter circondato dai nemici, e prossimo a rimanere ucciso fanno impeto, ed abbattuti parecchi a colpi di baionetta lo liberano; poi piegano da capo ruinando a Villa Spada: affaticandocisi gli uffiziali li riconfortano della battisoffiola, anzi vergognando si attelano per la strada, dove la prima linea inginocchiandosi, e le altre rimanendo in piedi bersagliano i nemici con quattro filari di moschetti. Qui di nuovo si mostra il Garibaldi, il quale alla domanda dell›Hoffstetter se dovesse occupare la Villa Spada, risponde arcigno: «è già fatto: voi, e Manara qui la difenderete, io corro a radunare i fuggitivi sul colle Pino, e mi pianto dietro la strada fino alla Villa Savorelli.» La colonna Laforet ributtata si ripiega sopra la batteria fuori del cancello, quanti trova ammazza, e procede con lo intento, e con la speranza di schiantare l›altra Batteria della Montagnola; lo seguita fin là anco una sezione della sua colonna, ch›ei spinse per altra via ad offesa del Bastione ottavo, dove impedita per meno reo avviso tolse a ritirarsi con solleciti passi. Prima assai che i casi narrati si compissero, la prima colonna di assalto si arrampica sul sommo della Breccia, quivi cade il Lefebvre ferito, gli subentra Le Rouxeau: succede una zuffa corpo, a corpo, ma i nostri rimangono smagliati: i fuochi artificiali non partorirono veruno effetto, che fosse buono; leggo che un certo Mano Aldo inventasse non so che bocce piene di materie incendiarie; ignoro se le mettessero in opera, in ogni caso tornarono inutili, come andò a vuoto nella medesima notte il tentativo di buttare giù nel Tevere una barca di fuoco, che scendendo per la corrente incendiasse il ponte di Santa Passera, e ciò per la stupenda vigilanza del nemico. Vinta la prima resistenza i Francesi si affoltano contro la Batteria della Montagnola già assalita dai soldati del Laforet; tengono dietro a loro gli zappatori, che posta appena mano alla zappa balenano vedendo stramazzare giù trafitto da banda a banda il comandante del genio Dufort; ma è breve sosta, che subito surroga il caduto l›Aidaut. Intanto alla Montagnola si viene a battaglia manesca, e fu uno accapigliarsi promiscuo, rabbioso, atroce; tutto servì di arme, ed anco i morsi ci adoperarono, ora questi ora quelli romponsi, fuggono, respingono, urtansi, pestansi, ma i nostri sopraffatti cadono; cadono, ma dopo disperata difesa come gl›Italiani costumano, pei quali morta la speranza del vincere sopravvive quella del vendicarsi; gli artiglieri prima spararono, poi difesero, all›ultimo inchiodarono i cannoni; molti si avviticchiarono intorno ai medesimi come se fossero obietti di tenerezza; innanzi di porre la mano sur un cannone e› fu mestieri che fino l›ultimo artigliere ammazzassero. Narrasi dal generale Torre di un›artigliere, che difese il suo cannone con la sciabola, questa spezzatigli in mano diede di piglio allo scopatore e lo adoperò a mo› di clava, glielo strapparono, ed egli allora combattè a pugni, e a morsi; trafitto da mirabile quantità di ferite lo trasportarono esanime allo spedale della Trinità dei Pellegrini. La storia rammenta eziandio con onore immortale della Patria nostra e di loro i tenenti Cesare Scarinzi di Lugo, e Tiburzi e Casini entrambi romani; questi messi in mezzo da una frotta di nemici preferirono la morte alla resa; l›ottenne il primo lacero da diciassette ferite, e fu raccolto sul campo stringente il troncone della sciabola infranta; l›altro non la potè conseguire, ma in quale stato lo portarono allo ospedale francese, lo dica per noi la Gazzetta medicale di Parigi del 2 Gennaio 1850 «aveva il cranio spaccato da dodici sciabolate, la coscia lacera con dieci baionettate; il braccio rotto in due parti; difese il suo cannone come lione la preda, e non ristette di combattere prima che il braccio non rispondesse alla volontà.» Adesso occorre il lacrimabile caso di Emilio Morosini sembianza di angiolo, cuore di eroe, amore supremo della madre, che lo possedeva unico; annoverava diciotto anni appena, ma nei costumi, e nel dire così si mostrava modesto, che al suo cospetto anco i più scapestrati non si attentavano commettere cosa, o pronunziare parole, che fossero vili; rimosso dal Bastione 8 venne preposto con la compagnia Rosagutti, secondochè di già avvertimmo, alla difesa del Bastione primo; stando alle vedette ode rumore sospettoso, onde vie più si appressa ai cannoni della Batteria; qui giunto invece di ordinare sparassero, tolto seco un manipolo di gente camminò oltre a speculare, che fosse; pur troppo era il nemico salito sul bastione, e non da cotesto lato solo, bensì ancora dalla strada di comunicazione, donde ormai superata, prese a straziare i nostri; il giovane Morosini cadde colpito ad un punto di palla nei ventre, e da una baionettata nel petto; i nostri fecero mostra di non voler cedere, si venne alla prova delle armi e fu breve il conflitto dacchè i nemici con forze tre e quattro volte superiori gli oppressero; però se breve non senza sangue, quaranta ci caddero morti, e centoventi prigioni, gli altri scamparono con la fuga la vita. Quattro Bersaglieri lombardi non patirono lasciare abbandonato il prode giovanotto, ed acconciatolo come meglio potevano su due traverse correvano verso Villa Spada giovandosi della confusione e del buio; imbatteronsi nei Francesi, che da lungi gridarono chi fossero; risposero: — prigionieri. — Non vollero crederci, e bramosi di strage li circondarono; i Bersaglieri vinti da paura gittarono a terra il Morosini, tentando salvarsi: quanto a lui, ormai disperato della vita, si compiacque chiuderla con generoso fine, e assurto in piedi, stretta la spada continuò a combattere, finchè una seconda palla nel ventre lo stramazzò a terra da capo. I Francesi sboglientiti dall’ebbrezza del sangue appena contemplato quello angelico giovanotto ne sentirono pietà... infelice davvero la pietà, che si volge solo sopra ai caduti; ma in mancanza di meglio, alla sciagurata stirpe dell’uomo teniamo conto anco di questa. Morì il primo luglio dopo trenta ore di agonia; maraviglia e compianto degli stessi nemici, i quali con tanto affetto lo udivano rammaricarsi pei suoi cari, e con tanto amore raccomandarsi a Dio padre di misericordia. Emilio Dandolo amico fedele della sventura udito appena che il Morosini era caduto prigione, e forse sperandolo tuttora in vita, non potendo procacciarsi salvocondotto si pose alla ventura a cercarlo nel campo nemico, dove un pietoso gli concesse la entrata; occorso nel primo medico gli domandava, che ne fosse; gli rispose; — «è morto! — Supplicava gli rendessero il cadavere, ma siccome lo avevano di già trasportato al cimitero, così spedirono avvisi per sospenderne la sepoltura. Ora mentre il Dandolo si trattiene a ragionare con gli ufficiali francesi, e da cotesti colloqui apprende com’essi la causa della guerra al tutto ignorassero, ecco sopraggiungere un capitano aiutante maggiore, che dando in escandescenze manda gli ufficiali in arresto, fuori del campo il Dandolo; pure avendo il giorno dopo ottenuto regolare permesso egli ritorna al campo dove gli bendano gli occhi, e per bene due ore lo fanno camminare sotto la sferza cocente del sole. Il povero Dandolo parla dell’angoscia patita da lui dovendo assistere ad ogni colpo di vanga che gli andava mano a mano scoprendo parte delle dilette sembianze lorde di terra, e di sangue; — e’ fu codesto dolore, che noi pure sentiamo profondo, comecchè di reverbero, ed in grazia della tua buona natura noi rimettiamo alla tua memoria Emilio Dandolo le offese, che ci facesti, e ne perdoneremmo bene altre caso mai tu ce le avesse fatte. Più tardi l’Hoffstetter visitando la madre del Morosini gli narrò averle scritto l’Oudinot come il figliuol suo sopra il letto di morte avesse edificato ogni uomo con la costanza, e la generosità dell’animo suo; e ci dice com’esso ricercasse a parte a parte ogni minimo particolare del giovanotto eroe, e da ciò cavasse qualche conforto al cuore trafitto. Quando sul rompere la guerra con lo Austriaco le sorelle con infinita passione scongiuravano la madre a non lasciarlo partire, ella repulsò le importune dicendo: «lasciatemi offrire alla mia Patria quanto possiedo di più caro, l’unico figlio mio.» Ora la mesta donna soggiungeva: «piangere su i figli caduti da noi per la Patria è dolore... ma: non tutto dolore!» Anima sorella della rigida madre di Brasida, e di quella dei Gracchi intepidita però al calore della carità cristiana. Fuori di Roma unico palmo, che ci rimanga di terra le ruine del Vascello; ma i Francesi inoltrandosi dalla breccia aperta a destra della porta San Pancrazio accennavano impossessarsene, chiudendo ogni via allo scampo del Medici: appena rompeva l’alba gli mandarono l’ordine della ritirata, allora egli si mosse, se non chè pareva troppo più agevole ordinarla, che farla; l’aere dintorno ingombrava foltissima nebbia, ma la via da tenersi dal destro lato, e dal manco occupavano i Francesi, che al rumore sportisi dai bastioni tiravano per quell’aere cieca moschettate in fiocca: proseguendo a quel modo, innanzi di arrivare alla porta sarebbero stati senza fallo uccisi tutti; venne in soccorso di loro la fortuna. Certo Giuseppe Rocca da Carpi, il quale da lungo tempo stanziato in Francia aveva appreso lo idioma francese per modo, che meglio non l’avrebbe parlato un naturale di cotesta contrada; pertanto disinvolto e franco costui si mise a urlare: «non fate fuoco, non fate fuoco, che siamo dei vostri.» I Francesi ristettero e fu ventura, che infelloniti contro i difensori del Vascello si erano vantati più volte, che se mai essi cadevano nelle loro mani, il pezzo più grosso aveva ad essere un’orecchio. Le ruine del Vascello vivranno nella memoria dei posteri di fama immortale, ma eziandio immortale durerà nel cuore degl’Italiani il compianto per tante morti che lo resero sacro; a quanto sommassero non potrei dire ma sicuramente i due terzi di quelli che difesero il Vasello ci rimasero. E nè manco ci bastano tempo, e notizie per rammentare tutti gli esempi di valore, di cui proprio ci fu profusione piuttostochè copia: continui quelli, che rilevate una ferita o due andavano a fasciarsi e tornavano a combattere, continui quelli, che dopo avere menato le mani per bene ventiquattro ore rifiutavano lo scambio. Quando all’urto delle palle nemiche sprofondò l’edificio seppellendo parecchi dei nostri, i superstiti non curanti il terribile sfolgorare dei Francesi, improvvidi delle nuove ruine, che avrebbono potuto cascare loro addosso si diedero a rovistare per le macerie, ed ebbero in sorte di restituire taluno, comecchè malconcio, alla vita, Certo dì fu visto un soldato traversando la spianata a sinistra della Casa bruciata cadere ferito; sovvenirlo, era perdersi con lui, chè le palle francesi spazzavano il luogo: ora uno dei fanti, che furono papalini colà presenti accennando il caduto ai Bersaglieri lombardi disse quasi beffando: «e voi non andrete a soccorrerlo?» In un bacchio baleno, una mano di giovani lombardi trovata una barella corrono al ferito, e ce lo adagiano sopra: egli pativa atroci dolori, onde essi ebbero a incedere piano, e soavi; talora eziandio fermaronsi. I Francesi si sbizzarrivano a balestrare moschettate le quali zufolavano intorno alla lor testa, e non di manco veruno di loro rimase ferito. Hassi a credere, che tale provvide Dio in mercede della opera pietosa? Piace e giova così. Sarebbe iniquo negare, che tra i Francesi taluno avesse cuore gentile, e mente educata a civiltà, ma qui come altrove si confermò per prove, come in generale cotesto popolo sia barbaro, e feroce: e le guerre di Affrica lo hanno viepiù imbarbarito; costà le immani opere di Annibale il quale fece recidere i piedi ai prigionieri impotenti a seguitarlo rinnovarono; il soffocare col fumo i giudei nelle caverne onde la fama di Tito è aborrita, auspice il Pellissier, da capo fu praticato dai Francesi a danno dei Beduini: a Roma, e lo vedemmo, non solo bombardarono la città, e i luoghi sacri per religione di memorie, o per miracoli di arte, ma principale diletto essi posero a pigliare di mira la chiesa di San Pancrazio convertita in ospedale con manifesto spreto della bandiera nera inalberata in vetta al campanile per farli accorti quivi dentro giacere morti e feriti. Noi sempre provarono i Francesi feriti soccorrevoli; questi al contrario sempre acerbi contro i nostri, nonostante le lustre e i paroloni in contrario, e tu giudica o lettore se i Francesi possano vantarsi presidio di civiltà da quello, che seguita, e che da noi si ricava (recandolo nel sermone nostro) dalla Gazzetta medicale di Parigi t. 44. 3 nov. 1849. «Certo dì un uomo di alto affare venne per porgere conforto ai patimenti dei nostri feriti; caso volle ch’egli vedesse fra i nostri mescolati due italiani:» — «Or come esclamò egli, i nemici fra noi?» — «Scusate, riprese il dottore, sono tutti feriti» — «Sta bene, aiutante, soggiunse il generale, pigliate ricordo, e domani fateli sgombrare» — «Un poco più oltre costui notò parecchi giacenti senza camicie; (altri poi ne avevano delle eccellenti, e donde loro venissero lo sa il nostro amico Monier)» e da capo disse: «aiutante scrivete, e provvedansi subito camicie; sì miei bravi soldati voi tosto ne avrete.» — «Malgrado questi bei discorsi, il fatto sta, che i feriti italiani tremanti per febbre traendo dolorosissimi guai furono trasportati altrove, le camicie poi non si videro.» Di uffiziali che ostentaronsi amici, e tradita ogni legge non dico di umanità ma di guerra assassinarono a man salva fu detto, e fu detto altresì dello strazio crudele menato dei soccorritori ai feriti; io non incolpo il porre, ch’essi facevano i caschi in cima ai fucili sporgendoli dai parapetti delle trincee, perchè i nostri ingannati li moschettassero, e scarico appena lo schioppo, saltare su a colpire l’incauto feritore; questi si considerano strattagemmi di guerra, e guai a cui ci si lascia prendere, ma sì gl’incolpo della salvatica soverchieria di schiantare l’antica polveriera di Tivoli nel giorno ventinove di giugno mentre poteva ormai reputarsi conchiuso l’assedio, ed ogni via per giungere a Roma occupata dai Francesi. Ecco come per loro fu condotta a compimento la magnanima impresa; il generale Sauvan con due battaglioni di fanti, venticinque cavalli, ed un drappello d’ingegneri condottosi a Tivoli intima al preside che atterri l’opificio; preside, magistratura, e guardia nazionale protestano contro l’animalesco comando, costui (e gli parve mostrarsi spartano) della protesta fece ricevuta in questi termini: «il sottoscritto generale dichiara essergli stata presentata dal Municipio di Tivoli una protesta contro la distruzione della polveriera: nonostante la protesta la fa atterrare.» Così un edifizio durato da secoli in breve ora cadde sovvertito dalle fondamenta, stupenda copia di polvere, salnitro, e zolfo gittarono nell’acqua, arsi gli arnesi, fracassate le macchine; e tutto questo non mica per amore di difesa, bensì per genio di barbarie; e’ fu episodio degno della illustre epopea. Siccome io intendo fare con questo libro quello, che il Garibaldi operò, voglio dire, uscirmene di Roma prima che vi scendano i Francesi così io metto a questo luogo la offesa esecrabile commessa da costoro in onta alla memoria del Mellara, anzi in onta alla umanità, e questo ritraggo da certe lettere private di persona, che non so adesso, ma a quei tempi procedeva parzialissima al Papa. Il Mellara dopo patimenti ineffabili periva, molti, suoi compagni di arme si riunirono alla chiesa dei Santi Vincenzo, ed Anastasio per rendergli il tributo estremo delle esequie onorate; andarono vestiti dell’antica assisa, e con la nappa dei colori italiani: era anco intendimento loro pronunziare qualche lode su la bara del defunto, il quale tanto bene se l’era meritata in vita; di ciò informato il Rostolan accorse seguito da molta mano di milizie alla chiesa, a forza volle la sgombrassero i commilitoni del Mellara, tutto vietò eccetto la messa; e siccome il dì veniente i soliti amorevoli del Mellara disegnavano associarne il cadavere al pubblico cimiterio, anco questo impediva; comandava lo seppellissero in chiesa, ma prima che in grembo alla terra lo deponessero egli commise al becchino, che strappasse dal cappello al trapassato la insegna dei tre colori: tanto gl’Italiani chiudano nell’animo e lo ricordino il giorno di possibile vendetta; rammentino altresì che il Bano Jellachich, e il suo fratello colonnello entrambi croati, e capi di croati non mancarono mai di riverenza alla virtù tradita dalla fortuna...... Ora per tornare alla difesa del Vascello, io per me penso, che supporranno i difensori confortati in copia di cibi, e di bevande; ahimè! essi penuriavano di quello, che appena basta per sopperire alla vita; parecchi giorni sostentaronsi con grossi e neri pani che lì rimasti da lungo tempo si erano induriti così, che se ne servivano per origliere quando giacevano sul nudo pavimento a pigliare qualche riposo: essi mangiarono i loro guanciali, come i seguaci di Enea mangiarono le proprie mense. — Sembra altresì, che i Francesi intendessero conquidere i difensori non solo con la fame, col ferro, con le ruine, e col fuoco, ma ed anco con la pietà, e con l’aere pestilenziale, dacchè eglino non consentissero mai alcune ore di tregua per seppellire da una parte, e dall’altra i propri morti; durante tutto lo assedio pertanto essi giacquero a piè delle ruine spettacolo miserando e pericolo presentissimo di suscitare la morìa per l’Italia, e forse nella universa Europa; ed anco questo scrivi lettore italiano in conto della civiltà francese. Il corpo del capitano Ferrari morto nella giornata del tre Giugno per la inesorabile barbarie dei Francesi stette esposto alle intemperie, e agli oltraggi degli uccelli di rapina intero un mese. Le ferite, e le morti non pure dagli eroi del Vascello sopportavansi con mirabile costanza, ma perfino con motteggio; e va pei ricordi dei tempi famoso il giovane Montegazza milanese già orbato di un’occhio nelle cinque giornate di Milano; egli pertanto mentre si travaglia alla difesa del Vascello colpito da palla nemica perde l’altro; non si sgomentando per sì grave sciagura scappa fuori con questi detti: «bona noce; àun smorza i ciar;» — «buona notte, hanno spento i lumi!» Veruno rise, all›opposto, piansero sommesso per non rattristrarlo; visse un tempo in Roma segno di compassione universale ma sterile; un pietoso lo tolse seco per cibarlo del suo pane, e dissetarlo al suo bicchiere; non italiano però, molto meno francese, egli era russo! Ed anco per queste carte io non ometterò di notare come la legione Medici tenesse inalberata nel Vascello la bandiera, che prima drappellava nella Svizzera, e poi trasse al grato ospizio di Firenze nel 1848; noi la ospitammo con volenteroso animo consapevoli che la sacra bandiera aveva salutato diciassette anni prima la impresa di Rimini; di ampiezza angusta mostrava la scritta: «Dio e Popolo.» adesso forse se ne sta nascosta per ricomparire fuori nel giorno destinato; l’alba del giorno di Dio e del Popolo si fa attendere lungo; consoliamoci del suo tardo nascere con la coscienza, che cotesto giorno non avrà più tramonto. Chiudo la narrazione della battaglia del ventinove Giugno rammentando il caporale Perocco del quale non poterono impadronirsi i Francesi se prima non lo ebbero sternato con ben ventitrè colpi di baionetta; trasferito all’ospedale per singolare ventura, sopravvisse ma di bellissimo rimase cincischiato e storpio; Scacciani, Spianavelli ed altri moltissimi perirono, ma prima si cacciarono sotto i nemici adagiandoci il capo come sopra un guanciale di riposo; un fanciulletto tamburo, visti morti gli uomini della compagnia buttato da parte il tamburino raccolse gli schioppi, e quelli sparò contro i nemici, finchè percosso in fronte anch’egli li seguitava nella morte. Altri infiniti mi si affollano alla mente innominati: che posso io dire per consolare cotesti eccelsi spiriti? A modo, che se noi vediamo splendide ma indistinte le stelle che formano nel firmamento le miriadi delle vie lattee, elle stanno tutte di propria luce sfolgoreggianti al cospetto dell’Eterno, che le conosce a nome come un padre le figliuole, così adesso le anime dei morti per la libertà della Patria sono note a Dio, che le vagheggia ad una ad una e le saluta palpito del suo cuore, del suo senza misura amoroso cuore. Sorge il giorno trenta giugno, ultimo della difesa; chi stava sul Gianicolo vedeva la grande cupola vaticana in qua, ed in là tuttavia rischiarata dalle faci che avevano resistito allo imperversare della bufera, e che ora andavamo una dopo l’altra estinguendosi immagine dolorosa degli sforzi durati per difendere Roma. Non importa,si combatta sempre, le bandiere della libertà quando cascano nel sangue si rilevano più poderose, che mai, come Anteo quando percoteva la Terra sua madre; i nostri alla meglio raggruppansi e cominciano un trarre disperato di moschetti dalle Ville Savorelli e Spada; rimbeccavano con furia punto minore dalle nuove trincee i Francesi irresistibili perchè rincalzati da una fiumana di fuoco che turbinava dalle batterie dieci, undici, dodici, e tredici; e come se dei cannoni non ce ne fosse di avanzo, senza misura ci adoperavano i mortai. Le nostre batterie dall’Aventino, e dal Pino controbattevano languide, ultimi tratti dell’agonizzante; e poi di repente i Francesi per dare il colpo di grazia contro la Batteria dell’Aventino voltarono la seconda Batteria loro formidabile di artiglierie e di artiglieri. Per meglio conquidere i nostri schierati a destra della porta San Pancrazio i Francesi tentarono arrampicarsi sul portone di cotesta porta, e quinci salire su la breccia del Bastione nono aperta dalla Batteria decima; li respinse il Medici co’ suoi, e col primo reggimento di linea, anzi taluno dei nostri s’inerpica ad occupare il frontone donde recava gli ultimi, non però i meno dolorosi danni al nemico, che infellonito colà avventa le armi, e le ire; ma per fulminare ch’ei faccia con le sue artiglierie veruno si rimuove, e con esempio memorabile tutti elessero perire sotto lo sfasciume della porta. A Villa Spada un manipolo di soldati della legione italiana avendo scorto certi fanti francesi ripararsi verso il muro della corte si avventò su di quelli cacciandoli a furia; l’Hoffstetter preso animo dal caso, volle tentare se gli venisse fatto di ristabilirsi nella Batteria dinanzi casa, e chiese al Manara gli concedesse una cinquantina di uomini; gli furono dati, e di un salto tutti di accordo balzarono sul luogo indicato; colà l’Hoffstetter procedeva oltre con alquanti dei suoi, gli altri lasciava dietro al coperto per bersagliare i Francesi, appena però avesse incominciato ad assalire la Batteria, anche quelli corressero a rinforzarlo: si accostava temerario piuttostochè animoso, e vide essere quella impresa perduta, imperciocchè la Batteria comparisse tutto intorno munita di alti gabbioni presidiati in copia: nondimeno gli piacque continuare il combattimento lasciandosi in balìa di quel soffio di speranza, che mai non cessa: così durando da una parte e dall’altra vennero a mancare le munizioni ai nostri, per la quale cosa l’Hoffstetter rannicchiandosi più che poteva si recò per esse a Villa Spada; per via occorse in un giacente francese bello e robusto con una ferita al sommo del petto il quale se ne stava esposto al grandinare delle palle e non faceva, o non poteva movere atto per levarsi di là, l’Hoffstetter commiserandolo gli disse: «abbiate pazienza anco per un po’, e manderò la barella a pigliarvi» ma quegli non disse motto; giunto sotto la Villa chiese la munizione, e il Manara con le sue medesime mani gliene gettò un sacco dalla finestra, se lo recava su le spalle mentre il Manara sempre dall’alto gli raccomandava ritirarsi, che la zuffa gli pareva senza costrutto; l’Hoffstetter gli rispondeva, ma quegli non replicò, per la quale cosa l’Hoffstetter andava pei fatti suoi, ma indi a breve tornato avendo conosciuto a prova la verità dello avvertimento del Manara ricercava di lui; ognuno evitava parlare, incollerito insiste, e allora in silenzio gli additano una stanza terrena; sopra la soglia gli occorre l’Appiani segretario del Manara lacrimoso, entra e mira un gruppo di gente insieme stipato, lo separa con empito, ed ecco gli sta dinanzi il Manara tutto sangue con gli occhi erranti per le tenebre della morte; gli si genuflette ai piedi, la mano gli bacia e la fronte già fredde; quegli lo ravvisa, e con piccola voce ansando sussurra: «sono ferito a morte; forse mi rimane a vivere un quarto d’ora» L’Hoffstetter lo consola, e propone trasportarlo all’ospedale, ma il Manara ricusa dicendo: «no... non m’inganno, sono morto, il trasporto crescerebbe gli spasimi... lasciate ch’io muoia qui dove ho combattuto.» Il Dandolo che pure si trovò presente al caso narra come poco prima, che la palla micidiale passasse il Manara da parte a parte egli nel seguitarlo rimanesse colpito di una palla di rimbalzo nel braccio destro, onde costui esclamò: «per Dio! tocca sempre a te? O che io non devo portare via nulla da Roma?» A lui il Manara cadendo raccomandò i suoi figli; da lui supplicò non essere abbandonato mai; dalla stanza chiusa lo trasportarono alla campagna aperta; allora desiderò si chiamasse il medico Bertani amico suo. Il Dandolo si piglia cura di riportarci che dietro le sue raccomandazioni il Manara si confessò, e si comunicò: pedanterie di guelfismo riscaldato in Lombardia, come se la vita del mortale eroe incontaminata avesse bisogno per amicarsi Dio di un Cappuccino mediatore, e il Padre delle misericordie non aspettasse cotesta anima bennata a braccia aperte; qual sacramento avrebbe mai potuto renderla più pura oltre la religione del martirio, e il battesimo di sangue? Il Manara raccomandava al Dandolo procurasse allevare i suoi figliuoli nell’amore della religione, e della patria; l’Hoffstetter di religione non parla, bensì gli mette in bocca queste parole: «consolate la mia povera moglie, e recatele il mio ultimo addio: educhi i nostri figli allo amore per la infelice nostra patria, ed appena sapranno reggerle, ponga loro nelle mani queste armi.» A me, e ad altri le parole dell’Hoffstetter compariranno più conformi al cuore dell’uomo; per pedanteria guelfa il Dandolo inteso a incastrarci la religione, omette la moglie; pare impossibile come e quanto la beghineria stupidisca il cuore; forse per lo sposo amante la cara e casta moglie, madre dei suoi figliuoli non è religione? Innanzi, che per me si lasci la dolente storia non vo› mancare di referire qui un caso il quale troppo stupendamente dipinge gli uomini, e i tempi. L›Oudinot, dicono per raccomandazione di Massimo D›Azeglio, preso a un tratto di tenerezza pel Manara gli scrisse lettera per buona ventura giunta dopo che cotesto valoroso ebbe reso l›anima a Dio, e dico buona ventura perchè di certo avrebbe cagionato gravissima alterazione a quel nobile spirito. L›aperse il più anziano dei capo-battaglione dei Bersaglieri; in sostanza portava lo scritto: ammirare la prodezza e la disciplina dei Bersaglieri, più che tutto sentirsi compreso da inestimabile reverenza per lui Manara; pregarlo a non considerare la capitolazione proposta nè in parte, nè nello insieme riguardante lui; avere ordinato gli pagassero ottomila scudi per sopperire alle spese del ritorno a casa dei suoi Bersaglieri; in fondo di straforo, con animo più che volenteroso poi avrebbe visti i Bersaglieri rimanersi a Roma al soldo del nuovo governo; la insidia tendeva a dividere Manara dal Garibaldi sia che insieme si gittassero alla campagna, o rimanessero in città tentando la disperata guerra delle barricate, o scemarsi l›odio che sentiva aggravarglisi sul capo per la occupazione di Roma, ed anco per avvilire cotesti giovani non meno saldi nella propria fede politica, che prestanti nelle armi. Intorno al quale successo poche parole bastano, e sono queste, l›Oudinot mandando cotesta lettera si chiariva degno di poterne ricevere una pari, che le avrebbe fatto buon viso: venali tutti in Francia, non si sa perchè i suoi soldati soli arieno a conservarsi incorrotti. Coteste ultime ore di combattimento ci diedero materia a lungo rammarico. Andrea Aghiar il fedelissimo moro del Garibaldi periva; mentre questi smanioso di continuare la battaglia monta a cavallo dietro la Villa Spada, e l›Aghiar gli tiene la staffa una palla lo investe e lo trapassa da una tempia all›altra. Pieno di mestizia fu il caso di Vincenzo Ugolini da Forlì, il quale gravemente ferito, giaceva della vita in forse, ma pure non disperavano affatto, quando (e certo per sollevarlo) gli menarono presso al letto due fanciullini, che rammentandogli i suoi figliuoletti lasciati a casa tale nodo di passione gli prese al cuore, che in breve ora in mezzo a fiere convulsioni spirò. Anco Giuseppe Verzelli da Bologna col capo rotto cadeva per non levarsi più, e morti in campo giacevano altresì Pietro Signorini, e il Bandi di Romagna. A cinquecento e più calcolano arrivassero i morti, e i feriti nel breve, e micidiale conflitto. Verso mezzogiorno, chi la chiedesse ignoro, ma suppongo i Romani, si concedeva tregua per raccattare i morti, e i feriti, che ingombravano il terreno massime intorno al Bastione ottavo. Il Generale Garibaldi fidando di combattere tuttavia aveva disposto resistere da una terza linea, ed ordinò il modo col quale avesse a procedere la ritirata; l›ala destra contendendo il terreno palmo a palmo doveva lungo il Bastione di Santo Spirito ripiegarsi sopra il Castello Santo Angiolo, e quivi stare col ponte munito di difese avanti a se, egli sosterrebbe le Barricate, e i ponti di Trastevere. — Però la battaglia non si rinnovò più. Tutti sanno come il Mazzini convocasse nel palazzo Corsini in Trastevere i maggiorenti militari della Repubblica Romana; pallido era come colui, che, se non sopra agli altri, almeno quanto altri sentiva lo strazio, e l›onta della Patria nostra, ma non fremente secondochè taluno scrisse; quivi propose ormai non restare, che tre partiti, la capitolazione, la difesa per via di barricate, e la sortita dello esercito, e dell›Assemblea per sommovere le provincie, e prolungare la guerra, il generale Bartolucci osservò la difesa a quel modo che la intendeva Mazzini impossibile, e tale la dichiarava per avviso del Garibaldi; si mandò per esso, ed ei venne intriso di sangue, sordido di polvere, in volto avvampato, terrore ai nemici, oggetto di entusiasmo al popolo; richiesto del parere suo, lo disse: potrebbe anco difendersi Roma se tutto il popolo di Trastevere passasse il fiume, e rompendo i ponti: risolvessero tosto; ogni indugio, comecchè brevissimo, funesto. Interrogato quanto, dandogli retta, si sarebbe potuto durare, rispose pochi giorni. Il Mazzini non insisteva su cotesto partito tanto più che immaginava i Francesi non avrebbero mai accettata cotesta battaglia manesca: padroni delle alture, cannoneggiando a bello agio, e senza un pericolo al mondo la città, erano sicuri un giorno più presto, o un giorno più tardi di mettersela sotto i piedi; bensì forte propugnava l›altro della uscita dello esercito, e dell›Assemblea a sommovere le provincie, ma l›Assemblea consultata ricusò aderire parendole cotesto un mettersi allo sbaraglio senza costrutto e aveva ragione; il Torre ottimamente ragiona su questo proposito, e con raziocini, e fatti dimostra quanto a casaccio altri metta in campo esempi antichi e moderni, e ci fondi su i paragoni: le cose della libertà precipitavano in tutta la Europa; qui tra noi non un cuore solo; da un lato i monarchisti costituzionali col Piemonte, dall›altro i preti, e i clericali, che le scapestratezze guelfe dei Lombardi ribollivano sempre, e per ultimo rinterzavano gli adoratori delle vecchie tirannidi, compresa l›austriaca; e i popoli facilmente sboglientiscono, dove non gli agitino o una grande speranza, od una grande disperazione. Talora sono andato meco stesso considerando come mai non cascasse in mente a persona ridurre Roma in un mucchio di rovine protesta eterna contro ogni tirannide soldatesca, e sacerdotale: nelle note manoscritte di certo ufficiale di ordinanza del generale Garibaldi mi occorre segnato come costui giacente per dormire nella Villa Savorelli udisse il Generale col Manara tenere ragionamento su tale proposito mentre passeggiavano su e giù, e senza assicurarlo gli pare che ne andassero d›accordo. — Altro distinto uomo adesso esule dal suo paese mi scrive la commissione delle Barricate composta del Cernuschi, del Caldesi, del Cattabene e dello scrivente avere messo in disparte un migliaio di libbre di polvere per empirne uno dei quattro pilastri dell’altare maggiore di San Pietro, ch’è vuoto, e mandare a rifascio il tempio del cattolicesimo per interesse del quale mani barbare mietevano il fiore della gioventù italiana come biada matura. Rispetto al Mazzini devo dire che la proposta gli venne fatta, e gliela fece il generale Rosselli favellandogli così: «prima di andarcene non vorremo noi mandare all’aria le moschee?» E Mazzini rispose: «coteste moschee io tengo sacre come il Campidoglio, poichè mi rappresentano la storia di molta parte di mondo, e un giorno saranno gradino alla instituzione della nuova fede.» Su di che confesso ch’io non capisco niente; chi non vuole vendere vino levi la frasca: per me che amo la libertà sopra la civiltà, anzi che cosa sia civiltà senza libertà non so comprendere, nè voglio, paionmi gesti divini lo incendio di Mosca, la mina di Missolunghi, ed in antico l’abbandono di Atene. Ai Francesi intirizziti, e abbrustoliti a Mosca io penso che non frullerà mai più nella testa di tornarci; i Russi all’opposto accolti dai Parigini con le fronde dell’ulivo tornarono due volte a Parigi. Bando agli sciolemi, il generale Ropstokin, e il vescovo Germanos meritano solo essere segnati fra i santi sul calendario dei veri patriotti. Il Cernuschi preso da smanie, non senza lacrime, e strappamento di capelli, cose tutte, che si addicono meglio agl’istrioni che agli uomini di stato propose il partito, che l’Assemblea cessata ogni difesa impossibile restava al posto, commettendo al Triumvirato la esecuzione del Decreto. Breve la discussione, gli approvatori molti. I Triumviri risegnarono l’ufficio, il Mazzini di più volle depositare presso l’Assemblea una sua protesta dove dopo deplorata cotesta risoluzione, e detto che non mai per lui sarebbe stata eseguita, la rampognava di essere venuta meno al suo mandato per colpa o no, ma di sicuro per debolezza; quindi salutato, e confortato il popolo se ne rimase unico dei Triumviri, e dei Deputati in Roma una settimana dopo entrati i Francesi passeggiando quotidianamente per le vie più popolate; partiva compiacendo alla ressa benevola di Giulia Modena, e della straniera Mongenei Zuller; passaporti, nè salvocondotti ei non possedeva, come perpetuamente bugiardo scrissero gli avversari suoi, senza passaporto fu accolto sopra il piroscafo il Corriere Corso comandato dal capitano Cambiaso, senza passaporto sbarcò a Marsiglia, donde senza patire molestia attraversata la Francia si ridusse in Isvizzera. Di Garibaldi note le fortune, la costanza, l’ardire, i pericoli, e i casi dolorosi. Episodi pieni di amarezza infinita della Odissea pietosissima sono le morti del Brunetti e dei suoi figliuoli, di Ugo Bassi, e della valorosa sua donna Annita; le fughe, le insidie, la ferina caccia, e l’eroico aiuto dei buoni, per ultimo lo scampo miracoloso per virtù del Guelfi maremmano nostro, bella gloria toscana: di ciò non sono chiamato a spendere parole; solo devo ricordare come a cotesti tempi fosse detto, e ripetuto poi, che esulando da Roma ei si portasse seco un milione: l’uomo integro di siffatta accusa non si diede un pensiero al mondo; molto meno si dolse, ovvero accusò: egli (le opinioni degli uomini sono varie) avrebbe tenuto sfregio solenne un certificato di probità scritto in una sentenza di Giudici, la quale piove sul bagnato dove non ti sovvengano la fiera coscienza, e la estimazione pubblica: se al Garibaldi abbisognasse testimonio basterebbe, che la povertà accennasse coteste inclite mani che sanno donare un trono, e zappare un campo. Tuttavia ecco quanto fornì materia agli abietti di malignare su questo milione di monete di oro coniate con l’effigie di Gregorio XVI, e di Pio IX tratte fuori dalla Zecca e rubate; quando il Garibaldi uscì di Roma unico capitale, che possedesse erano ottomila scudi romani in carta; però modo di spenderli non ci era; ci fosse stato, se ne cavavano un mille l’arebbono tenuto per provvidenza; li consegnava a quel Giuseppe Guarnieri soprannominato Zannetto di Vescovato cremasco battagliero di valore unico piuttostochè raro; a narrare i gesti ch’ei fece non basterebbe un libro; il prode uomo seguitò il Garibaldi, e allorchè questi licenziava la sua legione a San Marino per niente consentì separarsene; gli ammannì le barche a Cesenatico, con lui entrò in barca; con lui, venendo addosso i piroscafi austriaci per pigliarli si buttava alla spiaggia; in questo punto voltatosi al Garibaldi, dubitando, che dove fossero caduti prigioni cotesti fogli valessero a metterli in male partito, domandava, che dovesse farne; e il Generale di rimando: «quello che vuoi» egli allora li buttò in mare al cospetto del Generale e di altri dieci riparati nella medesima barca: vuolsi altresì ricordare, che se gli sofferse l’animo di gittare all’acqua la carta non sostenne affondarci il suo mantello di ufficiale; afferrata la terra alla Mezzola il Garibaldi gli diede licenza, che meno arduo sarebbe stato scampare alla spicciolata, che insieme; egli allora mutò veste con quella di un pescatore, ripiegò il mantello in fondo di un cavagno coprendolo di foglie, e di anguille, e con esso in mano si aggirò, sempre col pericolo di essere scoperto e fucilato, per bene quindici giorni in mezzo alle paduli di Brondolo circuito dagli Austriaci traverso i quali fortunatamente passando si ridusse incolume a Venezia prima, che si rendesse; così buttò via la pecunia, salvò il mantello. L’Assemblea prima di cessare per violenza straniera il mandato del popolo compì il dovere suo pubblicando la costituzione repubblicana sul Campidoglio, poi si ritrasse nella sala di sua residenza aspettando esserne cacciata. Di capitolazione non si parlò nè manco, entri il barbaro cui fu prodezza il numero, e adoperi la ragione della forza. Mandate innanzi pattuglie a speculare i luoghi finalmente a capo dei suoi ufficiali entrava in Roma il generale Oudinot tutt’oro, e penne, ch’era un visibilio a mirarlo; si aspettavano i francesi accoglienze liete, dacchè pochi (egli lo aveva detto) erano i facinorosi che scombussolavano cielo e terra, i Romani veri, deliranti di ricuperare la delizia del governo pretesco, e furono stranamente delusi; urli, fischi, maledizioni a bocca di barile, con timore di peggio. Il Generale Oudinot giunto davanti al caffè delle Belle Arti di un tratto mira una bandiera dei tre colori italiani quivi appesa; parve gli agitassero davanti gli occhi il teschio di Medusa; poco dopo egli infuria e tempestando comanda ai cittadini quinci la removano, rispondono quelli con ingiurie, e con onta e in mezzo all’assordare dei sibili ricorrevano concitate le parole romane: «levatela voi, chè ve pare? non semo i vostri servitori, i vostri servitori non semo.» Allora cotesto uomo grossiero vie più sbuffando si accosta col cavallo ed afferrata con entrambe le mani la bandiera tira, e tira fra le risa, e gli scherni della moltitudine; però la bandiera ottimamente assicurata non cede; solo si capovolge, ed egli quasi fuori di se dalla rabbia raddoppia gli sforzi invano: il suo cavallo inquieto per lo insolito tramestio volta le groppe, e il cavaliere è costretto a consentire a quel moto senza però lasciare il lembo della bandiera: perchè di un tratto egli apre le mani e l’abbandona? Perchè allibisce egli, e come trasognato abbassa la faccia e ripiglia tutto sbaldanzito il cammino? Gli era comparso, o piuttosto gli sembrò gli comparisse davanti il Garibaldi che torvo lo sogguardasse, e tanto bastava perchè l’anima di costui sbigottisse di spavento. Come accadesse lo strano caso a veruno forse, o a pochi è manifesto, io lo dirò con le parole stesse dell’amico Ripari: egli confidandomi il fatto mi commise tacere di lui, ma io non lo obbedisco fidando non voglia portarmene il broncio; dove mai m’ingannassi lo placherà per me il Garibaldi giudice del piato. Ora ecco il suo scritto: «I Francesi entrarono da porta Angelica, e per via del Colonnato, piazza Rusticucci, Borgo nuovo, ponte S. Angiolo, via dell’Orso, piazza Nicosia, piazza Borghese, via del Leone, piazza S. Lorenzo in Lucina sbucati sul Corso accennavano a piazza Colonna, e a piazza di Spagna. La testa della colonna di occupazione non aveva anco passato piazza Borghese quando io entrai nel Corso dalla via Condotti sempre vestito della mia cappa rossa, col cappello piumato, e sciabola al fianco, insomma Garibaldino netto; alcuni fra i nostri già mutati i panni soldateschi nei civili mi furono attorno interrogandomi che m’intendessi fare.» — «Io nulla, risposi, fuorchè starmi a vedere questi furfanti di Francesi.» — «Lì presso un Francese udite le parole mi si avventò alla persona, ma un suo compagno lo fermava: io non mossi collo, pure tenendo l’occhio alla penna; i miei conoscenti si allontanarono forse presaghi di guai, io rimasi, poi piano «piano mi mossi anch’io talora voltandomi addietro quasi invitando il Francese a venire meco in disparte per acconciare le nostre faccende, ma egli reputò spediente non seguitarmi; di ciò chiarito divisai tornarmene sul Corso pigliando per largo della Impresa, e di via Lucina la quale sbocca proprio dirimpetto al Caffè delle Belle Arti; dalle finestre voci di donne mi ammonivano a retrocedere, ed io non me ne dava per inteso, finchè mi abbattei in certa sentinella francese posta in capo della strada per impedire il passo, la quale appena vide la cappa rossa non ebbe balìa di fiatare ed io passai liberissimo, sicchè in tal modo giunsi nella breve strada che taglia ad angolo retto il Corso stando alla mia sinistra il Caffè delle Belle Arti. Qui ripiegate le braccia sul petto, fermo su le gambe, e per la commozione interna certo nel sembiante sconvolto mi posi a guardare lo sconcio arrabbattarsi dell’Oudinot intorno alla bandiera del Caffè; quando il suo cavallo lo costrinse a voltarsi i suoi occhi s’incontrarono co’ miei; che mai ci leggesse non so, certo se avessi potuto lo avrei ucciso con gli occhi: fatto sta, che costui lasciata scapparsi la bandiera di mano, mogio mogio se ne andò per piazza Colonna.» Perchè noi andiamo capaci di questo successo importa sapere, che per la statura, la complessione della persona, e il colore della barba e dei capelli il Ripari molto arieggiava al Garibaldi, e molto anco adesso gli arieggia perchè di rossi sono entrambi diventati canuti. Ma ch’è mai un capitano di esercito, che alla sola vista di un’uomo sbigottisce di paura? Ed anco quando in ciò non consentissero i Francesi, da che legno tagliano essi mai i comandanti supremi, i quali immemori della dignità loro al cospetto di un popolo si arrovellano con uno straccio dando argomento di riso, e di contumelie plebee? — Nè si creda già, che all’Oudinot paresse in cotesta ora sedersi su le rose, imperciocchè, un prete, che ardì plaudirlo in piazza Colonna indi a breve trafitto da innumere ferite moriva; ad un’altro per la medesima causa ruppero il cranio, e poi strascinarono per terra in piazza Sciarra; a Monte Citorio straziarono due popolani tenuti spie perchè così di subito li videro accontati co’ Francesi; ma di ciò basta; l’Oudinot imperterrito bandiva indubbie testimonianze avergli provato quali e quante fossero la fedeltà, e la gratitudine dei Romani al generoso Pontefice iniziatore di libertà! Adesso opinione di molti, la quale va (che giova negarlo?) mano a mano allargandosi è che la Monarchia non voglia, nè possa satisfare al compito di francare Roma dalla potestà dei preti, e darla capo alla Italia; non vuole, dacchè con lo schiantare l’autorità sacerdotale verrebbe a tagliare eziandio le radici alla principesca, avendo alla prima, attinto sempre la seconda come a sorgente inesausta di qualunque tirannide; che se talvolta ella ebbe ricorso al voto del popolo, ciò fu per via di ripiego, e sbalestrata dalla violenza dei tempi, non già con volenteroso animo, e leale, e molto meno col proponimento di tenersi a lungo cotesto calcio in gola: e neppure ella lo può, conciossiachè se avverti al diritto, la Monarchia non offesa, e vincolata dai trattati come spoglierebbe il Papato senza infamia non si comprende; se poi consideri la forza la Monarchia non la possiede materiale se il popolo gliela neghi, molto meno la morale. Checchè sia di siffatte opinioni, certo è che il popolo ha potestà di rivendicare la sua terra come quello che senza dubbio Dio creò padrone della terra; nè veruna memoria antica ci ammaestra che egli creasse la bestia sacerdote, o l’animale re; l’uomo è creatura naturale, preti, e principi derivano dal volere e più spesso dai vizi, e dagli errori degli uomini. — Che il prete abbia comprato Roma non è verosimile dacchè la Chiesa nacque ignuda fra gli stecchi, nè ad ogni modo libertà di popolo somministra materia a compra ed a vendita; se il prete s’impose padrone per via di errore, ei venne con le tenebre se ne vada con la luce; se spartì col conquistatore il popolo come fiera presa alla caccia, la forza tornò al conculcato, e al prete ora tocca di fare cadendo il tomo. — Se tu volgi la mente alle varie instituzioni che posero il fondamento in Roma tu ti persuaderai, che vennero i tempi, e furono compiuti i riti, ond’esse ebbero sempre inizio: così il regno consacrava Romolo col sangue di Remo; la repubblica intrise la sua pietra angolare nel sangue di Lucrezia, lo impero in quello di Giulio Cesare. Sopra il sangue dei martiri s’inalzò la Chiesa, ora il popolo non dava a vene aperte sangue per consacrare il suo risorgimento in Roma? — Ormai del perchè i preti tengano le branche fitte su Roma non sanno nè manco essi addurre ragioni che valgano, di vero esse tutte si stringono a sostenere la necessità di dominio terreno per esercitare liberamente il governo delle anime, e sembra bestemmia imperciocchè qual dignità si abbiano le cose spiritali le quali abbisognano della materia per puntello non si comprende; e poi non è vero, chè li smentisce Cristo, li smentiscono gli Apostoli, i Santi Padri, il fatto stesso della Chiesa cresciuta senza gravezza di beni terreni, tirata in giù dal peso delle male raccolte dovizie. Al contrario al popolo italiano fa mestieri Roma come quella ch’è sua, e da capo alle membra sparse; senza lei egli non può costituire il suo paese, casa sua: in Roma solo può comporre la sua capitale, però, che sgombra dalle male piante, che la contristano, da tutte le parti d’Italia si condurranno ad abitarla schiere d’Italiani e lì unicamente si mescoleranno compenetrandosi piemontesi e siciliani, toscani e liguri, lombardi e napolitani, veneziani, e romagnoli. Capitali non si caveranno mai da Firenze, da Bologna, e da Milano senza che l’astio municipale si desti, con danno inestimabile però che invece di levarsi via crescono le cause delle emulazioni, e delle discordie. Tutte pari tra loro le città italiane ad una sola devono inchinarsi, a Roma. Roma è principio nuovo; in Roma si ritempreranno gli animi, che davanti al Campidoglio non è permesso mostrarsi vili; costà nei ruderi dell’antica grandezza forza è che si rompa il flutto della ipocrisia, dell’avarizia, della saccenteria perfida, e inane. Tale che sembra altrove eroe, il sepolcro degli Scipioni rigetterebbe come verme; tali che si vantano altrove liberi, i comizi dei Gracchi, o il Senato di Catone non vorrebbe nè manco per servi. — L’assedio dei Francesi a Roma è finito, ora si compie quello del popolo; costoro ci condussero la violenza, il servaggio, e l’errore; sta al popolo sostituirci la libertà, la sapienza, e l’amore. Possa anco questo mio libro tornare di qualche utilità alle nuove generazioni: credano a me, fu smarrita la via; importa tentando, e ritentando tornare in carreggiata. L’arco di Ulisse non si poteva piegare da altri che da Ulisse; la Italia non può risorgere, che per virtù di mani gagliarde, di senno antico, e di cuori divinamente innamorati della immortalità. FINE