Gerolamo Rovetta MATER DOLOROSA I Mentre il conte e la contessa Della Valle partivano per Parigi, o almeno così si doveva credere a Borghignano, una delle città più importanti del Veneto, il duca e la duchessa d’Eleda avevano sciolte le vele alla volta di Palermo. A trentacinque anni, la duchessa Maria d’Eleda quantunque apparisse, in quei giorni, un po’ indisposta, era ancora una donna bellissima. Bionda e bianca, aveva le flessuosità eleganti di una fanciulla, mentre tutto l’insieme le dava quell’aria che si dice aristocratica. Nulla riusciva a meravigliarla, ben poco a commuoverla e anche il tempo sembrava fosse passato dinanzi a lei senza che ella si fosse degnata di accorgersene. In quella freddezza statuaria però c’era qualcosa, da cui Lavater avrebbe tratto conclusioni molto diverse dalle solite che sopra di lei formavano gli osservatori superficiali. La duchessa d’Eleda lasciò l’unica figlia, cui forse, chissà, abbandonava per sempre, senza versare una lacrima. Lasciò Giorgio, il genero prescelto, con una stretta di mano: cioè stese la mano e, come era solita, l’abbandonò fredda, inerte, in quell’altra che stringeva la sua, e salì col marito, che si espandeva in ogni sorta di tenerezze rumorose, sulla coperta di Newton, il postale da Genova a Palermo. Quando il canotto che riconduceva sua figlia e Giorgio, tutto ciò che ella aveva amato e amava allora nel mondo, si dileguò dietro le navi ancorate nel porto, rimase fissa collo sguardo nel punto dove aveva vista la barca per l’ultima volta, dov’essa era sparita. E l’espressione angosciosa del suo volto, il tremito delle sue mani, le labbra arse e scolorite, tradivano a poco a poco il dolore smisurato, profondo che la poveretta con tanta forza era pur riuscita a nascondere. Il duca salutava col fazzoletto; sospirava, piangeva; a chi non lo conosceva a fondo, anche il duca avrebbe fatto pietà. In questo mezzo le ruote avevano ripreso la loro rapidità regolare, e il Newton salutava Nervi, Recco, Camogli, tutta la fiorita riviera; a poco a poco il sole, perduta la forza de’ suoi raggi, spariva dall’orizzonte, e la duchessa d’Eleda era sempre là, fissa, immobile. Essa guardava ancora lontano lontano, con gli occhi della mente e del cuore; ed era così assorta nell’immagine cara del suo pensiero, da non accorgersi della brezza che si faceva più frizzante e dell’acqua sollevata dalle ruote, che ricadeva su di lei in minutissima pioggia. Povera Maria! Il suo occhio ancora non poteva dare una lacrima, ma quali lacrime dovevano sgorgare dal suo cuore!... Il duca, appena uscito dal porto, si era legato al collo, per riparare la gola, il fazzoletto col quale ormai non poteva più salutare i suoi figliuoli. Poi s’infilò un soprabito di mezza stagione.... Dopo qualche tempo mandò il servo per un berretto di castoro che doveva ripararlo meglio del cappello di feltro...; lo richiamò più tardi per avere il suo plaid, che si gettò sulle spalle, e finalmente, sospirando, accese una sigaretta. Ma la commozione della giornata, le lacrime sparse, il freddo della sera e l’odore del cibo, che dalla sottoposta cucina saliva sulla tolda, gli fecero sentire, oltre il vuoto doloroso dell’anima, il vuoto molesto dello stomaco. — Maria, fa freddo. È meglio che ci ritiriamo, — disse il duca alla moglie. — Scendiamo pure. — Che cosa vuoi mangiare?... — Non ho fame... — Vuoi forse che pranzi solo?... Non posso più avere mia figlia, nè mio genero... Ho sofferto e soffro abbastanza per colpa tua! In quel punto il capitano, che passava per caso, esclamò rivolgendosi a Maria: — Badi, duchessa, farebbe bene a coprirsi... — Lo dicevo adesso adesso!... Prendi il mio plaid, cara... — e il duca lo offrì subito e con molta insistenza a Maria. — Vuol favorire con noi, capitano? — Il capitano accettò l’invito, e scesero tutti insieme nella sala da pranzo. Il duca era un gentiluomo compito. Dalla parola melata, dal sorriso facile e complimentoso, discorreva di tutto con una verbosità assordante e frettolosa. Parlò, col capitano, di nautica, di commercio, di politica, della pesca del tonno, dell’America e dell’emigrazione. L’affabilità del duca aveva una dote particolare: teneva le persone sempre allo stesso posto, come il primo giorno che le avea conosciute. Le strette di mano erano frequenti, le scappellate profonde, ma la cordialità era solo apparente. Per altro chi non lo frequentava, chi non poteva conoscerlo bene, lo diceva un uomo tutto cuore, alla mano, senza superbia... Simpatia invece non ne avevano troppa per la duchessa, che parlava pochissimo, che stava troppo sulle sue, e la chiamavano la Madonna di neve. E così appunto aveva pensato di lei, quella sera, anche il capitano della Newton. Maria non vedeva l’ora di trovarsi sola, e tentava ogni via perchè terminasse la conversazione, mentre il duca faceva del suo meglio per tirare innanzi. Egli lo sapeva pur troppo: se fosse andato a letto prima del solito, non avrebbe più dormito. Solamente quando le dieci e mezzo suonarono all’orologio della sala, egli disse alla moglie: — Vuoi ritirarti, cara?... Sei stanca, avrai bisogno di riposarti. Il capitano si alzò e accompagnò la duchessa sulla porta della cabina, dov’era aspettata dalla cameriera. Maria la licenziò quasi subito, si chiuse a chiave... e finalmente, dopo tante ore di martirio, era sola. Allora quasi fosse soffocata dalle vesti, se le strappò dal petto, e prorompendo in un pianto secco... in un singulto, in uno schianto senza lacrime, cadde prostrata in ginocchio mormorando: — Dio! Dio mio! fatemi morire!... fatemi morire!... — E così rimase tutta la notte gemendo e singhiozzando rannicchiata, colla febbre, in un cantuccio della cabina. II Nobile, ricco, tutt’altro che imbecille, coll’aureola dell’uomo pubblico. Prospero Anatolio aveva avuto tutti i requisiti per essere fortunato in galanteria; invece colle donne egli non era stato mai un Cristoforo Colombo... solo qualche volta un Amerigo Vespucci. E ciò non per altro che per un difetto di pronuncia; difetto che non gli era abituale, ma che gli si faceva pur troppo sensibilissimo quando si trovava vicino a una donna che gli piaceva. Il povero duca, che fra gli amici parlava spedito, che nel Consiglio Comunale godeva fama di eloquente, quando si metteva a far la corte alle signore si confondeva, ciangottava fra i checchechè e i chicchichì, e invece di un sorriso di aggradimento, otteneva una risatina di buon umore. E a proposito della balbuzie intempestiva del duca d’Eleda, nel gran caffè di Borghignano si raccontava certo fatterello piuttosto piccante. Un giorno, alla Camera, il duca d’Eleda doveva fare un lungo discorso sul nuovo trattato di commercio tra l’Italia e il Belgio. Il nome del relatore, nuovo alle battaglie parlamentari, la importanza della tornata, avevano popolata l’aula e le tribune. Il duca incomincia a discorrere. La sua parola chiara, facile, senza affettati ghirigori, correva spedita e ascoltata, quando nella tribuna, fra le signore, comparisce madamigella Blasch, che aveva da poco tempo sostituita la Clarence-Lory nella troupe del Maynadier. Fra questa giovane virtuosa... di canto e il neo-deputato esisteva da poco tempo un’intimità molto sospettata. Era una tentazione... superlativa, madamigella Blasch, e vestiva, in quel giorno, un abito di velluto turchino-mare molto attillato. Il volto aveva freschissimo, le labbra tumide, l’occhio stanco. Il duca la vede... Che cosa mai gli ricorda quella donna? Non si sa; ma da un momento all’altro l’agitazione s’impossessa di lui, la paura del pericolo lo confonde, perde la parola, il pensiero divaga, egli impallidisce... è perduto! Allora cocotoni, cu-cuoi, co-commercio, e i prodotti d’esportazione e d’importazione passano fra le risa e i commenti degli onorevoli. Intanto Prospero Anatolio passava la trentina, e sua madre venendo a morire gli balbettò un nome e una preghiera. La preghiera di finirla con la sua vita da scapolo, il nome della signorina Maria di Santo Fiore. Era il luglio del sessantuno. La Camera, chiusa dopo la morte del conte di Cavour, non occupava gli ozi del duca; l’infedeltà scoperta di un’amica gli aveva messo nell’animo quello sconforto che qualche volta persuade l’uomo anche a prender moglie e, ad ogni costo poi, non avrebbe voluta estinta la lunga discendenza dei d’Eleda. Tutto ciò calcolato, strinse la mano alla morente, giurando che il nome gli resterebbe impresso nel cuore, e la preghiera sarebbe stata esaudita. Il duca viveva molto a Torino, allora capitale del regno, e nelle sue corse a Borghignano era un miracolo se interveniva ad una serata di sua madre. Quelle riunioni informate al più austero cerimoniale lo seccavano cordialmente. Ancora, dunque, egli non conosceva affatto la signorina Maria. Ma sapeva bene che la geologia del Santo Fiore si perdeva nella notte dei secoli, e che la giovinetta, ultimo rampollo dell’albero vetusto, aveva ereditato dalla madre inglese l’indole, il sangue, la bionda e pallida bellezza... e centomila lire di rendita. Presto egli fece la domanda, e la risposta, favorevole, fu data ancora più presto. I parenti della fanciulla, orfana da vario tempo, diedero una festa di famiglia, dove la high-life di Borghignano fece pompa di tutto il suo splendore e dove Prospero Anatolio incontrò Maria per la prima volta. Maria, bella a trentacinque anni, allora che ne aveva sedici era una meraviglia. Nude le spalle, nude le braccia, nudo il seno, fra le rose del suo abito bianco, tutta quella nudità, alla quale era costretta per la prima volta, le tingeva coll’amabile rossore della verecondia le carni alabastrine. Il cuore le batteva forte forte, e la commozione delle gioie promesse e fantastiche, le angosce dell’ignoto, i segreti turbamenti dell’innocenza, la rendeano più bella e più attraente. Prospero Anatolio fu sedotto, affascinato, e: — Vi a-a-aspetta nella mia casa il po-posto venerato di mia madre — balbettò alla fanciulla. Maria levò sopra di lui il suo sguardo dolce, sereno: e la goffaggine, la confusione del duca, non dissiparono la favorevole prevenzione che ella già sentiva per l’uomo colto e reputato che le stava dinanzi. Invece gli fu grata di quella goffaggine, di quella confusione, che la povera illusa credeva fosse il turbamento dell’amore. III Ma non era il turbamento dell’amore. Era il turbamento dei sensi. A Maria il duca Prospero Anatolio non domandò che due cose: il piacere e un figlio maschio. Egli non pensò mai a farsene un’amica, la cara compagna e l’inspiratrice del suo lavoro, la consigliera, il conforto nelle ore della sconfitta e dello scoraggiamento. Nè alla donna, a sua moglie, a questo essere, ch’egli a torto o a ragione giudicava inferiore all’uomo, si degnò mai di stender la mano per inalzarlo; invece si compiacque, autocrate capriccioso, di dominarlo dall’alto della propria superiorità. Carezze, baci, moine, specialmente in principio; ma i tesori della mente e dell’anima di sua moglie nè prima nè dopo conobbe o curò, forse distratto, forse incapace d’intenderli; confidenza insomma gliene concedeva pochina, stima del pari, autorità punta. In questo mezzo, i fatti d’Aspromonte avevano suscitata più viva, più accanita che mai, la lotta per la questione romana. L’avvenire, secondo il duca d’Eleda, si preparava torbido assai. Con la corrente delle riforme, la Chiesa combattuta, il suo potere discusso, minacciato, scemava per necessaria conseguenza anche l’autorità morale della religione. Egli allora sentiva il popolo, che per lui era sempre la plebe, i contadini, dei quali inconsultamente si voleva far tanti dottori, intonare il ça-ira della repubblica. Questa benedetta paura della repubblica gli faceva perder la testa: abbandonò sua moglie, che incinta non poteva seguirlo, e corse a Torino, per opporsi all’irrompere delle idee nuove. È inutile il dire che tutti i suoi sforzi riuscirono vani. Però l’audacia, l’energia ch’egli seppe dimostrare in questa occasione lo misero, come si dice, sul candelliere, ed egli divenne il leader dell’estrema destra. In una terra di ciechi, un miope fa certo fortuna; ed il partito clericale, forte, disciplinato, minaccioso fuori della Camera, nell’aula parlamentare era impotente, nè avrebbe trovato nel proprio seno chi per l’influenza del nome e delle ricchezze potesse rappresentarlo meglio di lui. Il duca dunque fu riconosciuto e accettato come capo della fazione, e così, o bene o male, se non una celebrità, divenne una notorietà della Camera. Il Governo lo aveva in considerazione, gli avversari in molte occasioni ne cercavano l’alleanza, i giornali, amici o nemici si occupavano di lui assiduamente, per combatterlo o per difenderlo: in una parola, mentre prima la sua vita parlamentare si perdeva intera nella monotonia di un voto dipendente, ora gli presentava tutte le commozioni della battaglia, con un piccolo esercito da guidare: e attorno al suo nome cresceva quel rumore tanto lusinghiero per le piccole ambizioni, quel rumore che precede la fama. Durante la prima settimana della sua assenza, Prospero Anatolio fece due corse a Borghignano, ed una ne fece nella seconda; poi gli giunse il telegramma che lo avvertiva del parto imminente. Appena lo ebbe ricevuto lasciò senza indugio Torino; ma, prima che egli fosse giunto a Borghignano, la duchessa si era già felicemente sgravata. Maria aspettava suo marito, come ogni donna in quel momento supremo aspetta il padre della propria creatura. Prospero Anatolio invece entrò in camera con un fare ben poco espansivo e con un’aria soddisfatta ancor meno. Sua moglie gli aveva dato una bambina, mentre sapeva pure ch’egli voleva un maschio ad ogni costo! Due giorni dopo, egli dovè ripartire; e poichè i giornali portarono ai sette cieli l’abnegazione colla quale il duca d’Eleda sapeva anteporre alle gioie ineffabili della famiglia i doveri dell’uomo pubblico, così egli rimase molto tempo senza farsi vedere a Borghignano. Maria volle allattar lei la creatura, e nell’affetto e nelle cure di madre non si accorse nemmeno della solitudine che la circondava. Intanto la vita dell’uomo politico alla quale Prospero si era ormai dato interamente, lo teneva, in quei primi anni, quasi sempre lontano dalla famiglia. Solamente nelle vacanze parlamentari egli viveva con sua moglie e colla piccola Lalla; ma poi, finchè restava aperta la Camera, non domandava e non si prendeva congedi; e così ogni giorno crescevano gli insidiatori al talamo trascurato. Ce ne furono di tutte le età e di tutti i metodi: i vecchi coll’astuzia scaltrita, i giovani colla passione, gli uni colla lusinga del mistero, gli altri collo stimolo della vendetta tentarono il cuore di Maria, ma contro la rocca assediata si spuntarono ingloriosamente tutte le arti nemiche. La virtù di Maria, come tutte le virtù delle donne che resistono, aveva alleati fortissimi. I suoi erano la fierezza di carattere, la nobiltà dei sentimenti e una sagacità molto fine: e fu allora che, con la ripugnanza dell’ermellino, per non aver inzaccherate dal fango neppur le balzane della veste, si ritirò dal mondo, si rinchiuse nella sicura tranquillità della sua casa e, con un pretesto o coll’altro, mise alla porta tutta la buona società di Borghignano. Si fece una sola eccezione per il conte Giorgio Della Valle, che, quantunque giovanissimo ancora, nutriva da molto tempo per la duchessa Maria un’affezione quasi fraterna. Di ciò, s’intende da sè, la mattina all’ora di colazione, e la sera dopo il teatro, nel gran caffè di Borghignano, si faceva ogni sorta di commenti. Ma anche la maldicenza non faceva a Maria nè caldo nè freddo: aveva quella sua bimba che veniva su vispa come() un demonietto; aveva un marito che, elevandosi dalle mediocrità inconcludenti, sapeva tener alto l’onore della casa; aveva un amico onesto, sincero, affezionato, al quale poteva confidare e gioie e timori, con cui discorrere del suo bel sogno di madre... Che cosa poteva desiderare di più? IV Questo prezioso amico si allontanava per altro troppe volte e per troppo tempo dal palazzo d’Eleda. Giorgio Della Valle non aveva ancora vent’anni quando si arruolò fra i Cacciatori delle Alpi. Fu più tardi uno dei Mille. Ferito a Bezzecca nel sessantasei, poco tempo dopo, rinfrancato, si batteva a Mentana. Molto giovane ancora, e molto poeta, il suo ideale era l’Italia, e la vagheggiava libera e col berretto frigio. Giorgio Della Valle era un sognatore; ma bisogna ricordare che a vent’anni il Manzoni, il Giusti, il Settembrini avevano avuto quell’istesso ideale, avevano fatto quell’istesso sogno; invece la gioventù scettica e quattrinaia che dorme... e non sogna, senza essere più svegliata per questo, gridava al conte repubblicano la croce addosso, gli arrabbiati chiamandolo un mestatore ambizioso, e i tolleranti un matto pericoloso. Pazienza ancora se si fosse trovato al verde; dei conti che facciano il democratico tanto per isbarcare il lunario, se ne possono trovare a dozzine, ma democratico, ricco e conte?... per l’aristocrazia gretta e provincialesca di Borghignano era proprio roba da chiodi. Ma intanto ch’egli perdeva il sangue a Bezzecca e il credito d’uomo serio a Mentana, anche la stella del duca d’Eleda cominciava ad offuscarsi. Prospero, per dire il vero, non era mai stato un uomo di serio valore. Ebbe solo un qualche momento di notorietà, poi ricadde nel buio. Quando seguì la convenzione del sessantaquattro, che trasportava la capitale a Firenze, la maggioranza n’ebbe una scossa, le minoranze cambiarono di posto, e i malcontenti di tutti i colori formarono una nuova fazione, che si chiamò allora la permanente, con alla testa il conte di S. Martino. Per questa evoluzione anche il duca, naturalmente, perdette il suo grado, e da capitano che era, o si credeva di essere stato, ritornò alla Camera fantaccino. Inoltre i clericali puri non potevano essere più tollerati, e nelle elezioni generali del sessantasette anche Prospero, se volle essere rieletto, dovette fare parecchie concessioni al cambiato umore degli elettori. Le discussioni intorno alla libertà della Chiesa e alla liquidazione dell’asse ecclesiastico lo avevano trovato avversario, ma timido e taciturno: egli voleva salvare l’anima, e non voleva perdere il collegio; e quando si riaccesero le controversie sulla questione romana, il deputato di Borghignano non esprimeva il proprio parere altro che nel secreto dell’urna. Ma così, altalenando, finì come doveva finire, cioè coll’essere «a Dio spiacente ed a’ nemici sui»; e fu abbandonato da tutti. La sua autorità, la sua influenza furono sminuite, e non vedendosi più ascoltato non apriva più bocca se non per rispondere all’appello nominale. Egli non sapeva più che cosa fare, che cosa tentare, dove andare, a qual santo votarsi, per fare ancora un po’ di chiasso, per ritornare, in un modo o nell’altro, un uomo importante. Fu allora che cominciò a pensare a sua moglie. Con sua moglie vicina, egli avrebbe avuto una casa dove avrebbe dato pranzi, feste, balli, alleati efficacissimi delle mediocrità danarose. Pensò alla bellezza, all’intelligenza, alla fama intatta, alle attrattive della novità che avrebbero circondata a Firenze la duchessa d’Eleda, e sperò, col suo aiuto, di poter ancora far parlare di sè. Prospero Anatolio non poteva avere l’ambizione dell’uomo d’ingegno: era vanità, più che ambizione, la sua. Egli non aspirava ad incidere il proprio nome nelle pagine della storia, ma gongolava leggendolo stampato per le gazzette; e fra tutte, quella che leggeva sempre con maggior interesse, era la Gazzetta di Borghignano, perchè pur guardandola con aria di superiorità sprezzante, Borghignano non la perdeva mai d’occhio. Egli voleva essere un uomo grande; ma si sarebbe contentato (meno male!) che lo tenessero grande, almeno là, a Borghignano. Fatto il disegno, Prospero Anatolio volle metterlo subito in esecuzione, e perciò il conte Giorgio Della Valle, visitando una sera la sua buona amica, la trovò triste e preoccupata. — Che cosa avete, signora Maria?... avete un po’ di spleen o state poco bene? — No... tutt’altro. — E così dicendo, la duchessa, distratta, continuava a tagliar le pagine di un volume del Charpentier con una stecca di avorio. — Eppure dovete averci qualche seccatura. Lalla non è stata buona? — Eh! che volete, ebbe i suoi capricci con miss Dill anche stasera: ma poi si è addormentata tranquillamente. — E allora? — insistè il giovanotto, sicuro di non ingannarsi. — Allora, proprio lo volete sapere?... A voi; leggete. — E così dicendo, Maria porse una lettera a Giorgio, sulla quale brillava in tutto il suo splendore uno stemma gentilizio. — Prospero ha forse ragione... ma io sono così poco amante di novità!... Al pensiero di dover lasciare la mia casa, la mia quiete, le mie occupazioni, per andare a mettermi in mostra, è un pensiero che mi secca... che mi dà noia. Giorgio intanto leggeva la lettera a mezza voce. «Ma chère et ma reine, «Da vario tempo studio intorno a un progetto pel quale imploro la tua approvazione sovrana. Il vivere lontano dalla famiglia, esiliato dalle pareti domestiche, comincia a riuscirmi di un peso insoffribile. Sento farsi più intenso ogni giorno il desiderio delle vostre carezze, ho bisogno di distrarmi col cicaleccio della mia bambina e di rallegrare lo spirito affranto nel tuo bel volto pallido e sereno. Aggiungi a tutto questo, che io incomincio a invecchiare e, cosa peggiore, ad accorgermene. Nelle mani dei camerieri di locanda mi trovo mal servito, mal trattato, e il mio appartamento non è abbastanza comodo, quantunque sia dei migliori. Per soprappiù non istò affatto bene; e lo attribuisco alla cucina dei restaurants, alla quale non ho mai potuto abituarmi. Ho già trovato e fissato il quartiere e ho già dato tutti gli ordini opportuni. «Per cagione di nostra figlia e della deputazione che, pur troppo, mi tiene sempre legato alla catena, tu pure fosti costretta a condurre una vita tutt’altro che allegra. Ma adesso, essendo più libero, cercherò compensartene: qui a Firenze troverai una società omogenea, si pronostica un carnevale brillante, senza contare poi tutte le feste che si daranno più tardi, in occasione del matrimonio del principe Umberto. «Dimmi quanto tempo ti occorrerà per fare i preparativi della partenza, con tutto tuo agio, senza darti alcun pensiero di me, che sarò sempre il più innamorato dei mariti e il più devoto dei servitori. «Salutami lo zio Eriprando, ricordami a miss Dill e a Giorgio, e baciami sulle guance di Lalla. 11 Gennaio 1868. «Il tuo «Prospero Anatolio». «PS. — Tutto ben calcolato, sarà a prenderti lunedì, 20 gennaio, e ripartiremo il 25. Il cuoco potrebbe venire a Firenze col cocchiere il 18. Intanto Giuseppe e Pietro, che restano a Borghignano, avranno cura dei cavalli, e l’uno o l’altro farà anche la cucina. Regolati per tutte le disposizioni occorrenti. Sans adieu». A questo punto Giorgio, restituita la lettera, si mise a ridere tutto allegro. — Come! Ridete? — disse Maria, mortificata. — Perdonatemi, duchessa; ma se sapeste che buona notizia ho ricevuto da questa lettera! — Voi? — Sì, io. Aspettate, e poi mi direte se non ho ragione di essere contento. — Così dicendo, Giorgio, tolta una lettera dal suo portafoglio, cominciò a leggere di nuovo e ad alta voce: «Carissimo nipote, «Parto fra otto giorni e vado a Parigi. Devo conferire con Nigra per incarico avuto dal nostro Governo, e poi ripartire per il Belgio e la Prussia. «Resterò assente un mese o forse due. «Mia moglie è sempre indisposta, non posso adunque prenderla meco e non vorrei lasciarla qui affatto sola. Tu sei il mio unico parente, non hai nulla da fare (per la repubblica c’è tempo) e, aspettandola, potresti lasciare il fascio, le loggie e i fremiti di Borghignano, per adempiere ai tuoi doveri di nipote. «La zia ha i capelli misto-marengo, non temo perciò le tue seduzioni; è irlandese, e l’influenza delle tue idee progressiste potrà anzi farle del bene. «A proposito della repubblica: il presidente lo prendete bell’e fatto, o lo ordinate apposta? In ogni modo non dimenticarti di raccomandargli la mia testa: potrà sempre riconoscerla dalla coda. «Attendo una risposta a volta di corriere. «Fa quello che vuoi. Ti lascio libero della tua volontà: ma, se rifiuti, bada che ti diseredo. «Ascolta dunque le mie preghiere, unitamente a quelle dei tuoi creditori, e prendi subito il diretto per Firenze. Tua zia ti prepara una benedizione del Santo Padre. «Ti stringo la sinistra e mi dichiaro colla destra «L’affezionato zio «Pier Luigi da Castiglione». — Ma dunque? Voi pure venite a Firenze? — esclamò Maria; e ne’ suoi grandi occhi, invece delle lacrime, brillava adesso la gioia. — Certamente!... Volete che mi lasci diseredare? Ho già risolto e parto fra otto giorni. — Oh bravo!... Nel caso contrario, sapete, mi sarei unita io pure a vostro zio... — E ai miei creditori. Maria rise del motto, e fra le due buone creature cominciò quella corrente di allegro umore, schietto e sereno, che di tanto in tanto fa così bene all’anima e alla salute. Giorgio mise in canzonatura Prospero Anatolio, il quale sottoponeva il suo progetto alla volontà sovrana della consorte e finiva poi col fissare la giornata e l’ora della partenza. E Maria rispose citando il conte Pier Luigi, che lasciava il nipote libero della propria volontà, minacciando per altro di diseredarlo se non avesse fatto a modo suo. In conclusione, entrambi convennero che tanto Prospero quanto Pier Luigi avevano i loro difetti, le loro pecche; ma erano pure le due eccellenti persone! Maria andava persuadendosi che suo marito non era dalla parte del torto e che, chiamandola presso di sè, le dava veramente una prova d’affetto. Conveniva che, a Borghignano, divertimenti nè distrazioni non ce n’erano affatto, mentre a Firenze avrebbe potuto uscire un po’ da quella vita monotona e sollevare lo spirito, specialmente frequentando i teatri; ed anche per l’educazione di Lalla il nuovo disegno di Prospero Anatolio veniva assai opportunamente. Vedendo persone nuove e vivendoci in mezzo, il demonietto avrebbe perduto un po’ di quella sua selvatichezza indomabile, e con suo padre vicino avrebbe fatto meno capricci. Giorgio approvava tutte le considerazioni di Maria, si lasciava burlare a proposito delle sue aspirazioni platonicamente repubblicane, e così, fra una chiacchiera e uno scherzo, quella sera, invece di andarsene alle undici, come era solito, lasciò il palazzo d’Eleda quando la mezzanotte era già suonata. Un’ora dopo, Maria si addormentava beata, tranquilla, sorridendo alla nuova felicità che l’aspettava a Firenze, senza aver notato il cambiamento del suo umore, senza averne avvertito il perchè, senza domandarsi come mai prima le aveva data tanta pena la lettera di suo marito ed ora invece le procurava tanto piacere. Il conte Della Valle, un’ora dopo, era ancora al club, e quando la mattina scrisse allo zio accettando di andare a Firenze, non ricordava nemmeno che a Firenze ci sarebbe andata pure la duchessa d’Eleda. V Maria comparì la prima volta in mezzo al bel mondo fiorentino, nel gran ballo della principessa Balbi della Bicocca. Già essa vi era stata annunziata, e la precedeva quel vociare inquieto, quei mille pettegolezzi coi quali si fabbricano le biografie improvvisate di tutti coloro che attirano la curiosità della gente. Gli uomini ne parlavano con entusiasmo, le donne con una certa diffidenza; esse temevano una rivale. La bellezza della duchessa d’Eleda aveva raggiunto allora quasi la perfezione, e quel poco che le mancava per esser perfetta, ne accresceva la grazia. Era una bellezza che parlava ai sensi e al cuore; grande, bionda, pallida, l’eterno femminino di Goethe aveva in lei la sua espressione più viva, e la formosità giovanile, i suoi fascini più attraenti. Il poeta Aleardi, allora di moda, la paragonava a una Madonna pensata dal Beato Angelico, e dipinta da Rubens. Quando non c’è un amante di mezzo che faccia da diafragma, i raggi lucenti della moglie cadono diritto a illuminare il marito: e Prospero Anatolio, come aveva già preveduto, ebbe in suo pro tutta la benevolenza che sapeva cattivarsi la moglie. Cominciavano a dimenticarlo, e la moglie lo ricollocò sul candelliere. La celebrità(), come le donne e la fortuna, si abbandona a chi sa coglierla in buon punto; e una volta raggiunta nessuno o ben pochi ripensano agli espedienti adoperati all’intento. Prospero Anatolio poi, dominato da una gran vanità, non era uomo da fermarsi ad analizzare il successo. Quando lo applaudivano alla Camera, egli dimenticava che il discorso era stato riveduto da un suo collega, costretto, per la disciplina di parte, a tenersi nell’ombra; quando faceva ridere gli amici con un frizzo, dimenticava il Figaro o il Fanfulla, dove lo aveva letto. Adesso si sentiva accarezzato, cercato, adulato, e non pensava a sua moglie, alla forza prima di tutto quell’incenso; quella forza ch’egli per altro, a suo tempo, non avea trascurato di adoperare. Gli uomini di tutti i partiti, deputati, ministri, senatori, banchieri, artisti alla moda, diplomatici a spasso, generali e ufficialetti, tutto il sesso forte, insomma, si affaccendava attorno al duca e gli faceva corona: e nemmeno il sesso debole gli era avaro di sorrisi. Maria non aveva amanti; per combatterla e vincerla bisognava dunque sedurre il marito. E infatti fra le altre, e più delle altre, la baronessa Renata de Haute-Cour, che da vari mesi faceva delirare invano il povero Anatolio, aveva cominciato, dopo la venuta di Maria a Firenze, a mostrarsi con lui di una amabilità molto arrendevole. La de Haute-Cour era la moglie del ministro di Francia: una donnina che sembrava uscita da un capitolo di Feuillet, piena di grazia e di nervi; che rideva, parlava, gestiva continuamente, e che formava con Maria il più vivo contrasto. La duchessa d’Eleda aveva la maestà, i modi, il sentire di una gran dama; Renata, invece, la storditaggine briosa di uno sbarazzino. Forse appunto per un tale contrasto, o forse per il rumore, lo scandalo, l’invidia, i desideri, che la de Haute-Cour avea sollevati intorno a sè, Prospero Anatolio da due mesi ne era perdutamente invaghito, e balbettava con lei, balbettava in modo straordinario. Renata non si può dire che rifiutasse il suo omaggio, questo no; ma le piaceva di farlo giocolare, come il micino che corre, salta, scatta, si contorce, fugge e ritorna affaticandoci per ghermire il gomitolo e, quando è lì lì per afferrarlo, uno strappo improvviso glielo porta lontano. Ma invece al ballo della Principessa della Bicocca, Prospero Anatolio raggiunse il colmo della felicità. Renata era tutta per lui solo: aveva aperto al duca una partita a due colonne sul libricciuolo dei balli, e licenziava con poche parole gli importuni che tratto tratto venivano ad interrompere i loro discorsi. Gongolante, orgoglioso, egli non avvertiva però che i rivali da lui messi in fuga correvano ad ingrossare le file già formidabili degli adoratori di sua moglie. Durante le quadriglie, la coppia del duca e della baronessa Renata era la più disattenta di tutte, e fece nascere confusioni disastrose nella grande chaîne e nei comandi à gauche e à droite. Fra un ballo e l’altro era sempre il duca il cavaliere di lei, l’angelo custode del suo ventaglio, il segretario dispotico del suo carnet. Il duca la faceva bere, il duca la faceva passeggiare, il duca provvedeva agli strappi del suo vestito, conducendola dove le cameriere riparavano ai guasti avvenuti nel calore delle danze. — Il vostro è un capriccio, — gli diceva Renata appoggiandosi mollemente al braccio di Prospero. — No! No! Per tutto ciò che ho di più sacro al mondo, vi giuro che vi amo, che non ragiono più. — Ma... domani? — Domani, come ieri, come oggi, co-come sempre! — For ever? — For ever. — E vostra moglie? — Mia moglie... Vi amo. — Guardatela. È bella assai, vostra moglie... Fatto il giro dell’appartamento, erano entrati insieme nel buffet, e Renata, dietro a una portiera, gli indicava la duchessa, in mezzo alla sala da ballo. Era appena finito un valzer: Maria, ancora ansante, colle guance leggermente colorite, era ammirata, circondata dal fior fiore della gioventù e dell’eleganza. — Com’è bella!... No! Non dovete guardarla! E Renata si strinse più forte al braccio del duca, piena di fascino e di grazia, fingendosi quasi paurosa, quasi mortificata da quel confronto. — Voglio voi... Amo voi... — le balbettò all’orecchio il duca d’Eleda. — Vi piaccio dunque... mi amate di più? — esclamò Renata correggendosi a tempo, e con una mano sapiente giuocando colla commenda che brillava sullo sparato tutto a pieghe e a ricami della camicia di Prospero. — Lo vedete, Renata, non so-ono qui?!... Renata si guardò intorno con un rapido giro degli occhi. Nel buffet non c’era nessuno. Nascosta dietro alla portiera, non poteva certo esser veduta: si alzò ritta sulla punta dei piedi, e con una sua mossa da monello stordito sfiorò colle labbra il volto di Anatolio, che diventò pallidissimo. VI Tra Giorgio Della Valle e il duca d’Eleda non c’era molta amicizia. Giorgio, parlando di Prospero, alzava le spalle chiamandolo clericale; e Prospero chiamava l’altro un repubblicano e faceva altrettanto. Erano rimasti molto tempo salutandosi appena, fatto abbastanza notevole in una città di provincia, fra i rappresentanti di due case cospicue del patriziato; e solo quando successe il matrimonio del duca, cominciarono ad avvicinarsi un po’ più. Il conte Eriprando, lo zio della sposa, era stato tutore di Giorgio, e Giorgio era tenuto dai Santo Fiore come un figliuolo. A poco a poco, la consuetudine di vedersi ogni giorno, se non fece nascere fra di loro una straordinaria simpatia, finì col renderli amici apparentemente. Giorgio rispettava le opinioni politiche e religiose del suo avversario; anzi, per la disparità grandissima che esisteva fra quelle opinioni e le sue, diffidava del proprio giudizio, temendolo alterato dalle prevenzioni, e si ostinava, per paura di eccedere, a voler tener il duca d’Eleda per da più assai che non valesse in realtà. Prospero poi, da parte sua, gli accordava un olimpico compatimento, giudicandolo sempre un ragazzo esaltato, ma innocuo; un po’ matto, ma in fondo un ottimo cuore; e sperava, davvero, che maturandosi cogli anni e coll’esperienza avrebbe messo il cervello a partito. Nè lo vedeva di mal occhio in casa; anzi faceva pompa di una tale amicizia; perchè questa amicizia rappresentava la tolleranza del duca verso i suoi avversari politici. Di questa tattica fine egli raccoglieva già i frutti, e durante le ultime elezioni se n’era discorso favorevolmente al gran caffè di Borghignano e su pei giornali. Adesso per altro, a Firenze, Prospero Anatolio trovò nel conte Della Valle un cambiamento troppo evidente... Giorgio alle volte era con lui così freddo, che si avvicinava a scortese... nè Giorgio aveva tutti i torti. L’amicizia, la stima ch’egli professava a Maria erano sincere e vivissime, e perciò non poteva perdonare al duca d’Eleda di posporre tutte le virtù e i pregi inestimabili di sua moglie ad una cocotte, con tutti i quarti, ma sempre cocotte. Anche a Maria non passò inosservata la freddezza del conte verso Prospero; e questa novità, ch’ella non riusciva a spiegarsi, la infastidiva, la addolorava, la teneva continuamente sopra pensiero, tanto che una volta, non potendo più oltre frenarsi, domandò e volle saperne il motivo. Giorgio, preso così all’improvviso, non ebbe tempo di potersi schermire con arte, e la duchessa gli serrò i panni addosso sì fattamente che, pur di uscirne, egli ne attribuì la cagione alle aspirazioni politiche del deputato di Borghignano, troppo contrarie alle sue. Ma la scusa non poteva soddisfare, perchè quelle aspirazioni erano pur sempre le stesse, mentre invece la freddezza era nuova. Giorgio allora, vedendo di non potersi giustificare, promise di correggersi, e benchè questa promessa non fosse poi mantenuta, Maria non entrò più in tale argomento. Sentiva che Giorgio le nascondeva un segreto, ch’egli non aveva per lei la confidenza di un tempo, e se ne offese. Intanto anche Prospero Anatolio che, con un grosso rimorso sulla coscienza, avea paura di tutto, non mancò alla sua volta, di far cadere il discorso, trovandosi colla moglie, sullo strano contegno del suo amico, per prevenire il pericolo di qualche inopportuna confidenza e prepararsi, per tutti i casi, il terreno alla propria difesa. Egli pure, come avea fatto Giorgio, non trovando da dire meglio, ne dava la colpa alla politica. — Nemici politici e amici personali, è una bella frase d’effetto, come — Libera Chiesa in libero Stato — del conte di Cavour, — concludeva il duce d’Eleda. — Tutta roba da leggersi sulle gazzette; tutta rettorica! Ma, in pratica, oh! in pratica è un ben altro affare! Oggi un’allusione, domani un equivoco, la corda si fa tesa e si rompe, quando tu meno lo crederesti. Anch’io — continuava — anch’io, se devo dire la verità, ho sempre tollerato Giorgio per un riguardo verso i tuoi, per riguardo a te stessa. Maria ascoltava e taceva; ma in fondo al cuore sentiva che Prospero, come il conte Giorgio, non era affatto sincero. Impaziente, inquieta, avrebbe voluto ad ogni costo scoprire il mistero, indovinare il perchè della freddezza e degli sgarbi dell’uno, dell’imbarazzo dell’altro. Povera Maria! pur troppo era vicino il giorno che doveva sciogliere l’enigma e distruggere per sempre la serenità della vita sua! Nel lunedì ultimo di carnevale si preparava a Corte una festa che chiudeva per quell’inverno i ricevimenti privati. Era grande l’aspettativa e grandissimo nei pochi eletti il desiderio d’intervenirvi. La duchessa d’Eleda, naturalmente, era una delle signore invitate e più delle altre desiderata. L’uomo propone, per altro, e Dio dispone; e il mal di capo che aveva tormentata Maria per tutto quel giorno si accrebbe nel dopo pranzo, accompagnato da brividi molesti che facevano temere la febbre. Giorgio si trovava presente e consigliò a Prospero di mandare pel medico. Il servo va e torna, e riferisce che il medico era uscito di Firenze il mattino e ritornerebbe col diretto delle undici; appena giunto lo manderebbero. — E se ne chiamassimo un altro? Maria preferì piuttosto aspettare. Prospero, suonate le dieci, cominciava ad essere sulle spine, e brontolava fra i denti che il male non bisogna troppo ascoltarlo; poi da un momento all’altro, quasi temendo gli potesse mancare il coraggio se aspettava a risolversi, si fermò sui due piedi, guardò l’orologio e borbottò accigliato che egli doveva recarsi al ballo subito, dovendo conferire col presidente del suo ufficio. Maria, che aveva notato con inquietudine il crescente malumore di suo marito, non lo trattenne, e così il duca si sentì libero e padrone di andarsene a suo piacimento. Allora, colla tenerezza, tornò ad essere gentile e affettuoso verso Maria; le fece raccomandazioni e carezze, le baciò i capelli e le mani; ma poi, la prudenza gli mancò sul più bello. Era già sull’uscio quando, rivolgendosi a Giorgio, disgustato di quella commedia, gli domandò se si fermava ancora molto tempo. — Mi fermo ancora un pochino, se la duchessa non è troppo stanca. — No, no; poi a momenti verrà il medico — rispose Maria. — Benissimo, cara, fa, fa, come vuoi, e allora tu, Giorgio, dovresti usarmi una cortesia: aspettare che venga il medico e sapermi dire, quando ci vedremo più tardi, che cosa ha detto. Giorgio alzò il capo e lo guardò senza rispondere. Prospero Anatolio capì di essere andato troppo oltre, ma conoscendo la lealtà del conte Della Valle, pensò d’affrontarlo, e gli ripetè la raccomandazione, guardando intanto Maria come per dirle: — È un tiro solito, ma lo sopporto per amor tuo. — Io non vengo al ballo stasera — rispose Giorgio seccato — ma in ogni modo ti farò avere le notizie, se proprio le desideri. Il d’Eleda lo ringraziò, sorrise di nuovo stringendo la mano a sua moglie e usci senza presentire l’uragano che stava per addensarsi sul suo capo. Il fare asciutto, sgarbato del conte Della Valle aveva indispettito Maria a un punto tale, che rimasta sola con lui, lo trattò con insolita freddezza. Giorgio se ne accorse subito, ma non sapendo come giustificarsi, senza accusar Prospero, non parlò più affatto: tanto che la duchessa, seccata, gli disse di sentirsi molto stanca e che perciò pensava di attendere il dottore coricata. — Se credete, per altro, che io mi fermi ancora per attendere le notizie, come mi ha detto Prospero... — Grazie: non importa — rispose Maria. — Quando verrà il dottore, lo pregherò di scrivere un biglietto, e glielo manderò io stessa. — Era un tono che non ammetteva repliche, e Giorgio se ne andò indispettito contro il d’Eleda, per la sua cattiva condotta, prima di tutto, ed anche perchè era la cagione della collera di Maria. Scese lentamente le scale, e, nell’uscire, incontrò appunto il medico che entrava allora. Pensò, per un momento, di risalire insieme; ma poi, riflettendoci, accese una sigaretta e rimase ad aspettarlo passeggiando sotto l’atrio. Poco dopo il dottore scendeva. Maria non aveva che una febbriciattola; un po’ di raffreddore; in breve sarebbe stato tutto sparito. Giorgio si strinse nelle spalle e se ne andò al club. Maria durò fatica prima di poter prender sonno; quel contegno strano e ingiustificabile la impensieriva e addolorava ad un tempo. Anche in suo marito, è vero, aveva notato alcunchè d’insolito; ma non vi fece molto caso, assorta com’era in altri pensieri. Cominciò dall’accusare Giorgio, nel suo cuore, di non essere più il medesimo di Borghignano; di avere segreti e misteri con lei, che lo amava colla tenerezza confidente di una sorella. Poi, dopo di aver cercato e ricercato seco stessa di scoprire la verità, s’interrogò alla sua volta, domandando a se stessa s’ella pure non aveva dato motivo a quello spiacevole cambiamento; e quantunque si trovasse affatto innocente, finì come finisce sempre chi vuol bene a qualcuno, coll’assolvere questo qualcuno e coll’accusare sè di durezza. — Chi sa! — pensava Maria, che nel difendere l’amico provava un vivo piacere — chi sa!... Giorgio avrà forse qualche noia, qualche dolore, ed invece di confortarlo fo peggio. È impossibile ch’egli sia mutato in questo modo senza una ragione seria, molto seria, ed io ho avuto torto di non pensarci. Se ha risposto sì malamente a Prospero, forse avrà avuto ragione di farlo; forse avrà qualche dispiacere che lo turba, ed io aggiungo alle sue pene anche la mia freddezza... Ma la duchessa s’ingannava. Giorgio Della Valle, che quella notte era molto fortunato al giuoco, non si ricordava più di lei, ed era allegrissimo. — E se fosse in collera con me e non tornasse? — continuava Maria a pensare, — alla fin fine, se fosse in collera, quasi non avrebbe torto. Sa di non avermi fatto nulla, e, come a me non va più il contegno verso di noi, a lui non parrà scusabile il mio... Come spiegare il nostro malinteso?... Che fare?... — E s’affannava per cercare il modo di rivederlo presto, e scusarsi, senza aver l’aria di corrergli dietro. Si ricordò in quel punto che il giorno innanzi non aveva voluto donare a Giorgio una fotografia, che piaceva molto, della sua Lalla, perchè, essendo una prima copia, desiderava serbarla per Prospero. Ma adesso, riflettendoci, capiva non essere uomo suo marito da badare alla prima copia piuttosto che alle altre; l’affetto paterno del duca, il quale, del resto, idolatrava la bimba, non capiva certe finezze: domani adunque si manderà a Giorgio la() fotografia domandata. In tal modo, naturalmente, egli sarebbe venuto subito per ringraziarnela, e così spiegandosi reciprocamente, avrebbero finito col far la pace. Con questo pensiero si addormentò tranquillamente, e si svegliò la mattina dopo con questo pensiero medesimo. Ancorchè il suo raffreddore non fosse sparito interamente, si alzò presto, e sua prima cura fu di farsi portare il ritratto da mandare a Giorgio. — E se vi facessi scrivere a Lalla, colle zampine di mosca, il suo nome sotto?... Certo gli riuscirebbe più gradita l’improvvisata!... Apparecchiato l’occorrente, Maria fece chiamare la bambina; ma come il solito quel folletto si era liberato dalla vigilanza di miss Dill, col pretesto di andare dalla mamma, ed invece era fuggito di corsa nel quartierino. del duca, il quale era pieno di tolleranza per i capricci della figliuola. Infatti Lalla vi metteva tutto sossopra e torturava la flemmatica pazienza di Ioh, un piccolo inglese, il vero tipo del groom. Lalla era fin d’allora (contava sei o sette anni) l’incarnazione di uno di quei tanti demonietti creati e messi al mondo per la dannazione del genere umano. Amava suo padre fin all’idolatria, perchè in lui aveva sempre il condiscendente d’ogni capriccio, perchè, tollerante, compiacevasi d’ogni sua impertinenza, opponendosi a Maria, quando, più severa, trovava da sgridare e magari da correggere castigando. Egli stesso, senza pensare nè all’educazione, nè alla riuscita di sua figlia, la quale con quei principî non prometteva nulla di buono, si divertiva a giuocare con lei. Le insegnava mariuolerie, si lasciava sfuggire parole un po’ ardite, ridendo come un matto quando la piccina le ripeteva. Egli la faceva correre, la faceva saltare, le insegnava la scherma e l’equitazione; e però il quartierino del duca era l’Eden di tutte le delizie di Lalla. Quando poteva scappare da sua madre e da miss Dill era beata; correva là dentro; quei quadri dai colori vivaci, quelle armi, tutto quel disordine era il suo proprio elemento. Ella rifaceva il soldato, la cantante, l’arcivescovo e la duchessa madre nei giorni di ricevimento. Poi si fermava lungamente a divorare collo sguardo le donne nude, scolpite o dipinte; e benchè il duca le avesse insegnato, per tutelare la sua innocenza, che quelle non erano donne, ma anime sante, Lalla faceva già confronti fra quelle anime e sè. Gli astucci, le cassettine, i cassettini, l’armadio, lo scrittoio di Prospero Anatolio non avevano segreti per la sua curiosità infantile, nè riparo alle sue piraterie quotidiane. Prospero quando cercava qualche cosa che non gli riusciva di trovare, andava su tutte le furie brontolando con Maria e con miss Dill perchè non sapevano educare la bimba. Anche quella mattina, dopo che la duchessa l’ebbe fatta chiamare, miss Dill dovette cercarla nello studio del duca. — Cattiva! — le gridò Maria quando la fanciullina entrò in camera. — Cattiva! Hai disobbedito a tua madre, e hai detto delle bugie a miss Dill! Lalla non rispose; ma con un salto fu sulle ginocchia di sua madre, e l’abbracciò stretta stretta. Miss Dill uscì. — A voi — disse Maria affettando una severità che era uno scherzo — da brava! scrivete qui, sotto questo ritratto. — Lasciamelo vedere, mamma. — Lo hai già veduto ieri: è il tuo ritratto. — Lasciamelo vedere, mammina bella. — A te, guarda, sei contenta? Lalla fece una smorfia e poi: — Sono stata più ferma di Mimì, non è vero, mamma? — Mimì era una piccola amica... una piccola rivale. — Sì, sei stata più ferma di Mimì, la quale per altro è più ubbidiente di te, e non dice bugie. Scrivi da brava. — E a chi regali il mio ritratto? al babbo? — No, al tuo amico Giorgio. — Al mio amico Giorgio? Ma non avevi detto di regalarlo al babbo? — Scrivi, presto! — Ne darai un altro al babbo? — Sì, gliene darò un altro. — Quale? — Oh Dio! Un altro, come questo! Non farmi arrabbiare, andiamo. — E Maria, tenendo sempre Lalla sulle ginocchia, accostò a sè con una mano un piccolo scrittoio di mogano. — Che cosa devo scrivere?... — Scrivi... — e Maria, dettando, seguiva cogli occhi la manina di Lalla — scrivi: — Al buon amico... — A-mico... — Giorgio. — Gior-gi-o. — Basta? — No! devi scrivere ancora... — Che cosa, mammetta? — La tua piccola Lalla. — Tua piccola Lal-la. — Brava! Così! — E Maria fece per toglierle di mano la penna. — No! Aspetta. — La bimba, la quale, prima non voleva cominciare, ora non voleva più smettere, e sotto gli occhi meravigliati di sua madre scrisse, dopo la firma: for ever. — For ever?! — esclamò Maria, stupita. Lalla guardò la mamma, e col suo intuito precoce, ebbe paura di ciò che aveva fatto. — Chi ti ha insegnato a scrivere for ever? Lalla, rossa rossa, balbettò, si confuse, e poichè Maria insisteva per sapere la verità, scoppiò in lacrime, e cominciò a strillare. Allora la mamma, fissandola severamente, la minacciò, se non diceva tutto, di regalare Dèsir, il suo cavallino favorito, a Mimì. Era una minaccia che otteneva sempre un grande effetto. — Non lo farò più, mamma!... Non lo farò più!... — Va benissimo, ma prima mi devi dire tutto... — Ho trovato per terra il portafoglio del babbo... — Ebbene?... — Non sapevo di far male... l’ho trovato per terra... — Ebbene?... Lalla mentiva; lo aveva tolto invece dal cassettino dello scrittoio, che trovò aperto un giorno, mentre suo padre, nella camera vicina, si mutava d’abito. — E dunque? Animo, animo! bisogna dir tutto. — E sotto il ritratto di una signora ho veduto scritto così. — Dici una bugia. — No, no! mammetta! — replicò Lalla, contentissima, — Hai anche tu quel ritratto — e così dicendo, scivolò dalle ginocchia di sua madre, corse nel salotto, prese un album, lo portò a Maria, l’aprì, fece passare i ritratti in fretta; poi fermandosi d’un tratto esclamò: — Eccola! È questa qui! — e col ditino indicò il ritratto della Haute-Cour. Maria impallidì, e i suoi occhi si empirono di lacrime. — Perchè piangi, adesso, mamma?... Non lo farò più. te lo prometto. Maria si strinse forte alla sua creaturina, e un singhiozzo, che le veniva dritto dal cuore, aprì lo sfogo ad un pianto dirotto. Lalla, che non capiva nulla, ritornò a piangere anche lei; baciava la bocca, le guance, gli occhi della povera sconsolata, e colla vocina infantile continuava a domandarle: — Perchè piangi, mamma? VII Rinvenuta un poco dallo sgomento di quella scoperta, la poveretta ebbe qualche conforto dal dubbio. Dubitò delle parole di sua figlia, dubitò della colpa di suo marito. Quelle parole — for ever — non avrebbero potuto, alle volte, essere inspirate da una simpatia vaga?... E se proprio sotto c’era un affetto, non poteva essere un affetto meritevole di perdono, scusabile forse?... Ma in questo modo, per quanto Maria lo desiderasse, non riuscì lungamente a ingannarsi. Messa in sull’avviso, non ebbe che ad osservare, attentamente osservare, per accertarsi della verità. Maria non era innamorata di Prospero; ma quella scoperta non doveva perciò riuscire meno dolorosa. Il suo affetto di madre, la sua dignità di donna e di moglie, avevano ricevuto un grave oltraggio. Non era innamorata di Prospero, ma gli voleva bene; lo stimava, e aveva bisogno di stimarlo, perchè era il padre della sua creatura, e perchè l’onore di quest’uomo era pure il suo onore. Non era innamorata di Prospero; ma Prospero era suo marito... Ricordava che ieri, ieri ancora, egli l’aveva avuta fra le sue braccia... e pensando adesso che non vi era stata desiderata dall’amore, ma dai sensi, vedeva l’occhio di lui fissarla curioso, disamorato: lo vedeva cercar confronti, invocare altre orme, e il suo pudore, il suo orgoglio ne soffrivano amaramente. Che cosa fare?... Il primo pensiero fu quello di fuggire da suo marito, perchè le faceva orrore. Fuggire?... E Lalla? Lalla la sua figliuola? Lalla piccina ancora? Avrebbe potuto dividerla dal padre? Avrebbe potuto dividerla dalla mamma sua? Avrebbe potuto lei abbandonarla? No; Maria era madre; madre sempre e prima d’ogni altra cosa, e con questo affetto si sentiva rialzar pura, quasi redenta dall’oltraggio patito. Ma... che fare?... Vederlo ancora?... Continuare a star con lui? La sua mente si perdeva, l’animo suo ondeggiava in mille dubbi. Ella da sè sola non riusciva a connettere le idee, e non sapeva nemmeno a chi ricorrere per consiglio. Nessuno avrebbe potuto o voluto aiutarla; e poi di nessuno ella stessa si sarebbe fidata. — Di nessuno?... No, Giorgio mi consiglierà: di lui posso fidarmi. — Con questo pensiero Maria ritrovò un po’ di calma; il suo volto turbato si ricompose ed ebbe un sorriso di speranza e di sollievo. — Giorgio?... sì, Giorgio! Ecco spiegato adesso il suo contegno, la sua freddezza con Prospero, — andava pensando fra sè. — Egli certo sapeva ogni cosa; e il suo carattere franco() e onesto soffriva nel vedermi offesa così vilmente. Ed io... che invece dubitavo di Giorgio e della sua amicizia! Ah! Ma ora gli dirò tutto, mi confiderò con lui interamente, e farò... farò tutto quello che egli mi consiglierà di fare. Dopo una tale risoluzione, Maria scrisse sul momento al conte Della Valle, senza riflettere al passo gravissimo che stava per fare, il seguente biglietto: «Venite subito da me: ho scoperto tutto e ho tanto tanto bisogno di consigliarmi con voi. — Maria.» Piegata, suggellata la lettera, fatto l’indirizzo, suonò: poco dopo entrò la cameriera. — Chi c’è in anticamera? — le chiese Maria, ancora colla voce malferma. — Giacomo e Lorenzo. — Mandami Lorenzo. La cameriera uscì e ritornò quasi subito introducendo un servitorello dai quattordici ai sedici anni. Era costui un figliuolo della nutrice di Lalla, che aveva ottenuto di entrare al servizio della duchessa, e le era fedele come un cagnolino. — Sapete, Lorenzo, dove sta di casa il conte Della Valle? Il ragazzo strinse gli occhi e chinò la testa, pensando, poi, dopo un momento, rispose: — Sì, signora duchessa. Ora me ne ricordo. Sta in via dei Fiesolani, in quel palazzone vecchio, di faccia alla chiesa di San Filippo. — Va bene. Gli porterete questa lettera. Se non è in casa, aspettate che ritorni; ma non dovete consegnarla che nelle sue mani. Rimasta sola nuovamente. Maria raccolse le carte, le buste, le penne sparse sullo scrittoio, e le richiuse in una piccola scatoletta intarsiata. Ma, in questo punto, un pensiero che le giunse improvviso le fece prima corrugare la fronte; poi le sue guance, quasi sempre pallidissime, diventarono rosse, di bragia, e corse ella stessa in cerca di Giacomo, fin nell’anticamera. — Lorenzo è già andato?... — domandò al servo affannata. — Sì, signora duchessa. — Correte presto! fermatelo! Ch’egli ritorni qui sul momento! Non aveva terminato di parlare, che già il servitore, fatta a salti la scala, usciva di casa, e dopo pochi minuti, che a Maria, la quale stava ansiosa ad aspettare dietro i vetri della finestra, sembrarono eterni, ritornava indietro con Lorenzo, il quale teneva ancora tra le mani la lettera per il conte Della Valle. Maria, vedendola, respirò liberamente. — Devo aspettare? — domandò Lorenzo, quando ebbe ebbe restituita la lettera alla duchessa. — No, non occorre, andate pure. Era assai forte il turbamento ch’ella provava allora, con quel bigliettino fra le mani; perchè era esso appunto la causa di tanta agitazione. Sapeva di averlo scritto in un momento di febbre, senza pesarne le parole; e però Lorenzo non era ancor uscito dal palazzo, ch’ella già cominciando a riflettere, sentì subito il timore di aver commessa un’imprudenza. Quanto più ci pensava, tanto meno sapeva rendersi ragione di tutta quella fretta di scrivere al conte Della Valle di quel partito preso così sui due piedi. — Guai, guai, se Giacomo non fosse arrivato in tempo a fermar la lettera!... — A mano a mano la sua inquietudine diventava sgomento, e la imprudenza commessa diventava sempre più grande nella sua mente... — Guai, guai, se Giacomo non fosse arrivato in tempo!... — Pure, anche quando finalmente la lettera le fu restituita intatta, Maria non riebbe la calma. Era angustiata dal timore e oppressa da una soggezione strana: guardava la lettera, che teneva sempre chiusa in mano, voleva aprirla e non sapeva risolversi, non osava. Finalmente, si fe’ coraggio, stracciò la busta: — Venite subito da me: ho scoperto tutto e ho tanto tanto bisogno di consigliarmi con voi. — Ma s’egli non sapesse nulla, pensava, ho io il diritto di metterlo a parte di un segreto che è il segreto di mio marito? — Ho bisogno di consigliarmi con voi! — Consigliarmi con lui?... No. Io sola devo difendere il mio onore, e poi, non ho forse lo zio a cui rivolgermi, lo zio che mi fu padre e che ho dimenticato!... Il dolore dunque rende ingrati; perchè sono stata ingrata col mio unico parente, e mi sono rivolta per aiuto, per consiglio, a chi?... ad un estraneo!... Un estraneo?... Eppure... scrivendo a Giorgio, ho provato un grande conforto. Ho sentito nel mio cuore che potrei ancora perdonare, che potrei ancora essere felice... Felice?... per lui dunque?!... Ah! mio Dio! mio Dio! sarebbe possibile?!... Maria, atterrita, interrogò il suo cuore, e il cuore, duramente, tanto era inesorabile quella risposta, tanto era angosciosa per la poveretta che ormai non poteva più dubitarne, il cuore duramente rispose che ella amava. — Sono perduta! è più forte di me! sono perduta! — esclamò piangendo disperata; e allora sentì che nessuno al mondo, nemmeno le carezze di Lalla, avrebbero potuto farle dimenticare quel nuovo affetto che, scorto appena nella improvvisa vicenda dei suoi dolori, già cresciuto gigante, la padroneggiava. — Ed io, io che non voleva perdonare... In questo punto, ricordando la colpa di suo marito, le sembrò quasi che una mano vigorosa le stringesse il cuore, così da soffocarne ogni palpito. Quella colpa le sembrò odiosa, e la sua virtù, il suo orgoglio, la sua fierezza si ribellarono contro la sua propria passione. Fu una lotta accanita, crudele; ma ne uscì vittoriosa. Piangendo sempre, perchè quel sacrificio era enorme, era uno di quei sacrifici che uccidono: non consolata ma sicura; colla fede, che tante volte è l’unica difesa della donna, pregò Dio, invocò sua madre per sè, per la propria creatura... Mentre Maria pregava e piangeva, senza ch’ella se ne accorgesse, si aprì lentamente l’uscio della sua camera, e Lalla, che da due ore non riusciva a spiegarsi quel mistero d’ordini e di contro ordini, cacciò fuori adagio adagio il suo scarno visetto, con gli occhi vivi, pieni di furberia e di malizia, fra le tende della portiera, trattenendo il respiro, tentando di capire, fra i singhiozzi della mamma, che cosa fosse accaduto di nuovo. Ma quella poveretta non pregava con le labbra, pregava col cuore: e così fu delusa, allora e sempre, la curiosità della piccola imprudente. VIII Quantunque Maria rimanesse vincente dopo quella lotta, comprese tuttavia che il nemico, se si era ritirato, era per altro troppo forte, e non si poteva fare a fidanza con lui. Una risoluzione occorreva prenderla, e la risoluzione fu presa: quella di allontanarsi da Giorgio. Riordinò le idee, ponderò bene i suoi disegni, e quando il duca d’Eleda ritornò dalla Camera, fu avvertito che la duchessa lo aspettava e che voleva parlargli. A tale annuncio. Prospero Anatolio si fermò sui due piedi. La novità della cosa, sua moglie che lo faceva chiamare nelle sue stanze e la coscienza che gli rimordeva, non predicevano nulla di buono. Sentì invece che lo aspettava un quarto d’ora assai difficile. Dubitò della lealtà di Giorgio, delle maligne confidenze di una troppo tenera amica, della stessa perspicacia di sua moglie, e a buon conto preparò la sua difesa. — Maria minaccerà una tragedia — pensava egli fra sè e sè. — Avrò una scena di lacrime, di gelosie... e, se devo dire la verità, me lo merito proprio. Sono adorato da una moglie che tutti m’invidiano; ed io invece... Già, sicuro, sono molto colpevole. Del resto, Maria non sa fin dove son arrivato; è troppo ingenua per sospettarlo, e così posso ancora difendermi, accusando la solita maldicenza... Povera donna tanto innamorata! — e Prospero Anatolio, mentre, preceduto da Lorenzo, entrava nella stanza della duchessa, si compiaceva ad ammirare la sua figura di Don Giovanni attempatuccio, riflessa dagli specchi delle portiere. — Mi hai fatto chiamare? — chiese a Maria appena furono soli; e per anticipare le tenerezze, si chinò (ella era seduta) e un bacio le sfiorò i capelli. Maria si alzò vivamente. — Che c’è di nuovo? — esclamò il duca stizzito. — Devo parlarti di cose serie. — Serie proprio? — Molto serie. — Allora sentiamo. — Io conto di partir subito per Santo Fiore. Vi resterò molto tempo. Almeno fino a che Lalla abbia compiuta la sua educazione. — Scherzi? — No: ti prego di dare gli ordini necessari. — Ci siamo, sa tutto! — pensò Prospero Anatolio; e poi riprese subito, fingendo una gran maraviglia: — Come? Vuoi andare a Santo Fiore?... ma io non posso lasciar la Camera! — So bene. Partirò sola, con Lalla e con miss Dill. — Mi vuoi separare da te, dalla figliuola?... — È necessario... — Non credo... ascoltami, cara — e Prospero Anatolio prese e strinse con tenerezza la mano di Maria, — ti supplico, interroga il tuo cuore, e dimmi se... — No, no! — interruppe la duchessa — il cuore... non c’entra. Raccomandiamoci invece allo spirito di tutti e due, per non essere costretti a spiegazioni che è meglio lasciare sottintese. — No, sei in errore, Maria; il tuo cuore e il tuo amor proprio avranno da guadagnare da una mia confessione intera e sincera. — Non ti comprendo. — Non vuoi comprendermi, piuttosto. Mi hanno accusato, mi hanno calunniato, lo capisco benissimo: mi hanno accusato, e tu mi condanni subito, alla cieca, senza volermi ascoltare, senza concedermi nessuna difesa! — Non ci furono nè accuse, ne calunnie... Io non ti condanno, e non so davvero che cosa tu mi debba confessare. Prospero Anatolio capì di essere andato troppo oltre; ma il ritirarsi era ormai impossibile. — Perchè dunque vuoi partire così subito e così improvvisamente? — Ciò riguarda me sola. — No, riguarda me pure. È un puntiglio, un capriccio, e voglio sapere il perchè! Maria alzò il capo e guardò fissamente il marito. La bonacciona timida e paurosa di Borghignano era sparita; col viso pallido, con un sorriso freddo, un po’ anche sarcastico, pareva un’altra donna. Il duca sentì un così gran cambiamento, senza poterlo spiegare; lo subì, senza volerlo riconoscere. — Dunque? Aspetto una risposta; — e Prospero Anatolio si sforzò per rimanere impassibile. — Amo Giorgio Della Valle — rispose lentamente Maria, senza tremiti nella voce, senza muover ciglio, senza arrossire. Dinanzi alla colpa, infame e ipocrita, del duca, ella si sentiva forte, si sentiva fiera del suo amore così alto, così puro. — Amo Giorgio Della Valle; e non voglio che questo affetto, il quale ha saputo vincere il mio cuore, vinca un giorno anche la mia coscienza, e voglio fuggire. Prospero Anatolio impallidì, ma si contenne; poi, cessato il primo sbalordimento, si persuase non esser altro che una finzione colla quale Maria voleva ottenere la propria rivincita e vendicarsi. Tuttavia, era una commedia che gli spiaceva molto. — Volendo risparmiarti l’incomodo di cambiar domicilio — rispose a Maria dopo un momento, — ci sarebbe un altro modo per difenderti, e... per salvarti, come dici. — Quale? — Mettere alla porta il Conte Della Valle. — Faresti capire a Giorgio ciò che è e dev’essere sempre un mistero per lui e per tutti. — Chi sa? Più fortunato degli altri, nostro cugino avrebbe potuto indovinare l’arcano. — No, non credo almeno — rispose con calma. Maria, senza voler notare l’insinuazione contenuta nelle parole del marito. Questi, arrabbiatissimo, cominciò a gridare per difendersi; ma, poichè non sapeva bene che cosa dire, se n’andò brontolando e sbattendo l’uscio con gran dispetto. Ritornato nel suo studio, e dopo essersi sfogato un poco, egli si mise a passeggiare su e giù, pensando al modo di levarsi d’impaccio col minor danno. Temeva poi anche, — le chiacchiere già, correvano sul fatto suo — che la partenza di Maria facesse troppo rumore e ne seguisse uno scandalo. — Bisogna impedire questa partenza: bisogna impedirla assolutamente. Ma come fare? Il duca aveva fatto il giro dello studio, in lungo e in largo un centinaio di volte, senza aver trovato un buon ripiego. Di tanto in tanto, a ogni nuovo pensiero che gli si affacciava alla mente, si fermava su due piedi, fissando il soffitto, e meditando; poi scrollava il capo e ricominciava a passeggiare, sempre più annuvolandosi. Così passò un’ora, un’ora e mezzo, due, quando a un tratto il suo volto si rischiarò: — Ah! ah! — borbottò fra sè, sorridendo: — mia moglie vuol confondermi? Per lo meno le insegnerò che sono sempre un uomo di spirito!... — Vano e leggero, il duca d’Eleda teneva di più a parere un uomo di spirito, che non ad essere un uomo onesto. In fretta, senza chiamare il servo, indossò il soprabito e uscì di casa. — Via de’ Fiesolani! palazzo Castiglione! — gridò al cocchiere montando nella prima carrozza vuota che incontrò per la strada. IX Il d’Eleda pensava di adoperare Giorgio Della Valle come intermediario ufficioso presso Maria. Giorgio sapeva già ogni cosa; dunque, confidandosi con lui, fosse amico o nemico, non arrischiava molto. Di più Maria per vendicarsi aveva finto con lui di essere innamorata ed egli con quella mossa da scaltro diplomatico rompeva la trama dell’innocente commediola. — Ma... e se Maria non avesse mentito? — Era questa un’ipotesi sulla quale egli non avrebbe voluto fermarsi nemmeno: un’ipotesi stupida, assurda... che per altro intorbidiva, di tanto in tanto, tutto il sereno del suo ragionare. — Che! che!... non è possibile; Maria non avrebbe confessato, se fosse proprio stato vero!... — Ad ogni modo, pensò che egli avrebbe capito la verità dal contegno di Giorgio, ed anche per questo lato il passo che stava per fare era molto abile. Intimamente sicuro, tuttavia un certo dubbio istintivo lo inquietava sempre; e quando poi si trovò alla presenza di Giorgio, cominciò a temere di poter scoprire un qualche indizio compromettente. Oh, allora guai! la sua vendetta sarebbe stata terribile! Al primo incontro, tanto il duca quanto il Della Valle si sentivano un po’ impacciati: Giorgio non riusciva a capire che cosa ci fosse sotto a quella visita, e Prospero Anatolio, come succede sempre a chi si trova impegnato in una risoluzione stata presa senza punto riflettere, dubitava di essersi spinto troppo oltre e, potendolo fare, sarebbe tornato indietro volentieri. — Sono qui — disse infine al conte Della Valle — sono qui a trovarti, perchè ho... ho gran bisogno di te. — Di me? — E Giorgio, notando l’aria stravolta, gli domandò se, per caso, era corsa una sfida. — Appunto — rispose il duca, sorridendo — ho un duello!... Accetti di essere il mio primo? — Volentieri, ma il tuo avversario chi è?... — È mia moglie. — Così dicendo il duca fissò di traverso i suoi occhietti grigiastri nel volto del giovanotto. — La duchessa Maria? — Pur troppo. — E Prospero Anatolio, vedendo che l’altro era soltanto maravigliato, cominciò a respirare più liberamente. — Allora accetto — rispose Giorgio, il quale aveva capito adesso che cosa doveva esserci di nuovo. — Accetto; ma confessandoti che mi riuscirebbe più facile una requisitoria contro di te, che una difesa. — Ti ringrazio della franchezza. — Che posso fare? — Maria mi accusa, e non vuoi saperne di ascoltare giustificazioni. — Ma come ha scoperto? — Chi sa? non s’è voluta spiegare. — Che cosa ti ha detto? — Ha cominciato e ha finito, dichiarandomi soltanto che oggi o domani al più tardi vuol ritirarsi a Santo Fiore. — Bisognerebbe cercare di persuaderla che si è ingannata o che è stata ingannata. La cosa per altro mi sembra difficile. — Per ciò appunto sono qui a seccarti. Tu dovresti dire a Maria che io non sono... che lei non è... quantunque alcune apparenze abbiano forse potuto far supporre che fra me e quella signora... insomma, mi capisci?... — Già, già; ho capito. — E poi... — E poi? Che cosa? — Tu dovresti farle notare che il suo disegno è sconveniente sotto ogni rispetto. Per un dubbio soltanto, ella non ha diritto di allontanarmi dalla mia famiglia. — È vero. La duchessa non può sapere fin dove arriva la tua... cioè la sua... — Giorgio adesso si trovava impacciato, anche lui, a spiegarsi chiaro. — In secondo luogo — ripigliò il duca — con un tale procedere ella darebbe aiuto ai pettegolezzi e ne potrebbe venire uno scandalo. — Tenterò di convincerla, e davvero sarebbe il minor male per tutti; ma non avresti qualche altra persona più influente di me? — No; perchè lo zio, il conte di Santo Fiore, capirai, non mi conviene di metterlo a parte... di adoperarlo in codesto affare. - — Certo non sarebbe opportuno; tenterò io. Il conte Della Valle era buono: Prospero Anatolio aveva bisogno di lui, e ciò bastava perchè questi ottenesse l’indulgenza del giovanotto. — Quando credi che io vada dalla duchessa? — Anche subito, non c’è tempo da perdere. Si concluse che il d’Eleda si sarebbe fermato là ad aspettar le novelle. Come quell’altro aveva fatto prima, adesso anche Giorgio, durante la corsa, studiava tranquillamente il suo piano, non immaginandosi certo di quante commozioni doveva essere feconda, per la povera donna che gli voleva bene, quella visita così inaspettata. Appena Lorenzo annunziò il conte Della Valle a Maria, ella si fe’ pallida in volto e tutto il sangue le corse al cuore. Pensò di non riceverlo, ma poi riflettendo che in tal caso egli sarebbe tornato, disse a Lorenzo di farlo entrare. Uscito il servo, sedette per meglio nascondere il tremito convulso da cui era presa; le bastò un minuto per padroneggiarsi, per ricomporsi, e quando Giorgio fu innanzi a lei, la sua voce era tranquilla, la sua mano era ferma. Il giovanotto trovò Maria mutata, — diversa dal solito — la trovò più sostenuta, e, quando egli disse la causa di quella sua visita, fu costretto a notare in lei un vivo malcontento. — Se io vi parlo di ciò, lo faccio perchè ne fui pregato da Prospero e perchè sentirei di essere per lo meno sconoscente se mi tenessi estraneo a quanto succede nella vostra famiglia. — Giorgio, a mano a mano, sempre più accalorandosi, fece la sua brava difesa, tentando tutti gli argomenti. Parlava col cuore ed era eloquente, perchè in lui la sicurezza di fare un’opera buona suppliva il difetto di convinzione. Maria non parea persuasa, e neanche commossa; ma dentro di lei() c’era un cozzo di affetti, una battaglia angosciosa, indescrivibile. Giorgio le inondava il cuore di una gioia suprema, rivelandosi come lo aveva sognato, onesto, nobile, generoso; ma, nel confronto ch’era costretta a dedurne fra lui e suo marito, confronto che terminava coll’essere troppo favorevole al cugino, la coscienza, giudice severissimo, le faceva scontare quella gioia, rimproverandola, quasi fosse una colpa. Perchè mai lo aveva fatto Iddio così buono, così diverso da tutti gli altri?... Se invece di difendere con tanto calore suo marito, egli lo avesse accusato tentando di volgere in suo pro la collera della moglie tradita: se invece di confortarla al bene, avesse tentato di sedurla al male, allora... oh, allora, infranto l’ideale, il suo cuore avrebbe riavuta la pace. Senza menomare i meriti del conte Giorgio, non era Domeneddio che lo faceva sublime; era la donna innamorata, che lo pensava tale in cuor suo. Maria non rifletteva nè punto nè poco, che tutto quel nobile disinteresse nasceva anche dall’indifferenza medesima di Giorgio per lei. Intanto, mentre la duchessa d’Eleda imparava a sue proprie spese quanto la passione fosse potente, sarebbe stata più proclive di certo all’indulgenza verso il marito s’egli non l’avesse offesa di nuovo andando a scegliere appunto il conte per suo intercessore. Essa gli aveva pur confessato di amarlo e di volerlo fuggire; perchè dunque lo adoperava in quel modo?... Era una derisione o una sfida? — Scusate, conte — disse interrompendolo a un tratto — scusate, ma non c’intendiamo, mi sembra. Voi, come mio marito poco fa, alludete a cose estranee del tutto, che non influirono punto sulla risoluzione che ho dovuto prendere. — Nulla di meno... — Vi prego, dite a Prospero che vi faccia conoscere, s’egli crede di poterlo fare, la cagione, la vera cagione per cui gli ho detto che volevo ritirarmi a Santo Fiore; altrimenti, credetelo, nemmeno noi due non potremo intenderci. — Riporterò al duca le vostre parole; ma vi assicuro, credevo di godere più influenza presso il vostro cuore. — E un po’ indispettito e mortificato, Giorgio era lì per uscire, quando sulla porta, voltatosi per salutarla, vide gli occhi di Maria pieni di lacrime. Prestamente le ritornò vicino e prendendole tutte e due le mani, con leggera violenza, gliele strinse, baciandole: — Vi supplico... siate buona... non vi ostinate nel mentire con me; non mi volete forse più bene?... — Lei?... Non volergli più bene?... Poveretta, se lo avesse potuto, si sarebbe attaccata stretta al suo collo, coprendo di baci quegli occhi che sapevano guardarla con tanta soavità. — Voi, sempre buona — insisteva Giorgio Della Valle — vorreste essere oggi implacabile? — Vi ho già detto, conte, ciò che dovete ripetere a mio marito. La duchessa d’Eleda si era fatta di ghiaccio: la commozione, le lacrime erano cessate ad un tratto; ma non mai, come allora, aveva capita la necessità di fuggire. — Chi spiega le donne? — pensava Giorgio Della Valle, ritornandosene a casa. — Ieri pareva una sorella per me, ed oggi non mi può soffrire. Se veramente fosse stata un’amica, non avrebbe fatti tanti misteri, nè avrebbe mantenuto tutto quel sussiego. Per dire la verità, ella pareva molto offesa, ma poco addolorata. Ci sarebbe dubbio che avesse anche lei più orgoglio che cuore? — Dunque... fiasco?... — domandò Prospero Anatolio, quando lo vide entrare con una faccia che non lasciava sperare nulla di buono. Prospero, adesso, sapeva fingere con Giorgio abbastanza bene; ma era rimasto là ad aspettarlo con mille sospetti e mille inquietudini nel cuore. Egli vedeva a mano a mano farsi sempre più grave la propria imprudenza e il rischio sempre maggiore. Cominciava a dubitare della lealtà dell’amico, della fedeltà di sua moglie, e si sentiva meno sicuro: ci fu un momento nel quale aveva pensato d’interrompere quel colloquio troppo pericoloso e forse lo avrebbe anche fatto se Giorgio avesse tardato ancor a ritornare. — Fiasco... irreparabile. — Come ti ha ricevuto? — Mi ha ricevuto trattandomi in un certo modo, con una sostenutezza quasi diffidente, che accresceva la scabrosità dell’argomento. — Almeno le hai potuto parlare? — Cioè, ho cominciato; ma lei non mi ha lasciato finire, concludendo in poche parole, che non potevamo intenderci se tu prima non mi dicevi il vero motivo per cui essa vuol partire, e vuol partire subito; e che del resto... non ha nulla da perdonarti! — Ah! Ah! Va bene; va bene. — E suo malgrado, Prospero Anatolio arrossì fino al bianco degli occhi. — Dimmi la verità, c’è sotto forse qualche altra cosa che non mi hai raccontato? — Che!... scuse, pretesti, e niente altro! — Ti ringrazio, intanto, dal profondo del cuore — continuò il duca — per la seccatura che ti sei presa; Sei buon testimonio che io volevo usare la persuasione, l’amorevolezza; ma, vedendo, che con ciò non si riesce, cambierò metodo. A conti fatti, il padrone sono io. — Non dimenticare peraltro che tu, con tua moglie... sarai sempre dalla parte del torto. — Chi lo dice? — Tutti. — Chi mi ha veduto? — Nessuno. — Dunque, calunnie. Ma nonostante tutte le proteste, le minacce, la collera di Prospero Anatolio, la duchessa Maria, rimasta inflessibile, partì il giorno dopo per Santo Fiore, sola con Lalla e con miss Dill; ed egli, benchè contro genio, questa volta dovette pur riprendere la vita di scapolo. — No, quella donna non mi ha mai amato, come non ama quell’altro, come non amerà mai nessuno, nemmeno un Santo che volesse dannarsi per lei! Non ha sangue nelle vene, non ha che orgoglio — pensava il duca d’Eleda la prima notte che si trovò solo nell’ampio letto matrimoniale, mentre non era capace di pigliar sonno. Inquieto, perduto in quell’imbroglio di trine e coperte, fu preso da un senso di malinconia; in quel silenzio uggioso la cabaletta di un Ernani ubriaco gli riusciva gradita dapprima, come voce amica che lo confortasse nel suo isolamento, e poi finiva, indispettito, col diventare invidioso di quella volgare e spensierata allegrezza. Allora, rannicchiandosi, si tirava le coltri fin sopra la faccia e là, solo solo sentiva di aver freddo. Ma, così raggomitolato nel talamo deserto, mentre il suo corpo a poco a poco si riscaldava, si riscaldava anche la sua fantasia e volgeva a più miti pensieri verso la moglie; egli stesso era pur costretto a riconoscerlo: in quella donna si era rivelato un carattere singolare. — Quanto orgoglio, quanta dignità, quanta fermezza! — Come tutti lo avrebbero invidiato se una tal donna lo avesse potuto amare... una donna così rara e così piacente!... In quegli ultimi giorni, Il dolore, che ella voleva nascondere, l’aveva fatta ancor più pallida e ancora più bella. I suoi occhi profondi erano circondati da una tinta azzurra, cupa, che tradiva veglie angosciose e lacrime invano celate... Rosse le labbra, i bei capelli in disordine e... e il povero marito che la vedeva, in tutto quello scompiglio della vaga persona, disegnarsi viva nel suo pensiero, sentiva i nervi che martellavano, tormentato da tentazioni affannose. E dire che quella donna era stata sua, là, in quel medesimo letto, accanto a lui; ma allora insensibile a tanta bellezza, sedotto da allettamenti volgari, egli aveva trascurata tutta quella dovizia di voluttà, di passione, ed oggi, oggi che ne capiva il valore, oggi l’aveva perduta per sempre. Per sempre?!... A questa idea credette di soffocare. Gittò con ansia le coperte dal letto e, puntellandosi coi gomiti, si alzò quasi a sedere: guardò intorno, balbettò senza volerlo il nome di lei, e poi con un movimento repentino del capo, fissò trasognato il letto vicino. Ma lì, dove altra volta egli vedeva le coltri fremer di vita, disegnandosi in leggiadre curve, ora quelle, disanimate, tese con una regolarità desolante, annunciavano il vuoto. La nicchia non aveva più la sua statua. Gli pareva ancora di vederla: com’era cara in quel disordine, del quale egli pure aveva la sua parte di colpa! Egli che si svegliava sempre colla prima luce del mattino, si godeva a spiare la vaga dormente... I capelli biondi, disciolti coprivano quasi tutto il guanciale, disegnandosi in capricciosi errori attorno al collo e sulle spalle seminude. La bocca umida, le guance fatte rosee da una mite traspirazione... Ricordava ancora quel seno turgido e candidissimo che si rialzava ad ogni respiro. Vinto dalla seduzione di quelle memorie, Prospero Anatolio chiuse gli occhi e, piegandosi dove lo trascinava l’immaginazione sua riscaldata, fece l’atto col quale gli piaceva meglio di risvegliare la giovine sposa: Egli con un soffio leggerissimo usava smuovere prima i capelli dalla fronte di lei, poi i riccioli ribelli che le si torcevano sulla nuca moltiplicandosi: accarezzava col fiato quella bocca socchiusa, fresca, ridente, quel seno pulsante di giovinezza; e, in preda sempre alla irritante visione, egli la vide ancora una volta scuotersi con un fremito, aprire gli occhi, guardarlo trasognata; la vide arrossire, sorridere, gettare un grido di bambina, e poi, vergognosa, stringerlo colle bellissime braccia, nascondergli la testa sul petto, coprendogli il volto con una grossa onda di capelli. Ma tutto ciò gli appariva come in un sogno. Maria era sparita... sparita per sempre. In preda a tanta follia di desideri, Anatolio si rivoltò smaniando nel letto e finì, senza volerlo, col buttarsi là, rannicchiandosi, dove avrebbe voluto la donna; la donna non c’era più, ma le coltri, le lenzuola, tutta insomma quella parte del letto esalava ancora il profumo della sua carne... un profumo caldo, acuto, inebbriante, che lo aveva involto, con fascini occulti, in quella frenesia convulsa e voluttuosa. Ansando, febbricitante, strinse allora, contro il petto villoso, il guanciale di sua moglie; lo baciò, lo morse e: — Mio Dio — balbettò — co... come so... sono infelice! X Quel giorno, nel quale Maria volle partire, Firenze era gaia più del solito: godeva una bella giornata di primavera, quantunque si fosse ancora in febbraio. Ma quando la locomotiva uscì avvolta di fumo dall’alta tettoia, ove l’incessante frastuono di un mondo riboccante di vita dava l’ultimo addio ai viaggiatori; quando quel mostro di ferro, novello Mefistofele, gittate in alto il suo sibilo, e salutate « . . . . le convalli Popolate di case e d’oliveti» salì sbuffando e poi scese dall’alto declivio dell’Appennino, allora, si passò con brusca rapidità dal giovane Oriente — tepido e profumato — al freddo e ai ghiacci della vecchia Siberia. Quanto freddo e quanta neve!... Quel lenzuolo uniforme e bianchissimo tormentava l’occhio e intirizziva lo spirito. Correndo in quel pelago morto e ghiacciato si soffriva l’ansia del naufrago. Non un cespuglio verde, non un filo d’erba che vi rompesse l’uniformità monotona e desolante. Di lontano le case perdute nei campi, serrate dalla miseria e dal freddo, colle muraglie, per il riflesso della neve fatte ancor più tetre, parevano senz’anima viva. Gli alberi aridi, brulli, senza una foglia, screpolati, quasi scheletri immani imprecanti in quel vasto deserto. Non vi era cielo lontano, nè profilo di montagne, nè allegria di borgate dai vecchi castelli o dai nuovi campanili. Una nebbia umida e fitta chiudeva l’orizzonte, la locomotiva sembrava correre precipitando nel vuoto. Lalla, poverina, sopportava i disagi con sufficiente coraggio. Dopo aver pianto disperatamente abbandonando il suo babbo, alla prima stazione aveva cominciata a ridere, alla seconda a mangiare e alla terza, stanca, si era addormentata. Chi brontolava, chi sarebbe ritornata indietro, magari a piedi, chi non sapeva giustificare il capriccio della duchessa, era miss Dill. Miss Dill, avvolta nella pelliccia, cogli occhiali verdi per ripararsi dal riflesso della neve, secca, gialla, grigia, rincantucciata, sepolta sotto i plaids, succhiava mandarini e inghiottiva bile. Finì anche miss Dill, come Lalla, addormentandosi: e quando, più tardi, all’ora solita del pranzo, la risvegliò lo stomaco vuoto, allora sognava appunto d’essere lei la padrona, Maria l’istitutrice, e di sfogarsi strapazzandola senza pietà. La bella fuggitiva, invece, non dormì un minuto del lunghissimo viaggio. Immobile, con la testa piegata e con l’occhio fisso alla finestrella del carrozzone, sembrava assorta. Ma l’oggetto ch’ella guardava con tanto amore doveva essere raccolto nella sua mente, perchè da troppo tempo più non curava di levar via col fazzoletto l’umidità densa che appannava i cristalli. Un’immagine, cara al suo cuore, la seguiva sempre in quella sua fuga: ella correva via a precipizio e traballava per l’urto e le scosse rapide del convoglio, pure non riusciva a fuggire del tutto. Ma quantunque vinta, era calma e sorridente: la battaglia era finita. Dopo lunghi giorni, dopo notti d’insonnia e di lacrime, trovava finalmente un’ora di pace. Piegata la fronte, rassegnata, non aveva fatto ciò che il dovere le aveva imposto? La passione, che serpeggiava irritante nelle sue vene, era riuscita a soffocarla; l’uomo ch’ella amava tanto da sacrificare tutto per lui, l’aveva veduta fredda e indifferente; fuggiva il pericolo, e nulla nascondeva al marito... non era una santa, infine, era una povera donna: che cosa avrebbe potuto fare di più?... Doveva forse squarciarsi il petto colle stesse sue mani, per istrapparne via il cuore? No, Dio ha imposto alla creatura di vivere, oramai la vita per lei era il suo amore. Come, perchè ostinarsi in una lotta ineguale della volontà contro il pensiero? Quell’affetto non le consigliò mai una colpa, non le lasciò il retaggio d’un solo rimorso. Maria usciva intatta dall’incendio come l’amianto, non soffriva l’umiliazione, l’abbattimento di quelli che sono caduti, ma nella sua coscienza grandeggiava l’orgoglio supremo della vittoria; dunque? Dunque perchè combattere ancora, combattere sempre, dilaniarsi, per quello che era impossibile, quando, sola oramai, lontana dal pericolo, sicura di sè, poteva abbandonarsi, riposare serena, nelle care fantasie della mente? Ah! quell’ora di pace troppo a caro prezzo l’aveva guadagnata, e vi si abbandonò in ispirito e corpo. Allora chiuse gli occhi, incrociò le mani sulle ginocchia e, quasi un mistico velo l’avesse separata dal mondo, si raccolse tutta in sè stessa. I sensi erano vinti e, ritornati all’assalto, sarebbero stati vinti ancora e sempre. L’uomo che si era impadronito di lei, adesso non faceva che prestar le sembianze alla cara immagine del suo sogno; l’amore non era sangue e carne, era pensiero: poetica, virtuosa, casta Maria lo avea idealizzato. Sarà triste molto la vita, senza ricambio di affetti, sempre lontana, sempre là, sola; ma vi troverà ancora gioie profonde, vere, insperate. Dimenticare non avrebbe potuto(), nè voluto allora, nè mai; però quel nuovo battesimo l’ebbe rassegnata e volonterosa. Così solamente l’amore non era colpa, era virtù; non era debolezza, ma forza sublime, divinità segreta purissima: non più tormento e pericolo, ma consolazione e conforto. XI Santo Fiore è un villaggio del basso Padovano: una contrada lunga e larga, dalla quale si diramano dieci o dodici viuzze più o meno deserte. Colline non se ne vedono affatto, e le montagne si perdono lontane, sull’orizzonte. Santo Fiore era il feudo dei conti di questo nome, e oggi ancora in barba allo statuto del regno, l’autorità dell’antica dinastia in quel villaggio ha salde le radici. Invece di reggere il piccolo popolo col cappellone dei carabinieri, i conti di Santo Fiore adoperavano due altri spedienti: il pane e il lavoro. Quando il conte Giovanni, padre di Maria, venne a morire(), suo fratello Eriprando lasciò Borghignano e fece la sua abituale dimora nel maniero, come egli lo chiamava ridendo, della pupilla, continuandovi da gran signore la filantropia che da secoli facea benedetta la nobile famiglia. Ma troppo presto per quei terrazzani Maria si fe’ sposa, il conte ritornò per sempre in città, e allora Santo Fiore rimase sotto la giurisdizione di un segretario, il quale, naturalmente, non poteva largheggiare in opere buone, come avevano usato i padroni. Da tutto ciò si capisce con quanta contentezza vi fu accolta Maria al suo ritorno. Fu accolta con una vera festa di popolo: una di quelle feste spontanee, sincere, espansive, dove non sono i questurini travestiti che dànno l’intonazione agli evviva, dove il telegrafo non raddoppia le chiamate al balcone e dove, finalmente, l’ispettore di pubblica sicurezza non trema che il consigliere delegato venga a sapere, dai rimproveri del prefetto, che al signor ministro parve quell’entusiasmo inferiore al prescritto. Maria era stata ricevuta alla stazione dal parroco, dal sindaco, che era suo fittaiolo, dai ricchi e dai poveri del paese; e mentre saliva sul carrozzone del nonno, tutti volevano salutarla, facevano meraviglie e moine a Lalla che sapeva darsi una certa arietta, e cercavano di stringere la mano a miss Dill, che non avevano mai veduta, e che rispondeva con smorfie, trovando, nel suo sentire d’inglese, quel baccano di pessimo gusto. Il cocchiere dall’antica livrea non era l’impettito auriga superbo, arcigno, pretenzioso, che anticipa dalla cassetta le borie di chi sta in carrozza; ma invece era un vecchietto gaio, lindo, arzillo, il quale aveva servito alle nozze del conte Giovanni e veduta nascere Maria. Anche lui, rimasto sempre a Santo Fiore, contento come una pasqua dell’avvenimento insperato, faceva andare i cavalli con un trotto limitato, ammiccando alla buona i conoscenti, che vedeva alle finestre, come per dir loro: — È qui, è venuta, è tornata finalmente, la padroncina!... — Maria aveva avuto un bel crescere, maritarsi e far figliuoli; il buon uomo la chiamava ancora, come l’aveva chiamata sempre, — la padroncina. — E ciò per la consuetudine di tanti anni, ma più forse, per un delicato riguardo che quel cuore onesto conservava alla defunta contessa, la madre di Maria, che nella rozza devozione del servo, anche morta rimaneva sempre la buona padrona che governava dall’alto su quella casa. Luigia e Lorenzo venivano dietro in un’altra vettura, tutti e due storpiando un toscano sui generis col castaldo, che li guardava sbalordito e in soggezione. Sui muri erano stati affissi in carte rosse, verdi, gialle, come gli avvisi dei teatri, sonetti e madrigali, composti dal figlio del segretario comunale, un ragazzotto pieno di genio, che aveva studiato nel ginnasio della vicina città; e alla sera poi la musica dei dilettanti suonò sotto il portico della villa il Miserere del Trovatore, un coro del Nabucco e la Stella confidente. Ma poi, dopo quel baccano d’un giorno, non ci furono altri divertimenti a Santo Fiore; nè gli abitanti del piccolo villaggio potevano offrire a Maria un elemento ai colloqui piacevoli e alle possibili famigliarità. Il sindaco, il medico, il pretore, lo speziale erano tutte brave persone, le loro donne svelte e chiacchierone, ma non possedevano certo le qualità volute dall’indole fine e dai gusti aristocratici della duchessa d’Eleda. La muta del filugello, la caccia, la veste o il ganzo di una comare, le novene e le recite dei Due Sergenti prestavano l’argomento a tutti i loro pettegolezzi, dal primo all’ultimo giorno dell’anno. Però la distanza che separava il villaggio dal Palazzo dei Signori, era enorme, quantunque la duchessa facesse del suo meglio per accorciarla. Solo don Gregorio, il vecchio parroco, il maestro d’una volta e il confessore di Maria, era tal uomo che alla bontà dell’animo accoppiando una coltura non comune, riusciva l’amico diletto, la compagnia cara e cercata dalla giovane solitaria. Ma don Gregorio era molto innanzi cogli anni; i mille acciacchi della vecchiaia lo tenevano prigioniero rassegnato tra i quattro muri della sua cameretta, ed era miracolo se qualche volta, quando la giornata era tepida, poteva trascinarsi fino al Palazzo. Per questo appunto la curia gli aveva concesso un coadiutore in don Vincenzo, pretucolo grasso, bracato e piaggiatore, il quale menava la vita facendo della mensa un altare, e dell’altare una mensa. Costui divenne lo spavento di Maria, con quel tabacco e con quel sudiciume!... Invece miss Dill, quantunque da buona inglese la propriety l’avesse sempre in bocca, sentiva per lui una grande predilezione. Ma il prete aveva il merito di darle sempre ragione; poi la inchinava, quanto gli permetteva la pinguedine, con ogni sorta di salamelecchi: e non appena vedeva entrare in chiesa quella figura bizantina, le mandava subito lo scaccino con una sedia imbottita ed uno sgabello per posarvi su i piedi; due piedi al doppio del naturale. Anche Lalla lo vedeva di buon occhio, chè don Vincenzo era un ammiratore entusiasta della sua devozione, dei suoi talenti, della sua grazia; per altro lo derideva anche sovente, e si divertiva dal giardiniere e dal castaldo, contraffacendone la voce nasale, il collo torto, le cupide occhiate agli intingoli e lo scoppiettar della lingua contro il dotto palato. Un altro che frequentava il Palazzo era Sandrino Frascolini, il figlio del segretario comunale, il piccolo Dante di Santo Fiore, e predestinato già, col tempo, a recitar lui la parte di uno dei Due Sergenti; ma anche con Sandrino, dopo le solite parole, se Maria avesse voluto continuare a discorrere, avrebbe dovuto rifarsi da capo. I forestieri poi che arrivavano non avevano a litigar per il posto: il conte Eriprando, ammalato di gotta, non si poteva muovere; amiche, Maria non ne aveva, amici ce n’era stato uno soltanto, e non c’era più. Dunque era sola, sempre sola. In quanto a miss Dill... la rigida signora, invece di uno svago era un incubo. Nata da ricca famiglia di commercianti, alcuni rovesci finanziari l’avevano ridotta a dover cercarsi un posto per vivere; a dover servire: ma orgogliosa e bigotta, alla sventura non si era piegata con rassegnazione. Esigente, dura con gli inferiori, era cavillosa nel difendere le proprie prerogative e piena di sospetti, di diffidenze verso i padroni. Confondeva la dignità colla superbia, e segretamente invidiava la signora fino a volerle male. Riceveva da lei un regalo?... la duchessa non riusciva mai a darglielo in modo da non aggravare il peso della sua condizione. Un giorno, forse sopra pensiero, Maria non trattava l’istitutrice con tutti i riguardi? Miss Dill allora preparava uno scoppio, e lo preannunciava con musi lunghi che duravano per settimane di seguito, e un dolor di capo tanto fastidioso e tanto incomodo per tutta la casa, da spaventare colla sola minaccia. Se Maria in quei giorni avesse aperto il pianoforte, bisognava non aver cuore per tormentarla così; se Lalla faceva i gradini della scala a due a due, era come sua madre anche lei, senza cuore. Maria, per distrarla, le ordinava di uscire in carrozza? Voleva ucciderla. Non la faceva uscire? Le negava di prendere una boccata d’aria. La passera mattugiola pigolava sulle finestre? Lorenzo, Ambrogio, dovevano correre con lo schioppo a spaventarla; ma se il colpo partiva, miss Dill cadeva in convulsioni. La duchessa, certe volte, si trovava a due dita di perdere la pazienza; ma poi, stimando che quella ferrea natura e inflessibile fosse necessaria coll’indole vivace della figliuola, ne sopportava i difetti e le bizzarrie. Lalla, malgrado le cure assidue della mamma, cresceva con un certo temperamentino da mettere un po’ in apprensione. Maria era costretta a conservare sempre con lei una severità inalterabile, che impediva la tenerezza e la confidenza, mentre fra la signorina e la miss covava una guerra sorda, nascosta, ma altrettanto accanita. Uno dei maggiori difetti di Lalla era la simulazione; quella testolina capricciosa non era mai capace di dire la verità. Nei suoi trasporti infantili c’era sempre finzione od esagerazione. Esagerava il fervore delle pratiche religiose, la paura del castigo, le carezze che faceva alla mamma perchè le perdonasse i capriccetti e le scappatelle. E però, tutto ciò sommato, faceva sì che Maria fosse condannata alla più penosa solitudine: la solitudine nella famiglia. A distrarla, o a consolarla, non contribuivano certo le visite, frequenti da principio, poi fatte più rare, di Prospero. In quelle occasioni tutti i preti del vicinato erano a pranzo al Palazzo. Miss Dill allora faceva la garbata con don Vincenzo, e Lalla, che ricominciava a sentir la smania di attirarsi l’attenzione del pubblico, aveva sempre pronto qualche digiuno, qualche fioretto alla Madonna, che la faceva ammirare, e quasi santificare in anticipazione, da tutti quei reverendi con la bocca unta. Fosse per le forti attrattive del frutto proibito, o fosse anche perchè avesse finalmente aperto gli occhi su quel che era Haute-Cour, il fatto sta che il prurito della coniugale riconciliazione durava acuto, insopportabile, fra carne e pelle, al duca d’Eleda. Ma sua moglie, che lo accoglieva sempre colla più schietta cordialità, gli teneva chiusa tuttavia, e inesorabilmente, la sua cameretta; una camerettina elegante, profumata come il nido della capinera, dove, tra le spesse cortine, spuntava fuori un lettino breve, piccolo, tutto a pizzi e a ricami, un lettino candidissimo, da educanda; e il duca d’Eleda, che per quella cameretta avrebbe rinunziato con tutta l’anima a ben più vasti dominii, arrivato a Santo Fiore gaio e cerimonioso, ripartiva poi con un palmo di muso, borbottando il solito ritornello: — La maledetta non ha sangue; è una donna di ghi-ghi-ghiaccio!... Allora, per vendicarsi o per distrarsi, ritornava più accalorato presso la Haute-Cour, lusingandosi che sua moglie notasse come a lui, spento il focolare domestico, riuscisse facile di riscaldarsi ugualmente. Un’altra visita che Maria sopportava con rassegnazione era quella del marchese di Vharè. Costui, d’un marchesato un po’ dubbio, aveva i suoi possedimenti nelle vicinanze di Santo Fiore, e a Borghignano teneva casa: dissipatore vizioso, l’inverno, anzi quasi tutto l’anno, egli viveva a Monte Carlo, e solamente quando la roulette gli faceva le corna, rimpatriava per cercare un’ipoteca o per vendere, affettando un disprezzo olimpico per la provincia e i suoi abitanti. Non toccava ancora i trent’anni, eppure contava già molti debiti e parecchie di quelle avventure che in provincia appunto si chiamano scandali, e alla capitale des bonnes fortunes. Quantunque per altro egli fosse il babau dei mariti e dei padri, i buoni e pacifici borghesi provavano un senso di meraviglia e sgranavano gli occhi dinanzi al bel marchese apocrifo, elegante, freddo, epigrammatico, che in una notte, sulla rossa o sulla nera, sapeva perdere, senza tirare un accidente, qualche decina di mille lire, fossero magari dei creditori. Si sarebbero ben guardati dallo scontargli una cambiale: ma si compiacevano di essere con lui in buoni legami d’amicizia, e i pochi fortunati cui era concesso dalla sorte di dargli del tu, quasi se ne gloriavano, e incontrandolo per istrada lo salutavano con un ciao, gridato da un marciapiede all’altro, ciao, che suscitava invidie. Contuttociò la gente per bene, che non mancava nemmeno a Borghignano, lo stimava secondo il merito; e primo tra quelli il conte Della Valle; tanto che ormai tra di loro un po’ di ruggine c’era, e davvero fu un contrattempo che Giorgio lo incontrasse a Santo Fiore. Ormai otto o nove mesi erano scorsi dall’improvvisa partenza di Maria, e Giorgio non l’aveva più riveduta e anche le notizie gli mancavano affatto; egli le aveva scritto, ma senza averne risposta. Sua zia, la Castiglione, aveva sempre l’incarico di salutarlo e di ringraziarlo da parte della duchessa d’Eleda. Questo silenzio gli pareva troppo nuovo per non recare anche un po’ di meraviglia oltre al dispiacere. Maria alla fine era stata per lui come una sorella e gli era cara come una sorella. — Che cosa mai le ho fatto — pensava Giorgio — per essere trattato in tal modo? Sarò stato forse troppo vivace nel difendere Prospero; ma doveva capire che parlavo sempre a fine di bene. Basta, andrò a Santo Fiore, e Maria dovrà spiegarsi. — E allora, dovendo egli recarsi a Venezia, per un congresso del Comitato operaio, pensò di fermarsi a Santo Fiore. Maria era nel salotto col marchese di Vharè, quando, prima ancora che Giorgio le fosse annunziato, udì la sua voce: balzò in piedi, corse quasi fino all’uscio; ma intanto che Lorenzo, precedendo il conte, ne diceva forte il nome con quella intonazione particolare di voce colla quale i servi affezionati annunziano una visita che sanno gradita o inaspettata per i loro padroni, ella ritrovò la forza di ricomporsi. Si mostrò gentile col nuovo arrivato; ma lo fu molto più del solito col marchese di Vharè, che non aveva notata la commozione della sua ospite, costringendolo a fermarsi pel pranzo; cosa che spiacque a Giorgio moltissimo. Egli se ne stava ancora mezzo imbronciato, quando il rumore di due o tre usci sbatacchiati con violenza, gli fece indovinare la venuta di Lalla. Lalla, infatti, entrò poco dopo nel salotto, correndo, saltando com’era avvezza; ma appena vide il marchese di Vharè si fermò come interdetta, arrossì vergognandosi, ed ai rimproveri della mamma per quel precipizio, balbettò qualche scusa, mentre gli occhi lucidissimi e il mento tremante mostravano che le lacrime erano lì lì per spuntare. Il Vharè, per difenderla e per confortarla, la prese, chiudendola fra le ginocchia, e le chiese un bacio. Lalla abbassò allora la testolina forte sul petto, e fece un po’ di resistenza prima di cedere al marchese, che con due dita le rialzava lo scaltro visetto, per baciarla sulla bocca; ma, nonostante la resistenza fatta, quando le labbra del giovane toccarono le labbra della bambina, la piccola bocca non restò ferma sotto quel bacio, e lo ricambiò con un sussulto di tutto il corpicino. La crisalide era in via di trasformarsi in farfalla, e le alette, sebbene allora piccolissime, fremevano impazienti di sciogliere il volo. — Guarda, Lalla — disse Maria dolente per il Della Valle che non si vedeva notato dalla bambina; — guarda chi è venuto a trovarci, il tuo buon amico Giorgio. Da brava, sii gentile, dagli un bacino... Lalla rispose appena con un’alzata di spalle. — Non mi riconosci più? — le domandò Giorgio un po’ seccato. — Lalla, su via, obbedisci! — replicò Maria vivamente. Lalla abbassò la testina un’altra volta, allungò il musino, ma non si mosse. — Quando vi dovete mostrare così ineducata — esclamò Maria in collera più di quanto avrebbe voluto esserlo — ritornate subito subito da miss Dill. — Lalla corrugò le ciglia con un atto comicamente feroce, e opponendosi con mal garbo a Giorgio, che voleva trattenerla, corse via dal salotto. — Perchè tormentarla, povera piccina? — disse il Vharè alla duchessa. — Piccina, non è poi tanto piccina. Va per gli otto anni, presto. Il marchese sorrise... il perfido marchese che avea lasciate forti impressioni nel cervellino di Lalla. In una delle sue gite a Santo Fiore, Prospero Anatolio aveva parlato lungamente colla duchessa, a proposito del Vharè. Lalla che da un’ora era occupata nel ritagliare le belle signore del figurino, era là interamente dimenticata dal babbo e dalla mamma, nascosta dietro a un tavolino coperto di fiori e di libri ammonticchiati, e, a poco a poco, la sua attenzione si sviò dalle belle signore e fu invece tutta assorta nei discorsi del duca Prospero Anatolio, dopo aver parlato dei debiti del marchese, raccontava le sue avventure amorose, e tra le altre, il tentato suicidio di un’attrice celebre, la Mirette Croix, gelosa della baronessa Poloniski, sua rivale fortunata. Il racconto piacque tanto alla piccina, che essa da quel giorno scelse il marchese di Vharè per suo sposo, e fu il principe Incantevole di tutti i suoi castelli fabbricati in aria. Però, quando egli era in villa dalla duchessa, e passeggiava in giardino, Lalla prima lo spiava nascosta: poi, tutto ad un tratto, gli appariva dinanzi rossa e balbettante. Quel giorno, durante il pranzo, se Maria e Giorgio le avessero badato, avrebbero veduto il suo visino pallido, cogli occhi grandi, fissi, incantati nel bel parlatore. Ma invece quel giorno Maria avea ben altro nel cuore, e Giorgio era troppo irritato per poter badare a simili bambinate. Giorgio non poteva lagnarsi di nulla: ma ciò non impediva ch’egli fosse malcontento di tutto, e che si trovasse a disagio. Accolto con festa, capiva tuttavia di essere diventato straniero in quella famiglia, e quando egli disse di voler partire la mattina dopo, non fu adoperata alcuna insistenza per trattenerlo di più. Anche l’intimità che vedeva concedere ad un uomo per lui disprezzabile, senza reputazione e senza carattere, com’era il marchese di Vharè, lo irritava, mentre cominciava a essere infastidito dalle durezze e dalle impertinenze di Lalla, che non gli avea perdonato d’esser egli la cagione, sebbene involontaria, del castigo ricevuto. Dopo il pranzo, la serata fu tutta a beneficio del Vharè, che sorretto da un eccellente Bordeaux-Lafitte era riuscito a dimenticare le prossime scadenze e a fare dello spirito: mentre Giorgio annoiato, arrabbiato, aveva perdute tutte le buone intenzioni di spiegarsi con Maria e di riprendere l’intimità di una volta, così che quando, partito il marchese, egli si trovò solo colla duchessa, non iscambiò con lei altro che i soliti complimenti. — Dunque volete proprio partire domattina? — Sì, signora duchessa, col treno delle otto. — Col treno delle otto? Così presto? Non potreste aspettare dopo colazione? — Ne sono spiacentissimo... è assolutamente impossibile! Di faccia all’impossibilità non si fecero altri tentativi, e Maria salutò la sera stessa il suo ospite. — Per Dio, ho fatta una bella gita quest’oggi! — esclamò Giorgio, dando libero sfogo al dispetto, per tanto tempo trattenuto, dopo di essersi rinchiuso, solo, nella sua camera. — Metteva proprio il conto che sacrificassi una giornata di Venezia, per ottenere di questi bei risultati — e, così dicendo, buttò lontano una scarpa che si era levata. — Mah! Le donne?... chi capisce le donne, è bravo davvero! E Lalla?... com’è viziata quella sciocchina! — A questo punto la seconda scarpa raggiunse la prima. — Infine, se Prospero non ha ragione, non ha neanche torto; Maria è senza cuore. In tutto il giorno trattò me, che conosce da vent’anni, come fossi il primo venuto; mentre era tutta smorfie e garbatezze per quel barattiere, per quel marchese da burla, impertinente e sfacciato... Sacripante! ho rotto l’orologio! — Giorgio, dopo essersi spogliato dell’abito, s’era messo a caricare il suo remontoir; ma, accompagnando ogni giro con un movimento nervoso delle dita, terminò a questo punto d’ira crescente, col rompere la molla. — Sapristi!... Prima che capiti un’altra volta a Santo Fiore, deve passare molto tempo! — borbottò, — No, no, lascio libero il campo al bel marchese!... Ma... ora che ci penso, non ci sarebbe pericolo ch’egli fosse più innanzi con la duchessa di quanto si crederebbe?... L’occasione fa l’uomo ladro; la solitudine, la donna facile!... Che! che! nemmen per idea!.. Maria non è altro che un pezzo di ghiaccio! — e così concludendo, il giovinotto, ormai svestito, si cacciò in letto, spense il lume, e ben presto si addormentò. In tutta quella notte chi, passando dal Palazzo dei Santo Fiore, avesse alzato un po’ il capo, avrebbe veduto una finestra illuminata. Come mai? Non c’erano nè poeti nè ammalati là dentro, e faceva un tempo così tranquillo, con una brezzolina fresca d’ottobre, da conciliare il sonno anche alle stelle del firmamento. Chi vegliava, dunque, in quella stanza, e perchè vegliava?... Quella era la cameretta di Maria... Povera Maria! La mattina dopo, prima delle otto, il conte Della Valle era già sceso nel cortile del palazzo e, pronto per partire, accendendo il sigaro dinanzi alla carrozza che doveva condurlo alla stazione: — La signora duchessa dorme ancora, certamente? — domandò al servitore che gli teneva aperto lo sportello. — No, signor conte. La signora duchessa è uscita a cavallo. — Sola? — domandò meravigliato. — Sola, con Lorenzo. — Esce di frequente la mattina? — Quasi sempre, ma molto più tardi. — Uhm!... poteva almeno fermarsi per salutarmi, — pensò Giorgio tra sè; e montò in carrozza, accomiatandosi più annoiato che dolente da Santo Fiore. Appena chiuso nel suo coupé, dove per fortuna si trovò solo, accese una spagnoletta, e, quando il convoglio partì, abbassò i cristalli, aspirò con voluttà l’aria fresca balsamica del mattino, ammirando le praterie verdissime, che passando dinanzi ai suoi occhi parevano descrivere dei semicerchi. — Oh, bella! guarda la duchessa! — esclamò a un tratto levandosi e sventolando il fazzoletto fuori dal carrozzone. — To’, to’, to’, il Vharè è con lei?... solo?... A quest’ora? ma dove diamine hanno lasciato Lorenzo? — e il giovane rimase meravigliato di quell’incidente persuadendosi a dispetto del suo ottimismo che l’intimità di Maria col marchese era, per lo meno, eccessiva. Infatti, sopra un poggio, dietro un filare di platani. Maria e il Vharè, a cavallo, aspettavano il paesaggio del treno. Pareva che là a cavallo tutti e due, tutti e due soli, in quell’ora mattutina si fossero dati una posta; ma invece il loro incontro non era che l’opera innocente del caso. Quel poggio che si chiamava appunto il Poggio dei platani, era adiacente ad una delle fattorie del marchese, dove questi si era recato assai di buon’ora con due periti per fare una stima. — Ohè! la corsa! — esclamò un di loro, quando udì il rumore sordo, monotono che la precede. — Sicuro; è l’omnibus di Venezia. — Così dicendo il Vharè puntò lo sguardo per vederlo passare; ma vide invece Maria, che a briglia sciolta saliva l’erta e penetrava, nascondendosi al di là del Poggio dei platani. — La duchessa? Aspettate un momento, vado e torno, — e l’incorreggibile vagheggino, ch’era pure a cavallo, in due galoppate l’aveva raggiunta. Maria non avrebbe potuto lasciar partire a quel modo il conte Della Valle senza prima concedere a sè stessa di rivederlo ancora, un’ultima volta. — Lo aspetterò là, al Poggio dei platani, — aveva detto tra sè, e con questo patto trovò un po’ di sollievo. Ma adesso, a mano a mano che quel punto nero s’ingrandiva avvicinandosi, un timore, ch’era un’angoscia, le strinse il cuore; e quando quel punto nero diventato un mostro gigantesco, velocemente attraversava la via, il suo timore si mutava in una preghiera appassionata, fervente. — Fate, mio Dio, fate ch’io possa rivederlo, rivederlo ancora per un’ultima volta; — e Iddio, commosso a tanta virtù e a tanto amore, esaudì la poveretta. — Eccolo! è lui! addio, addio, Giorgio, addio! — Duchessa, i miei complimenti! La sua apparizione mi fa pensare a Diana, e al bel tempo antico! — Ah!... lei, marchese!... mi ha fatto paura! Il Vharè lo credette e spiegò colla paura il tremito, il rossore, il seno palpitante di Maria. Lorenzo, i due periti, i contadini, rimanevano intanto nascosti dietro una siepe, nella prateria sottoposta: ecco in qual modo la duchessa d’Eleda e il marchese di Vharè apparvero a Giorgio soli, riuniti come a un ritrovo. Il fatto però, nemmeno per caso, non si ripetè più, nè poteva ripetersi: il Vharè, terminati gli affari, ripartì subito per Monte Carlo, e per molto tempo non ritornò a Santo Fiore. Il conte Della Valle, invece, non si rivide mai più. E questo avvenne per due perchè: perchè glien’era passata la voglia col primo viaggio, e perchè poco dopo, a cagione delle lotte elettorali, si ruppe fra lui e il d’Eleda la buona amicizia. Fu Prospero Anatolio che ne scrisse alla moglie, contentissimo in cuor suo che un tale incidente la allontanasse da Giorgio. Il marito era sempre sicuro, ma così si sentiva ancor più tranquillo. Per altro, anche separato da tanti e insormontabili ostacoli, il cuore di Maria era sempre vicino al giovane amato. Il suo era l’affetto di amante e di madre, un affetto che doveva proteggerla nella vita come la preghiera di un angelo. Tutte le sere Maria aveva un’ora di felicità quando, chiusa nella sua cameretta, leggeva e rileggeva tutti i giornali che parlavano del conte Della Valle, che ne lodavano l’ingegno e il carattere, e se di tutto ciò insuperbiva il sentimento della donna, vedendolo così assorto nel lavoro e nell’affetto del paese, sperava senza confessarlo a sè stessa, sperava la povera gelosa, che non un’altra donna, ma la patria, la patria sola, avrebbe riempito tutto il suo cuore... e allora, dopo tanti dolori e tanto ritegno, finalmente dava l’aire ai pensieri, che, liberi, volavano al suo ideale dorato. Il conte Della Valle, d’animo forte e coraggioso, ripudiato l’egoismo istintivo, gretto, pauroso della sua casta, si affermava da uomo, com’era stato da giovane, sinceramente liberale. Non voleva sapere di pregiudizi, di privilegi e di clericaglia più o meno moderata, e aveva scritto nel cuore Roma o morte!... sante parole, ch’egli ricordava più tardi come un conforto, quando faceva molta poesia anche a proposito dell’Italia irredenta. Insomma Giorgio Della Valle era un rosso; nome col quale si distinguevano allora tutti coloro che più tardi vennero detti radicali; e Maria, sebbene cresciuta in un ambiente tutt’altro che rivoluzionario (anzi la bella duchessa era stata fin allora un po’ codina...), a poco a poco, in quelle sere, diventava una rossa anche lei... XII Sédan s’era già resa; a Porta Pia era stata aperta la breccia; era caduto l’impero Napoleonico; era finito il potere temporale... e in tutta questo gran rumore di avvenimenti il duca d’Eleda aveva perduto la testa e l’equilibrio. Soffriva di vertigini e chiudeva gli occhi, come li chiude il fanciullo impaurito dal bagliore di un lampo, quasi aspettando, da un momento all’altro, il fulmine che doveva scoppiare. Così, a occhi chiusi, il deputato di Borghignano in ogni città vedea la Comune e, dietro le spalle, sentiva gli ultimi crociati discesi per la restaurazione del trono papale. Ma, come appunto quel fanciullo di prima, trovatosi illeso dopo lo scoppio, riapre gli occhi, si guarda intorno e respira confortato, così anche Prospero Anatolio, veduta passar la Comune senza trascinar l’Italia con sè e Vittorio Emanuele salire il Campidoglio senza che la cristianità valicasse le Alpi, pur sempre maledicendo, in pubblico, al partito d’azione, si persuase, in cuor suo, come i clericali potessero vivere ancora e meglio in Italia, che in un altro paese, e non solo vivere, ma chi sa, governare... un dì o l’altro. Passato dunque il periodo più minaccioso, nel suo animo tornarono a galla le personali aspirazioni e ritornò alla Camera col proposito di nuove audacie. Protestò contro i fatti compiuti; ma poi, quando l’arcivescovo di Borghignano volle ch’egli desse un salutare esempio col rassegnare il mandato, il duca d’Eleda, benchè duca, fece orecchie da mercante, ripetendo il ritornello. — Bisogna restare sulla breccia, bisogna sacrificarsi alla causa. — Rimase, e fu l’Orlando delle guarentigie. Per un momento, allora, egli ritornò in auge, e un’altra volta ebbe le sue giornate, se non di gloria, almeno di notorietà e nelle elezioni generali la candidatura del vecchio deputato di Borghignano, sostenuta dai neri del vescovado e dell’aristocrazia, trionfò di tutti gli altri colori. Il 27 novembre 1871 il re d’Italia inaugurava in Roma il Parlamento, e a Roma Prospero Anatolio, che aveva giurato con restrizioni mentali, trovò buon terreno per i suoi cavoli. Tra quei principotti rimasti fedeli al Vaticano, egli recitava la parte del Cittadino di Gand alla rovescia, acquistandosi una qualche importanza coll’autorità dei milioni, dell’influenza politica e dei titoli. Nè gli amori con Renata, venuta a Roma anche lei colla capitale, amori, che la vanità reciproca aveva resi pubblici in Roma, come già erano a Firenze, valsero, in quell’ambiente di corruzione pretina, a farlo scapitare nell’opinione dei più. Prospero Anatolio non si vide in tutto l’inverno a Santo Fiore, e per parecchio tempo, contento della nuova vita, non fece alla moglie che rarissime improvvisate e sempre di sfuggita. La bellezza di Maria turbava ancora, in qualche notte di veglia, il sistema nervoso del duca; ma appunto, siccome le sue preghiere non riuscivano a commuoverla ed il suo male, dopo tali incontri, soffriva di recrudescenza, così, anche per rispetto all’igiene, diradò le visite. Si faceva invece sempre più frequente e più tenera la corrispondenza con Lalla, la quale prodigava al babbo un’affezione morbosa, accompagnata da un grande sfoggio di espansioni. Era nell’indole della signorina di supplire colle apparenze esteriori a ciò che in fondo le mancava: un sentimento sincero; e però, quanto la mamma era fredda e ritenuta, altrettanto alla figliuola piaceva dimostrare calore e gaiezza: il contrapporsi era il suo gusto maggiore, e tanto più se poteva contrapporsi a sua madre. E forse non le importava neppure di fare più così che così; l’essenziale era che tutto il paese sapesse ciò che faceva. Il suo pubblico non poteva essere molto ammodo, ma la piccola donnina esordiente nella commedia della vita, faceva ogni sforzo per istrapparne gli applausi. Non era in età da suscitare intorno a sè rumore d’ammirazione o di scandalo; non avrebbe potuto dominare la moda, nè farsi eroina d’un dramma o d’un romanzo sentimentale; peraltro i suoi trionfi se li cercava e se li guadagnava. Una volta ebbe la soddisfazione di essere citata dal pergamo ad esempio delle giovinette per l’affetto figliale, per le sue penitenze e per i suoi digiuni, con un brano di ghiotta e ben digerita eloquenza che guadagnò a don Vincenzo i rimproveri della duchessa, una lavata di capo da don Gregorio, e le smorfie affettuose dell’istitutrice. Lalla, come non somigliava punto alla duchessa nel viso, così ne differiva nell’animo. Ella era il carattere stesso del duca: lo stesso egoismo, e la stessa leggerezza. Come Prospero davanti a sua moglie, così anche Lalla provava una certa soggezione davanti a sua madre. L’occhio limpido di Maria penetrava, scrutatore molesto e importuno, nella mente e nel cuore della giovinetta; e costei, che si sapeva sicura contro tutti gli altri, sotto quello sguardo si sentiva dominata e, con un certo dispetto, capiva che a sua madre non avrebbe mai potuto darla ad intendere. Il marchese di Vharè, il Principe Incantevole dei suoi primi sogni, essa lo aveva messo da parte. Nel paese c’era un altro bel giovanotto, non nobile e meno ricco (era figliuolo del segretario comunale); ma poeta e filodrammatico; il genio di Santo Fiore. A Sandro Frascolini la gente gli contava le amanti a dozzine. Tutte le più leggiadre ragazze erano sue innamorate; perfino la bellissima Ottavia, la bellezza regina, si comprometteva per lui, cosa che faceva intisichire la moglie del sindaco: e Lalla ebbe per Sandrino un capriccetto. Lalla, nei suoi quattordici anni, non era bella, ma aveva quel tutt’insieme che è più pericoloso di molto, perchè è più raro della bellezza. La piccola duchessina aveva i capelli maravigliosi che a giorni, stranezza, tendevano quasi al biondo, a giorni pareano castagni; e la stessa mobilità negli occhi, che passavano dal cinereo al verde cupo; languidi, appassionati, ingenui, modesti, ora saettavano lampi, ora non esprimevano altro che la più timida verecondia. Snella, magra, di una magrezza flessuosamente voluttuosa, pareva, per l’eleganza del corpo, meno piccola di quanto era realmente. Solo le braccia aveva grassocce e belle con due fossette ai gomiti. Di quelle sue braccia, di quelle fossette, Lalla pareva innamorata, stava ore e ore a sedere sul letto, in camiciuola; piegandole, stendendole, ripiegandole, per ammirarne i contorni e l’azzurro pallido delle vene; poi si cacciava sotto le coltri baciandole con trasporto e con passione; come baciava la bianca Musette, la sua cagnuola cara, che spesse volte si udiva guaire fra le strette nervose della padroncina. Dunque Lalla, pur non essendo bella, poteva piacere assai, e il giovane Frascolini co’ suoi vent’anni e con la conoscenza della vita che s’era procurato, mercè una lunga serie di associazioni alle Letture amene, ne rimase presto ammaliato. I due giovani, nei primi incontri, non avevano sentito il sussulto arcano, il turbamento foriero delle grandi passioni. Niente affatto. Sandrino entrava in palazzo quasi ogni sera, per lo più con don Vincenzo, e si fermava nel tinello colle cameriere che lavoravano in bianco, col Castaldo, e col vecchio Ambrogio. La sala dove stavano le padrone era vicina al tinello, tanto che sovente ivi giungevano le voci dell’allegra brigata e allora molte volte, quando si udiva anche la voce di Sandrino, Lalla e Maria, colla famigliarità solita di chi sempre vive in campagna, andavano di là per pregare il giovane di qualche commissione od anche soltanto per scambiar due parole. Miss Dill, invece, non si faceva vedere in tinello se non c’era don Vincenzo, e uscivano insieme a passeggiare sotto il porticato, o lungo i viali. Il Frascolini, se ci teneva non poco alla sua professione di spasimante, in tutta il resto era un giovane di criterio. Egli non avrebbe neppure sognato che la duchessina potesse diventare sua conquista, o lui viceversa: tranquillo, economo, regolato, tutta l’ambizione la aveva riposta nei Due Sergenti, tutto lo scopo della sua vita era quello di poter diventare segretario comunale, quando suo padre fosse stato messo a riposo, come suo padre lo era stato dopo suo nonno. In quanto alle sue avventure amorose, la cronaca lo faceva più scapestrato che non fosse in realtà: cominciava solo adesso a filare il perfetto amore colla bellissima Ottavia, lusingato da lei; da lei spronato a fare il salto del Rubicone: cioè ad invadere le Provincie appartenenti al proprietario legittimo. Ma il ragazzo tentennava, misurava il fosso e le gambe, e ancora non si era risoluto al gran passo. Santo Fiore in quei giorni era stato colpito da una sventura; il fuoco aveva distrutto alcune casupole di contadini, lasciando nella più squallida miseria molte famiglie. Le pubbliche calamità sono la fortuna dei filodrammatici, e a Santo Fiore si potevano contare le disgrazie succedute in un certo periodo di anni, dal numero delle repliche dei Due Sergenti. Quell’incendio capitava propizio. Aveva fatto chiasso, la stagione era buona, c’era da aspettarsi una piena... Si sa che i dilettanti, come usavano gli antichi Romani, misurano l’importanza dei loro spettacoli dal numero delle vittime. Lalla ancora non sapeva che cosa fossero nè i commedianti nè il teatro, ma la sua curiosità era stata desta dai facili entusiasmi della Pierina e della Nena, le due figliuole del vecchio Ambrogio, una delle quali, la Nena, aveva ottenuto di entrare al servizio particolare della signorina. Già due o tre volte Lalla aveva pregato inutilmente la mamma che le permettesse di assistere ad una recita, e quel no ripetuto aveva cambiata la sua curiosità in un desiderio acutissimo; poi Maria le permise di prender parte alla serata a beneficio dei poveri incendiati; e la sera della rappresentazione, mentre stava preparandosi per andare al piccolo teatrino, le scappò detto colla Nena: — Come sono curiosa stasera di vedere che cosa sa fare il Frascolini! — Eh! caspita! ci metterà tutto l’impegno, con una duchessa in platea!... Basta poi che la bella Ottavia gli lasci il tempo di vederla. — Come?... — Non sa che Alessandro spasima per la sposona dello speziale? — Per quella pretensiosa? — Sicuro; e ha piantato su due piedi la signora Veronica, che dalla rabbia voleva finire come i topi. — La poetessa? — domandò Lalla, sorridendo. — Sì, signorina. Con tutta la sua scienza, era così oca da lusingarsi che Alessandro fosse cotto per lei; con quel muso! Il ragazzo si mostrava compito, si sa bene; la Veronica è moglie del sindaco, come sarebbe a dire del suo principale... — E dunque? — E dunque quando ha capito che la preferita era la bella Ottavia, una domenica dopo la messa cantata, — pare che durante la funzione avesse() scoperto un certo telegrafo fra i due, — si serrò in camera, chiuse le finestre e, detto fatto, ingoiò uno scatolone intiero di fiammiferi!... — Oh! graziosa! — Per fortuna il signor Domenico, non so bene per quali faccende, doveva andare in camera sua; sale, la trova chiusa; bussa, nessuno risponde. Aveva veduto entrare sua moglie poco prima; torna a bussare più forte: lo stesso silenzio. — Che si senta male? — dice fra sè quel buon uomo e chiama la signora Veronica per nome, grida, urla, ma tutto indarno. Allora, spaventato, dà un colpo di spalla e, patatrac, fa saltar l’uscio dai gangheri: mamma mia! il signor Domenico si sente bruciare il naso, la gola, da un odore acre, che toglie il respiro; in camera era buio pesto, ma sul letto vede una luce azzurra, bigia, fumante, tremolare, muoversi, dilatarsi. — Che sia il diavolo?!... — Spalanca con un pugno le finestre e... indovini un po’, duchessina? La fiamma usciva dalla bocca della Veronica tutta impastata di fosforo. Quel mammalucco... — Bada, Nena, è il tuo sindaco! — Scusi del termine; per me dico pane al pane!... Quel mammalucco del signor Domenico si fa portare un secchio di latte, e di sopra e... e di sotto lo fa entrare nel corpo alla moglie! — Ma Sandrino, quando ha saputo la tragedia, che cosa ha fatto? — Che vuole?... Ha dovuto subirle tutt’e due; l’una per amore, l’altra per forza. È pieno di cuore, quel povero ragazzo, e bisogna dire che egli è anche un gran bel figliuolo; ha una carnagione bianca, morbida, come un pan di burro!... Senta, padroncina, non faccio per dire, ma prima di trovarne un altro, bisogna girare tutta l’Italia, e mezza Lombardia! Ma la padroncina s’era fatta seria e non riuscirono a farla sorridere nemmeno gli spropositi della Nena. Il suo cervellino vagava, vagava molto lontano, e per la prima volta considerava Sandrino sotto il nuovo aspetto di conquistatore. Quella cronachetta di avvelenamenti e di gelosie prestava le ali cartilaginose ai nuovi pensieri della giovinetta, e a poco a poco l’oscuro figliuolo del segretario comunale si trasformava in un piccolo eroe da romanzo. Quando Lalla entrò nel teatrino dei filodrammatici, il suo occhio cercò subito la Veronica e la bella Ottavia, e invece di seguire il dramma che si svolgeva sul palcoscenico, per tutta la sera fu assorta nell’altra commedia, appena abbozzata, ma che già la fantasia compiva dei tre noti interlocutori: Alessandro, Veronica, Ottavia. E Lalla era in buon punto per assistere anche a quella commediola. I direttori dello spettacolo l’avevano fatta sedere sopra il seggiolone del sindaco, portato là in mezzo al teatro, apposta per lei. Da un lato aveva la sedia vuota, dall’altro miss Dill, che di tanto in tanto, piegava la testa verso la porta, dove, mezzo dentro e mezzo fuori, c’era don Vincenzo, più unto e più rosso del solito, colla papalina sulle ventiquattro, che faceva il moscardino col brigadiere dei carabinieri, fumando un sigaro in barba ai decretali. Ma durante le situazioni commoventi del dramma, che assorbivano la attenzione del pubblico, penetrava egli, adagio adagio, in mezzo alla folla, e, giunto alle prime sedie, toccava nel gomito miss Dill, offrendole di nascosto la scatola aperta. Miss Dill lo guardava con gli occhi bramosi, e allungava due dita, gialle, che dopo aver deviato sulla mano del prete, si sprofondavano nella tabacchiera. Ma la signorina, non aveva tempo di osservare quelle tenerezze, intenta com’era alle innamorate di Frascolini, sedute l’una di faccia all’altra, ai due lati opposti della platea. La Veronica vestiva di nero; e portava nei capelli il suo mazzolino, ormai caratteristico: quel mazzolino dai sentimentali — non ti scordar di me — ch’essa chiamava: Ferghit menichts. Nell’insieme, la sora Veronica somigliava moltissimo al San Luigi dell’Oratorio, composto di una testa di legno grossa e lunga, color singhiozzo, e di due assicelle in croce, coperte da una tonaca nera. Inseparabile, come il mazzolino, teneva fra le mani, nelle sere di rappresentazione, il libretto dei Due Sergenti, e, sensibilissima, nei momenti che il dramma volgeva al tenero, una goccia gialla le tremolava sotto la punta del naso.., Era una lacrima che la Veronica raccoglieva nel libro con una rapido scrollar della testa. Molte volte, per altro, quella furtiva lacrima era avvertita dalla bella Ottavia, che ne rideva malignamente, ricercandone la cagione in una fistola. Del resto l’Ottavia, un bel biondone davvero, sentiva più disprezzo che odio per la rivale. Fiera della sua pinguedine soda e sana, credeva fermamente che dell’amore se ne comperasse così a un tanto al peso. Guardava dall’alto al basso la sindachessa, con certe occhiate tra la sfida e la compassione, e, guardandola, allargava con le dita gli orli del busto, sempre troppo stretto per contenere le dovizie del seno, che coll’altalena della respirazione faceva soffrire il mal di mare alla fotografia del signor Niso, che luccicava, legata in oro, sulle carni fresche e rosee della sposona. Scarso presidio per quelle alture insidiate! Il Frascolini, anche dalla scena non la perdeva di vista; e quando la tela era calata, si scorgeva dai buchi del sipario il suo occhio fisso guardare, guardare, sebbene qualche volta, per forza si facesse vedere a lanciare un’occhiata assassina anche sull’altra infelice, che allora, allungava il collo voltandosi verso l’Ottavia con una faccia che voleva dire: — Ha guardato me, crepa di rabbia. — Quella corrispondenza d’amorosi sensi veniva poi interrotta, durante la recita, perchè Alessandro temeva di perdere, come si suol dire, la battuta. Assolto dal peccato di origine non c’era proprio malaccio nel giovane attore; a quel tanto che mancava d’arte suppliva coll’esercizio e colla persona maschia e bella. Tutte le contadinotte se lo contendevano, ammirandolo; e intanto celiavano sopra la Veronica e invidiavano la bella Ottavia... e Lalla vedeva quest’ultima insuperbire del suo trionfo. Ma dove Frascolini proprio furoreggiava, era nel finale dell’ultimo atto, dopo la famosa traversata. Compariva sulla scena coi capelli arruffati, il petto e le braccia nude, pallido in volto; e allora col fascino della voce bellissima e della parte da eroe faceva impressione anche su Lalla. — E così, s’è divertita?. — domandava la Nena alla padroncina, mentre l’aiutava a spogliarsi. — Abbastanza. — Ha sentito com’è bravo Alessandro?!... Ha veduto com’è bello?!... E la sindachessa col libretto della lavandaia? Smorfiosa! Ma l’Ottavia non deve aver paura di lei, nè di nessuno: è la più bella del paese. Ha notato come lo guardava?... Pareva lo volesse() mangiare coi baci! — E la Nena continuò sul medesimo argomento fino a che Lalla, volendo troncare il discorso, s’inginocchiò per dire le sue preghiere. — Buona notte, duchessina. Lalla rispose con un cenno del capo, e la cameriera, mentre usciva, vide la piccola devota ripetere tre o quattro volte, rapidamente, il segno della croce, baciare e ribaciare la medaglina della Madonna che teneva al collo. Le orazioni durarono molto tempo; i baci fervorosi furono ripetuti, si segnò ancora prima di coricarsi; ma con tutto ciò la signorina passò una notte agitatissima. La sua mente era presa dal giovane filodrammatico e il sonno tardava a venire. Pensava, con dispetto, alla superba sicurezza dell’Ottavia e alle parole della Nena che l’avevano offesa, quantunque alludessero alla signora Veronica. — Come? — non deve aver paura di lei, nè di nessuno?... — Eppure... eppure, se volessi, potrebbe diventar gelosa di me, la più bella del paese; e che dispetto, quella goffa, dovrebbe allora sentirne in cuor suo!... Ma, e se il Frascolini fosse proprio innamorato?... Che cosa si diranno mai quando si troveranno soli, lui e l’Ottavia? Diranno di volersi bene?... — Come si fa a volersi bene?... — e la mente della giovinetta si affaticava dietro un ignoto pieno di seduzioni nuove e arcane, un ignoto che il sangue cominciava allora a rivelarle. Pareva lo volesse mangiare coi baci!... Un bacio?... — e Lalla baciava e ribaciava le sue piccole mani, le braccia rotonde, per capire cos’erano mai, come potevano essere quei baci che mangiano. Si addormentò alla fine, ma dormì male. Vedeva muoversi una figura di uomo, avvicinarsi e allontanarsi da lei, senza mai sparire. Quell’uomo ora pareva Sandrino, ora il marchese di Vharè, poi di nuovo Sandrino come l’aveva veduto nell’ultima scena del dramma: col petto nudo, colle braccia nude, coi capelli arruffati; e si faceva sovente così vicino, che la fanciulla ne sentiva il tepore. XIII — Bada, Nando, la civetta dà il segno! — diceva, qualche giorno dopo la famosa recita di beneficenza, il Frascolini, juniore, chiuso nel casotto della ragnaia, a un giovane contadinello che gli faceva le veci d’uccellatore. — Bada! Sta attento!... Tira gli zimbelli! Maledetti tordi; che cos’hanno, l’accidente, stamattina, che non voglion zirlare! — E così dicendo, chinato, guardando in tralice dal finestrino, si cacciò in bocca un fischietto, soffiandovi dentro con tanta forza, da diventar rosso, enfiato. La frasconaia s’era messa in movimento: tutti gli zimbelli svolazzavano con voli brevi, continui, e i richiami, chiusi nelle gabbie, tratti in inganno dal fischietto, rispondevano confusamente coi loro canti vari e stonati. — Eccoli!... Son tordi! Tutt’e due, dentro al casotto, alzati a mezzo, non respiravano nemmeno; attenti, fissi, collo sguardo al pertugio, spiavano il momento buono: i tordi saltellando, zirlando, a mano a mano si erano fatti più vicini all’agguato, e Sandro stava già pronto, per dar la tirata, con una mano sulla corda dello spauracchio, quando da un momento all’altro, la civetta dà un inaspettato allarme col chinar del capo, i fringuelli cominciano a spionciare e i tordi fuggono spaventati. — Bestiaccia d’una civetta! Ora vo e le tiro il collo! — Ci sarà certo qualcuno, che viene verso il roccolo — obbiettò Nando, alzandosi ritto per guardare. — Animale! se lo pigliasse il cimurro! — e rapidamente cacciatosi in testa il cappello, Sandrino uscì dal casotto sbatacchiando l’uscio con dispetto, pronto a dire il fatto suo al malcapitato. Ma chi mai avrebbe potuto pensarlo?... Egli si trovò faccia a faccia con Lalla e con miss Dill. — Duchessina, signora miss, è un miracolo, un onore, si accomodino... prego... restino servite. — Il giovinetto, confuso, sorpreso da quella visita che gli capitava per la prima volta, continuava a balbettar complimenti, fermo, impalato sull’uscio, mentre Musette, ch’era pure della comitiva, coi denti gli scoteva i calzoni, dimenando la coda ed abbaiando festevolmente. — Miss Dill, in tanti anni, non aveva mai veduto uccellare, e ci siam presa la libertà di venire; abbiamo fatto male? — Ma che dice mai?... è un onore, un onore grandissimo. Peccato che non sia mattina di buon passo... Entri entrino... Nando, marmotta! pulisci la panca. Compatiranno; si sa bene, se lo avessi saputo prima... ma qui siamo alla militare, sans façon, come si dice!... Miss Dill fece il suo ingresso nel casotto, come sarebbe entrata in una cattedrale; dura, impettita, cogli occhiali sul naso, che arricciò di molto per la puzza di pollina. Lalla, invece, indugiò all’aperto con Sandrino, facendosi dire il nome dei vari uccelletti e chiedendo un’infinità di perchè a proposito degli allettaioli, delle reti e degli zimbelli. Lalla, quel giorno, era proprio carina, carina assai. Indossava un vestitino bianco, succinto, di squisita eleganza. Il collo era nascosto dalla sciarpa di pizzo, il mento quasi sprofondato nel fiocco; in testa un cappello strano, ma di buon gusto... Una specie di panierino capovolto, stretto alle tempie, circondato, quasi coperto da un foulard scarlatto; così che il musetto vispo, furbo, freschissimo, si scorgeva appena. Bene però le si vedevano gli occhi vispi e pungenti di sotto la lunga tesa del cappello. La candida rotondità del braccio appariva, essendo brevi le maniche del vestito, fra i ricami di un mezzo guanto di reticella che, quasi toccava il gomito colle manopole; e il braccio bellissimo si movea di continuo dinanzi agli sguardi di Sandro, avendo la fanciulla qualche nuovo oggetto sempre da indicargli coll’ombrellino. Così avviluppata, quella creatura vaga, flessuosa, sottile, era tutta una seduzione, perchè era tutta un mistero: dai capelli che le scendevano sulla fronte come una frangettina di ricciolini, e dei quali si sentiva penetrante, soavissimo il profumo, fino al piccolo piede che compariva e spariva leggiadramente, chiuso serrato nelle ghette di lino. — Sa?... Temevo quasi di riuscirle importuna. — Come?... lei?... — esclamò il giovane, con stupore. — Alle volte, non si sa mai, avrebbe potuto averci visite, o aspettarne qualcuna. — Visite, quassù, al roccolo?!... — Via... non faccia tante meraviglie; la Nena, sa, mi ha detto tutto. Alessandro stava apparecchiando uno di quei non capisco, i quali, se esprimono il contrario di quello che dicono, servono, nulla di meno, per rispondere qualche cosa, quando opportunamente capitò fuori la miss. — Poveri uccellini — interruppe Lalla, che l’aveva veduta colla coda dell’occhio — poveri uccellini, come devono() soffrire legati a quel modo! — Dal brusco cambiamento della sua interlocutrice Alessandro capì benissimo che non doveva continuare il primo discorso e le fece subito una dissertazione tecnica sulla braca. — Le dobbiamo ancora le nostre congratulazioni per la sera di beneficiata; ma non è colpa nostra... lei non si lascia più vedere. — Bene, bravo; bisogna correggere però il vostro costume dell’ultimo atto. Manca di proprietà; lo ha detto anche don Vincenzo. — È indicato così nella commedia. — Cattivo, cattivo; mi ha fatto piangere tutta sera — continuò Lalla, che non aveva versato nemmeno una lacrima. — Oh! duchessina, si sa bene, da noi, poveri dilettanti, si fa... come si può... — Non le è mai venuto in mente di far l’artista? — A me no — rispose Sandrino — quantunque l’organista mi abbia assicurato che avrei una bella voce da tenore. — Oh, oh, per il teatro ci vuol altro — concluse miss Dill, la quale, per dire gentilezze, parea fatta apposta. — Giorgio il Mulatto di Alessandro Dumas?... è bello? — domandò la signorina entrando nel casotto con Sandro e leggendo il titolo di un libro della biblioteca circolante, rimasto aperto, sopra un palchettino. — Bello o brutto, non fa per lei! — esclamò la miss, strappando il libro di mano alla fanciulla. Lalla, senza scomporsi, osservò, frugò in ogni cantera, in ogni ripostiglio del casotto, domandando conto di ogni particolare, come già avea fatto prima nella frasconaia; ma una cosa la colpì singolarmente e, senza essere veduta dalla miss, colla punta, colla sola punta delle dita, toccando il braccio di Sandrino lo fece voltare dalla parte della finestra; di sopra c’erano scritti pochi versi. — Madama Veronica? — chiese con un garbo pieno di finezza. Alessandro sorrise, arrossì e non rispose: lentamente, a mezza voce, la fanciulla lesse allora questa melanconica strofetta: «Ovunque il guardo io giro Amico mio, ti vedo; E l’ultimo respiro, Lo dici e te lo credo, Non può rapirti a me». — Che cosa succede? Che cos’è questo frastuono? — domandò a un tratto miss Dill, levando il naso dal libro. — Fringuelli, fringuelli di passo! — rispose Nando allegramente. Infatti tutti i fringuelli della ragnaia si erano messi a spionciare con tanta forza da rompere la testa. — Questa volta, qualche cosa si prende! — Oh! bravo, signor Alessandro, bravo! — Lalla, ritornata bambina, batteva le mani dall’allegrezza. — Finalmente! temevo non si prendesse altro che emicrania, con questa puzza! — e, per vederci meglio la miss forbiva il pince-nez col fazzoletto. Tutti tacevano, raccolti attorno al finestrino. Lalla aveva preso sotto il braccio Musette perchè stesse ferma, gli zimbelli ritornarono in ballo: — Zitti, ecco ci sono — e Sandro facendo guizzare, per lo spavento, miss Dill, che non sapeva di che si trattasse, tirò con forza lo spauracchio. — Presi! — gridò Nando correndo fuori del casotto, con Musette fra le gambe. — Aspettate! aspettate! Vengo anch’io! Voglio vedere, povere bestiole! — e la zitellona corse fuori tenendosi alzato l’abito con tutte due le mani. Intanto anche Alessandro era lì per uscire. — Senta — gli disse Lalla all’uscio, fermandolo — può prestarmi questo libro? — e indicava il romanza di Dumas. — Volentieri, s’immagini, quando vuole, duchessina. — Ma non ne dirà nulla nè a miss Dill, nè alla mamma? — No, no... — Viene a casa nostra stasera? — Verrò certo... — Venga, e il libro lo dia alla Nena: ma di nascosto che nessuno lo veda. — Il Frascolini, in quel mistero, in quel primo segreto della giovinetta, non capì nulla, nulla affatto... forse perchè non ebbe tempo per riflettere. Improvvisamente la voce della miss e lo squittire di Musette attrassero la sua attenzione. — Mostro! scellerato! canaglia! Oh, è orribile! — sbraitava l’inglese. Sandro e Lalla raggiunsero la vecchia in quattro salti e la trovarono più verde del solito, gli occhiali per aria, il classico cappellone di sghembo. Miss Dill coll’ombrello picchiava giù botte di santa ragione sulle spalle del povero Nando, il quale, stretto fra la istitutrice e la rete, se le pigliava tutte come trasognato, mentre Musette gli mordeva i calzoni. — Che cosa avvenne? — domandò Lalla, non potendo trattenersi dal sorridere. — Il mostro ha schiacciato, sotto i miei occhi, la testa di quelle povere bestiole!... Ma io ti ammazzerò, brigante! — e la sensibile miss ricominciò le ombrellate. Ridendo, senza più poter trattenersi, i due giovani volevano persuaderla che l’uccellatore non aveva fatto nè più nè meno del dover suo, quando, a un tratto, videro Lorenzo attraversare i campi, correndo, a salti, rovesciando i segnali, calpestando i mozziconi del granoturco e venire dritto nella direzione() della ragnaia. — È Lorenzo quello laggiù? — Sì, mi pare; corre in cerca di noi... — Presto, duchessina, presto! Ritorni a casa; è arrivato il padrone! — Il babbo, il babbo! è arrivato il babbo! — e Lalla, dopo avere abbracciato miss Dill per la contentezza, ed essersi abbandonata a un’allegrezza assai espansiva, si avviò ratto per ritornarsene a casa, avendo peraltro trovato il momento di dire piano a Sandrino: — Si ricordi la promessa. Maria conosceva benissimo quella passeggiata, perchè era sempre minutamente informata di tutto ciò che faceva la sua figliuola, e la circondava di una vigilanza attiva e prudente, senza lasciarla mai in balìa di sè stessa, non essendo miss Dill, per Lalla, altro che una esecutrice scrupolosa degli ordini che riceveva dalla madre. Anche per la gita al roccolo di Frascolini, la permissione l’avevan dovuta chiedere a lei, e lei l’aveva accordata, non vedendoci ragioni per doverla rifiutare. Il Frascolini vecchio era stato un famigliare del conte defunto; il Frascolini giovine era cresciuto, per dir così, nella corte e nel tinello del Palazzo: come supporre dunque che, da un momento all’altro, fra Lalla e lui potessero nascere altre relazioni fuori del profondo rispetto dall’una parte e della affabilità cortese dall’altra? XIV Le visite di Prospero Anatolio a Maria si erano fatte a mano a mano più frequenti. Egli si trovava in un momento di sconforto e di tristezza: di sconforto, perchè come uomo politico aveva fatto un capitombolo; di tristezza, perchè la Haute-Cour era ritornata a Parigi, dove suo marito aveva avuto un impiego importante al Ministero degli affari esteri. L’Onorevole di Borghignano era stato preso dalla fisima di voler creare un nuovo partito politico che dovea intitolarsi Cattolico di Sua Maestà o Conservatore, o qualche cosa di simile. In una parola era uno di quei tanti pasticci dei quali ciascuno mangia una fetta brontolando dopo che si è disgustato la bocca e lo stomaco. I moderati se ne servirono per i loro connubi durante le lotte elettorali: poi lo sconfessarono perchè era un partito anticostituzionale; e i clericali, adoperatolo come mezzo di passaggio nelle pubbliche amministrazioni, non ne vollero poi più sapere, perchè i Cattolici di S. M., riconoscevano il regno dei buzzurri. Credendo di aver innalzato un edificio, Prospero Anatolio non aveva eretto altro che un impalcato che viene demolito appena compiuta la fabbrica. E in quanto alla separazione del duca d’Eleda e della baronessa Renata... fu una grave, una dolorosa separazione, specialmente per il duca. Oltre la perdita della donna, Prospero Anatolio aveva tutte le consuetudini da rompere e da rifare; si trovava sbilanciato, gettato fuori dell’orbita, privo del centro di rotazione, dove la sua vanità poteva sfoggiare tutti i suoi apparati, dove egli passava ed era fatto passare per un grand’uomo, e dove le sue idee, le sue aspirazioni, i suoi gusti trovavano sempre una corrispondenza simpatica. Adesso, e a quell’età, come avrebbe potuto sostituire la Haute-Cour?... Non c’era più che sua moglie: e a tal uopo egli andava e tornava assiduo, persistente, a Santo Fiore, alleandosi quel buon don Gregorio, il quale, pover’uomo, circondato, abbindolato con ogni arte, era rimasto preso dalla diplomazia e dalla politica del duca d’Eleda, che per la prima volta, fra le tante, era riuscito ad ottenere un buon successo. Nulla di meno la posizione rimaneva sempre la stessa; e anche quest’ultima visita era terminata col malumore di Prospero. Quella sera, dopo la partenza del babbo, Lalla era nel salotto rincantucciata nella poltrona, spettinata, cogli occhi e il naso rossi, tutta avvolta nello scialle, perchè sentiva, o almeno dicea di sentire, quei brividi di freddo che corrono fra carne e pelle, dopo un pianto dirotto. Ma, mentre tutte le altre volte in simili casi usava di ritirarsi per tempo, quella sera invece ai fermò dopo il pranzo, e quando udì la nota voce di Sandro diede una scappatina in tinello, dicendo alla mamma che lo volea pregare di serbarle vivo il primo cardellino maschio che gli capitasse in ragnaia. Il cardellino, naturalmente era un pretesto; ma da ciò non è lecito supporre che l’amicizia fra i due giovani fosse in così breve tempo diventata più intima. Sandro era ancora le mille miglia lontano dall’immaginare la fortuna, o la disgrazia, che lo aspettava. Se non che da quel giorno i discorsi della signorina lo impacciavano; erano sempre pieni di frizzi, di allusioni ai suoi amori, allusioni e frizzi che lo facevano poi andare in bestia contro quella chiacchierona della Nena. Quando Lalla lo pregava di alcune commissioncelle, compere di lana, o di lapis, o di carta per il disegno, nelle gite che egli frequentemente faceva in città, o quando si tramava qualche clandestino passaggio della biblioteca circolante — basta — soggiungeva Lalla — basta che la signora Ottavia non se n’abbia a male; — oppure: — mi raccomando, non lo sappia la signora Ottavia, se no mi leva gli occhi! Il giovinotto restava muto, e arrossiva; ma pur si sentiva lusingato della buona opinione che Lalla aveva di lui. Quella parte di seduttore fortunato non gli spiaceva punto. Ma le cose, intanto, non progredivano; l’amicizia era stazionaria, ci voleva una qualche occasione: e poichè l’occasione non manca mai di venire, quando c’è chi la vuole, così capitò anche al Frascolini, la sera stessa che si maritò la Pierina, la sorella della Nena, l’altra figliuola di Ambrogio. La duchessa d’Eleda, che aveva fatto tenere a battesimo la Nena, fece anche cresimar la Pierina. Ambrogio, a Santo Fiore, s’era guadagnata una condizione intermedia fra il pensionato e il servitore. Era l’unica persona, quel vecchio, che a Maria ricordasse sua madre, la povera contessa, la quale, paurosa dei cavalli com’era, non si fidava che di lui solo, e quando usciva in carrozza, non voleva saperne d’altro cocchiere. Ambrogio, entrato fanciullo in palazzo, s’era ammogliato là dentro; là dentro aveva veduto crescere le sue figliuole; là dentro moriva rispettata, soccorsa, la sua compagna, e anche lui non ne sarebbe uscito che per andare a raggiungerla in camposanto. Maria, che per tutto ciò gli voleva bene, non solo aggiunse del proprio alla piccola doterella della Pierina, ma le regalò un buon corredo, e volle che la sera degli sponsali si facesse il rinfresco in una stanza del palazzo — uno stanzone grandissimo, a terreno, che metteva in giardino — e finalmente con una finezza di sentire che fece piangere il buon uomo di commozione e d’orgoglio, volle che sua figlia e miss Dill assistessero alla piccola festa. Dagli sposi e da Ambrogio erano stati invitati al rinfresco il sindaco con la sua signora, don Vincenzo, padre e figlio Frascolini, il medico condotto, il farmacista e la Ottavia. Tutti costoro, in certo modo, rappresentavano le autorità, la parte eletta della riunione, quantunque anche il cuoco, la Luigia e Lorenzo, avessero molte pretese. L’ampio locale era abbellito con frasche di semprevivi, con tappeti e con tende, vecchie e stinte, che di sera facevano ancor buona figura, ed era illuminato da lucerne di diverse epoche e di diverso sistema, candelabri scompagnati alti e bassi e, all’intorno, attaccati al muro con cordicelle, a due a due, tutti i fanali delle carrozze, lustri e belli che parevano di argento. Il rinfresco doveva consistere in una focaccia, paste, caffè, liquori, vino rosso, Asti spumante e castagne a lesso e arrosto; ma il cuoco, d’accordo colla Luigia, aveva preparato una sorpresa; il suo regalo di nozze agli sposi; un enorme tacchino farcito() e un croccante, rappresentante la torre di Sebastopoli, che teneva chiuso fra le mura il solito canarino. Don Vincenzo, richiesto, aveva ceduta per la festa e fatta trasportare a proprie spese la spinetta del Coro, e l’organista, che era anche maestro di scuola, veterinario, amico del sindaco, di Ambrogio, del signor Niso e nemico dichiarato del medico, suonava, con maggiore agilità in chiave di violino che in chiave di basso, il valzer, la polca, la mazurca, tutto a tempo di marcia, per non generar confusioni. La Pierina era vestita di bianco, come una sposa di lusso. Quel vestito era un regalo della padrona, uno de’ suoi rifiuti, che la buona ragazza avea messo da parte per tirarlo fuori appunto il dì delle nozze, e pareva nuovo, così attillato a quel suo corpo fiorente, dal quale traboccavano felicità, amore e salute. Quella però che più di tutte spiccava per la eleganza e lo sfarzo era la maestosa moglie del farmacista, con un bell’abito nuovo fiammante, lana e seta, color sangue di drago, scollato, da far vedere certe cose di cui Giunone sarebbe rimasta invidiosa. Il sesso maschile le era sempre vicino, d’intorno, di dietro, davanti, con un orgasmo, un calore, che veniva tutto da lei. Don Vincenzo; il quale con miss Dill sembrava prediligere un altro genere di bellezza, pure le discorreva serrato alle sottane, col naso rosso, le labbra tremanti e, se abbassava gli occhi sovente, non è che guardasse per terra. Tutto questo entusiasmo, mentre indispettiva e faceva allungare il muso a Sandrino, sollecitava invece l’amor proprio del signor Niso, più rifinito, più sfrittellato, più malandato del solito, il quale, in un cantuccio della tavola, pelava un piatto di castagne lessate, colle unghie orlate di nero, che ricordavano tutti gli empiastri della farmacia. Ed egli le pelava, quelle bollenti castagne, le pelava con ogni cura, poi le infilava colla punta del coltello e le offriva in giro alle signore. Di tanto in tanto l’Ottavia, quella sera tutta moine e carezze con lui, per ricompensarlo della spesa dell’abito, gli passava da canto, allargava la bocca, e il signor Niso v’introduceva una tigliata, scoccandole dopo qualche buffetto sull’abito per far cascare le briciole di focaccia o di zucchero, che vi s’erano fermate sopra; e, quand’ella si allontanava le teneva dietro cogli occhi, sospeso, col coltello nell’una mano e la castagna da pelare nell’altra, e pareva, dall’espressione del viso, che egli rifacesse mentalmente la somma di tutto quanto gli era costato quell’abito, di fattura, guarnizioni, fodere e stoffa. Ma non era l’egregio farmacista, era piuttosto la signora Veronica quella che più si doveva compiangere. Quasi non bastasse per la sua piena sventura la stoffa lana e seta, color sangue di drago, c’era di più il Frascolini, geloso e attento all’Ottavia, e che non aveva ballato o discorso con lei neppure una volta; trascuranza proprio imperdonabile, stata notata con dispiacere anche dal signor Domenico che ne fece le proprie lagnanze con Frascolini padre, nella sua triplice qualità di marito, di amico e di sindaco. Anche il canarino, il canarino prigioniero nella torre del croccante, giocò alla signora Veronica un tiro birbone. Appena demolita Sebastopoli, l’uccelletto, fra le risa e le grida dell’allegra comitiva, uscì vivo di sotto i minuzzoli e andò a svolazzare attorno al soffitto. Allora gli uomini, che volevano lasciar la mano alle signore, rimasero fermi, mentre la parte gentile della brigata, in sciame, correva di qua e di là, perseguitando l’innocente volatile, spaventandolo coi fazzoletti, o colle bucce delle castagne, quando si fermava sui quadri, o sulla cordicella dei fanali, o sullo stipite delle porte. Solamente la sposa, che approfittava della confusione generale per lasciarsi prendere qualche piccolo acconto dal marito, e la bella Ottavia, che temeva sciupare la veste in quelle strette, si tenevano discoste, attente allo spettacolo. Il povero canarino aveva già corsa tutta la stanza, in giro, un centinaio di volte; ma dàlli e dàlli, chi la dura la vince; colpito in mezzo al corpo da una castagna, precipitò dritto in un angolo, rasentando il muro, sfinito, con le ali aperte, distese. La Veronica, ansante anche lei, e colla gocciola al naso, gli si avvicina piano piano, in punta di piedi, fa cenno alle compagne di scostarsi, e gli è addosso col fazzoletto, ma il canarino trova il verso di fuggire ancora, e volando di traverso, passa così vicino all’Ottavia, che lo prende di colpo, con tutte due le mani. Il baccano fu indiavolato, lo schiamazzo assordante, e le più sfacciate allusioni non rispettavano nemmeno la veste di don Vincenzo; mentre la Veronica diventava verde dalla rabbia, Sandro diventava pallido per il dispetto, e saliva un pudibondo rossore sulla fronte onorata del signor Niso. Lalla e miss Dill si recarono dagli sposi dopo che Maria era andata a dormire, e ciò per non lasciarla sola tutta la sera, e per non mettere in soggezione gli ospiti, finchè mangiavano il tacchino e il croccante. Infatti, quando si presentò la duchessina coll’istitutrice. la brigatella si mostrò un poco intimidita e vergognosa: nessuna sapeva più come muoversi, nè quali discorsi incominciare e i più arditi tentavano appena una scempiaggine a mezza voce, coll’aria di voler dire: — Guardatemi, che io non soffro di soggezione! — Soltanto la Nena e la sposa, l’una per dimestichezza, l’altra fatta ardita dalla felicità che le schizzava dagli occhi, furono attorno, con ogni festa, alle due signore, mentre Ambrogio guardava fra le lacrime la figliuola della sua padroncina, la guardava con le mani giunte, come la Madonna, povero vecchio, senza essere buono d’infilare una parola sola di tutta la grande poesia d’affetti che gli prorompeva dal cuore. Il sindaco, che altre volte si era trovato con Lalla, fattosi animo, ruppe il ghiaccio, e presa per mano la Veronica, con un discorsetto di circostanza la presentò alla duchessina; cosa che il signor Niso non ebbe mai il coraggio di tentare, quantunque vi fosse spinto dall’Ottavia con certi pizzicotti nelle braccia da lasciarvi il livido. Lalla fu amabilissima colla Veronica, forse per mortificare quell’altra, e si congratulò con lei per i bellissimi versi che la sindachessa aveva dati alle stampe in onor della sposa; versi che incominciavano così: — Bella, immortal, benefica — fiamma ai tormenti avvezza... Questa fa l’unica soddisfazione ch’ebbe la Veronica in tutta la sera; ma fu per altro una grande soddisfazione! Intanto, a poco a poco, l’affabilità e la scioltezza della signorina avevano rimesso il buon umore nella festicciuola. L’organista, che aveva approfittato dell’interruzione per rifarsi col vin rosso e coll’Asti spumante, ricominciò, sulla spinetta, una mazurca strisciata. Lalla e la miss, ci s’intende, non presero parte al ballonzolo, e anche don Vincenzo, che si era dato al serio, stava seduto vicino a miss Dill e le faceva una corte silenziosa, interprete e complice la tabacchiera. Ma tuttavia, se il reverendo poteva rinunciare alle occhiatacce sull’Ottavia, non sapeva dividersi da quel vinello rosso, limpido, abboccato, con una punta di sale, e, colla scusa di offrirne alla miss, se ne teneva sempre accanto un vassoio coi bicchieri colmi. Le coppie che avevano cominciato a muoversi composte, serie ed attente, volendo mostrare alle signore la loro singolare perizia, terminarono presto, eccitate dal calore del vino e dall’ardore dei sensi, a ballare per il piacere di ballare e di stringersi, a suono di musica. Composta, grave, arcigna, la signora Veronica, col suo vecchio vestito di seta nera, ballava col signor Francesco, il cuoco della duchessa, tenendosi impettita e impalata dinanzi al ballerino, col mazzetto di Verghiss che le batteva il tempo sul capo, serrata nell’abito fino al mento, perchè non potendo, pur troppo, essere impudica, come quella sporca dell’Ottavia, si sfogava sfoggiando il suo permaloso pudore di donna magra. Il signor Francesco le insegnava il modo di montare la crema e di farla spumante; ma la donna istruita aveva ben altro da osservare; teneva fissa la coda dell’occhio, augurandosi fosse avvelenata sopra Sandrino e quell’altra che, così stretti, riscaldati dall’alito e dall’ardore reciproco, avevano rifatta la pace e si scambiavano torrenti di voluttà cogli occhi, colle mani, colle ginocchia, dimentichi affatto del mondo e del signor Niso, il quale, per incarico avuto da Ambrogio, preparava lo zucchero nei bicchierini del punch con parsimonia e giusta misura. Sandrino e l’Ottavia formavano la coppia più scandalosa; peraltro dopo quella degli sposi, che ballavano sempre insieme, che perdevano il tempo spessissimo, e allora, vergognandosene, fuggivano a nascondersi, non si sa dove, per riapparire poco dopo, l’uno dietro all’altra, lui pallido, lei rossa rossa, spettinata e coll’abitino bianco sgualcito, rincantucciandosi quieti vicino al dottore, intento nel raccontare a Lorenzo le sue gesta del quarantotto. Lalla per forza aveva dovuto accettare da Ambrogio due dita di vino santo, vecchio di dieci anni e, non essendoci abituata, le ronzava nella testa e nelle orecchie, mentre si sentiva bruciare la faccia e la gola dall’afa, dal caldo che faceva là dentro. Tutte quelle persone le passavano dinanzi confusamente; ma le libere carezze degli sposi, la voluttà acre di Sandra e dell’Ottavia, dovevano per forza colpire anche i sensi della fanciulla. E la Nena le sussurrava all’orecchio e la faceva osservare i due gruppi. — Ma che cos’ha, padroncina, sta poco bene?... — No... un po’ di caldo!... — Ha ragione, qui dentro si soffoca; faremo aprire. Babbo... — e la Nena corse da Ambrogio, il quale, quando seppe che la padroncina aveva caldo, non domandò il permesso a nessuno e spalancò tutte le porte. L’aria pura che invase la stanza fu accolta con un grido di gioia, e le coppie dei ballerini uscirono fuori sparpagliandosi sotto il portico, e lungo i viali, in giardino. Era una sera punto fredda; c’era del resto tanto amore e tanto vino in quella gente, da sentir caldo anche sotto la neve. Soli, nello stanzone, rimasero la Veronica e il cuoco. La fiera sindachessa non lo lasciava più scappare, sperando di renderne geloso il Frascolini, che passeggiava a braccio dell’Ottavia, superba di lui e del fru fru cadenzato del suo strascico sangue di drago. Ma il signor Niso aveva finito lo zucchero, le castagne eran tutte pelate, e, tanto per non stare in ozio, imbacuccato, venne fin sulla porta ad ammirare la moglie. — Quel seccatore mi tiene d’occhio — disse l’Ottavia all’amico; — abbi pazienza, vo e torno. E con la maestà che le era particolare, si avvicinò scodinzolando al marito, pregandolo con una carezza di annodarle dietro la vita lo scialle con cui si era coperta. Sandrino intanto, non sapendo che fare, andò in cerca della duchessina, che del resto aveva già profondamente riverita al suo primo apparire. Essa, miracolo, non aveva miss Dill alle costole. L’inglese cominciava a soffrire d’emicrania, a star chiusa, e, per riaversi, passeggiava con don Vincenzo in giardino... Lalla, senza udire le parole, aveva indovinata la manovra dell’Ottavia, e perciò si sentì pungere vedendo che il giovinotto la faceva servire da comodino. — Bravo, signor Alessandro!... nemmeno un giro di polca! — Se mi fossi appena immaginato ch’ella si potesse degnare... — Via, via, non dica bugie; per me non c’è tempo! — Scherza, lei, scherza... ha sempre voglia di scherzare... — Ma, intanto, nemmeno un giro di polca; e questo è un fatto vero. — Le ripeto e le giuro, signora duchessina, se io avessi supposto, solamente supposto la sua degnazione, sarei stato tanto felice che... — No, no; era felice abbastanza, per non voler esserlo di più. Quelle due dita di vin santo non erano ancora svanite dalla testolina di Lalla, e le davano ardire, quantunque, per sua natura, non ne avesse bisogno. — Ma non sa, signorina Lalla, che per ballare un giro di polca con lei farei voto, come Tristano di Rocca Bruna — era questi un eroe sentimentale le cui imprese, ridotte in cinque atti, erano destinate a succedere, un giorno o l’altro, nel teatro di Santo Fiore, alle lacrimevoli vicende dei Due Sergenti — farei voto di non ballare mai più, mai più, per tutta la vita? Lalla, a questa scappata, rispose ridendo con un riso lungo, fresco, sonante. — Vorrei quasi provare per vederla in un bell’impiccio. — Ebbene, provi dunque: io le giuro di mantener la promessa. — E il giovane con la testa in fiamme per aver bevuto un po’ troppo anche lui, per il caldo, per il lungo contatto coll’Ottavia, ma più che altro per l’influenza arcana esercitata dallo sguardo vivo, appassionato, ammaliante della fanciulla, e da quella sua personcina carica di elettricità, sentiva, con quel giuramento, di essere quasi sincero. — Ma... e la signora Ottavia? — La signora Ottavia?... che c’entra? — No? non c’entra la signora Ottavia? davvero davvero?... Vediamo, dunque, ecco la destra, bel cavaliere, il giro di polca è concesso; ma non qui... no, no; laggiù sotto la rotonda, in giardino! — e la fanciulla si avviò di corsa, e Alessandro dietro, lungo i viali dei carpini, interrotto nel mezzo da un pergolato di glicine, eretto sopra la statua di una Cerere di marmo bianco. Lalla, correndo sempre, era già alla rotonda, quando si fermò di botto, indicando al compagno d’inoltrarsi adagio e di non pestar sulla ghiaia: Sandrino, trattenendo il respiro, la raggiunse in punta di piedi. La notte era chiara e serena; la luna pallida senza nubi e senza nebbia. — Guardi, guardi là, dietro il rosaio... la Pierina! — Alessandro guardò: dietro una siepe di rose selvatiche vide una figura bianca e, più su, il disegno tozzo di un cappello da uomo. Gl’indiscreti, pian pianino, si avvicinarono tanto da udire distintamente il mormorare sommesso delle dolci parolette e dei baci. Lalla ascoltò qualche minuto, poi, stizzita di non poter udire di più, raccolse un pugno di ghiaia e la gittò nel roseto, spaventando i due colombi, che, dopo un grido acuto della Pierina, presero il volo, attraverso le aiuole, nella direzione del palazzo. — Cattiva — disse Alessandro sorridendo — cattiva, cattiva! Lalla non rispose: seria, pensierosa, sedendosi stanca presso la Cerere, posò la fronte sul piedestallo, per sentire il freddo del marmo. Anche il giovanotto aveva perduta la voce e ritto, di contro a lei, colla testa bassa un braccio appoggiato alla statua, ammirava il contorno serpentino della fanciulla fantasticamente illuminato dalla luna, in mezzo a tutto quel mistero di ombre e di tenebra. — Come deve essere bello il volersi bene! — diss’egli alla fine, concludendo un discorso, pensato in due lungamente. — Lei dovrebbe saperlo — soggiunse Lalla alzando il capo e stringendosi attorno la mantellina con un brivido di freddo. — Lo indovino, lo sento; ma creda, signora duchessina, non l’ho mai provato. — Sandro capiva allora, la prima volta, che la sua passione per la bella Ottavia era desiderio, era voluttà, tuttociò insieme confuso, ma che non era l’amore; capiva, la prima volta, che l’amore non doveva, non poteva essere nè il rimorso, nè la febbre dei sensi; ma una dolcezza ineffabile, pura, tranquilla, un sentimento nobile, elevato, più forte e più sano. — Se lo sentisse a parlare così, mi dica, che cosa le pare che ne penserebbe la... la più bella del paese?... — Forse... penserebbe come me. E il nostro giro di polca? — domandò il giovane volendo cambiar discorso. — Eh sì, ma qui ci manca l’orchestra. È vero che i poeti con questo bel cielo, trapunto di stelle, sentirebbero l’armonia del creato; ma, sventuratamente, non può servire per musica da ballo! — Eppure... la sua promessa? — Come si fa? non avevo pensato che qui non si sentisse la musica: e poi, sa, ho imparato da lei a non essere di parola; da un mese, non mi manda più un libro. — Ma... io... io non... — Non ho tempo di pensare a lei. — Questo mi vuol dire? — No, no, mi creda. Se lei sapesse che cosa provo in questo momento... — e il giovane s’interruppe. Lalla lo fissò coi suoi occhi lucenti, pieni di interrogazioni; ma il giovane non rispose. — Se domani le mando la Nena, si dimenticherà ancora di prepararmi i libri? — No. — Davvero? mo lo promette? Non si dimenticherà di... Non si dimenticherà? Che cosa voleva dire la signorina? Che cosa gli raccomandava di non dimenticare? — Le giuro... non potrei... Mi ricorderò: lo prometto! — rispose Alessandro con vivacità, e tutti e due perdettero di nuovo la parola; ma questa volta si guardavano tutti e due negli occhi. — Già — disse Lalla dopo un momento — come vuole che la signora Ottavia possa essere gelosa di me?... Il giovane tacque, e guardandola sempre, trasse un profondo sospiro. — E... lei, vuol proprio bene, lei, a quella signora? — Non so. — Non sa? Bel caso! — esclamò Lalla ridendo con uno di quei rapidi passaggi che mostrano la volubilità del carattere. — Bel caso! a Santo Fiore, saranno in due soli a non saperlo: lei e... e un altro. — Orbene, sì; non voglio più oltre mentire: ma pur confessandole che un giorno, ieri, ancora questa sera, ho potuto credere di voler bene all’Ottavia, le giuro per altro che amarla, amarla proprio coll’anima, non l’ho amata mai. Io non so, non posso spiegarmi; ma capisco, sento benissimo che una fanciulla soltanto può ispirare tanta sublime poesia!... Una fanciulla casta, ingenua che, amando, non commette una colpa, e non la fa commettere; una fanciulla che si può adorare e stimare, superbo, orgoglioso di lei, apertamente, sotto la faccia del sole, perchè l’amore ha bisogno della luce come la vita!... — Una fanciulla che fosse bella, buona... la Pierina, poniamo? — Oh, no! — esclamò il filodrammatico, colto così, all’impensata. — La Pierina no; è bella, ma non mi farebbe battere il cuore. — La Rinaldini?... ah quella le piace. Non la ricorda la cugina del marchese Rho? — No, no; nemmeno... — Allora sa che cosa le devo dire? — Io me ne lavo le mani; è troppo difficile da contentare. La Pierina, no, la Rinaldini nemmeno; come la vorrebbe dunque?... — Come la vorrei?... — e il povero Sandrino, al quale il freddo della sera aveva fatto un po’ di bene, s’interruppe quasi atterrito di ciò che stava per dire. — Dunque?! Coraggio!... ci sarebbe forse il pericolo che non sapesse nemmeno lei come la vorrebbe? — Oh! lo so; ma è su, su, tanto in alto, che io non dovrei, non potrei... non posso nemmeno guardarla!... — Peccato; in questo caso, non mi saprà dire se è bella o brutta. — No, no, non devo... non devo dir nulla! Senta, è meglio ritornare; fa freddo qui, e le potrebbe far male. — Teme che la signora Ottavia cerchi di lei? — No, non ho paura della signora Ottavia, ma ho paura della mia testa; della mia testa che brucia; e poi, se vuol saperlo, ho paura di lei... — Di me?... arrivare fino alla paura, è proprio un po’ troppo! — Vorrebbe dirmi, almeno, perchè lei si diverte tanto a prendersi gioco di un povero diavolo?... Da mezz’ora sento, e provo ciò che non ho mai sentito, nè provato in mia vita. Divento pazzo o che cosa divento? Non so... solamente so, che lei è tanto bella... e che mi fa perder la testa!... Bella!... era la prima volta che un giovane diceva a Lalla questa parola, e perchè sapeva di averla guadagnata, provò insieme con la soddisfazione della vanità, anche tutta la gioia di una vittoria. Sandro la vide sorridere avvolgersi nella sua mantellina, come per nascondersi agli occhi dell’ardito compagno, abbassar la testa, arrossire... egli credeva di modestia; ma la fanciulla arrossiva di piacere. Povero Frascolini, povero illuso! Egli vedeva svolgersi uno dei capitoli più romantici della biblioteca circolante: quella fanciulla che arrossiva alle sue parole, sola con lui, al chiaror della luna, bionda, duchessa, egli la fece scendere, a poco a poco, fino a sè, confidente, sincera, innamorata; e troppo ingenuo, troppo inesperto, troppo esaltato, senza poter riflettere, Sandrino si abbandonò tutto a quella gran finzione. — No, no; — esclamò Lalla interrompendo l’estasi del buon figliuolo — non sono bella, anzi... bruttina... sì, piuttosto bruttina; ma per questo appunto, ella non deve burlarsi di me! — Ah, se non fosse lei!... — Certo, se fossi un’altra... potrei essere anche bella!... — No, se lei non fosse una signora, oppure se anch’io fossi nato nobile, ricco, allora... Sandro s’interruppe e Lalla non gli rispose; ella chinò il capo di nuovo, arrossendo con un brivido, un sussulto, che pareva un sospiro di tutta la persona. Il giovane le si avvicinò, sempre di più, e, mentre gli si piegavano le ginocchia al contatto delle vesti di Lalla, sentiva diffondersi intorno un profumo fresco, soave, finissimo, che usciva dai capelli, da tutto il corpo di lei; un profumo inebbriante, nuovo per il giovanotto ignaro, lontano dai gusti, dalle abitudini del viver signorile; e i suoi nervi, eccitati, provocavano un odioso confronto fra quella fragranza aristocratica e l’afrore di sudaticcio della pingue moglie dello speziale. La fanciulla stava chinata con la fronte appoggiata a una mano, mezzo velandosi gli occhi tra vergognosa e raccolta; egli accostò la bocca al collo di lei candidissimo che spiccava in quella penombra, ma non ebbe coraggio di baciar quello... le sfiorò appena i capelli, e timidamente posò le labbra sulle unghiette rosee della mano, senza notare, l’inesperto, che fra quelle dita lunghe e affusolate, lo spiava un occhio freddo, attentissimo. Lalla si alzò ratta, con un piccolo grido. — Madonna Santa! — esclamò Sandrino ritornando in sè. — Madonna Santa! che cosa ho fatto!... Perdoni, signora duchessina, perdoni il mio ardire, la mia sfrontatezza... perdoni; non ho detto che la testa mi gira?... che sto male? Lalla non rispose più una parola, si serrò intorno la mantellina e lentamente si avviò verso il palazzo, seguita dal giovinetto così mortificato, paurosa, come avesse commesso una grave colpa. Egli non aveva coraggio nemmeno di aggiungere scuse alle scuse, e si sentiva agghiacciare pensando a tutto ciò che gli poteva accadere. — Che gli era mai saltato in testa? Offendere così la signorina che si fidava di lui, che si degnava di concedergli la propria confidenza, che si degnava di scherzare, di trattarlo, non come un inferiore, ma come un amico? In che modo gli era sembrato, come mai aveva creduto, aveva potuto supporre un sentimento che fra loro due sarebbe stato impossibile?... Eppure egli l’aveva veduta sorridere, arrossire, tremare... No, no; egli era ubriaco e chissà che cosa aveva veduto. La signora duchessina irritata, offesa da quel suo procedere, avrebbe riferito tutto alla duchessa Maria, ed egli finirebbe coll’essere scacciato dal Palazzo, e coll’essere disprezzato da tutti! — Con simili pensieri giunto sotto il portico, credeva morire dalla vergogna; e quando la Nena e la sposa, veduta la padroncina, le vennero incontro correndo, si sentì cascare il fiato. Ma Lalla disinvolta, chiamò le due ragazze per nome, colla sua voce chiara e rotonda, poi si fermò un istante e, voltandosi appena, mormorò piano a Sandrino: — Si ricordi, mi ha promesso di non ballar più colla signora Ottavia. Sandro si fermò sbalordito; volle parlare, ma gli si chiuse la gola. Intanto Lalla scherzava tranquillamente colla sposa e colla Nena, chiedendo conto della miss sparita dalla festa, e che tutti credevano in compagnia della signorina. Subito l’Ambrogio, il medico, il cuoco, e i due Frascolini andarono in cerca dell’istitutrice. A Sandrino non era parso vero di sottrarsi in tal modo alle domande e ai rimproveri dell’Ottavia ed alle occhiatacce scrutatrici della signora Veronica che, avendo notata l’inquietudine della rivale per l’assenza del giovanotto, provava in sè stessa un vivo piacere; piacere che poi crebbe, e di molto, quando li vide brontolare e bisticciarsi. Miss Dill non si lasciava trovare. Tutti giravano in giardino chiamandola qua e là... Nessuno rispondeva. Eppure Ambrogio e il signor Domenico erano passati sul piedi dell’istitutrice e del Reverendo; ma le nere colombelle, invece di lasciarsi prendere, si erano nascoste nella serra, donde usciva poco dopo la sola miss, guardandosi prima ben bene attorno e poi avviandosi lentamente verso il Palazzo, mentre don Vincenzo aspettava sull’usciolo il ritorno d’Ambrogio e del signor Domenico. — Ohi! Ecco don Vincenzo!... Non avete sentito a chiamare la signora miss? — No. — È un’ora che si cerca; dove sarà andata a ficcarsi?... — L’ho veduta poco fa... mi ha chiesto, anzi, della signorina. — E la signorina cerca la miss!... — Oh, guarda guarda, combinazione!... Tutti e tre ritornarono insieme verso casa, dove trovarono appunto l’istitutrice che scusava la sua assenza dicendo di aver preso un po’ di fresco sotto il pergolato, perchè soffriva di nervi. La brigata prestò fede al racconto; non così Lalla, che fissò l’istitutrice e sorrise. Salutati affabilmente gli ospiti, la signorina e la miss si ritirarono, e la Nena con loro. Lalla sentiva gli occhi di Sandrino che cercavano i suoi, pure gli passò dinanzi senza guardarlo. Le tre donne fecero la scala in silenzio; ma poi, prima di separarsi, sull’uscio delle loro camere, la signorina vedendo la miss che brontolava, minacciando l’emicrania per l’indomani, le domandò fissandola bene in faccia, con un certo tono impertinentino: — Scusi, miss, non crede lei di aver presa l’emicrania stando troppo al fresco sotto il pergolato? — Probabile... probabilissimo. Buona notte. — Ma... un momentino, miss... mi lasci vedere... oh curiosa! Che cos’ha sulle guance? — Io?... Lalla prese, il fazzoletto e lo passò qua e là sulla faccia scialba dell’istitutrice. — Sarà polvere... — Sicuro, polvere di tabacco! La miss diventò verde, perchè non poteva diventar rossa. — Oh! Sarà... certo... m’hanno detto che fa tanto bene per la nevralgia. — Ma è inutile metterne sulle guance... e nemmeno sugli occhi... e sul collo! Lalla aveva indovinato, da quei segni, i passaggi del naso di don Vincenzo, e una tale scoperta le fece molto piacere: quella donna, la inflessibile guardiana, ella ormai la teneva in sua balìa. — Mi pare impossibile... — Oh, anche a me pare impossibile, miss, ma è proprio vero! L’istitutrice si sentì perduta: la bocca aperta, il candeliere in una mano, il libro delle preghiere nell’altra, immobile sotto il plaid grigio che teneva sulle spalle, fissava la signorina e non poteva più muovere un passo, non sapeva più dire una parola. — Buona notte, buona notte, miss, e, per conto mio, non abbia timore di nulla. Dorma, dorma sonni tranquilli... — E la signorina sorrise un’altra volta salutando colla mano l’istitutrice attonita, e raggiunse la Nena... Sandro mantenne il giuramento. Lasciò gli amici, e approfittando della lite successa, non accompagnò a casa l’Ottavia: la Veronica giubilava e, non avendo di meglio, si sfogava abbracciando il signor Domenico. Sandro andò camminando a casaccio per la campagna, solo solo, fin quasi all’alba, e poi, rincasato stanco, si buttò sul letto senza poter dormire, nè riposare, e continuò a sognare le cose più strane. Sognava di farsi un nome, e guadagnarsi la gloria e le ricchezze colle sue attitudini artistiche. Le manine lunghe e nervose della signorina, gli avevano fatto vibrare, possenti, le corde dell’amore e dell’ambizione. Quella vittoria ch’egli credeva sua, mentre il vinto invece era lui, fe’ dar di volta al cervello del povero figliuolo. — Come aveva ottenuta la donna, superando tutti gli ostacoli, non sarebbe riuscito anche a crearsi uno stato che lo rendesse degno di lei? Degno di lei, s’intende, agli occhi della sua famiglia, agli occhi del mondo...; per il cuore della fanciulla, egli lo era sempre stato. Lalla, la sua Lalla aveva arrossito d’amore e si era mostrata gelosa!... — E ciò bastava perchè Sandro vedesse la bionda duchessina rifiutare i più ricchi pretendenti per aspettar lui, e per la consolazione di diventare la moglie del celebre Frascolini!... Così sognando, sognando sempre, egli perdeva di vista la realtà delle cose e, svanita la spensierata allegrezza dei suoi vent’anni, cominciava a essere malcontento di sè e degli altri, e a trovarsi a mano a mano sempre più infelice. Il giovinotto, che fino allora era rimasto pago dell’affabilità dei Conti di Santo Fiore, i quali si degnavano di tenerlo ospite nelle loro anticamere, adesso imprecava contro il pregiudizio ignorante e le ingiustizie aristocratiche, che pretendevano, con cento braccia, di opporsi al suo ingresso nella camera da letto della duchessina Lalla d’Eleda. D’altra parte sdegnava il nome onorato di suo padre, disprezzandone la condizione umile e plebea: le modeste aspirazioni e le gioie fino allora godute, perdevano ogni attrattiva per il giovinotto povero e oscuro, che voleva essere ricco e illustre, e che in quello squilibrio fra il volere e il potere, si trovava, si sentiva spostato. Uno spostato!... Il figlio e nipote dei segretari comunali di Santo Fiore, i quali occupando quel posto avevano sperato di tenerlo in serbo anche per lui, dove, come sarebbe andato a finire?... E Lalla?... Lalla si svegliò che il sole era già alto, e fu suo primo pensiero quello di accertarsi di non aver detto o fatto nulla che potesse comprometterla. Poi pensò all’Ottavia, alla Veronica, e sorrise, l’orgogliosetta, della propria vittoria. Pensò, e molto, anche a Sandro, alla maschia bellezza, al volto colorito, alle labbra che bruciavano, alla voce tremante del giovane; ricordò che la Nena, quel giorno, sarebbe andata da lui per avere i libri promessi, e indovinò arrossendo dal piacere, che nei libri ella avrebbe trovata una lettera... — Ma io non ti risponderò, signorino bello! — esclamò scherzando con Musette, la quale, veduta muoversi la padroncina, era saltata sul letto, vispa, festante, dimenando la coda, e abbaiando dall’allegrezza. — No, no! — e Lalla parlava colla cagnetta come se questa fosse appunto Sandrino. — No, no; non voglio rispondere alla tua lettera, è inutile che ti arrabbi, è inutile che tu mi morda le mani; in questo caso tu prenderai un buon scappellotto, così... — e la fanciulla faceva seguire l’atto alle parole — ma una risposta scritta, non l’avrai no, no e no... Col tuo bel musino, tu saresti capace di mostrare le mie lettere agli amici... Ah! vedi? Hai detto di sì! — esclamò Lalla ridendo di uno starnuto della cagnolina, che veniva a proposito come un’affermazione. — Saresti capace di farmi piangere un giorno, quando non potrò più volerti bene, perchè dovrò sposare un signore, più bello di te!... Indietro, subito; che non voglio baci! Vergognatevi! Mi credete forse miss Dill?... Indietro!... Va via!... e la fanciulla con le braccia tese, si teneva lontano Musette che allungava il collo per arrivare a lambirle la faccia. — Ohè! birichino! Volete rompermi la camicia?... — Va via! — da bravo!... Non dovete veder nulla... cattivo... brutto... Ah! cattivo, cattivo! — La piccola Musette, con un salto improvviso, le era arrivata dietro le spalle, poichè Lalla stava a sedere sul letto, e leccavale il collo, la faccia, le orecchie, facendola gridare dal solletico e dal piacere, finchè la fanciulla, presa la cagnolina, si rannicchiò con essa sotto le coltri, mordendola alla sua volta, e soffocandola quasi, tanto la stringeva forte contro il petto. XV Don Gregorio era un sant’uomo. Anch’egli, come Maria, non era di questo mondo, e pieno di criterio e di dottrina, pure si presentava inerme contro la furberia e la doppiezza che sapevano sorprendere la sua ingenuità. Egli conosceva il cuore umano, conosceva anche le passioni, ma per quel tanto che il cuore e le passioni dell’uomo avevano bisogno di aiuto e di conforto; del resto i buoni e i cattivi erano i felici e gli infelici; ma la malvagità stessa non era per lui altro che una sventura. Ma se tutto il male non viene per nuocere, così non tutto il bene riesce a giovare; e don Gregorio, preso nelle reti del duca d’Eleda, ne divenne in breve uno strumento docile e cieco. Prospero Anatolio si era messo a fare in quel tempo frequentissime gite a Santo Fiore, e invece di farsi condurre colla carrozza direttamente al Palazzo, smontava prima alla canonica, in cerca di don Gregorio, e tutt’e due passavano ore e ore in secreti colloqui. Il piano del duca era altrettanto semplice, quanto pratico: confessione intera dei propri torti rispetto alla moglie, e delle proprie colpe rispetto a Dio, scusandosene in parte e accusando a sua volta la severità eccessiva della duchessa Maria, che lo aveva abbandonato, lasciandolo solo, senza affetti e senza conforti. Se Maria fosse stata per lui una moglie amorosa, oh allora come egli si sarebbe sentito forte contro le tentazioni! Ma invece, veduto appena il marito vicino al pericolo, essa non volle sentir difese, non volle sentir preghiere... anzi pareva avesse paura ch’egli fosse innocente!... Certo certo, lì sotto covava un segreto, un segreto del cuore, ancora vivo e forte dopo tanti anni, il quale aveva cominciato dal consigliare a Maria di fuggire, e che poi l’aveva seguita nel suo ritiro, innalzandosi sempre tra di loro come una porta di bronzo. Ma se un simile stato di cose egli aveva potuto sopportare a stento come marito, non poteva più farlo ormai come padre. Egli voleva redimere i propri trascorsi con una vita nuova; e se fino allora si era lasciato sacrificare, adesso avrebbe impedito ad ogni costo che fosse sacrificata anche Lalla, la sua Lalla adorata, che l’egoismo di Maria seppelliva a Santo Fiore, mentre invece doveva entrare nel mondo a fianco della madre per esservi felice, e per trovarvi quel collocamento ch’egli le augurava colle benedizioni del Cielo. E a proposito del segreto del cuore, il duca Prospero diceva proprio la verità... senza saperlo. Certe cose delicate, quando si credono sul serio, non si raccontano mai. Invece, per il cieco marito, quell’amore di Giorgio era sempre la commediolina della moglie ch’egli si compiaceva di risolvere a proprio vantaggio. E anche adesso ne faceva suo pro con don Gregorio per circuirlo, per abbindolarlo, per farselo alleato, e raggiungere il suo fine: la riconciliazione di Maria, la quale riconciliazione si era fatta, in seguito agli ultimi avvenimenti, e secondo le sue viste, più che mai necessaria. Dopo l’avvento della Sinistra al potere, e specialmente dopo la morte di Vittorio Emanuele, l’onorevole della curia di Borghignano, spaventato dal famoso ponte, gridava ai quattro venti di non volerne mai più saper di politica; profetava torbido, minaccioso il futuro, e consigliava a tutti di rinchiudersi in casa, finchè di fuori fosse calmata la tempesta. In gran parte, quella paura egli la sentiva davvero; e se prima gliel’aveva inspirata il novantatrè, adesso anche il nichilismo e l’internazionale ci mettevano lo zampino. Ma non era poi altrettanto sincero quando strombettava di non volerne più sapere di deputazione. Non era stato lui che aveva piantato in asso gli elettori; al contrario gli elettori avevano lasciato lui sul lastrico, mandando a Roma, in sua vece, il conte Della Valle, il quale non salì la Montagna, come qualcuno aveva temuto, ma rimase al centro sinistro. Fermata opportuna, che tranquillò un poco le teste quadre del gran caffè di Borghignano, occupate, in quello scorcio di elezioni, a fare e a disfare l’Italia, la monarchia e la repubblica due volte al giorno, regolarmente: la mattina all’ora di colazione, e la sera dopo il teatro. In quegli ozi forzati dopo l’amara sconfitta, Prospero Anatolio pensò che colla scusa di dedicarsi alla figlia, avrebbe potuto riavere la moglie, che vedeva farsi più bella e più fiorente, quanto più egli diventava vecchio e floscio... e poi c’era un’altra circostanza che lo infervorava in quel disegno. Il duca, da qualche mese facente funzione di sindaco a Borghignano, voleva esser nominato sindaco effettivo per poter arrivare più presto alla Camera vitalizia, e sperava molto nell’aiuto dei pranzi e delle feste, già esperimentato con buonissimo esito a Firenze. Tutte queste circostanze, tutto questo miscuglio di passioni, di vanità, d’interessi non solo non erano indovinati, ma non avrebbero potuto essere nemmeno supposti dall’ingenuità di don Gregorio, che nel duca d’Eleda vedeva solo un padre e un marito amantissimo della moglie e della figliuola, e solo desideroso di riparare i propri torti. Per tutto ciò il buon prete si faceva in quattro pensando al modo di consolarlo e di aiutarlo; ed era già parecchio tempo che colla perseveranza più ostinata, martirizzava la duchessa per indurla a riconciliarsi col marito. Oltre all’autorità che don Gregorio godeva sull’animo di Maria, egli sapeva toccarle tutte le più riposte corde del cuore, presentandole da un lato l’avvenire della figlia, dall’altro lo stata anormale del signor duca, e la poveretta, sentendosi meno sicura dopo tante lotte, domandava angosciata a sè stessa se aveva proprio diritto di ostinarsi nel non voler perdonare, e temeva e tremava che l’affetto serbato vivo nell’anima non la rendesse colpevole come moglie e come madre. Questo tasto, delicato assai, don Gregorio non si era ancora arrischiato a toccarlo. Esitava, un poco per naturale riguardo, un po’ perchè voleva servirsene come un argomento formidabile, per dar l’ultimo colpo quando Maria fosse vicina ad arrendersi. Per tentarlo davvero ci volle la spinta del duca, il quale minacciava una scenata, uno scandalo se non si faceva a suo modo: — Bisogna battere il ferro quando è caldo! — pensava Prospero Anatolio. In fatti, capitato uno di quei giorni a Santo Fiore, il duca aveva passata tutta la mattina alla canonica, senza che Maria, uscita in carrozza a passeggiare, sospettasse il suo arrivo. Era una bella giornata di giugno, venuta fuori dopo un’acqueruggiola fitta, che pareva avesse dato una mano di calore a tutto il verde della campagna, al turchino del cielo, alle case, al villaggio, al campanile e ai monti lontani, che si disegnavano nettamente sull’orizzonte, senza penombra, e senza sfumature. Si respirava un’aria fresca e leggera, piena di atomi profumati che la pioggia aveva sbattuto dalle erbe e dagli alberi. Anche don Gregorio sentì il bisogno di rivivere all’aperto, e partito appena il signor duca, si avviò, passo passo, fino al piccolo cimitero del borgo. Ivi fatta una breve sosta, nell’uscire incontrò Maria che passava in carrozza; e la carrozza ad un cenno della duchessa si fermò subito. — Vuol salire con me, don Gregorio? Lo accompagno a casa. — Grazie, figliuola; ma vorrei fare due passi; ne ho bisogno. — Allora scendo, e cammineremo un po’ insieme. Maria smontò infatti, e tutt’e due tennero dietro alla carrozza che andava lentamente verso il paese. Don Gregorio non disse nulla a Maria dell’arrivo e dei lunghi discorsi fatti quel giorno stesso col duca Prospero; ma coll’eloquenza della convinzione e del cuore ritornò bravamente all’assalto. Le fece capire che per l’avvenire e per la felicità di Lalla, era ormai necessario di prendere una risoluzione. La fanciulla s’era fatta una giovinetta, e non poteva più vivere in campagna. Bisognava ritornare a Borghignano: e allora Maria come avrebbe potuto rimanere in collera con suo marito? Per tutti e due doveva essere uno stato di cose insoffribile e da non potersi sostenere. Lalla stessa, notando la vita così irregolare dei genitori, ne avrebbe forse cercato anche la cagione angustiando il suo cuore di figlia colla scoperta di una verità molto dolorosa... e anche pericolosa assai per la serenità della sua coscienza e de’ suoi affetti. In ogni modo, il signor duca era pentito, pentitissimo... e domandava perdono de’ suoi falli. — Ma poi, in fine, se il signor duca si era allontanato qualche volta dal buon sentiero, non sentiva ella pure nel suo cuore di donna, di moglie, di aver contribuito a quel traviamento, colla propria durezza, colla propria inflessibilità?... Come pretendere che facciano gli altri il proprio dovere, quando noi ci rifiutiamo di adempiere il nostro?... E Lalla, che adorava il signor duca, non avrebbe trovata un giorno troppo eccessiva e crudele quella severità della mamma?... Finalmente poi Maria non aveva diritto di separare il babbo dalla figliuola, come non poteva più oltre rifiutarsi di dimenticare un’offesa, una grave offesa, ma dolorosamente espiata. — Bisogna perdonare — concluse don Gregorio — per essere alla nostra volta perdonati; e il Signore, che aveva insegnato ciò col suo esempio, aveva cara sopra tutte la virtù del perdono; era quella che maggiormente avvicinava ai beati spiriti del Paradiso la creatura della terra. — Io gli perdono, io gli ho perdonato, — balbettò Maria, un po’ mortificata dalle gravi parole del vecchio sacerdote. — Non basta... bisogna amarlo... egli è tuo marito; hai giurato a Dio che lo avresti amato per tutta la vita. — Amarlo... amarlo, non posso, non posso! — Perchè non puoi?... Sarebbe adunque così grande il tuo orgoglio da tener chiuso il cuore per sempre ad ogni dolce sentimento, oppure... oppure dimmi, figliuola, nel tuo cuore nasconderesti un segreto, un segreto che non mi hai confidato? E don Gregorio si fermò per fissar Maria attentamente, e la vide rossa, confusa, chinare il capo sul petto. — Dunque è proprio vero? Tu ami?... Ami un altro uomo?... So, so, so tutto ciò che mi vuoi dire: tu non ti credi colpevole perchè sei fuggita prima di cadere: ma nella fuga hai portato un’immagine nel tuo cuore; un’immagine che avresti dovuto scacciare, dimenticare, e invece è quest’immagine che oggi ancora si pone fra te e il tuo dovere. Ah! era davvero una colpa quell’amor suo misero e caro?... e lo scrupolo, il dubbio della povera tormentata adesso si mutava in rimorso. — Oh! no, no, don Gregorio! Io non sapevo di amare, fu un sogno, e quando mi sono svegliata non ero più padrona del mio cuore, non potevo altro che fuggire, e son fuggita via subito. Lui non sa nulla... mi ha veduta fredda, mutata, dubita che io non gli voglia più bene, non si ricorda più di me. Qui, così sola, lontana da tutti, non credevo di far male se pensavo a lui, qualche volta. Quel pensiero mi faceva tanto bene, mi rifaceva buona, mi confortava! Non era un turbamento, ma una consolazione che mi dava quiete e forza... che mi aiutava a vivere. — Sei madre e parli in questo modo? In tua figlia non avevi la consolazione, la quiete, la forza? Sei madre, e tua figlia non ti bastava per vivere? Piangi?... Sì... sì, piangi, Maria, perchè hai grandemente offeso la Provvidenza. Maria si era sentito stringere il cuore per l’inesorabile verità di quella risposta; e mentre grossi lacrimoni le colavano giù dagli occhi, balbettava timidamente, come per iscusarsi: — Non l’ho più riveduto... Non gli ho più scritto... non sa più niente di me... — E per questo — esclamò don Gregorio, colla voce mal ferma — e per questo sola ti credi onesta; ma onesta, sei agli occhi degli uomini, non agli occhi di Dio. Come donna, se non hai fatto male, lo hai amato, e come sposa, dalle tue promesse inviolabili, sacre di fedeltà e di amore, hai sottratto la parte più bella, l’anima e il cuore. Povera Maria! Ella continuava a piangere; ma le sue non erano le lacrime sole del rimorso; c’erano pur quelle ineffabili del sacrificio che stava per compiere: della sua cara libertà e del suo casto rifugio. E poi c’era un altro pensiero, un pensiero più forte di lei, che si faceva strada in quel turbamento dello spirito, per angosciarla e insieme per consolarla, spaventandola e facendola quasi contenta di essere costretta a cedere alle insistenze di don Gregorio... il pensiero di rivederlo. Tutto ciò si agitava nel cuore di Maria colla lotta di mille sentimenti opposti e confusi, che si urtavano insieme, che la straziavano, e guardando a ritroso nei lunghi anni trascorsi rimpiangeva il passato, che era solo la calma di un gran dolore, ma che le appariva in quel punto come una felicità cara e perduta. Intanto don Gregorio, vedendola scossa, s’infervorava sempre più rivolgendosi al suo cuore, alla sua ragione, alternando le preghiere al comando, le promesse del premio alle minacce del castigo, finchè la povera donna, spaventata e vinta, promise formalmente che si sarebbe rassegnata a compiere ciò che doveva essere il suo dovere. Don Gregorio sentì allora nel proprio cuore il peso del grande sacrificio che stava per imporre, e commosso a sua volta le strinse la mano, mormorando con un’espressione d’affetto indicibile: — Coraggio, figliuola mia, coraggio! — Poi tutt’e due continuarono silenziosi il loro cammino verso Santo Fiore, mentre le povere contadine, abbrustolite dal sole e sfinite dalla fame, che incontravano la ricca duchessa, borbottavano contro la Provvidenza... che concedeva il Paradiso ai signori in questa vita e nell’altra. Quando don Gregorio e Maria giunsero a vista del Palazzo, scorsero subito il duca d’Eleda: questi, veduta arrivare la carrozza vuota, aspettava ansioso presso il cancello. — Mio Dio!... — balbettò Maria con un brivido. Non le lasciavano nemmeno il tempo per respirare, per riflettere, per soffrire un po’ sola, in pace... — Coraggio, coraggio — ripetè ancora don Gregorio, ma più a bassa voce. Il duca Prospero li ebbe subito raggiunti, e salutata affettuosamente Maria, che rispose con un cenno del capo, entrarono insieme nel giardino. — Abbracciate vostra moglie — disse don Gregorio al duca, che lo interrogava cogli occhi — essa vi ha perdonato. Prospero Anatolio uscì in una esclamazione inarticolata di sorpresa e di gioia, e strinse forte la moglie contro il petto, baciandole la bocca e le guance. Maria, dopo tanti anni, sentiva con disgusto l’alito caldo di un uomo bruciarle la faccia; le sembrò di esserne contaminata, di essere divenuta indegna dell’ideale purissimo, che ad onta della sua volontà e del suo sincero pentimento era ancora, era sempre vivo nel suo cuore, come le gemme del mare che l’onda in tempesta non frange, ma rende più vivide e scintillanti. Al duca tremavano le labbra, balbettava, e il volto pallido, scialbo, avrebbe mostrato ad occhi più esperti che non fossero quelli di don Gregorio, come non venisse solamente dal cuore tutta quella grande commozione. Ma don Gregorio, invece, ammirava Maria intenerito, e si sentiva contento come di un’opera buona e bella, della quale egli si sapeva artefice. Di solito, Prospero, accompagnava il prete quando questi ritornava alla canonica; invece quel giorno non si mosse. Egli aveva bisogno di godersi tutta la dolce felicità della famiglia: voleva star colla moglie: sentiva di non poterla più abbandonare, e infatti, aspettò l’ora del pranzo passeggiando in giardino con lei, tenendola stretta al suo braccio, chiamandola con tutti gli sdolcinati nomignoli imparati già dalla de Haute-Cour. Ma a poco a poco egli si faceva più taciturno, fissava Maria divorandola cogli occhi; e da pallido diventava rosso in viso, con due chiazze accese che gl’infiammavano le guance agli zigomi. Pareva distratto, preoccupato, inebetito; di tanto in tanto si guardava intorno, inciampava; poi, con malizia premeditata, facendo alla moglie certi() visacci che volevano essere sorrisi, la spinse, serrandola fianco a fianco, sotto un capanno fitto di convolvoli; e là dentro, abbracciandola e stringendola all’improvviso, di nuovo la baciò sulle labbra, sulle guance, sul collo. — No, no, no... — supplicava la poveretta, tentando inutilmente di svincolarsi dalla stretta e di difendersi da quella bocca sgarbata. — Sei... mia... a... adesso... mi hai pe...e... — e non riuscendo a finir la parola, e Maria piegando vivamente la faccia per ischivare il fiato che l’ammorbava. Prospero Anatolio le stampò un altro bacio, sopra l’orecchio, che la fece rabbrividire. — Babbo!... Babbo!... — si udì gridare in quel punto da Lalla, che si avvicinava al capanno correndo. — Lalla! — esclamò Maria; e adesso, al disgusto e alla collera aggiungendosi il timore di poter essere sorpresa dalla propria figliuola, respinse il duca, facendolo rinculare d’un passo. Lalla ritornava allora da un pellegrinaggio alla Madonna di Valsanta, quattro ore di strada a piedi, impiegate nel recitar rosari e litanie. La duchessina, creata priora della Scuola Cristiana di Santo Fiore, aveva ordinato, col mezzo di don Vincenzo, quel devoto pellegrinaggio. Vi avevano preso parte tutte le maestre, tutte le alunne della Scuola, capitanate dalla signora Sindachessa, e soltanto la bella Ottavia non vi era intervenuta. Ma Lalla, da qualche tempo, si prendeva un po’ troppo il divertimento di farla arrabbiare, non parlandole mai, non salutandola nemmeno, mentre invece era piena di gentilezze per la signora Veronica; e perciò, non volendo ammalarsi di fegato, nè contribuire alla gioia della rivale, la bella bionda si sfogava con un’alzata di spalle, e schivava le occasioni di trovarsi insieme. Digiuni, novene e tridui, alla cui spesa avrebbe supplito Lalla colla sua cassetta privata, avevano preceduto il pellegrinaggio. Lalla, miss Dill, don Vincenzo intonavano le orazioni, ripetute dal coro, che cangiava ciliege e parole. Nè in quella processione mancavano le belle ragazzotte, ragion per cui agli svolti delle viuzze, o vicino ai tabernacoli, c’erano appostati gli zerbinotti, che seguivano da lungi la brigatella, sfidando le occhiatacce irose della signora Veronica, che si voltava indietro borbottando inviperita, coll’autorità del sindaco suo consorte, che ella sentiva di rappresentare. Anche la duchessina era severissima, in fatto di morale e, per un nonnulla, faceva cancellare le giovani dal registro della Scuola Cristiana; ma, per debito di giustizia bisogna anche aggiungere che sapeva dare il buon esempio. In fatti il giovane Frascolini avrebbe perduto subito tutta la protezione della fanciulla soltanto che si fosse lasciato vedere durante il pellegrinaggio. Lalla si era confessata, doveva comunicarsi a Valsanta, era pentita dei propri peccati, e coll’atto di contrizione faceva solenne promessa di non commetterne più... fino alla sera, alla sera di quel giorno medesimo in cui doveva trovarsi con Sandrino. E forse, appunto per questo dolce ritrovo, la signorina avrebbe rinunciato di gran cuore anche all’arrivo improvviso del babbo, ch’ella per altro spiegava a tutti quanti come un primo miracolo concessole dalla Madonna, che le mostrava in tal modo di aver molto gradito il pellegrinaggio a Valsanta. E anche quel giorno essa abbracciò il suo caro papparino con grande effusione di tenerezza; e durante il pranzo fu amabilissima, e sostenne da sola, si può dire, tutta la conversazione. In fatti Maria si mostrava pensosa e triste e la miss s’era imbronciata col signor duca, perchè questi aveva dimenticato di complimentarla secondo il solito. Infelice miss Dill! Non sapeva che sorba l’aspettava alle frutta!... La notizia che due giorni dopo sarebbero partiti tutti per Borghignano!... Lalla, a quell’annunzio, non si ricordò del Frascolini, ma fuori di sè per la gioia di diventare cittadina, saltando e battendo le mani dall’allegrezza, volle buttarsi subito al collo del babbo. Maria ebbe ancora un sospiro profondo, sommesso, mentre miss Dill colla bocca aperta, impeciata di marenga al zabaione, lo sguardo esterrefatto, che facea ridere nella sua terribilità, diventava verde, gialla, livida, con un sobbalzo così forte di tutta la sua anatomia che pareva scricchiolasse. XVI Dall’allegrezza dimostrata e sentita veramente da Lalla, non si deve credere che il capriccetto per Sandrino fosse svanito: tutt’altro; Lalla continuava anzi a scherzare con lui, ma tenendosi sempre a fior d’acqua, mentre il giovanotto c’era dentro fin sopra la testa. Per la signorina quella simpatia lì, era parte della sua vita di villa. Si godeva a tenerselo ben legato perchè Sandrino, libero, non ritornasse dall’Ottavia. Finchè c’era lei a Santo Fiore, sarebbe stato uno smacco troppo forte per il suo amor proprio, ma una volta partita gliene sarebbe importato ben poco di tutta la razza dei Frascolini!... Tant’è, capiva che così non la poteva durare, che non c’era da cavarne nessun costrutto, che una volta o l’altra bisognava pure finirla con quell’intrighetto sentimentale. Lalla voleva vivere, voleva suscitare passioni, voleva primeggiare nel bel mondo, e però s’era consolata all’annunzio della partenza, che mentre l’avrebbe portata in mezzo alla gente, le dava il bandolo per sciogliere quella matassa ormai, fra Sandro e lei, anche troppo imbrogliata. Ben diversamente certo sentiva e fantasticava il sognatore romantico che aveva creduto, con tutta l’ingenuità de’ suoi vent’anni, ai rossori, agli sguardi, ai teneri sorrisi della divina fanciulla; ma se Sandro era matto, peggio per lui. Sarebbe ritornato savio un giorno o l’altro, e intanto la divina che ci poteva fare? Era stata anche troppo buona da lasciarsi amare!... Sandro era matto davvero; matto da legare. Egli non viveva che per la sua Lalla, non dormiva più, non mangiava più, non parlava più con nessuno. Camminava per la campagna i giorni interi, fabbricandosi castelli in aria per l’avvenire, e mandando intanto a gambe levate il suo stato presente. Si sentiva ammalato di spirito e infiacchito. Tremava del domani, ch’egli, a occhio nudo, spogliandolo degli smaglianti colori che gli prestava la sua fantasia, sentiva prepararsi ben triste; e allora, pauroso, si ingolfava tutto nell’oggi, e anche lì non c’era altro che una serie di dolori e di desideri, di smanie acute e insoddisfatte. Non lavorava più; fuggiva i compagni, le scampagnate festevoli e chiassose, delle quali un tempo era stato il capo più ameno. Divenuto superbo, lunatico, sospettoso, si era creato una infinità di inimicizie e di antipatie. La vera cagione, per altro, del suo mutamento non l’aveva indovinata anima viva; neppure la Nena, che portava e riportava i libri da Sandro alla padroncina, senza mai sospettare che insieme coi libri ci fosse una corrispondenza secreta. La Sindachessa attribuiva quelle lune alla nausea del troppo mangiar di grasso; la Ottavia si dava a credere ch’egli la aveva lasciata perchè, come figlio del segretario comunale, non voleva inimicarsi colla moglie del sindaco; e l’organista, maestro di scuola, veterinario (e anche strozzino per meglio campar la vita) spiegava tutto col brutto viziaccio del giuoco, che, come una cancrena, divorava il giovane segretamente, tanto che più d’una volta aveva dovuto ricorrere a lui per aver quattrini. Tali supposizioni, anche quest’ultima dell’organista, andavano ben lungi dal vero. Sandrino non toccava mai una carta, il bigliardo non sapeva nemmeno che cosa fosse, e se faceva debiti era un soprappiù da segnare sul conto delle sue fortune amorose. Lalla, certo, non lo faceva spendere direttamente per sè; ma, si sa bene, fantasie tutte le fanciulle ne hanno, e per gli amanti è un piacere il soddisfarle; poi ci sono le improvvisate; poi insomma bisogna cercare di fare buona figura, e quindi addio economie dei figliuoli, e insieme addio pazienza dei babbi. E babbo Frascolini, anche lui, la perdè la pazienza, e cantò chiaro sul muso al bambinone, che pecunia da buttar via non ne aveva altra, dandogli in pari tempo una buona lavata di capo per il suo ozio, la sua vitaccia, il suo vestire da bell’imbusto, tutto leccato, profumato, unguentato. — «Il figlio di un segretario di campagna! — vergognati!» Infatti il giovine adesso era diventato irriconoscibile: tutte le bizzarrie della fanciulla erano sacro verbo per lui. A Lalla un giorno gli uomini piacevano vestiti di velluto, e un altro invece con certe giacche, con certi tout-de-même blu, bigi, verdi, ora a quadretti, ora a righette; e la si accorgeva poi sempre, delicatissima com’era, s’egli adoperava saponi od essenze che non fossero di Pinaud, di Violet o di Atkinson; cianciafruscole che costavano un occhio. E la signorina aveva minor colpa che non paresse alla prima. Abituata, come si dice, a nuotare nell’abbondanza, il danaro non lo conosceva altro che di nome. Era una sporcizia ch’ella appena toccava colla punta delle dita per farne elemosine, e che credeva colasse giù, naturalmente, dalle mani sempre piene de’ suoi agenti e de’ suoi grassi e numerosi fittaiuoli. Lalla aveva tutto ciò che voleva senza cavar mai un soldo dal borsellino e, per ciò, come avrebbe potuto fermarsi per riflettere se anche a Sandro, sì o no, capitava la roba con la stessa facilità?... Era povero, la famiglia sua non viveva di rendita, ma per trovarsi senza quattrini bisogna essere affatto un pitocco. Un giovinetto che non ha mille lire() lo si compiange e può sembrare anche artistico, sotto un certo punto di vista; ma il giorno ch’egli non ne ha cento in tasca, e fa all’amore, diventa addirittura ridicolo. Per tutte queste considerazioni, Sandro sarebbe morto prima di confessare alla signorina la propria ignobile ristrettezza. Un’altra spesa superiore alle sue rendite, e alla quale Lalla lo assoggettava senza darsi alcun pensiero, era quella dei libri. Ormai la biblioteca circolante, coi romanzi del Féval e del Ponson du Terrail, non appagava il gusto fine della giovinetta, che si appassionava col de Musset, col Feuillet, col Daudet, ed era poi curiosissima di leggere lo Zola. Perciò, due, tre volte al mese, preparava lunghe noticine di romanzi, che Sandro doveva comperare a quattro lire il volume, e ch’essa poi gli restituiva sempre appuntino, ed anzi, qualche volta, quando il romanzo era noioso, coi fogli non ancora tagliati. E Sandro, come avrebbe potuto rifiutarle quelle garbatezze? Era tutto ciò che la duchessina, circondata dalla ricchezza e dal lusso, non poteva ottenere se non per via del suo innamorato. E, oltre a ciò, i libri, erano pure l’unico espediente che si prestasse alla loro corrispondenza. Il giovanotto ci nascondeva dentro bigliettini pieni di foco, e la fanciulla, che non si era mai lasciata sfuggire una riga di scritto, segnando col lapis alcune parole dei romanzi, con un certo alfabeto combinato d’accordo fra loro due, gli indicava le ore, il luogo dove vedersi e trovarsi, gli mandava ordini e contrordini. Quando capitavano a Sandro quelle piccole note ed egli si trovava senza il becco d’un quattrino, la disperazione del povero giovane arrivava al colmo; tanto più che la signorina se desiderava una cosa la voleva subito subitissimo, e gli allungava il musetto per ogni ritardo. Un giorno, non potendo più trovar soldi in casa, si ricordò d’un signorotto lì nei dintorni, un suo camerata di scuola; questi, un buon diavolaccio, gli prestò la firma e lo diresse dall’organista. Così Sandro potè contrarre il primo debito. Novellino a siffatte cose, egli non chiuse occhio la notte, tale e quale come la prima notte in cui si era aperto con Lalla, perchè le innamorate e i creditori producono spesse volte i medesimi effetti. Dopo qualche tempo si abituò un poco anche ai debiti, ma, povero figliuolo, si era abituato a star male. Che doveva fare? Anche lui preferiva l’aver debiti al non aver quattrini, e ricordava con raccapriccio la vendita del suo orgoglio, consumata prima ch’egli avesse scoperta la California della cambiale. La signorina Lalla gli aveva dato appunto la noticina di tre romanzi del Feuillet: Monsieur de Camors, Sibilla, e un altro citato dal buon Filippi nella Perseveranza. Fatta la somma, e colla spesa del viaggio per giunta, occorreva una trentina di lire, ed erano già due giorni, due giorni brutti e neri, ch’egli mulinava spedienti e si grattava il capo inutilmente, quando, premendosi la mano sul petto, come per cacciarne fuori l’affanno, sentì da quella parte certi battiti leggeri che, pure non essendo quelli del cuore, annunciavano che lì c’era la vita: erano i battiti dell’orologio. — Ah, sì, sì, le trenta lire sono trovate!... Torniamo dunque a volare nell’azzurro!... Sarebbe partito l’indomani mattina, subito, in omnibus, quantunque da poco in qua egli sdegnasse di servirsi di quel democratico mezzo di trasporto, adoperato dalla gente di villa che viaggiava per economia. Ma necessità non ha legge, e la corsa della strada ferrata non l’avrebbe potuta pagare che a orologio venduto. Durante il viaggio, per altro, la sua gioia ricominciò a intorbidarsi. Sentiva crescere le inquietudini e i dubbi per quella vendita; in città non sapeva a chi avrebbe potuto rivolgersi, e sentiva una gran pena e arrossiva figurandosi d’entrare in una bottega, a domandare: — Quanto mi date di questo?... Se lo avesse saputo la signorina? Si sarebbe sotterrato dalla vergogna! — Per ciò appunto, non aveva voluto vendere l’orologio in paese; in città, almeno, nessuno sapeva chi egli fosse. — Trenta lire!... Ma... daranno poi trenta lire?... Quando si deve vendere la roba, non si prende più niente!... In fondo al cuore, sentiva anche un’angoscia grande, profonda per doversi dividere da quel suo vecchio compagno... L’orologio era una memoria della sua mamma; essa lo portava sempre con sè; il giorno della sua morte lo aveva accanto al letto!... Sandro, sospirando, lo levò dal taschino e lo guardò lungamente. Non gli era mai sembrato tanto bello! Gli pareva di vederci dentro qualche cosa della sua povera mamma ammalata, e sentì stringersi il cuore davvero. Diamine! quella goccia ch’era caduta sul vetro era proprio una lacrima; e quando volle asciugarla col dito, la goccia si allargò e lo appannò tutto quanto... No; non doveva vendere l’orologio della mamma. Il venderlo gli avrebbe portato sfortuna. Ma, a Lalla?... Lalla che lo aspettava col Monsieur de Camors, Sibilla, e quell’altro romanzo?... — Non doveva venderlo!... — Si fa presto a dirlo; ma ormai era troppo tardi. Il viaggio bisognava pagarlo, bisognava mangiare un boccone, e in tasca non c’era un soldo!... Si ricordò di essere stato altre volte da un orologiaio, in Piazza dei Mercanti, per qualche incarico avuto dal signor Domenico: egli sapeva ora dove far capo; e con questo pensiero tutte le incertezze svanirono. Un giorno, chissà, quando sarebbe diventato ricco, perchè la prospettiva della ricchezza e della celebrità gli stava sempre fissa dinanzi agli occhi, egli avrebbe potuto ricuperarlo; anzi, lo avrebbe ricuperato ad ogni costo. Appena dentro dalle porte il giovanotto discese in fretta dall’omnibus. Non voleva farsi vedere allo stallatico in compagnia dei villani. Una volta ci si fermava e faceva gazzarra con loro; ma adesso, con una duchessina nel cuore, era diventato aristocratico. Si avviò subito verso la Piazza dei Mercanti; a mano a mano, per altro, che si avvicinava alla meta, camminava sempre più adagio, fermandosi ritto davanti alle vetrine delle botteghe, senza sapere nemmeno lui che cosa guardasse. Quella strada gli era apparsa, le altre volte, il doppio più lunga, e come si trovò dinanzi alla bottega dell’orologiaio, non ebbe il coraggio di entrarvi. Tirò innanzi, poi ripassò: bisognava pure risolversi, sicuro, ma voleva prima vedere se in bottega c’era il padrone; con quello gli pareva di averci più confidenza: ritornò indietro di nuovo: le tendine erano calate sul cristallo. Occorreva uno sforzo eroico di volontà. — Ancora un giro intorno la piazza, e poi se non entro diritto in bottega, vuol dire che sono un vigliacco! Alla fine non vado nè a rubare, nè a domandar l’elemosina; vado a vendere la roba mia, e il mercante, se la compera, la compera perchè ci ha il suo tornaconto. Questa volta entrò veramente. L’orologiaio, quello stesso appunto col quale Sandrino aveva discorso altre volte, sedeva davanti al tavolo con le sue brave pinzette in mano. Era un tedesco biondo, grassotto, colla faccia rasa; vestiva una zimarra larga, colle maniche rimboccate. Si levò da sedere, tutto d’un pezzo, posando sul banco da lavoro, sotto una campanella di vetro, il castello di un orologio che stava aggiustando, si tolse dall’occhio la lente, dopo aver alzata con due dita la ventola a visiera fin sulla fronte, e disse: — Pon ciorno — accompagnando il saluto con un cenno del capo. — Lei forse non si ricorda più di me? — cominciò Sandro, assai rinfrancato, dal trovare il suo omo solo, in bottega. — Sta bene? Il tedesco squadrò il giovine con due occhiacci bigi, e un po’ loschi per l’uso della lente. — Penissimo, crazie. — Sono Frascolini di Santo Fiore. Si ricorda? — No, signore, non ricorto. Necozio crante; fiene, fa molta cente. A’ suoi comanti. — Io sono stato da lei l’anno passato... — Oh! anno passato! Come posso ricortare anno passato...? — e il tedesco alzava una mano movendola in modo che pareva cacciasse le mosche dall’orecchio. — Ci sono venuto per conto del signor Domenico; del nostro sindaco... — Penissimo, penissimo. A’ suoi comanti. — Vorrei, se le fosse di comodo, vorrei... — e Sandro, che aveva già in mano il suo bravo orologio, stava appunto per fare l’offerta, quando di colpo, sbattendo con violenza l’uscio a cristalli, entra in bottega una bella signora, e assai elegante. A Sandrino mancò nuovamente il coraggio; avrebbe aspettato, e sarebbe anche andato via volentieri, ma il tedesco non badava nemmeno alla signora, e continuava a guardare il giovane con una tal quale serietà, che voleva dire: — alle corte, sbrighiamoci. — Vorrei, vorrei... cambiare il mio orologio. Ma non ho premura, posso anche ritornare più tardi, faccia il comodo della signora. — Oh! la signora è mia moglie. A questa risposta il filodrammatico si sentì cascare le braccia. Non poteva certo tornare indietro, e adesso, dopo quella maledetta parola — cambiare — che gli era scappata, non sapeva più come tirare innanzi. Intanto la bella signora, passava d’accosto al marito, dall’altra parte del banco, e spogliatasi del cappellino e dei guanti, distendeva sopra il tappeto di panno verde, remontoirs, cilindri e cronometri di oro e d’argento, levandoli fuori da una cassetta suddivisa in tante piccole scatole, l’una dentro l’altra. La signora parlava l’italiano speditamente; era gentile e chiacchierina assai. Mostrava al giovane gli orologi accompagnandoli con certi sguardi che dicevano tutto; maneggiando la merce delicatamente colle dita bianche, un po’ impacciate dai grossi anelli ingemmati, e facendo saltare le casse e le calotte colle unghiette rosa, lucenti e forti come l’acciaio. Il tedesco non fiatava, lasciava fare alla moglie, e flemmaticamente, con una pezzuola di lino, ripuliva il metallo degli orologi che si appannava a toccarlo. Sandro, dinanzi a tanto tesoro, restava intontito, colla bocca aperta, e l’orologio da vendere in tasca. Non sapeva risolversi, e capiva di essere in una condizione molto ridicola. Ad ogni momento credeva di sentire dietro le spalle il riso schernitore della duchessina, mentre tutti gli orologi a pendolo, appesi all’intorno, coll’oscillar dei dondoli, che variavano dalle note acute, argentine, a quelle più gravi e profonde, gli mettevano il capogiro, e pareva lo deridessero, ripetendo il nome di Lalla in ogni tono, coi loro tic tac, lenti, misurati e monotoni. Non c’era più scampo; la sua parte era proprio quella dell’Arlecchino finto principe! Faceva un viaggio per guadagnare trenta lire coll’orologio della sua povera mamma, e l’orologiaia, invece, gli offriva certi patek a precisione che ne valevano seicento!... Già, vedendolo così elegante, lo avevano preso per un riccone!... E intanto restava lì, impalato, senza dir nulla. Andar via?... Si fa presto; ma come andar via, se non sapeva trovare una scusa?... Poteva dire che gli orologi erano troppo cari. Eh, ma la signora ne aveva anche di minor prezzo. Provare con un’offerta impossibile?... E se poi era accettata?... Finalmente, prese tutto il suo coraggio a due mani, e — questo mio — domandò, levando l’orologio dal taschino — quanto me lo valuterebbe? — Il tedesco staccandoglielo dalla catenella di similoro, si ficcò la lente in un occhio, lo aprì, e dopo averlo esaminato ben bene di dentro e di fuori, borbottò qualche parola colla moglie. — Sa — rispose la signora a Sandrino, sporgendo i labbruzzi — è un’anticaglia. Ha difettoso lo scappamento; ci sarebbe bisogno di molte riparazioni e — aggiunse poi sorridendo — le converrebbe meglio di tenerlo in serbo per la prima cresima. — Sandro, che si era sentito agghiacciare, sorrise un poco anche lui, per darsi tono. Nel frattempo, erano entrati in bottega due nuovi avventori. Ma non avevano fretta, aspettavano che il forestiere avesse conchiuso il suo affare, esaminando le mostre e occhieggiando la bella signora. — Anche se non mi conviene, poco importa. Non so che farmene di ferravecchi, e per le cresime, a far buona figura, sa bene, oggimai, ci vuol roba nuova. Marito e moglie si consultarono, guardandosi negli occhi, senza parlare. — Tutt’al più — disse lei — posso valutarlo trenta... trentadue lire; e faccio un affare assai magro. — Trentadue lire! E Sandrino che avea ripetuta mentalmente la somma, ebbe un sussulto di gioia: i libri della signorina non iscappavano più. Allora si fece animo. Già non poteva tirarla in lungo fino a sera: i quattrini c’erano e ne cresceva: tornava conto finirla. — Facciamo così — concluse con la voce che un po’ gli tremava: — intanto si tenga il mio: voglio liberarmene; coll’ordinario venturo poi, passerò con mio padre e allora, sentendo anche il suo parere, mi risolverò per l’uno o per l’altro di questi due. — E l’ingenuo ragazzo indicava un paio di remontoirs, dei più cari. — Oh! — questa volta fu il tedesco a parlare — altra cosa fendere, altra cosa prender per cambio! — E marito e moglie, voltate le spalle a Sandro, presero a servire gli altri avventori, lasciandolo con un palmo di naso a contemplare il suo scaldaletto dimenticato sul tavolo, aperto e, per soprappiù, calunniato nello scappamento. — Per finirla — conchiuse Sandrino, il quale, vedendo che non lo sbrigavano mai, cominciava a perdere colla pazienza anche un po’ la soggezione — quanto mi dà, dunque, adesso? — Fenti lire, e foglio essere rincraziato. — Bene, lo tenga. Venti lire? Volevano strozzarlo; quest’era un rubare a man salva; ma al giovinotto, ancora digiuno, anche la fame gli diceva una parolina, poi non aveva più lena di andare avanti colla via crucis in un’altra bottega e in un’altra e in un’altra, col rischio magari, di non poterlo vendere neppure. — In tal caso, come se la sarebbe cavata? E a Santo Fiore, come ci sarebbe tornato? — L’orologiaio intanto, aveva borbottato di nuovo colla moglie, la quale, aperto un cassettino, buttò sul tavola due biglietti sudici da dieci lire. Sandro li afferrò con orgasmo; poi, senza cavarsi il cappello, infilò diritto la porta; ma sentì richiamarsi. — Quel giovane!... e la firma? Sandro aprì tanto d’occhi, maravigliato; ma non c’era verso, dovette proprio scrivere nome e indirizzo sopra un apposito scartafaccio, mentre sentiva la bella signora spiegare agli altri, i quali comperavano un orologio davvero, come la faccenda del far apporre la firma fosse una prescrizione imposta dalla questura, per il caso che comperassero, senza saperlo, roba rubata. Sandrino sentì un gruppo alla gola, e scappò via per non piangere: — Rubato!... l’orologio della mia povera mamma!... Rubato! La sera stessa, senza lasciar scorgere quanto gli erano costati cari, e dimenticando anzi, per quel momento, tutte le ambascie sofferte, egli consegnò a Lalla i romanzi: mancava solo il Monsieur de Camors, che non c’era potuto entrare nelle venti lire. — Oh, che peccato! — esclamò la signorina sinceramente. — Di questi non so che farne!... Li ho trovati dalla mamma, cercando in mezzo ai suoi libri. Era solo il Monsieur de Camors che desideravo!... Che peccato! — E distratta e mortificata, si pose a tagliuzzare le carte sbadatamente, con una stecca d’argento a cesello, che avrebbe potuto pagare, essa sola, tutti i debiti del Frascolini. XVII L’arrivo del signor duca e il pellegrinaggio alla Madonna di Valsanta avevano messo Sandro di cattivo umore. Egli aveva aspettata la signorina nel tinello, senza poterla vedere, e dal modo col quale invece vide miss Dill uscir dalla sala da pranzo, e correre in un canto a confabulare con don Vincenzo, indovinò subito, con una stretta al cuore, che doveva essere accaduto qualche cosa di nuovo e di grave. Le angoscie dell’incertezza, l’ansietà mortale dell’attendere invano, i mille sospetti, le mille paure della sua ombrosità di amante povero e geloso, lo avevano fatto montare in bizza con tutti, e più di tutti con Lalla, contro la quale sovente, sentiva sorgere, dentro di sè, un impeto di ribellione, che per altro si acquetava subito, appena la signorina gli fissava addosso gli occhi penetranti, con quel suo fare tra la superbietta e la canzonatura. Egli pensava, arrovellandosi, che la divina fanciulla avrebbe potuto mostrarsi almeno un istante, per rassicurarlo, non fosse altro con uno sguardo, e... e invece nulla... Non si era mossa; lo aveva dimenticato solo, come un cane, fra il cuoco, Lorenzo e le serve che sonnecchiavano. — Ma è tempo di finirla, sacrablù, colle albagìe aristocratiche!... È la mia amante, alla fine, è roba mia!... Oh, se mi stuzzica gliela voglio cantar chiara!... — Ma quando la Nena, più tardi, gli restituì L’affaire Clemenceau «da parte della padroncina», Sandro si calmò subito e, dimenticando ogni amarezza, corse a rinchiudersi nella sua cameretta, affannandosi a mettere insieme le parole segnate nel libro. Cara quella sua Lalla!... era sempre buona con lui; era un angelo vero, del Paradiso!... Ma poi, a mano a mano che andava copiando le parole sopra un foglietto di carta, egli si fece pallido e tremante: — Dio, Dio, Dio santo! — Ti aspetto questa sera tardi, — diceva Lalla, — ho un gran dolore da confidarti; non fo altro che piangere; sta ben attento che non ti veda nessuno. Mille timori, mille sospetti, balenarono a un tratto nella mente di Sandrino; poi gli rimase un timore, un sospetto solo, ma terribile: il duca era venuto a portare una proposta di matrimonio per Lalla. Allora fu preso da una febbre ardente che gli avvelenava il sangue, che gli dava fuoco al cervello. Era una folla, una ridda d’immagini strane e terribili; e in quella lotta, e nell’abbattimento profondo che la seguiva, i sensi vincevano e offendevano ogni poesia del suo cuore. La fanciulla bianca e delicata, la figuretta misteriosa, la signorina bionda, che egli adorava colla tenerezza mistica di un’alta idealità: Lalla, la sua Lalla, alla quale aveva osato baciare trepidante la manina morbida e le vesti odorose, come le foglie di un fiore, era in piena balìa di un altro uomo... di uno sconosciuto!... Era chiusa sola con lui, tutta sua, nella complice sicurezza della camera nuziale. Nè quel delirio geloso gli concedeva tregua: Lalla, sempre Lalla; ora la vedeva in lacrime, disperata, ora timorosa; ora la vedeva appassionata e anelante e stanca ricambiare i baci fervidi con un bacio lungo, morente... — Per Dio!... — sentiva che piuttosto l’avrebbe uccisa, l’avrebbe strozzata colle sue stesse mani!... — Perchè non sarebbero fuggiti insieme?... Che!... La signorina non avrebbe mai acconsentito. Era troppo timida... teneva troppo ai riguardi del mondo; era troppo aristocratica! — E poi, fossero anche fuggiti, dove andare? — come vivere? — Sarebbero stati ripresi subito... Lalla maritata anche più in fretta.... e lui messo a marcire in un fondo di carcere. — Non c’era giustizia per la povera gente!... — .Chi era lui, Frascolini? Un plebeo, un pitocco, un villano! — Con lui si poteva far questo e peggio. E qui, con un’invidia assaettata, egli imprecava contro l’ingiustizia infame del mondo, mentre, alla sua volta, si sentiva capace di commettere un delitto contro quel gran signore, che veniva a rubargli l’amante. — Sì, ci voleva la rivoluzione, la repubblica; ci voleva la Comune! Bisognava abbruciarle vive, impiccarle alla lanterna quelle carogne di nobili! — E quando era stanco d’imprecare e di soffrire provava uno scoramento strano; un gran vuoto doloroso e desolante gli si stendeva dinanzi; ad una ad una vedeva le ore affacciarsi lente e tristi, senza più quella sola, nella quale, e per la quale, sentiva la vita, a cui tutte le altre erano legate, come alla gemma preziosa una collana di perle: l’ora dei fidati colloqui. I disegni per l’avvenire, i bei sogni di ricchezza e di gloria cadevano in rovina... — Che cosa mai avrebbe egli potuto fare? Non era meglio tirarsi una pistolettata e morire, piuttosto di vivere dannato, con quello spasimo nel cuore?... L’amore non lo aveva reso contento: gli aveva dato la guerra in casa e l’odio fuori; era un affanno, un’angoscia continua. Si vedeva distrutto, si sentiva ammalato di corpo e di spirito; ma tutti i dolori svanivano al fruscìo gentile della veste di Lalla, e quando essa gli era dinanzi buona, sorridente, casta come una santa, ed egli la vedeva arrossire sotto i suoi sguardi, erano dolcezze infinite, era l’estasi dell’anima tutta che gli avrebbe fatto benedire la vita anche se fosse stata per lui mille volte più dolorosa. L’illusione di crearsi un nome, uno stato e, un giorno o l’altro, poter sposarla lui la signorina, era svanita da un pezzo. Lalla stessa non aveva mai coltivata una simile idea e, se Sandrino osava interrogarla in proposito, essa rispondeva seccamente al suo innamorato, che non avrebbe mai preso marito. E soltanto in questo mai il giovane Frascolini avea riposta tutta la fede e... e sperava. — Che cosa sperava? Forse non sapeva nemmeno lui; ma intanto quel barlume di speranza lo consolava, lo inebriava, trasportandolo di sogno in sogno, colla sua Lalla fra le braccia. — Come mai avrebbe potuto farsi un nome? Da che parte incominciare? Si sa bene, trovata la strada, si corre facilmente, ma, trovarla... questo è il difficile! Sandrino, a sentir l’organista, aveva un tesoro in gola, e, a giudizio della signora Veronica, aveva pure molto talento drammatico; grazie tante! Ma, fosse diventato anche un Kean o un Tiberini, tant’è, il duca d’Eleda non gli avrebbe mai concessa sua figlia. La letteratura? — È una camorra, — pensava Sandrino — è il monopolio di quattro o cinque giornali ignoranti e venduti che levano alle stelle il primo capitato che va avanti a forza di raccomandazioni... e di quattrini. Da qualche tempo, il piccolo Dante di Santo Fiore, l’aveva a morte coi letterati e coi giornalisti. Una volta, agitato dai palpiti d’autore novizio, egli aveva spedito sotto-fascia, raccomandata, una sua novelletta ad un giornale letterario. Il giornale, tre mesi dopo, la rimandò pubblicata, unitamente alla polizza d’abbonamento, da pagarsi anticipato, per un anno. Quel suo nome A. Frascolini, stampato due volte in gotico, nel sommario e in fondo all’articolo, lo fece sognare ad occhi aperti. Egli la vedeva moltiplicarsi su tutti gli altri giornali, riempiere le vetrine dei librai; lo vedeva tradotto in tutte le lingue, e la mattina pensava sul serio di scrivere un’opera da sostituire ai Promessi Sposi, che ormai — avevano fatto il loro tempo. — La duchessina gli assicurò che aveva pianto nel leggere quel melanconico racconto: non era vero, ma Sandro lo credette e fu contento lo stesso. Ciò gli fu di sprone a lavorar con lena, e di lì a pochi mesi la Nena faceva andare e venire un grasso manoscritto, dalla povera casuccia del romanziere al palazzo d’Eleda. Lalla non ebbe fiato di leggerlo tutto, ma lo giudicò bellissimo, e Sandrino rimase colla convinzione di aver scritto un capolavoro. Ma poi... non glielo volle stampar nessuno; nemmeno il giornaletto letterario, al quale era abbonato, e che lo aveva trovato splendido, ma troppo lungo. Allora, il Frascolini, cominciò a credere che per essere edito e illustre bisognava diventar prima ricco, in questo mondaccio birbone, e si raccomandò a un suo cugino, appaltatore, dimorante a Venezia e che già una volta lo aveva chiamato presso di sè. In verità, gli affari di questo cugino erano loschi. Egli riteneva che il Frascolini padre avesse il gruzzolo messo da parte, e perciò voleva farsi mandare il figliuolo nella lusinga di mettere le unghie nel sacchetto del babbo. A Don Chisciotte le osterie parevano castelli; così per Sandrino, che vedeva da per tutto milioni, era una bella speranza anche quella... Gli appaltatori diventano ricchi in pochi anni... ricchi assai... Oh! ma lui non si sarebbe dato agli affari per sempre; voleva goderseli i soldi e fare intisichire di rabbia gli invidiosi e i rivali. Che soddisfazione quel giorno in cui egli potesse ricomperare al duca d’Eleda tutte le sue possessioni state confiscate dalla Repubblica... tale e quale come aveva visto in teatro, in una commedia di Scribe. Ma adesso? Se Lalla prendeva marito?... era la vita sua infelice e cara ad un tempo, che si spezzava. Le ricchezze di Venezia, la gloria, la repubblica, i beni ricomperati... tutto inutilmente!... La signorina, per altro, aveva detto mai... — Non mi mariterò mai... — Sì, lo aveva detto, ma poteva fidarsene? Essa, certe volte, si mostrava pochissimo espansiva!... Lalla era la sua innamorata... ma come sapeva essere, a suo tempo, anche la padroncina! Si teneva in un gran riserbo, e non si era mai lasciata toccare nemmeno la punta di un dito... cioè no, era anzi la mano, soltanto la manina morbida, che si lasciava baciare. Lalla aveva evitato studiosamente ogni occasione di compromettersi. Di giorno si vedevano spesso in giardino, e si parlavano; ma senza mistero, in presenza d’altra gente. La sera, tornavano a vedersi in tinello; ma la signorina non vi si fermava lungamente; andava e veniva, sempre colla scusa di avere un qualche ordine da dare. In chiesa poi nessuna occhiatina; nè s’incontravano a passeggio. Una volta sola, egli aveva osato di avvicinarla mentre usciva con l’istitutrice, e di accompagnarla un bel pezzo di strada, ma s’ebbe dopo dalla giovinetta un rabbuffo tale, che non gli venne più voglia di ripetere la garbatezza. Soli, affatto soli, era assai di rado che si potessero trovare. Il colloquio, allora, succedeva di notte, tardissimo, quando tutti gli altri erano andati a letto, Lalla scendeva dalla sua camera al buio, apriva la finestra di un piccolo salotto a terreno, e restava lì a discorrere con Sandro, che l’aspettava nascosto fra gli alberi del giardino. La finestra, dietro il palazzo, dava in una viuzza nascosta da un vivaio di sempreverdi: aveva una inferriata a mandorla, che permetteva appena una stretta di mano, e quando Lalla si appoggiava sui regoli, Sandro, più bianco d’un panno lavato, le baciava in estasi i bei ditini, senza più sapere in che mondo si fosse! Quelle ore erano la vita, la felicità, la beatitudine del povero ragazzo, ed egli sciupava, divorava tutto il suo tempo nell’aspettarle, mentre la giudiziosa prudenza della giovinetta gliele faceva sospirare assai. E anche quando giunse la sera che doveva essere l’ultima dei loro colloqui, anche allora Sandrino, dopo una giornataccia di angoscie, ebbe un primo istante di sollievo, insieme a un barlume di speranza. — L’avrebbe riveduta; le avrebbe parlato; la avrebbe supplicata... — Oh era sicuro di commuoverla colle sue lacrime, d’intenerirla e di vincere ancora! Nascosto tra il fitto del vivaio, egli era ad aspettare molto prima del tempo. Il giovanotto aveva levato due o tre volte un astuccio di tasca, lo aveva aperto, e guardava tra soddisfatto e dubbioso, un anello d’oro con una bella turchina incastonata fra le rose d’Olanda. Era un regaluccio comperato per Lalla, colle sovvenzioni dell’organista; ma Sandrino l’aveva preso con sè molte volte, senza mai aver avuto il coraggio di offrirlo alla signorina. Quando Lalla, pian piano, aperse le imposte della finestra, poco mancò non risvegliasse la casa, con un grido di paura. Sandro era appoggiato colla fronte all’inferriata, e apparve così pallido, così disfatto, da sembrare una larva. — ... Dunque?... Egli non potè dir altro. Lalla, invece, tranquillamente, gli manifestò la volontà del babbo e la partenza fissata per l’indomani. Sandrino ascoltò tutto fissandola sempre cogli occhi imbambolati, e quando la fanciulla ebbe finito di parlare, scoppiò, senza dir parola, in un pianto dirotto. Lalla non si mostrò mai tanto assennata come in quella sera, e riuscì a confortare l’innamorato con buone ragioni. — Già non si poteva durare così; a una separazione bisognava venirci ad ogni modo; doveva pensare a farsi uno stato — e qui ricordò anche a Sandro, e molto opportunamente, il cugino di Venezia. Sandro più sentiva la signorina parlare con tanta abbondanza di argomentazioni, e più vedeva il diavolo farsi meno brutto di quanto gli era sembrato dapprima. Ormai aveva giù dallo stomaco il dubbio tremendo che ci fossero disegni di matrimonio, e solo avrebbe desiderato che Lalla aspettasse ancora qualche giorno a partire; cioè, invece di andarsene subito, l’indomani, col duca, il quale precedeva Maria di un par di giorni, avesse aspettato a partire colla duchessa. Ma la signorina si scusò bene: — al babbo non si poteva far contro; lui quando voleva voleva, non c’era verso!... Sandrino, quell’ultima sera, fu più ardito del solito; ma a prezzo di uno sgomento che lo invadea tutto quanto. Per avvicinarsi di più alla fanciulla che, ritta su di uno sgabello, col volto quasi appoggiato ai bastoni dell’inferriata, si distaccava con tutta la figura bianca dal fondo oscuro, come una Madonna nell’aureola stinta d’un vecchio quadro, egli, che a quella sua Madonna credeva, si era rizzato in punta di piedi: era passato colle braccia fra i regoli; con una mano stringeva quella di Lalla, e coll’altra cercava di toccare, temerità che gli mettea le vertigini, cercava toccarle i capelli. Con un giro di parole piuttosto confuse, volle il giuramento che ella non avrebbe mai sposato nessuno; e quando la fanciulla rispose il solito mai, senza giurare, Sandro, fuori di sè, le domandò un bacio. — No — -la signorina rispose — no; — e invece, con una lentezza irritante, fissandolo sempre negli occhi, gli prese una mano, e poi, piegatavi sopra la testina pallida, l’accarezzò colla guancia vellutata. Era giunto il momento per il regaluccio. — Ho... avrei un’altra preghiera da fare... Lalla alzò gli occhi dolcemente, e continuò a sfiorare colle guance la mano del giovanotto. — Vorrei... avrei... un piccolo... ricordo. Sandro s’era fatta rosso, balbettava, e ritirata la mano che aveva libera, di mezzo ai regoli, tolse di tasca l’anellino e volle porlo in dito alla fanciulla. — Oh, carino!... carino!... — esclamò Lalla molto contenta del regaluccio, e gli andò così vicina, nel ringraziarlo, ch’egli potè toccarle colla bocca un ricciolo di capelli. Si faceva già tardi, e conveniva separarsi. I due giovani, da molto tempo non parlavano... Sandro non la accarezzava più, ma brancicava le mani e le braccia della fanciulla colle sue mani convulse, attraverso i regoli dell’inferriata, che rugginosi e scabri, spesso gli graffiavano i polsi. Anche Lalla cominciava a sentire nel suo sangue il sangue di Sandro. Un’onda calda li avvolgeva entrambi; avrebbero creduto di avere la testa nel fuoco, tanto bruciava... La fanciulla spinse fuori dai vani quanto più potè il viso e le labbra, e per la prima volta, sulla bocca, prese un bacio lungo, bramoso, che le penetrò, diffondendosi via via, per tutte le membra... Sandro pieno di beatitudine voluttuosa, pur colle braccia imprigionate, la teneva serrata fortemente contro il petto; le sbarre di ferro ammaccavano le loro carni, ma essi non sentivano più nulla. Stettero un pezzo così, stretti, abbracciati, avvinghiati insieme... poi la fanciulla stanca, indolenzita, gli uscì di sotto le braccia, e scivolò ginocchioni per terra, col capo piegato sul davanzale della finestra. All’indomani, poco prima della partenza della signorina, c’era nel cortile una brigatella che l’aspettava per augurarle il buon viaggio. La carrozza che doveva condurla alla stazione, con Prospero e con la miss, era già pronta; gli altri, cioè la Nena, Lorenzo e il signor Francesco, erano partiti fin dal mattino. Era venuto per salutare la signorina anche il signor Domenico, che soffriva una grande soggezione del duca Prospero; poi c’era il medico, al quale miss Dill, allungando gli occhi su don Vincenzo che tabaccava a due mani per nascondere l’emozione, chiedeva ancora un ultimo consulto. C’era, in fine, il buon Ambrogio cogli occhi rossi, il Frascolini padre, e il figliuolo Sandro colle mani approfondate nelle tasche e il cappello sulla nuca, pallido, istupidito. Accanto a lui la Luigia (questa doveva partire più tardi colla duchessa) teneva sotto il braccio Musette che, povera bestiola, aveva fiutata la partenza della padroncina e, scuotendosi, dimenandosi, sforzandosi invano per liberarsi dalle strette della cameriera e correre da Lalla, emetteva certi guaiti, che straziavano il cuore e le orecchie. Prospero, cui non piacevano i cani, aveva desiderato che la figliuola lasciasse Musette in campagna, promettendole in premio un bel cavallino da sella. Lalla, insistendo un po’, avrebbe potuto ottenere l’uno e l’altra; invece, fu ragionevole, e si piegò subito ai voleri del babbo. Ma tutta mattina non seppe far altro che baciucchiare la cagnetta, protestando che Musette aveva capito ogni cosa; che Musette piangeva; che Musette non voleva più mangiare e che sarebbe morta dal dolore!... E si lamentava assai per quel distacco, godendo d’attirarsi la compassione altrui, per il capriccio del babbo tiranno. Intanto la signorina era già salita in carrozza, e miss Dill insieme con lei: non si aspettava altro che il duca. Don Vincenzo, approfittando del ritardo, si avvicinò alla carrozza dalla parte dell’istitutrice. Miss Dill non poteva parlare; aveva il gozzo stretto, gli occhi gonfi e il naso pieno... quando ad un tratto, vinta dall’emozione, fe’ un cenno a don Vincenzo, e allora, per la prima volta alla luce del sole, in faccia alla gente, le sue dita gialle si sprofondarono adagio adagio nella complice tabacchiera. Il buon Ambrogio era dolente e insieme anche un po’ mortificato: la duchessina partiva senza neppure salutarlo. Egli si teneva in disparte, sotto il portico, fra Sandro e la Luigia, fissando, ammirando la signorina, che non stava mai ferma nella carrozza. Lalla si voltava di qua, di là, domandando se tutto era pronto, se nulla era stato dimenticato; ridendo, scherzando, salutando ora l’uno, ora l’altro, colla sua vocina fresca, argentina. Il vecchio Ambrogio sperava sempre che avesse a voltar gli occhi anche dalla sua parte; ma Lalla non lo guardava perchè vicino a lui c’era Sandro. Si era congedata affabilmente con tutti; ma a Sandrino non aveva rivolto una parola, proprio come se il giovanotto non ci fosse stato nemmeno. Nel frattempo anche il duca Prospero, seguito da Maria, la quale voleva riabbracciare la figliuola, si avviava verso la carrozza, dispensando sorrisi, e strette di mano. — Devo andare, eccellenza? — domandò il cocchiere, quando lo vide adagiato al suo posto. — Sì; andiamo pure. — No, no; aspettate... scusa, babbo! — esclamò Lalla, balzando a terra improvvisamente. — Bada!... Che fai? — le gridò dietro Maria, mentre la fanciulla correva presso la Luigia. L’inaspettato ritorno della signorina fece battere il cuore, nello stesso tempo, a Sandro e ad Ambrogio. Sandro ebbe quasi paura che Lalla, non potendo più trattenersi, corresse a gettarsi fra le sue braccia; il buon Ambrogio, invece, sperava che la signorina si fosse ricordata anche di lui, e lo volesse salutare. Ma Lalla non badò nè all’uno nè all’altro; prese Musette fra le braccia, le scoccò in fretta sulla bianca testolina, un bacio forte, sonante, poi con un salto risalì lesta in carrozza, pestò sui piedi alla miss e senz’altro partì, fregandosi gli occhi col fazzoletto. Due giorni dopo, anche Maria dovette partire per Borghignano. Ma sul punto di abbandonare quei luoghi si sentì troppo commossa, e volle far andare a vuoto la gentile attenzione degli abitanti di Santo Fiore, che le avevano preparato una dimostrazione di affetto. Anche il dolore ha la sua verecondia, e Maria sentiva nell’anima la delicata timidità dell’allodoletta ferita, che si trascina, per morir tutta sola, nel luogo più riposto e appartato. Partì verso sera, senza averlo detto ad alcuno: lo sapevano solamente don Gregorio, Ambrogio e la Luigia. Uscì a piedi con don Gregorio, il quale volle accompagnarla alla stazione: presero una stradicciuola nascosta, fiancheggiata da due rivi, che scorrevano silenziosi sotto le fronde profumate delle acacie. Tutti e due camminavano passo passo, senza parlare, e il loro sorriso era triste, come tristi dovevano essere i loro pensieri. Il buon vecchio si appoggiava al braccio di Maria; per altro la sua figura cadente, rovinata dagli anni, il suo volto solcato da rughe profonde, le lunghe ciocche di candidissimi capelli che lo contornavano, insomma tutto l’insieme di quell’aspetto venerando, non formava vicino alla delicata bellezza di Maria un contrasto sgradevole. Fra quella testa bianca e quella vaga testina bionda, c’era una mesta corrispondenza di espressione e di sentimento. Maria era addolorata e sgomenta. In mezzo all’affanno dell’abbandono, nell’ignoto di una vita nuova, incerta, col rammarico della bella libertà, della quiete perduta, doveva pur confessare a sè stessa che una gioia colpevole, la certezza di rivedere Giorgio, serpeggiava ancora, e più forte e più indomabile, nel suo cuore. In quelle lotte, in quei rimorsi, anche sotto i baci di suo marito, l’ideale adorato era sempre vivo, vivo più che mai; e faceva arrossire di vergogna la poveretta, cui pareva di essere contaminata, di non essere più degna della immagine cara e gentile. Allora non ebbe coraggio, non volle, disarmata, sfidare il pericolo a cui moveva incontro, e con un filo di voce confidò l’affanno di quella sua gioia segreta a don Gregorio. Solo per un delicato riserbo tacque il nome del conte Della Valle. Don Gregorio l’ascoltò attentamente, guardandola con un sorriso buono e pio, e stringendole la mano con un’affettuosità paterna: — Fatti coraggio — le disse. — Tu sai da molto tempo che la vita è lotta e dolore. Combatti sempre colla tua fede nell’anima, col tuo retto sentire per guida, e trionferai... Tu sei forte e buona!... — Oh, don Gregorio, no, non sono forte! Sono una povera donna affranta, allo stremo di forze; aiutatemi voi, voi che siete un santo! — Noi, non sono un santo, figliuola. Io, vedi, sono stato sempre lontano dal pericolo; ho vissuto tranquillo e dimenticato, senza seduzioni, e senza battaglie. Il Signore non ha mai voluto provarmi, forse perchè nella sua sapienza infinita conosceva la mia debolezza. A essere buono, a essere onesto non ho dunque alcun merito; ma tu, tu hai combattuto e hai vinto: combatterai ancora, e quantunque nella lotta possa uscire col cuore sanguinante, non indietreggerai d’un sol passo, non ti farai colpevole di una sola debolezza, perchè, lo sento, tu sei fatta come Dio fa gli angeli! — Ma se un giorno... se un giorno mi sentissi troppo debole, io, povera donna, sola, abbandonata a me stessa?... — Allora ritornerai nel tuo sicuro rifugio, e se non mi troverai più vivo, ti aspetterò là, — e così dicendo don Gregorio indicava a Maria l’angusto cimitero di Santo Fiore, che si scorgeva poco lungi, colla chiesetta illuminata, tra il bianchiccio delle sepolture recenti. — Ti aspetterò là; e tu, sulla mia croce, ricorderai che questo povero vecchio ti amò, come amò la sua fede; penserai a tua madre, e ritroverai la calma e il coraggio. — No, no; voi non dovete morire... — Io sono vecchio; ho fatto molto cammino... e ormai sono stanco, figliuola... In quel punto, dal vicino sagrato, frammisto al mormorio delle fronde e al vario e acuto frastuono d’una miriade di grilli cantaiuoli, giunse fino al loro orecchio una pia cantilena; un inno grave, melanconico, dolcissimo. Erano le litanie della Vergine, il vecchio canone, che nella sua monotona cadenza ha tanti fascini di mistica melodia, tanta dovizia di memorie intime e care. Erano le voci bianche, argentine delle povere giovanette del villaggio, così colme di fede, d’innocenza e d’amore, alle quali rispondevano in coro tutti i devoti, raccolti nella solitaria chiesetta. — Sentite... — disse Maria a don Gregorio, fermandosi d’un tratto. — È la Vergine, la Vergine che mi parla in quelle preghiere, la Vergine che mi conforta; oh! beneditemi, beneditemi, padre mio! — E la sconsolata, palpitante, commossa, si curvò baciando, coprendo di lacrime, la scarna mano del vecchio. Don Gregorio alzò gli occhi al cielo e pregò in silenzio; intanto dalla chiesetta, più chiaro, più lento, usciva l’inno dei credenti: Sancta Maria Sancta Dei Genitrix Sancta Virgo Virginum Ora pro nobis. — Pregate ancora, pregate sempre per me!... — La preghiera più bella, la preghiera più accetta è il tuo dolore. Piangi, figliuola mia, le lacrime sono la preghiera del cuore. — Promettetemi adesso che, se io fossi presso a morire, voi verrete a consolarmi, a benedirmi, anche laggiù... — Verrò... figliuola, verrò... — E... se non riuscissi a dimenticare... se quell’immagine fosse sempre più forte della mia volontà?... — Combatti, combatti sempre... — Allora?... — Allora la tua passione farà di te una martire, e non sarà una colpa, ma un esempio. — Oh, grazie, grazie! Sento che Iddio non mi abbandona, sento che sarò forte sino alla fine. Maria si rialzò più sicura e più consolata. Attorno a lei, perdendosi come un ultimo e caro saluto, vagava, fremendo nell’aere, l’onda armoniosa dell’inno sacro. Involontariamente don Gregorio unì la sua voce fioca, tremula a quella squillante, vibrata delle giovanette, che adesso si sentivano sempre più lontano cantare con l’invariata cadenza: Regina Confessorum Regina Virginum Regina Sanctorum omnium mentre Maria rispondeva col coro, invocando la Vergine santa della nostra fede: Ora pro nobis. XVIII La famiglia d’Eleda non si fermò a Borghignano che pochissimi giorni. Maria non si fece quasi vedere da nessuno e ripartì col marito, Lalla e miss Dill, alla volta di Pegli, dove avevano stabilito, tutti d’accordo, di far la cura dei bagni. Pegli era allora di moda. Vi si vedeva raccolto il fior fiore dell’eleganza, e fra gli altri c’era anche il conte Pier Luigi da Castiglione, il quale aveva abbandonata la diplomazia perchè oramai, mortagli la moglie, non trovava più alcun bisogno di star lontano da casa sua. Quantunque vecchio, Pier Luigi era un sottaniere incorreggibile: grande, grasso, floscio, colla faccia rasa bucherellata dal vaiolo, la pelle viscida, il capo pelato, coperto solo dai pochi capelli della nuca variopinti, lunghissimi, tirati sul cranio e incollati l’un presso all’altro con una maestria singolare. La bocca sdentata; il naso enorme, paonazzo, carnoso, sembrava una spugna filettata di vene azzurrognole. Era un coso, insomma, assai ributtante; ma aveva molti quattrini, preferiva nelle donne la forma alla sostanza, e quando riusciva a snidare qualche nuova selvaggina (era la sua frase) le si fregava d’attorno con un’insistenza così paziente e così petulante, da farsela cadere nelle mani nove volte su dieci. Bisognava vederlo il vecchio e grosso sornione a strisciar fra le quinte o a salterellare nei salotti di dubbia fama! Le mime, le ballerine, le cantanti da operetta, lo chiamavano — lo zio, — ed egli gongolava tutto a fare il coccolo, il bambinone, in mezzo a quello sciame di cicale. E anche dopo soddisfatto il capriccio non le lasciava andare; ma continuava a tenersele sotto mano, a visitarle nelle ore perdute, a regalarle di chicche e di fiori. Prendeva parte ai loro affari, dava consigli a proposito dei protettori, e le informava paternamente della cifra che questi potevano spendere, le rappattumava coi loro amanti, pettegolava colle cameriere, le teneva tutte sotto le sue ali, come s’egli fosse la chioccia del bordello. Quando gli andò in paradiso la moglie, Pier Luigi tirò un sospirone; non doveva più correre fino a Parigi, a Vienna o a Berlino per divertirsi; tutto il mondo è paese, e il conte da Castiglione aveva capito che anche in Italia c’era da godersela abbastanza bene. Ma la fortuna, quella maledetta fortuna, proprio sul più bello del gioco, gli fece un tiro birbone: gli fe’ cadere addosso, nientemeno, una pupilla dai diciannove ai vent’anni, una nipote della sua povera moglie, la quale, in tal maniera, lo teneva legato alla catena anche dal mondo di là. La signorina Giulia di Rocca Vianarda era un bel pezzo di ragazza; pareva lavorata nel burro; bianca, rosea, tondeggiante, con certi capelli neri da zingara e due occhi grandi che bruciavano. Ma aveva la disgrazia di appartenere a una gran famiglia, e di essere senza un soldo di dote, ragion per cui Pier Luigi poteva ben correre con lei tutti gli stabilimenti di acque e di bagni da Santa Maria a Viareggio; un marito, un marito purchessia, non c’era verso di poterlo trovare. Il povero tutore sbuffava; si tingeva a più radi intervalli, e cominciava per davvero a piangere sua moglie, che almeno lo lasciava libero all’estero e che, se fosse stata ancora quaggiù, se l’avrebbe digerita lei, la nipote! — È stato un accidente, è stato: — un tiro di mia moglie, un tiro! — esclamava in tono di lamento il povero Pier Luigi, che aveva l’abitudine di ripetere le parole; e, non trovando altri partiti possibili, vagheggiava l’idea di far sposare la pupilla a suo nipote Giorgio Della Valle. Per cominciare dunque a mettere la paglia vicino al fuoco, egli aveva scritto a Giorgio che lo aspettava a Pegli, ma senza comunicargli il proprio disegno... per non spaventarlo. Intanto era un conforto per il conte da Castiglione quando riusciva a collocare la Giulia in qualche famiglia di conoscenti. Di solito, appena arrivava in un albergo, sua prima cura era quella di studiare la tabella dei forestieri. Se c’era una qualche signora che gli poteva andar bene, anche se non la conosceva affatto, trovava sempre la via, immaginando conoscenze reciproche, fabbricando giri e rigiri di parentele, di diventare amico e, alle volte, di scoprirsi suo mezzo parente. Ma a Pegli non era riuscito di trovar nulla. C’erano molte signore sue amiche; ma erano lì per divertirsi, per essere libere, per farsi corteggiare, e di fare la parte di madre nobile non ne volevano sapere; ed egli si dava già per un uomo perduto, quando un bel giorno, colla gioia di una gratissima sorpresa, lesse sulla lista dei nuovi arrivati all’albergo, anche il nome del duca d’Eleda con famiglia. Fece i gradini a due alla volta e capitò ansando in camera della pupilla cogli occhi che gli brillavano sotto le ciglia spelate, e coi capelli ingommati che gli si sollevavano tutti uniti sul capo, come un guscio d’ostrica. — È arrivata la duchessa d’Eleda, è arrivata! — La duchessa d’Eleda?... Non la conosco... — rispose Giulia, che non potè a meno di sorridere vedendo la faccia ridicola del rispettabile tutore. — Come non la conosci?... Devi conoscerla. È la figlia del fratello del tutore di mio nipote, è la figlia, perciò siamo quasi, potrei dire, mezzo parenti. Vieni presto, da brava; andiamo subito a salutarla. La duchessa era amica intima della tua povera zia, io sono amicissimo del duca, faremo vita insieme, faremo. — Domani o dopo arriva anche Giorgio... — Tanto meglio! E così, mentre Maria con Lalla e con Prospero stava per scendere nella sala da pranzo, venne annunziata la visita di Pier Luigi e della Giulia. Furono subito ricevuti e con molta cordialità. Le fanciulle si scambiarono una rapida occhiata, e bastò perchè si valutassero a vicenda! Lalla trovò Giulia troppo grassa, Giulia trovò Lalla troppo magra, e così rimasero contente tutte e due. Dopo il solito scambio di gentilezze scesero sul terrazzino, in riva al mare, aspettando insieme che suonasse la campana della table d’hôte; poi a pranzo, parlarono di Firenze, di Roma, di Borghignano, domandandosi conto reciprocamente degli amici comuni. Maria, per altro, sebbene quelle chiacchiere fossero assai banali, sentiva dentro di sè una viva inquietudine. Chi l’avesse attentamente osservata, avrebbe notato in lei un leggero tremito che alle volte la faceva trasalire. Parlava distratta; ma invece era confusa: perchè?... Perchè prevedeva che il discorso, a lungo andare, sarebbe caduto su Giorgio Della Valle. — È molto tempo, duchessa, che non ha notizie di mio nipote? Prospero Anatolio, che non si aspettava la domanda, si fece serio, senza volerlo, mentre Maria rispondeva un — no — quasi impercettibile. — Oh, col Della Valle, io e mia moglie — rispose pronto il d’Eleda — abbiamo molti conti da aggiustare. — La politica lo guasta — concluse Pier Luigi con tono convinto — e bisogna dargli moglie, bisogna. Il giudizio è come lo spirito: colle donne chi ne ha lo perde, e chi non ne ha lo acquista... chi non ne ha!... A quella notizia dell’arrivo di Giorgio, Maria impallidì; anche Prospero, quantunque l’accogliesse con un grazioso sorriso, ne avrebbe fatto senza volentieri. Tuttavia il pranzo finì lietamente come era incominciato, e alle frutta, Pier Luigi, vedendo che le fanciulle, perfettamente dimesticate, chiacchieravano insieme, ridendo e scherzando, esclamò rivolgendosi alla duchessa Maria: — Era proprio quello che mi ci voleva!... La Giulia, poveretta, trovandosi sola a Pegli si annoiava mortalmente. Spero però che la nostra duchessa sarà tanto buona da voler dividere con me le cure paterne, per le quali son proprio disadatto, e da permettere che qualche volta affidi a lei e a miss Dill la mia cara pupilla!... La miss rispose con una smorfia. Ne aveva già una delle ragazze da sorvegliare, e le bastava; la duchessa graziosamente accettò e, tanto per cominciare, il conte da Castiglione le lasciò in custodia la Giulia, subito, quella sera medesima, mentre lui aveva da fare una scappatina a Genova. A Pegli si poteva proprio dire che la gente vi si annoiava a furia di divertirsi. Di giorno, le passeggiate nella villa Pallavicini, e le gite in mare; la sera conversazione, concerti, feste da ballo... e, anche a Pegli, Maria ebbe subito il primo posto, senza cercarlo e senza volerlo, mentre invece rimpiangeva la quiete e la pace di Santo Fiore. Il mondo, che d’altronde non può mutare, era sempre il medesimo: frivolo, corrotto, tristo. Maria vedeva gli uomini più seri e più stimati, cercare l’amicizia di suo marito, per poterla meglio corteggiare e insidiare. Non uno le aveva dato prova di sentimenti nobili e leali. Non uno?... sì! uno c’era stato; ma per farla penare maggiormente. Maria e Giorgio, la prima volta che si erano incontrati a Pegli, si erano salutati con quell’aria diplomatica colla quale le persone per bene si credono in obbligo di soffocare ogni cordiale espansione. — Oh! Buon giorno, conte; anche lei a Pegli? — Di passaggio, duchessa... — Tal e quale come se si fossero veduti il dì innanzi; invece dall’ultima visita del conte Della Valle a Santo Fiore erano trascorsi vari anni. Però l’emozione di Maria era stata così viva, che interamente non potè sfuggire nemmeno a Giorgio. Il rossore delle guance, l’occhio scintillante, il tremito, il bruciore della mano, tutto ciò fu notato da Giorgio che trovò la duchessa più bella, più buona e più affettuosa. Maria trovò Giorgio sempre lo stesso e perciò continuò ad amarlo... sempre di più. Pier Luigi, appena Giorgio gli capitò fra le mani, cominciò subito, colla sua arte di vecchio diplomatico, a tastare il terreno. Gli domandò se ancora non aveva pensato di mettere la testa a partito, — di abbandonare la sinistra e di offrire la destra ad una donnina che lo facesse marito felice e padre fecondo... — Gli ricordò che i trentacinque anni erano suonati, che i Della Valle, se non ci pensava lui presto presto stavano per estinguersi, e che ad una certa età, la moglie fa anche bene alla salute. Giorgio gli rispose francamente che ci aveva già pensato, che stava pensandoci ancora; ma però egli voleva sposare una ragazza della quale fosse innamorato, una ragazza che sapesse fargli perdere la testa. — E in quanto alla Giulia — soggiunse ridendo — sai che cosa ne dovresti fare? — Che cosa? — Tua moglie. — Mia moglie? — Sicuro... tanto per liberartene. — To’, non ci avevo pensato... non ci avevo... In un caso disperato... la sposerò io! Se a Pegli si divertivano molto, non era vero, per altro, che si divertissero tutti. Le ragazze, per esempio, vi erano molto trascurate; e si annoiavano. Qualche senatore gottoso che si faceva recitare gl’Inni Sacri, o — l’Addio ai monti — del Manzoni: qualche vecchio professore della scuola romantica, qualche pivellino che si raspava la pelle per farsi crescere i baffi, e finalmente qualche ufficiale superiore colla pancia e cogli occhiali, erano i soli adoratori, e i ballerini delle ragazze. Del resto, tutto quello che c’era di brillante e di elegante apparteneva alle signore. Il coro... dell’innocenza aveva un bel da fare, tentava tutti gli espedienti e tutte le attrattive: il candore, la modestia, la lingua inglese, il pianoforte, ma non c’era verso; scambiate appena quattro parole di convenienza, quelle povere ragazze erano piantate in asso, attorno al tavolo del thè. Lalla pareva ne soffrisse meno delle altre; ma non era vero. Era brava, invece, e riusciva a non lasciare scorgere la propria rabbietta. Sentiva anche un po’ d’invidiuccia contro sua madre, tanto cercata e tanto festeggiata, e si vedeva troppo lontana dai trionfi che si era ripromessi; ma tuttavia, non disperava. Aveva capito che per ottenerli non le mancava più che un marito: il punto di contatto, appoggiata al quale la donna solleva il mondo. Un marito?... Lalla portava un gran nome, era l’erede di una grande fortuna; quantunque non fosse bella, era assai piacente. Oh, un marito non si sarebbe fatto aspettare!... Anzi, non avrebbe avuto che da scegliere!... E Lalla si guardava attorno cogli occhi belli che vedevano, che scoprivano tutto, anche quando li teneva abbassati e raccolti, con quell’aria modesta che la faceva somigliante ad una Vergine del Murillo. Le cose erano a questo punto, quando una sera nella quale a Pegli si ballava per beneficenza, le ragazze annoiate e ristucche si riunirono in congiura. — È ora di finirla e di vendicarsi! — esclamò la Giulia con gran calore. — Come fare? — Sì, brava; se si potesse vendicarsi! — In che modo? — Facendoci sposare! Tutte le ragazze applaudirono ridendo, e correndo dietro a Giulia uscirono sul terrazzo. — Va bene, ma come si fa? — Bisogna scegliere prima il fortunato mortale a cui destiniamo l’impareggiabile possesso del nostro cuore; poi quando lo avremo scelto, farlo restare sul colpo... innamorato morto. Ci state? — Sì! Sì! Sì! — gridarono in coro tutte le ragazze. — Allora seguitemi e guai ai vinti! — Giulia correndo in giro sul terrazzo, si fermò ad una finestra della sala da ballo e, indicando alle compagne le coppie che passavano ballando, cominciò con voce nasale, imitando il modo di parlare del suo tutore: — Signorine! Vedete quell’animale, vedete, bianco di sotto, nero di sopra nero, piuttosto brutto, piuttosto?... Ebbene, quell’animale si chiama uomo. È irragionevole, e basterà a dimostrarlo la sua indifferenza a nostro riguardo. Tutti gli uomini sono uguali dinanzi a Dio; non è così, peraltro, dinanzi alla donna, la quale, secondo i gusti li preferisce biondi, neri o marrons... — Glacés! — Silenzio, Lalla! — Non interrompere! — È bipede sempre — continuò la Giulia — quantunque alle volte, quantunque... basta, pare impossibile, pare. Ha il dono della favella, ma pure conserva ancora una grande difficoltà nel pronunciare il monosillabo sì matrimoniale. Ci fu uno scoppio d’applausi; ma la Giulia ristabilì prontamente il silenzio, e continuò: — Quell’animale, signorine, noi dobbiamo sceglierlo per nostro legittimo consorte. È una sventura; ma siccome le sventure non vengono mai sole, così, vi avverto può succedere il caso che quello scelto da noi non ne voglia sapere... non ne voglia! — E allora, come si fa? — domandò una piccola biondina col naso schiacciato e rivolto all’insù, che prendeva viva parte al giochetto. — Allora, o si va in convento, o si medita un suicidio, oppure, meglio, si ricomincia da capo, scegliendone un altro. — Brava Giulia! — Brava! — Alla scelta!... Alla scelta! — Va bene, ma a chi tocca scegliere per la prima? — Io direi di andare per ordine di anzianità — propose la figlia di un colonnello della Territoriale. — Benissimo! — Allora tocca alla Giulia... — Veramente non saprei... se tocca proprio a me. — Quanti anni hai tu, Isa? — Diciotto. — E tu? — Diciassette. — Diciotto. — Diciannove. — E tu Lalla? — Io?... sedici; ma vi avverto che se una di voi si sceglie il marito che piace a me, io non lo cedo a nessuno. — Senti come prende fuoco la santarella! — Animo, animo, senza tanti discorsi; tocca alla Giulia. — Ebbene, non perchè sia la più vecchia; ma accetto il posto d’onore, come un tributo della vostra sommissione. — Bene, approvato! — esclamò Lalla; — e ora a noi: tu Giulia hai il numero uno, tu Clara il numero due, la Isa il tre, l’Adele il quattro. — E io?... — E noi?... — interruppero le altre, non comprese nella lista. — Abbiate pazienza voi — rispose Lalla, — come ne ho io. Giustizia vuole che sia servito prima chi è più tempo che aspetta. In questo punto gli accordi di un valzer di Rovere echeggiarono nella sala da ballo; le fanciulle si strinsero tutte serrate alla finestra e proprio di contro a loro videro le coppie aggruppate che una alla volta si avanzavano ballando, finchè la sala, che prima pareva quasi vuota, si popolava, si affollava di figure, di colori, di fiori, di trine, di gemme, mentre la musica della piccola orchestra rimaneva soffocata dal tramestìo delle voci varie, confuse e dallo strisciare e il battere dei piedi sul pavimento, misto col fru-fru cadenzato dei lunghi strascichi delle vesti. — Attento il numero uno! — gridò Lalla alla Giulia. La prima coppia che si avanzava era composta di una signora attempatotta, enormemente grassa ed ansante, che si teneva attaccato un piccolo tenentino ai cavalleria, biondo, roseo, paffuto e ricciutello, il quale, davanti a quel donnone, pareva proprio che ci fosse a balia. — Chi prende il tenentino Pippoli?... Numero uno a rispondere! — Rifiutato. — Numero due. — Rifiutato. — Numero tre. — Idem. — Numero quattro? — Come sopra! — Allora lo prenderò io, — -disse timidamente la biondina, quella del naso all’insù. — Signore anziane, accordate Pippoli alla postulante? — domandò Lalla alle altre ragazze. — Accordato! Accordato! — risposero in coro. — Ed ora, attente. Adesso veniva una ballerina che si teneva ciondoloni in braccio ad un bel signore alto, biondo, colla chioma studiatamente inanellata, la scriminatura larga, diritta, giusta, la gardenia all’occhiello della giubba e il pince-nez dorato. Ballava, tal e quale, come se facesse la cosa più seria del mondo, respirando a tempo di musica e non curandosi affatto della compagna, tutto compreso in una gran prosopopea. — Attenta, Giulia, — esclamò Lalla vedendolo, — questo... è magnifico! — Oh! bello! Oh! bello! Oh! bello! — esclamarono tutte insieme, con finta ammirazione. — Numero, uno, è per te. — Stupendo, ma non lo merito: lo cedo al numero due. — Troppo tardi, la scelta è già fatta. — Anch’io, — riprese la Giulia, — mi sono impegnata. — Allora al numero tre, — disse Lalla. — Non posso. Il mio cuore è già preso; o lui o il convento. — Ma veramente, lo statuto si oppone ai voti segreti. — No, no!... La scelta è libera! — esclamarono di nuovo le ragazze. — Ci siamo tutte maritate ormai!... Di nubile non c’è più che Lalla! — Oh! io non ho premura e non mi sgomento; mi voglio prendere... chi sarà il vostro preferito! — Bene! Brava! Bravissima! Accettato! — e le allegre giovanette incominciarono a battere le mani gridando: si divertivano a far rumore e ci tenevano a farsi notare. E qualcheduno infatti già cominciava a prestar attenzione a quello stormo di belle ragazze: anche il conte Della Valle, ch’era ritto in piedi, pensoso ed immobile in fondo alla sala, alzò il capo, ma non si mosse; si mosse invece e uscì sul terrazzo un avvocatuccio un po’ attempatello, rotondo come un barilotto di vermutte, colla sua brava medaglia di deputato appesa alla catenella. — Oh! Oh! Dove si nascondono, dove si nascondono le signorine belle? — cominciò l’onorevole — qui si ride e... — E là si muor! — rispose subito una del coro canticchiando e nascondendosi dietro le compagne, che ridevano e scherzavano. — Vediamo un po’, vediamo un po’, — continuava l’onorevole, — che cosa vuol dire questa diserzione in massa dalla sala da ballo?... C’è chi lamenta, e a ragione, la scomparsa dei nostri fiori più belli. — Oh, caro! par vivo! — borbottò Lalla, a mezza voce, tanto da esser intesa solo dalle compagne, mentre assumeva in faccia al deputato un’aria contegnosa. E le altre, senza dargli retta, cominciarono a corrergli d’intorno, domandandosi e rispondendosi sempre ridendo: — Numero uno, è per te! — Grazie, non ne prendo! — Numero due! — Non ne voglio! — Numero tre! — Rifiutato! — Numero quattro! — Respinto! — e scappando, chi di qua, chi di là, lasciarono solo, con un palmo di naso e con un sorriso ancora da finire sulle labbra il pover’uomo, che se ne tornò via mogio mogio. Sparito il deputato, tutte le fanciulle, come uno sciame d’uccelletti, ritornarono, correndo, attorno alla finestra. — Dunque, dal momento che la nostra scelta è fissata, ir-re-vo-ca-bil-men-te, — disse la Giulia, — confidiamoci a vicenda, giurando prima di dire la verità e null’altro che la verità, lo sposo scelto dal nostro cuore, per cercare di metterci d’accordo, nel caso di elezioni contrastate, e schivare i danni della concorrenza... e schivare! Ma, pare impossibile, una proposta tanto opportuna fu accolta freddamente e, messa ai voti, venne respinta. La Giulia replicò, ma non ebbe miglior fortuna, e invece fu approvato all’unanimità un emendamento di Lalla, che proponeva di scegliersi un’amica comune, alla quale ognuna avrebbe confidato il proprio segreto. In tal modo, nel caso contemplato dalla Giulia, di un solo marito scelto da due o più pretendenti, l’amica ne informerebbe le parti interessate invitandole ad un accordo amichevole. — Sta bene, ma chi sarà la depositaria dei nostri segreti? — Lalla; è la più giovane, è la più buona; e poi, ancora non ha scelto nessuno. Il nome di Lalla fu accolto con favore, e la piccola duchessina fu tirata di qua è di là dalle fanciulle che se la contendevano e che pian pianino, una dopo l’altra, dentro l’orecchio, sotto voce, nascondendosi la bocca dietro la mano, le confidavano il nome del proprio sposo, meno la biondina dal naso all’insù, che dichiarava apertamente di restar fedele al tenentino Pippoli. Lalla, indifferente dopo ascoltata la prima confessione, alla quale sorrise, alla terza fece un atto di meraviglia, alla quarta non seppe più contenersi e dopo l’ultima divenne pensosa. Tutte le compagne la guardavano stupefatte senza capire, mentre Lalla le fissava seria e muta. — E dunque? — chiese la Giulia. — Ma parla! — Che hai? — Vuoi rispondere, sì o no? — Parlerò, e sarà sempre troppo presto. — Insomma, vuoi spiegarti? Lalla, lentamente, pronunciò un nome. Le fanciulle si guardarono tra loro, s’intesero, senza dir motto, e dopo di essersi tenute il broncio per un momento, proruppero in una grande risata. Nelle confidenze delle sue amiche, Lalla non aveva udito che un solo nome; tutte insieme, e senza saperlo, avevano scelto lo stesso sposo: il conte Giorgio Della Valle. — Non c’è altro da fare in questo frangente, che raccomandarsi alla sorte, — esclamò Giulia. Era sempre lei quella delle proposte. — Mettiamo tutti i nostri nomi in un’urna, come nel Ballo in maschera, e il primo estratto diventerà la contessa Della Valle. — No, — obbiettò Lalla, senza ridere. — . Sacrificatevi tutte a un modo e cedetelo a me. — A te? No, no! — Nemmeno, per sogno! — Sentite; io non l’ho scelto, per cui non sono una rivale, e non avrete la mortificazione di prendervi un marito destinato dalla sorte. — Te?... Che cosa vuoi che ne faccia di te? Sei nata ieri! — È un difetto a cui sarà rimediato domani. — Bella pretesa! — disse Giulia, pavoneggiandosi coll’alta persona, che primeggiava. — Sei tanto piccola che per darti un bacio dovrebbe tirarti su colla carrucola! — E la duchessina divenne allora lo zimbello di tutte le ragazze che la tormentarono con un accanimento feroce, per quanto fosse da burla. Ella però le lasciò dire sorridendo e sopportando le cattiverie delle amiche senza punto arrabbiarsi; ma anche dopo finito il giuoco, rimase sopra pensiero: l’incidente le aveva fatto un’impressione vivissima. Essa cominciò a guardare con grande attenzione quell’uomo singolarissimo che aveva ferito la fantasia di tutte le sue compagne: lo trovò piacente, lo vide cercato da tutti e accarezzato, mentre attorno al suo nome crescevano il rispetto e l’ammirazione. Egli era ricco, i Della Valle per condizione sociale valevano bene i d’Eleda... — Come la Giulia rimarrebbe attonita — pensava Lalla — come si arrabbierebbe, se io riuscissi a farmi sposare davvero! L’impresa non era facile; ma la duchessina si sentiva istigata a tentarla... e la tentò. Subito, appena entrata nell’ambiente suo naturale, Lalla aveva cominciato a non sentir più altro che disgusto per il primo amoretto di Santo Fiore. Sandro scapitava troppo in confronto degli eleganti giovinotti che la circondavano, e la fanciulla, dimenticando di essere stata lei a volerlo a’ suoi piedi, faceva ormai pesare sull’amante il pentimento che, nell’interno suo, già sentiva spuntare per la propria debolezza. Ricordava come altrettante offese, offese che l’avrebbero avvilita mortalmente agli occhi della società, le carezze, le promesse, le parole d’amore del povero contadinello che, in tal modo, era diventato per lei una memoria uggiosa e persino odiosa. Prima di partire, la duchessina si era fatta promettere da Sandro che questi manderebbe una sua lettera, ogni settimana, alla Nena; la Nena, che non sapeva leggere lo scritto, si sarebbe rivolta alla padroncina, la quale, in tal modo, avrebbe avuto notizie del giovinotto e avrebbe potuto leggere fra le righe ciò che riguardava lei solamente. E allo stesso modo senza compromettersi, cioè sempre col mezzo e col nome della Nena, essa gli avrebbe anche risposto. E gli rispose infatti, una volta nei primissimi giorni, ma volle che la Nena firmasse la lettera: — Tant’e tanto, il tuo nome lo sai tirar giù! La Nena, senza un sospetto al mondo, si prestava di buon animo alla gherminella, e cominciava anzi a sperare che il filodrammatico avesse del tenero per lei: cosa che le dava una grande smania, e le metteva il diavolo addosso, perchè quel giovanotto le era sempre piaciuto, e piaciuto assai. L’ultima lettera del Frascolini era capitata col timbro di Venezia. Sandro s’era messo con suo cugino; ma per il commercio, scriveva, non si sentiva inclinato. — Aveva troppa poesia nella mente e nel cuore; no, non poteva stentar la vita chiuso tutto il santo giorno in uno stambugio oscuro, senz’aria e senza luce. Oh! come il mondo era diverso da quello ch’egli si foggiava passeggiando sulle verdi praterie di Santo Fiore! Quanti ostacoli da rimuovere; quante angoscie, fino allora ignorate! A quel modo si sarebbe intisichito sul libro mastro prima di raggiungere il suo scopo, prima di dar corpo al suo sogno. No, no; voleva respirare all’aperto, voleva farsi un nome; era un poeta, non era un mercante; era nato per l’arte e non per l’aritmetica! No, no; avrebbe lottato a corpo a corpo con la fortuna, a costo di morir sulla breccia, ma con la sua donna nel cuore, e il sole in faccia! A queste parole, la Nena, povera innocente, pianse dalla commozione; ma Lalla invece, con molta calma e con molta ragionevolezza, rispose a Sandro (s’intende a nome della Nena), che ...egli doveva pensare soltanto al proprio avvenire; che pur troppo il mondo, come diceva benissimo lui nella sua lettera, era molto diverso da quello vagheggiato a Santo Fiore, e ch’egli non doveva correre in cerca di una chimerica felicità, mentre avrebbe potuto ottenere, a Santo Fiore stesso e senza abbandonare la propria famiglia, uno stato sicuro e decoroso. — Non capisco bene che cosa, infine, gli raccomando? — s’arrischiò di domandare la Nena alla padroncina prima di firmare la lettera. — Gli raccomandi di metter giudizio, e gli dimostri il tuo sincero attaccamento. — Ma se il signor Alessandro se n’avesse a male? — Tu non capisci nulla; sei scema e testarda! Va, va, mettici sotto il tuo nome ben chiaro, e porta la lettera alla posta. Com’è facile supporre, la Nera ricevette a volta di corriere un’altra lettera del Frascolini, nella quale egli dichiarava recisamente che, — per quanto se lo aspettasse quel colpo, tuttavia non lo aspettava così subito, e avrebbe sempre creduto che almeno dovessero avere per lui un po’ di carità; che del resto non dovevano sperare di poter liberarsi così facilmente di un uomo che avevano reso pazzo d’amore, che avevano deriso e tradito. Sì — concludeva Sandrino, — sarebbe stato molto meglio per me se mi avessero lasciato tranquillo a casa mia, senza darmi le vertigini dell’amore e dell’ambizione; giacchè hanno voluto trascinarmi sulla loro strada, giuro per tutti i santi che sulla loro strada mi troveranno sempre, — e si ricordino bene quello che sto per dire: se ho amato, se amo, se amerò eternamente, non sono disposto per questo a rinunciare ai miei diritti, e tanto meno a lasciarmi sacrificare, vittima inerte e rassegnata, da un capriccio assassino. Chissà come sarebbe rimasta la povera Nena se la signorina le avesse letta tutta intera la lettera, ma Lalla, invece, prima la scorse con una rapida occhiata, e ne spiegò poi il contenuto rifacendolo a suo modo. Lalla, adesso, voleva farla finita: disse alla Nena che era tempo di troncare quell’amicizia; se il Frascolini le avesse scritto nuovamente, doveva consegnare subito a lei, le lettere ancora chiuse e non rispondergli più. Aveva capito, continuava la duchessina, che il Frascolini era un poco di buono, senza religione, senza carattere, e che avrebbe finito certo, se la Nena continuava in quella corrispondenza, col farla capitar male. Sandrino scrisse tre altre lettere piene d’ira, di dolore, di minacce, ma a Lalla non fecero nè caldo nè freddo. — Ho fatto bene — pensava — a non fidarmi di quel matto, a non lasciargli nulla tra le mani che mi potesse compromettere. Alla fine poi, perchè tante smanie? Gli ho forse mai lasciato sperare che sarei diventata madama Frascolini? — No! No! No! — E dunque? — Quali diritti può vantare?... — Sono stata troppo buona con lui; ecco il mio torto! Se io lo avessi trattato d’alto in basso come gli altri suoi pari, adesso non mi scriverebbe insolenze, il villano! E il conte Della Valle?... Il conte Della Valle da qualche tempo si sentiva intorno quel certo malumore, quel certo malessere che precede una malattia, o è il presentimento di una disgrazia. E la sua malattia, la sua disgrazia... era l’amore. La prima volta ch’egli rivide Lalla, non ne era rimasto molto colpito. Notò ch’essa era piuttosto piccolina, che aveva la figuretta fine, elegante, e gli occhi bellissimi. Nient’altro. Ma, dopo qualche giorno, egli si era messo a guardarla più sovente e con piacere. Quel suo fare modesto, senza essere troppo timido, quell’aria composta e nello stesso tempo cortese e vivace, fin anche l’ascetismo, il clericalismo aristocratico dell’esile duchessina formavano un tutt’insieme che gli riusciva molto interessante. Più di tutto erano gli occhi... quegli occhi maravigliosi che gli avevano fatta impressione!... No, non era bella, ma quegli occhi la rendevano irresistibile!... Essa, la fanciulla modesta, li teneva quasi sempre abbassati, ma si sentivano, si vedevano quasi anche di sotto alle palpebre, e quando li rialzava lentamente, parevano ingrandirsi, diventavano lucenti, perdevano la loro soave timidità per esprimere un sentimento più caro e dolcissimo. E fu in tal modo che Giorgio si accorse di essere guardato e... a sua volta cominciò a cercare, a chiedere con uno sguardo insistente, desideroso, lo sguardo tenerissimo della fanciulla. — Come ti piace la duchessina d’Eleda? — aveva chiesto una sera Giorgio Della Valle a Pier Luigi, cominciando, senza accorgersene, a parlare troppo spesso di Lalla. — Non è vero ch’essa è molto carina? — Ecco, ti dirò, — rispose il conte da Castiglione, col fare di un uomo convinto della propria competenza in materia, — ti dirò: la trovo carina da guardare, la trovo; ma per tutto il resto preferisco sempre sua madre. Non ha niente di appetitoso! quaresima, caro mio, piena quaresima!... È vero per altro che sono tipetti... nervosi, dotati di straordinaria... elettricità: ma appartengono a un genere che noi vecchi non possiamo molto apprezzare. Ci si vede per altro la buona razza; le attaccature le ha fine, delicate e ha due braccia maravigliose. Peccato che, di solito, questo è il male, le gambe non corrispondano alle braccia, non corrispondano. Potrebbe darsi che quella lì fosse un’eccezione; ma ne dubito, è troppo piccolina! Le gambe di Lalla erano una seria preoccupazione per Pier Luigi. Egli voleva sapere se le gambe della fanciulla erano belle come le braccia; e voleva saperlo senza secondi fini; era una cognizione di più che desiderava acquistare e niente altro. Ma Lalla, intanto, non poteva fare una scala senza che Pier Luigi non ci fosse sotto col naso in su. Ella se n’era accorta, e faceva le scale a precipizio, tenendosi serrata contro il muro. Per altro si godeva nel destare, nell’aizzare quella curiosità, e più di una volta quando c’era Pier Luigi presente, si lasciava sfuggire colle compagne che il giorno dopo avrebbe presa una lezione di nuoto, tanto per godersi il vecchio che stava tutto il giorno a farle la posta. Ma al nuoto Lalla non ci andava mai; i suoi scrupoli religiosi vi si opponevano, e anche la gran paura che aveva dell’acqua salsa. La risposta dello zio impertinente aveva urtato i nervi al conte Della Valle. Egli aveva mutato subito il discorso, arrossendo anche un poco. Quelle parole erano troppo ciniche e ributtanti! Giorgio era ritornato con Lalla il buon amico, il camerata di un tempo. Era adesso tutto intento nel metterle in bell’ordine un copiosissimo album di francobolli, e per averne i più rari, aveva scritto apposta a un suo amico del Ministero degli Esteri. Ballava con lei tutta sera, le impegnava persino il cotillon, godendosi a scherzare, a ridere, a prenderla in giro, affibbiandole sempre i ballerini più vecchi, più grassi e più ridicoli per suoi adoratori. Egli sentiva di ringiovanire e di riposare. Ma a poco a poco i loro discorsi si facevano più seri e più lunghi. Giorgio era arrivato a parlare con lei anche di politica, appassionandosi per indurla alle proprie idee, pur ammirando la sua coltura, il suo spirito, il suo ingegno; e dopo di aver cominciato col darle l’attacco, terminava sempre col difendersi. Aspettava desideroso che Lalla scendesse in sala o in giardino, e, se lei tardava a comparire, lui affettava di tardar di più ad accostarsele. Quando non si potevano parlare, si capivano guardandosi, e guardandosi appena si scambiavano osservazioni, preghiere e rimproveri. S’erano dato l’aire ridendo e scherzando... ma poi adesso non ridevano più; si erano fatti seri. Lui, alle volte, impacciato; lei arrossiva vedendolo e abbassava gli occhi; ma anche senza guardarsi si sentivano... Erano sempre poco lontani l’uno dall’altra; nelle passeggiate, alla villa o lungo il mare, Giorgio offriva sempre il braccio a Lalla, e Lalla lo aspettava, camminando innanzi sola... senza accettare il braccio degli altri. Dopo qualche giorno ancora non si parlavano più... lui più non si fermava a farle contemplare il mare ampio e il serto verdeggiante delle colline; lei più non lo faceva arrabbiare pel suo colore politico; ma, quando la fanciulla alzava gli occhi lentamente e li teneva fissi negli occhi di Giorgio, nell’azzurro profondo di quelle lunghe occhiate egli dimenticava tutto il passato in un’estasi nuova, sognando gioie serene, purissime. XIX In quell’estate il caldo durava insistente, e per ciò. quantunque si fosse ormai verso la fine d’agosto, ben pochi erano i forestieri che si disponevano ad abbandonare le bagnature. Maria, o la Madonna di Neve, come la chiamavano anche a Pegli, continuava ad essere la gemma più cara e più pregiata. Tranquilla, sicura, un po’ fredda all’apparenza, solamente il pallore del volto e gli occhi profondi avrebbero forse potuto scoprire l’interno travaglio dell’anima sua. In quanto a Prospero Anatolio, egli non le badava nemmeno, e se ancora sentiva della rabbietta gelosa contro il Della Valle, questa non era ispirata che dalla fama e dalla popolarità che godeva l’autorevole deputato di Borghignano. Quando discorreva con Giorgio, il duca recitava la parte dell’uomo stanco, sfiduciato, che aveva dato volontario addio alla vita pubblica; ma invece ci pativa di non contar più nulla davvero; di essere in politica un uomo finito. Un’altra cosa non sapea perdonare al conte Della Valle: di non averlo proposto ai suoi amici del Ministero per l’ultima infornata di senatori. Se fosse stato un avversario leale, avrebbe dovuto, secondo lui, riconoscere che nel Senato il duca d’Eleda sarebbe stato al suo posto. Però quod differtur non aufertur. Prospero Anatolio ci sperava ancora. In certi suoi apprezzamenti e giudizi sulla politica del gabinetto pareva che volesse lasciar credere al Della Valle d’essersi tagliata la coda. Se lo teneva vicino, e anche lui, col sistema di Pier Luigi, quasi quasi ci trovava la mezza parentela. Maria non capiva suo marito; quella condotta non sapeva spiegarsela; ma poi, finì col non pensarci quasi più: una nuova e fiera angosciosa battaglia si accendeva nel profondo del suo cuore. Giorgio da qualche giorno teneva con lei un contegno affatto nuovo. Era pieno di premure, e non la lasciava mai sola, un minuto. Quando Maria passeggiava a braccio con lui sentiva il cuore di Giorgio che batteva più forte, mentre le parlava vicino vicino, fissandola con tenerezza, affettuosissimamente, come non aveva mai osato. Quello poi che le dispiaceva di più era la corte sfacciata che anch’egli faceva a Prospero e faceva a Lalla; tanto che, se Lalla non fosse stata ancora una bambina in confronto di Giorgio, Maria avrebbe dovuto troncarla subito; insomma, anche il suo ideale si offuscava, e la poveretta, disingannata, sentiva ch’esso pure stava per ispiegare le insidie... per tentare di sedurla. — Anche lui come gli altri!... — Ma Giorgio, l’uomo leale e onesto, non poteva lasciarsi vincere dallo stimolo di un capriccio, di un affetto volgare; egli conosceva Maria troppo a fondo per poter credere, per poter sperare il più tenue ricambio; dunque... dunque Giorgio doveva trovarsi dominato da una forza irresistibile, che non gli permetteva più nè di ragionare, nè di vincersi; che lo rendeva misero, infelice, e forse, invece di condannarlo, avrebbe dovuto compiangerlo!... Egli non aveva ancor detto una parola che potesse offenderla, ma le sue premure si facevano sempre più insistenti e palesi; e Maria volle fuggire di nuovo. Bisognava partire subito; si fece coraggio, e domandò a suo marito quando sarebbero ritornati a Borghignano. — Quando vuoi, cara: domani è venerdì... partiremo dopo domani. — Conosciuta appena la risoluzione della famiglia d’Eleda, la colonia dei bagnanti, per consolarsi del distacco, volle dare un gran ballo, che sarebbe stato l’ultimo della stagione. Ma non si consolarono tutti a quel modo; anzi ci fu, precisamente, chi non si consolò affatto. Il povero Della Valle era rimasto sbalordito, quasi sgomento, ad una tal nuova. Guardava Maria con occhiate lunghe e dolenti, e più di una volta stava per aprir bocca, per confidarle chi sa che cosa, ma poi non aveva coraggio di cominciare. Maria, la quale credeva di capire che cosa Giorgio voleva dirle, anche Maria faceva di tutto per non lasciarlo parlare. E l’ultimo giorno di Pegli rimase chiusa in camera per non vederlo, per non incontrarlo; ma, il dopo pranzo, dovette pur scendere, e non avendo alcuna buona ragione da addurre, dovette assistere al ballo che veniva dato appunto in suo onore. Per altro si sforzò a ballare quasi tutta la sera, e si tenne sempre intorno un gran circolo, per non avere a trovarsi sola con Giorgio, che le girava continuamente vicino, e faceva un braccio di muso a tutta quella gente. In fine, passeggiando dopo una quadriglia, che Maria non gli avea potuto negare, egli, tremando un po’ nella voce, le domandò un’ora, per l’indomani, nella quale potesse riceverlo, solo, avendo gran bisogno di parlarle e di parlarle a lungo. Maria diventò pallida, lo fissò seriamente, quasi serenamente; poi, senza rispondergli, si staccò dal suo braccio e sparì dal ballo, lasciando il conte Della Valle molto meravigliato, e anche un po’ mortificato. — Anche lui, come gli altri! — continuò Maria a ripetere, a dolersi; e non lottando più oltre per vincere il proprio amore, più sincera con sè stessa, solo rimpiangeva il caro ideale svanito, perduto, e non capiva che se lo rimpiangeva era solo perchè lo amava sempre, sempre di più, e perchè in tutto quel tempo passato insieme, il suo ideale si era fatto più forte, più vivo, era passato dall’anima al cuore. Il giorno dopo essa non uscì dal suo quartierino, nemmeno per scendere a pranzo; ma il Della Valle non si perdette d’animo; e trovato il momento nel quale Lalla era andata in chiesa con miss Dill, e Prospero stava meditando sullo Spettatore, si fe’ coraggio e salì solo solo in cerca della duchessa. L’uscio del salotto era socchiuso, e dalla fessura egli potè scorgere Maria appoggiata alla finestra, che gli voltava le spalle, e allora, ricordandosi che quella donna per tanti anni era stata come una sorella per lui, entrò risoluto, chiamandola per nome. Maria guardava il mare, ma era pur sempre fissa ne’ suoi tormentosi pensieri, quando udì la voce di Giorgio, gittò un grido, e si voltò come spaventata. — Che volete?... — Come siete qui?... Perchè?... Come siete entrato?... — Non mi sono fatto annunziare perchè temevo, in tal caso, che non mi avreste ricevuto — rispose il Della Valle, non senza amarezza. — Scusate, ma... — Noi due, non ci conosciamo da ieri, Maria, ma da molti anni. Fummo sempre come fratello e sorella. Perchè oggi non dobbiamo più essere... nemmeno due buoni amici? — Ma... — Vi cerco, e voi mi fuggite sempre?... Vi domando un colloquio, e voi me lo rifiutate? Maria, tanto si sentiva commossa, si lasciò cadere sopra una poltrona ch’era vicino alla finestra. La tenda, dapprima sollevata dalle sue mani, calò giù, distesa, e il salottino rimase al buio. — Sono molti anni. Maria, — continuò il Della Valle, — sono molti anni che voi vi siete mutata con me; molto mutata. Che cosa vi ho fatto? Nulla, posso dirlo, nulla! Fanciulli tutti e due, abbiamo avuto comuni le prime gioie e i primi affetti: ricordate che io chiamavo mamma, la vostra mamma?... Vi ho voluto bene sempre come una sorella, e se oggi comincio a sentire per voi un altro affetto, forse più forte, ma ugualmente sacro, per l’anima mia ve lo giuro, non c’è nulla ch’io vi debba nascondere, nulla di cui mi abbia a vergognare, nulla che possa meritarmi la vostra freddezza, e tanto meno poi la vostra collera. La passione traboccava dalle parole di Giorgio, e la povera donna, combattuta da tanti e così opposti sentimenti, sorpresa in un momento di abbandono, vinta quasi da una persecuzione così spietata, eppur così cara, credette d’intravedere nell’uomo che le parlava un linguaggio così eloquente per il suo cuore, tutta la storia dei suoi propri dolori, delle stesse sue gioie; non ebbe il coraggio di condannarlo e nemmeno la forza di farlo tacere. Sentiva troppo che la colpa non avrebbe potuto nascondersi in quell’animo onesto, che la menzogna non avrebbe potuto macchiare quella fronte aperta e leale; non lo condannò ma lo compianse, come compiangeva sè stessa; alzò gli occhi negli occhi di lui e stordita, affranta, senza parlare, colla gola serrata, stese una mano al Della Valle, che la prese tremante, e inginocchiandosi a un tratto innanzi a lei, la coprì di baci. — No... no... andate via... andate via. — Mi perdonate? — balbettò l’altro con un fil di voce — mi perdonate?... e, come foste mia sorella, vorreste essere anche... un poco... mia madre?... Maria sentì un brivido, una stretta al cuore che la fece balzar di scatto, per ricadere come morta, livida, sulla poltrona. Buon per lei ch’era scuro là dentro e che Giorgio, bene, non la poteva vedere. — Lalla?... — balbettò con uno sforzo che pareva un singulto. — Lalla... sì... l’amo, l’amo, l’amo!... come un pazzo! — Voi?!... — Ve ne scongiuro, Maria, non vogliate essere gelosa dell’affetto di vostra figlia per me. Se Lalla mi vorrà un po’ di bene, questo affetto non sarà tolto, credetelo, alla sua immensa tenerezza per voi; invece di uno solo avrete due figli... che vi adoreranno... — Ma io, io non posso... — Voi potete tutto, e perciò è a voi che io mi rivolgo. Ritornate buona con me e... e se un giorno vi ho offesa, se un giorno ho potuto spiacervi difendendo troppo vivamente chi aveva dei gravi torti verso di voi, perdonatemi, se non altro, in conto delle mie buone intenzioni; perdonatemi, e ritornate mia sorella oggi, per essere mia madre domani, perchè oggi è a mia sorella ch’io mi rivolgo pregandola di chiedere formalmente per me, al duca e alla duchessa d’Eleda, la mano della loro figliuola. Amo Lalla come non ho amato mai, come non sapevo, come non sospettavo neppure che si potesse amare; e nel ricambio di questo affetto è riposta ora, e per sempre, tutta la felicità, tutto lo scopo della mia vita, e la mia vita istessa. Detto ciò, il Della Valle, baciata ancora una volta quella mano fredda, ghiacciata, ch’egli teneva stretta fra le sue, si ritirò inchinandosi profondamente, e lasciò sola Maria, volendo rispettare quel momento tanto solenne e grave per il cuore di una madre. Maria, rimasta sola, strinse la fronte come per riordinare le idee, e il cuore, quasi per ispremerne l’affanno. Oh! l’ideale ritornava bello, alto, puro; ma ritornava tale mentre le chiedeva la mano di sua figlia. Povera donna!... Povera donna! — Che cosa avrebbe fatto? — Suo primo pensiero fu quello di rispondere al Della Valle con un rifiuto; ma quale ragione, quale pretesto avrebbe potuto adoperare? Ogni madre sarebbe stata lieta ed orgogliosa di concedere in isposa la propria figlia al conte Della Valle... e lei no? Perchè?... perchè essa lo amava? perchè il Della Valle era il suo amore segreto? Ma ciò essa non poteva, non doveva dirlo ad alcuno! E così, colpevole come donna, colpevole come moglie, si sarebbe fatta colpevole anche come madre, sacrificando a quel suo amore, l’avvenire e la felicità della propria figlia? — Combatti, combatti sempre — le aveva detto don Gregorio, e allora la tua passione non sarà una colpa ma un esempio. Combattere? ma chi gliene avrebbe data la forza? Fuggirlo, non vederlo mai più, soffocare l’amor suo, soffocando anche il proprio cuore, uccidendosi a poco a poco, questo avrebbe potuto fare; ma dare in isposa la propria figliuola all’uomo ch’ella stessa amava, che adorava in segreto, oh era troppo pretendere da lei, e davanti a quel sacrificio enorme, mostruoso, il suo cuore, la sua mente, il suo sangue, tutta lei si ribellava e aveva diritto di ribellarsi; ma come fare?... come fare? E così, povera donna, il rimorso, l’amore, mille dubbi angosciosi l’agitavano, la torturavano con assalti nuovi e spietati! Oh! s’ella avesse potuto morire in quel giorno!... Ma a poco a poco, dopo qualche ora di strazio, ritornò la pace al suo spirito. Riflettendoci bene, pensò che Prospero non avrebbe acconsentito a quelle nozze; no, no, certamente. Egli non avrebbe mai concessa la mano di Lalla al suo fiero avversario, al suo competitore, al suo vincitore; e Maria, affidandosi a quel soccorso insperato, volle subito uscire da ogni incertezza, fece chiamare il marito, e superando a stento la propria commozione, gli espose la inaspettata domanda del conte Della Valle. — E tu, cara, tu che cosa gli hai risposto?... — Io?... nulla; ma credevo, temevo che... che tu... — Credevi... temevi... per il sì, o per il no?... — e il duca Prospero disse queste semplici parole sorridendo bonariamente; ma le accompagnò con un accento singolarissimo e con una finezza così ironica che volevano alludere segnatamente al di lei amore per Giorgio, ch’ella tanti anni prima gli aveva confessato. — Certamente — soggiunse Maria che non tremava più, fatta sicura da un impeto subitaneo di rivolta; — certamente, questo matrimonio sarebbe convenientissimo per ogni verso: ma dubito assai che vi possa essere qualche serio ostacolo per la disparità delle vostre idee e delle vostre opinioni, e, francamente, per la reciproca antipatia che ho sempre notata fra voi due. — L’antipatia, cara, è una sensazione, più che un sentimento, e si modifica a seconda dei casi. Il Della Valle, per esempio, che mi era antipaticissimo come uomo politico, sotto il nuovo aspetto di genero non lo vedrei punto di mal occhio. Se le nostre idee sono agli antipodi, che cosa importa? Tutte le convinzioni vanno rispettate quando sono sincere. Bisogna essere tolleranti a questo mondo, e mostrandosi tale si guadagna un tanto anche nella pubblica estimazione. E poi... e poi i tempi si fanno difficili; la marea cresce, cresce ad ogni ora, spaventosamente; e se la Monarchia, a forza di democratizzarsi, andrà a gambe levate, quel giorno, credilo, cara, l’aver in casa un po’ di repubblica, sarà una gran fortuna. Sicuro che se tu non dividi queste mie vedute, se tu per ragioni particolari, ch’io rispetterò sempre, non vuoi consentire con me... — Io sono d’accordo, pienamente. — E allora, meglio così; e facciamo buon viso a questo... genero, inviatoci dalla Provvidenza. E intanto pensava tra sè: — È pienamente d’accordo, dunque non lo ama, e non lo ha amato mai! Ma la sicurezza, la tranquillità di Maria, provenivano da una nuova speranza che le era balenata: fra Lalla e Giorgio c’era troppo differenza d’indole, di gusti di temperamento e di età; Lalla non avrebbe potuto innamorarsi d’un uomo serio, d’un filosofo come il Della Valle, e che aveva quasi vent’anni più di lei: e se sua figlia avesse sentito di non poter esser felice con lui, allora Maria avrebbe avuto non il diritto solamente, ma anche il dovere di salvare la propria creatura. — Tutto sta bene — disse Maria in forma di conclusione al marito, — ma si deve interrogare Lalla in proposito. Capirai, in questo caso, la sua volontà deve essere legge per noi. — Sicuro, sicuro; la sua volontà prima di tutto: quantunque ella non dovrebbe avere una volontà diversa dalla nostra. Sicuro, bisognerà interrogarla. Tu per altro, se la trovi titubante, cerca, s’intende per il suo bene, di persuaderla. Deve essere contenta lei, prima di tutto, questo sì; ma noi abbiamo il dovere di pensare alla sua vera felicità. Io la mando qui subito; se accetta è una grande consolazione per me, se... se volesse rifiutare, ribatti, insisti, ma sempre colle buone, e se non ci riuscirai... mi ci proverò un pochino anch’io. Prospero Anatolio uscì gongolante dalla camera della moglie, corse giù dalle scale, con un’agilità da giovanotto, e andò in cerca della figliuola. Quel matrimonio gli accomodava moltissimo. Gli ritornava la popolarità a Borghignano, gli apriva le porte del Senato, temperando le tinte del suo colore politico, gli assicurava la quiete, la tranquillità negli sconvolgimenti dell’avvenire, e finalmente acquietava, completamente e per sempre, il suo cuore e la sua vanità di marito. Lalla non gli era stata mai tanto cara, e quando la ebbe raggiunta, l’abbracciò più volte, coprendola di carezze e di moine. — Hai pregato il Signore? Lo hai pregato proprio col cuore? — Sì, babbo; per te e per la mamma. — Ebbene, la tua mamma ti aspetta; ha da parlarti di cose molto serie, molto importanti. Va, corri da lei, e ricordati che una buona figliuola non deve avere altra volontà tranne quella dei suoi genitori, che le vogliono bene, e che si sacrificherebbero anche, pur di vederla felice... ad ogni costo. Lalla, alle prime parole, aveva capito tutto; ma finse, si intende, di non capire nulla, e corse dalla mamma. Come Maria l’aspettava, può immaginarlo soltanto chi ha molto amato e molto sofferto; la risposta di Lalla voleva dire la sua felicità, voleva dire la sua vita... Maria le parlò tremando, impallidendo, con le labbra secche, con gli occhi arsi, ma senza una lacrima. Invece Lalla l’ascoltò sino alla fine, poi si gettò fra le sue braccia piangendo e abbassando la vaga testolina, con una verecondia piena di grazia infantile. Maria era perduta. Intanto Prospero Anatolio che aveva speso bene il suo tempo origliando alla porta, per regolarsi secondo gli eventi, entrò sorridente, beato. Lalla sorrise anche al babbo fra le lacrimucce, e, come si era prima gettata nelle braccia della mamma, così adesso corse a nascondersi in quelle del suo caro papparino, con gli stessi attucci pieni di verecondia e di gioia. XX L’itinerario già stabilito dal duca non fu perciò punto modificato, e i d’Eleda partirono il giorno dopo per Borghignano. Non parve neppur conveniente che Giorgio li seguisse subito subito; egli avrebbe dunque aspettato un’altra settimana prima di raggiungerli. Quei pochi giorni di tregua erano più che necessari a Maria. Trovare la calma, la pace, ella non poteva sperarlo, ma almeno, così, un po’ di tempo lo avrebbe avuto per raccogliersi in sè stessa, e rinvenire da quel colpo terribile, come chi, preso da capogiro, sente il bisogno di fermarsi, di chiudere gli occhi e di riposare. Nel lunghissimo viaggio, la nobile famiglia non fece molti discorsi. Maria... si capisce; Lalla pensava al rumore che leverebbe la nuova di quelle nozze, e al dispetto della Giulia; Prospero Anatolio meditava il suo primo discorso in Senato, mentre l’agitata miss Dill, coll’emicrania, si rodeva per non poter sapere che cosa avrebbero fatto di lei dopo il matrimonio della sua scolarina. L’avrebbero tenuta in casa ugualmente alle condizioni di prima? la lascerebbero in libertà, con un assegno vitalizio? oppure la pianterebbero in mezzo alla strada? Perchè, con quegli egoisti, c’era tutto da aspettarsi!... Intanto sperava di trovare a Borghignano una lettera di don Vincenzo, al quale aveva già scritto, per consigliarsi, appena scoppiata la bomba. Al loro arrivo trovarono la casa piena di parenti e di amici, e cominciarono le congratulazioni. Un telegramma di Prospero Anatolio spedito da Pegli al conte Eriprando, aveva già divulgata la lieta novella, e dalla Curia Vescovile al gran Caffè di Borghignano, tutti la ripetevano l’uno all’altro, come l’avvenimento più importante della giornata. Ogni parola, ogni complimento di quella gente vuota e pettegola era una stretta dolorosa per il cuore di Maria. Tutti erano infuriati a lodare la coppia bene assortita e ad enumerare con gli entusiasmi di occasione le gran belle doti del promesso sposo. — Se dura la Sinistra al potere, in una prossima ricomposizione lo vediamo ministro, o per lo meno segretario generale — profetava solennemente uno dei suoi grandi elettori. — Non è più un giovinetto, ma è sempre il gran bell’uomo — esclamavano le signore. — Oh, quella santerella non è stata certa di cattivo gusto! — Fortunata lei! — E fortunato lui! — saltò su a dire un’altra amica che si teneva stretta al braccio della duchessa. — Se il Della Valle avrà una sposina simpatica, lasciatemelo dire, avrà pure anche la gran bella mammina!... — Fra un annetto — terminò ridendo con amabile malizia, il medico di casa — avremo una nonna che potrà dare dei punti all’invidia ed alla gelosia di molte nipoti. — Oh, sì; sì certo! — E così, continuamente, accanitamente, senza tregua, senza remissione, Maria era perseguitata, torturata, angosciata. Alla lunga non ci potè più resistere, e Prospero Anatolio, vedendola pallida con gli occhi incavati e le labbra arse dalla febbre, le domandava ogni poco se si sentiva male; ma poi cambiava subito discorso, contentato dalla prima risposta negativa, e soddisfatto in tal modo di non essere costretto a impensierirsene. Quanto più grande era il coraggio di Maria, quanto più grande era lo sforzo col quale riusciva a dissimulare con tutti, anche con sua figlia, anzi più di tutti con lei, lo spasimo interno che la struggeva, tanto più forte era la scossa che il suo fisico ne doveva risentire. Anche l’arrivo improvviso di Giorgio, che anticipò di ventiquattr’ore il ritorno, fu cagione per la poveretta di angoscie nuove e inaspettate. Erano tutti raccolti nel salotto: Lalla al pianoforte, provava un notturno delicatissimo di Chopin quando, d’un tratto, la soneria del portone fece trasalire la poveretta... e un momento dopo, entrava, appena annunziato, il conte Della Valle. Egli sembrava un po’ titubante per quella leggera infrazione al prescritto; e — mi perdonate? — domandò inchinandosi e salutando, mentre sentiva dentro di sè che Lalla era lì, presente. Eppure non aveva avuto il coraggio di voltarsi, di guardarla! La fanciulla arrossì... senza muoversi, miss Dill rimase dura, impettita, e il solo Prospero Anatolio festeggiò il nuovo arrivato saltandogli al collo, e abbracciandolo con enfatica tenerezza. Poco dopo il Della Valle (che era riuscito per miracolo a schivare una discussione sul macinato), seduto accanto alla sua Lalla, tanto per avere un pretesto di restarle vicino, le voltava le pagine della musica. Ma quelle pagine, adesso, avevano una strana difficoltà nel piegarsi; le interruzioni si succedevano più lunghe e più frequenti, finchè la musica tacque, o per dir meglio cambiò di tono, e si mutò in un chiacchierìo sommesso intimo, affettuosissimo, non meno armonioso e molto più soave per quei due che si volevano bene. Venne il thè... e Lalla dovette alzarsi a servirlo lei. Giorgio voleva aiutarla, ma le offriva il cucchiaino quando occorrevano le mollette, e le mollette invece del cucchiaino. Lalla, dopo servito anche il babbo, portò il thè al fidanzato — era un pensiero amabile, col quale voleva dire che per lei, egli era già della famiglia — e Maria notò che nel prendere la tazza, Giorgio strinse delicatamente la punta dei bei ditini affusolati della fanciulla, così che la tazza rimase sospesa fra quelle due mani; notò uno sguardo, lungo, tenerissimo, ricambiato; e quando Lalla dovette pure allontanarsi, Maria vide lui fatto più pallido per la cara voluttà di quel muto colloquio. Dopo il thè non c’erano più altre scuse per Giorgio; bisognava andar via. Però egli fece e rifece i saluti lentamente, senza mai risolversi a infilar l’uscio; cercando tutti i pretesti per riattaccar discorso con l’uno o con l’altro, pur di fermarsi un po’ ancora. Fu lui; questa volta a tirar in ballo il macinato, e per mezz’ora lì, ritto in piedi, attento, senza interrompere, ascoltò il discorso politico di Prospero Anatolio, con una pazienza di cui Lalla gli mostrava cogli occhi quanto gliene fosse riconoscente. Nemmeno Prospero fu ingrato, e lo invitò a pranzo per l’indomani; ma i due fidanzati avevano una quantità di disegni e Giorgio aveva già trovato un pretesto per dover venire a casa d’Eleda anche nella mattinata. Adesso, per altro, bisognava andar via: anche Prospero era esaurito. Volle provare con miss Dill, e le buttò un motto sopra l’Irlanda, ma l’istitutrice, che fingeva aver più sonno del vero per fargli dispetto, lo guardò dietro il pince-nez, co’ suoi occhi pelati, in modo tale da disingannarlo, caso mai egli avesse potuto sperare di trovarsi un’alleata. Bisognava andarsene; bisognava andar via. Il salottino era attiguo ad una specie di galleria lunghissima, che da una grande invetriata metteva capo allo scalone. D’estate, aperto l’uscio, si respirava dalla galleria un’arietta fresca, deliziosissima. Giorgio se ne andava lentamente... Lo si vedeva ancora, nel buio, e si sentivano i suoi passi battere scricchiolando sul pavimento, quando Lalla, accortasi ch’egli si era dimenticata non so che noticina per certe sue commissioncelle, gli corse dietro chiamandolo e rimproverandolo scherzosamente. L’altro si fermò sul pianerottolo dello scalone, poi tornò indietro. Allora Prospero Anatolio, che dal salotto li vedeva bene, fe’ cenno a Maria che si avvicinasse anche lei per guardarli. I fidanzati si credevano soli; si erano presa la mano, si parlavano vicinissimi, finchè Giorgio lentamente baciò i capelli della fanciulla. Prospero ridendo tossì e Giorgio scomparve. — E pensare — esclamò il duca rivolto alla moglie, — e pensare che tu, un giorno, avevi voluto farmi geloso di lui!... Di nostro figlio!... Lalla poteva chiamarsi felice. Non aveva più nulla a desiderare, era amata da chi voleva essere amata; la sua vanità era soddisfatta, come lo era il suo cuore, che credeva allora di amare e di amare sul serio. Ma, un bel giorno, mentre meno lei se lo aspettava, l’azzurro sereno di quella dolcissima pace fu intorbidito da un caso impreveduto. La notizia delle nozze illustri era ormai giunta fino a Venezia, e capitata proprio all’orecchio di Frascolini quando il famoso cugino aveva appena alzato il tacco in cerca d’altri lidi, lasciando ai creditori la cassa vuota e la bottega chiusa. Sandro non voleva dar quella nuova alla sua Lalla, altrettanto divina quanto crudele; e ormai apertamente in rotta col babbo, non sapeva più a qual santo votarsi per far fortuna. Colla sua voce avrebbe potuto tentare il teatro, e quell’idea lo seduceva assai, ma una volta tenore bisognava rassegnarsi a perdere Lalla per sempre, e il nostro giovanotto era più che mai innamorato, quantunque si sforzasse per credere di non esserlo più. Anzi, senza saperlo, difendeva Lalla in cuor suo; e quando egli riusciva a trovare una buona scusa per la signorina si sentiva meno infelice. Col pensiero era sempre là: imprecava contro Lalla, giurava di vendicarsi, di odiarla come odiava tutto il mondo; ma, mentre era vero, pur troppo, che lui cominciava ad odiare e il mondo e i galantuomini, amava Lalla sempre di più, e con frenesìa sempre maggiore. Soltanto quando sentì la notizia del matrimonio, soltanto allora, diventò cattivo davvero. Tutte le passioni gli si scatenarono nell’anima. L’odio, la gelosia, l’amore, quanto egli aveva sperato e sofferto, poi l’abbandono, quel disprezzo noncurante e spietato, l’acre voluttà goduta, e sempre irritata dai vivi ricordi, tutto ciò lo avrebbero trascinato, spinto a qualunque eccesso. Partì subito da Venezia, e senza un pensiero pel grave scandalo che ne poteva nascere, non appena smontò a Borghignano, si avviò difilato al palazzo d’Eleda. La Nena fu la prima che lo vide. Stirava su nella guardaroba; e la sua emozione fu così forte da scottarsi le dita col ferro caldo. — Maria Vergine! — esclamò, il signor Alessandro! — e non seppe dir altro. Ma l’emozione, il turbamento della povera ragazza non furono nemmeno avvertiti dal giovinetto che, a sbalordirla ancor di più, le domandò senza preamboli; — La signorina, dov’è? — La duchessina?... è giù, in sala, colla signora duchessa e il signor conte Della Valle. Non si può vederla per ora. A queste parole Sandro urlò una bestemmia, battendo il pugno sulla tavola: il colpo rimase attutito dallo stiratoio di lana; ma i ferri sobbalzarono così fortemente come il cuore della Nena. Il Frascolini le si avvicinò, le prese un braccio stringendoglielo in modo da lasciarle il livido, e — andate subito da lei, — le intimò fissandola di traverso — andate subito da lei, non importa fosse anche col Padre Eterno, e ditele che io... io, Alessandro, quello di Santo Fiore, sono qui che l’aspetto, perchè voglio dirle quattro parole e che, per Dio, non mi muovo di qui se prima non gliele ho dette. La Nena uscì sbigottita. Non sapeva più se era desta o se sognava, se Frascolini era sano o ammattito; ma qualche cosa di vago, di indistinto, le stringeva il cuore e le facea intravedere d’essersi illusa quando avea creduto che quel ragazzo pensasse a lei, e le volesse bene davvero. Per altro aveva ancora la testa a segno, e invece di scendere dalla signorina, come voleva Sandro, corse affannata a riferir la cosa a miss Dill, la quale era appunto in camera sua, almanaccando senza far nulla col solito crochet fra le mani. Appena inteso di che si trattava, la miss si tolse le lenti e sgranò gli occhi per veder in faccia la Nena. — Venga, venga subito con me. L’istitutrice si alzò senza fiatare. Altro che pensione, altro che rendita vitalizia!... Se si scopriva quell’amoretto, era spacciata! E corse da Sandrino per calmarlo. — Non ascolto nulla, sono irremovibile. Voglia vederla, voglio vederla sul momento; ha capito?... — Non si può, subito, non si può. Siate ragionevole, via, non le fate del male. — Ci ha pensato lei, prima, se ne faceva a me, del male? — Siate ragionevole, siate umano: se non volete per noi, siatelo almeno per la signorina! — La miss, a questo punto, aveva presa una mano del giovinotto e la stringeva fortemente, mentre gli occhi le si facevano loschi per la tenerezza. — Oh, in quanto a lei, signora, mi commove poco anche lei. Ricordo, sa, ricordo bene tutte le sue cattiverie!... Io le inghiottivo per amor di quell’altra!... Ma la cuccagna è finita! — Stia ferma! — Non mi commove, le dico, non sono don Vincenzo!... Chiami subito la signorina. Il nome di don Vincenzo, buttato lì quasi a casaccio, fece molto effetto sulla povera miss. Non fiatò più, abbandonò la mano del giovanotto e rinunciò ad ogni altro tentativo di seduzione. — Conducetelo nella mia camera, — ordinò alla Nena, — e aspettateci là. — Ditele che ho fretta — insisteva il Frascolini — che non ho tempo da perdere, che se non viene lei da me, anderò io da lei, perchè è finita la cuccagna dei signori!... la legge è uguale per tutti! ... Giù, nel salotto, non c’era sintomo alcuno, foriero dell’uragano che si addensava minaccioso nel piano superiore; e quando miss Dill entrò non vi si udivano che le voci sommesse dei due fidanzati seduti, quasi nascosti, nel vano di una finestra. Discutevano scherzosamente sulle gradazioni dei colori vivaci delle varie lane che Lalla adoperava per un suo lavoro che stava allora tessendo, mentre Maria, nell’angolo di una finestra, rincantucciata nella sua poltrona con uno scialle buttato sulle spalle, perchè si sentiva intorno un po’ di febbretta, leggicchiava la Revue des Deux Mondes. Là dentro spirava la calma e la pace: il sole vi penetrava appena, timidamente, dagli spessi cortinaggi, e i sensi erano ricreati da un’auretta molle, soavemente profumata, dai fiori freschi e delicatissimi, disposti con dovizioso disordine un po’ dappertutto. Giorgio, appena entrata miss Dill, si alzò per stringerle la mano, domandandole conto della sua salute. — Come al solito, molto poco bene. — L’istitutrice approfittò di quel momento nel quale il Della Valle si era allontanato da Lalla, e chinandosi sul piccolo telaio della fanciulla, e fingendo di esaminare il ricamo, le disse sottovoce: — È arrivato il Frascolini. — Dov’è? — chiese Lalla fattasi un po’ pallida, ma senza scomporsi. — È su, in camera mia; c’è la Nena di guardia. — Vengo subito. La miss prese un uncinetto dal cestino della signorina, e ritornò in fretta dal filodrammatico per tenerlo d’occhio. Lalla fece ancora qualche punto del suo ricamo, poi si alzò adagino e si mosse per uscire. — Dove vai? — le domandò Maria vivamente. — Vado di là, a prendere un po’ di lana azzurra. — È inutile adesso; andrai più tardi. — Oh! bella, — esclamò Lalla sorridendo, — si direbbe quasi che ti secca, che hai paura, che non vuoi restar sola con Giorgio! Vado e torno. — Ed uscì. Fece le scale adagio adagio; esitando ad ogni passo con un grande stringimento al cuore, non tanto per il timore, quanto per la ripugnanza, l’avversione ch’ella sentiva adesso di Sandro, perchè la incomodava, perchè l’angustiava proprio sul più bello della sua tranquilla felicità. Però, a mano a mano ch’ella si avvicinava a quell’incontro così scabroso, lo stringimento del cuore diventava sgomento e allora l’avversione, la ripugnanza si mutavano in odio. Nel corridoio incontrò ancora miss Dill e ve la lasciò di guardia. La Nena, appena ritornata l’istitutrice, era corsa via. — E così... che cosa volete?... — disse la duchessina ad Alessandro, appena entrata in camera, aprendo lei il foco, subito, con alterezza stizzosa. — Che cosa voglio? — esclamò l’altro: e vedendola così fresca e piacente nel vestitino succinto di mussolina bianca, sentì una scossa, come un fiotto di sangue caldo al cervello. — Che cosa voglio? Te, voglio, che lo hai giurato, che sei mia! — Sua?... Da quando in qua, signor Frascolini?... Sandro si sentì pungere sul vivo e: — Meno arie, signora duchessina — le rispose un po’ sogghignando. — Ho buona memoria io, e sono qui apposta per provarlo a lei e a tutti. Gli occhi, di solito così affettuosi, così soavemente timidi della fanciulla, ebbero a questo punto come un bagliore sinistro: diventarono foschi e torti, sotto le ciglia aggrottate; ma fu un lampo, e tutta l’espressione del suo volto si rifece dolcissima quando ella domandò al giovinotto: — Mi vuol perdere dunque?... E perchè?... Che cosa le ho fatto di male? — Che cosa mi ha fatto! — esclamò Sandro incrociando le braccia e parlando con voce bassa e tremante. — Che cosa mi ha fatto? mi ha ingannato, deriso, respinto, mi ha tradito. Si è fatta giuoco di me e del mio amore; mi ha messo in urto colla mia famiglia, in collera coi miei amici, mi ha fatto prendere in odio da tutti. Ero felice e mi ha avvelenata la vita; ero stimato e non sono più che un miserabile... e mi domanda freddamente, sorridendo, che cosa mi ha fatto di male?!... Ma, in nome di Dio, tanto male mi ha fatto, tanto male, che avrei ragione di strozzarla colle mie mani!... E le lacrime gli rigavano calde calde le guance; le lacrime che gli uscivano proprio dal cuore, e per una parola, una parola sola di quella creatura esile, bionda, vaghissima che gli stava, ritta dinanzi, il povero innamorato avrebbe data la vita senza esitazione e senza rimpianto. — Tanto male le ho fatto?... Io che non so di aver avuto nessun altro torto tranne quello forse di essere stata troppo debole... troppa buona con lei?... — No, la sua non era bontà, era capriccio, era cattiveria! Lei ha voluto scherzare con me dimenticandosi che anch’io, quantunque povero, avevo un cuore che sarebbe stato spezzato; un cuore... plebeo, ma che perciò non avrebbe sofferto meno profondamente, e meno dolorosamente! — Lei, signor Alessandro, si è un po’ illuso, ecco, ma io non ne ho colpa! A queste parole il Frascolini perdette il lume degli occhi, non sentì più ritegno e gettò in faccia alla signorina tutte le contumelie le più atroci che gli corsero alle labbra. Era così forte, così furibonda quella collera, che Lalla impallidì tremando, non per lo sdegno, nè per la collera, ma più che altro per la paura. — Maledetta, maledetta!... Ha il coraggio di venirmi a dire che sono stato io a illudermi!... — Io mi sono illuso! — Fosti tu a sedurmi, ad attirarmi, a circondarmi, a prendermi a poco a poco nelle tue reti, con ogni astuzia, con ogni lusinga, con ogni inganno! Tu sei venuta a cercarmi, tu mi hai voluto, tu, più corrotta nella tua fredda e sapiente verginità delle donnaccie da trivio, mi facesti sentire tutti gli spasimi, mi facesti godere tutti i piaceri della voluttà, e adesso hai il coraggio di contare a me, (a me di venirlo a contare!) che mi sono illuso!... Ma dimmi, non ricordi più quando ti strisciavi addosso a me, come un serpente?... Non ti ricordi più in qual modo mi hai baciato l’ultima sera a Santo Fiore?!... Hai proprio dimenticato tutto?!... Ma guarda, guarda, lo vedi questo anello? — e così dicendo le indicava un anello che Lalla aveva in dito, — ebbene, sono stato io che te l’ha dato, e allora, nel prenderlo, mi avevi promesso piangendo, — sì, piangevi falsa, bugiarda, piangevi! — mi avevi giurato che non saresti stata d’altri, che saresti stata mia, mia solamente. Sandro aveva ragione. L’anello che Lalla teneva in dito era il suo, la turchina colle rose d’Olanda; lei però non ci pensava ormai più da che parte le era venuto; lo portava sempre perchè le piaceva, perchè era molto carino. — Maledetta, maledetta! — continuava a urlare il Frascolini fra i singhiozzi; e Lalla, sempre più spaventata, scongiurava quel matto a non gridare, a non far nascere uno scandalo. — Voglio gridare! Sì!... Voglio fare uno scandalo! Sei un’infame! — Non gridi tanto, la prego, la supplico! parli più piano per amor del cielo! — Voglio farmi sentire; voglio vendicarmi, voglio farmi sentire da tutti, e poi... e poi quell’altro lo ammazzerò! Il Medio Evo è finito! Un cane di nobile non vale adesso più d’un altro cristiano! — Pietà di me!... lei mi fa morire! pietà... un po’ di pietà!... — No, no e no! È stata una perfidia troppo grande. Mentre laggiù, a Venezia, chiuso in uno stambugio senz’aria e senza luce, mi logoravo la vita, tu, soddisfatto il tuo capriccio, mi schernivi, e facendo la civetta, la sguaiata coi nobilucci leccati e profumati, preparavi il tuo bel matrimonio!... Maledetta! — E il Frascolini gridava sempre più forte, voleva uscire, voleva scendere da quell’altro, schiaffeggiarlo, vendicarsi. Lalla era tanto spaventata dal pericolo serio che correva, da non rilevare nemmeno tutti quegli insulti. Si era lasciata andare in un dirotto pianto, e, buttatasi ginocchioni fra Sandro e l’uscita, lo supplicava di chetarsi, di perdonarle, stringendogli le ginocchia, baciandogli e coprendogli di lacrime le mani rozze e callose. Ma lui non sentiva pietà, non voleva saperne di misericordia. — Bisognava finirla con tutte le sue commedie, con tutte le sue falsità; non avrebbe più potuto ingannare nessuno!... Tutti dovevano sapere che cos’era di buono!... Tutti! — Alessandro, Alessandro mio, un po’ di compassione, non le domando altro che un po’ di compassione! — No... Nessuna compassione! Voglio scendere, voglio vedere il tuo amante, voglio dirgli chi sei! — Dio, Dio, ma se non... se non l’amo, se non posso amarlo, te lo giuro! — Menti. Sei bugiarda. — No. È mio padre che vuole, non io, è mio padre! Quanto non avevano potuto ottenere nè il pianto, nè le smanie della fanciulla, l’ottennero invece queste semplici parole. Sandro si calmò subito, come per incanto; e abbassando la voce, prendendole un braccio, e stringendolo fortemente: — E allora, tu, perchè lo sposi? — le domandò fissandola cogli occhi foschi. Lalla respirò: capiva che aveva vinto finalmente, e che ormai aveva poco da temere. — Lo sposo perchè mio padre lo vuole; lo sposo dopo aver sofferto in questi due mesi quanto di più orribile si può soffrire al mondo. Oh, Alessandro, lei non può capire... non conosce mio padre, lei!... Non mangiavo più, non uscivo più, non facevo altro che piangere; mio padre rimaneva inflessibile, minacciandomi che se non mi piegavo alla sua volontà mi avrebbe condotta nel Belgio e rinchiusa, per sempre, in un monastero. Allora, istupidita dal dolore e dalle privazioni, ho ceduto e — Alessandro non saprà mai quello che si agita nel mio cuore — ho detto a me stessa, — ma almeno... qualche volta potrò ancora vederlo. — Se mi hanno detto che lo ami, che tu facevi l’amore anche a Pegli col conte Della Valle? — La gente lo avrà creduto; ma, se sia vero o no quanto le ho detto, ne domandi conto alla Nena e alla miss! Sandrino anche in quelle parole sentiva correre la bugia, ma era una bugia così cara per lui, che egli non ebbe più coraggio di opporsi e di smascherarla. Invece, stanco, abbattuto, vi si abbandonò anima e cuore, come a un conforto, come alla sua ultima speranza. Successe un lungo silenzio fra i due giovani. Sandro fissava la signorina ostinatamente, cogli occhi torvi, pallido, e col respiro greve, affannoso. Lalla, ritta in piedi, giuocherellando colla catenella dell’orologio fra le dita tremanti, di tanto in tanto alzava la testolina, lo guardava dolcemente con un leggero tremito delle labbra, con un’espressione indefinibile, piena di affetto e d’indulgenti rimproveri, e poi, subito, la riabbassava intimidita. Sandro, vinto, tremando a sua volta, le si avvicinò. — Dunque... me lo giuri?... Dopo potrò... potrò ancora vederti? Ci fu un altro sguardo della fanciulla, tenero, lungo, timidissimo, che terminò con un — sì — quasi impercettibile, che era tutto una carezza. — Ebbene... ricordati, ricordati che se m’inganni anche questa volta, guai!... guai!... — Ma l’intonazione di questi due — guai — pronunciati dal giovanotto non era la stessa, perchè la seconda volta Sandro, presa Lalla d’improvviso fra le braccia, finì quel secondo — guai! — con un bacio ch’egli le stampò sulla bocca e nel quale c’era dentro l’amore, la collera, la gelosia, l’anima e le passioni tutte del povero innamorato. Lalla purchè egli se ne andasse in pace, purchè non la compromettesse col suo furore insensato, non si oppose che debolissimamente; e allora si sentì addosso una furia di baci che parevano morsi, sul collo, sui capelli, sugli occhi, sulle guance, sulle vesti, dappertutto. Sandro, inebriato e irritato, non più pallido, ma acceso in volto, con strette febbrili brancicò pazzamente quel corpicciuolo tanto bramato, finchè, intimidito, vinto da uno sguardo, da un muto rimprovero della fanciulla, ch’era una eloquentissima supplica di rispettarla, fatta ancor più efficace dal suo rassegnato abbandono, la strinse un’ultima volta al petto, così forte da farle male, una ultima volta le soffocò la bocca colla sua, lungamente, rabbiosamente, e poi superata la tentazione da cui era dominato, gettò lungi da sè quella creatura fatale, uscì ratto dalla camera e fatte le scale d’un salto corse via dal palazzo d’Eleda e, ben presto, anche da Borghignano. Appena uscito Sandro, Lalla si rialzò, libera finalmente, e lo seguì con gli occhi scintillanti, pallida, tremante di sdegno e di odio, perchè adesso la paura era cessata. Si asciugò dispettosamente, col palmo della mano, la bocca ancora umida dei baci di lui, che le facevano schifo, e colla gola strozzata, colla voce sorda, ma con un desiderio cocente di vederlo cader fulminato, gli gridò dietro: — Villano, villano!... — Poi, siccome non c’era tempo da perdere, senza spiegarsi punto colla miss che la guardava stralunata, corse nella sua cameretta, si bagnò, si lavò gli occhi per bene con dell’acqua freschissima per levarne il rossore, si aggiustò l’abitino sgualcito, sciupato, si ravviò i capelli, rifece il fiocco della cravatta, ringraziò in fretta il buon Dio per il pericolo sfuggito, e presa la lana merinos, ch’era stata il pretesto della sua scappata, discese e rientrò quietamente nel salotto. Sulla porta incontrò il Della Valle che ne usciva allora, in cerca di lei. — Un po’ di pazienza, signor conte! — gli disse Lalla, sorridendo con molta grazia. — Un po’ di pazienza!... — Via non mi sgridi... Un’altra volta l’aspetterò senza fiatare. Così sarà contenta, lei? — e Giorgio segnò appunto quel lei, che era stato uno scherzo della fanciulla. — Come, non c’è la mamma? — È uscita quasi subito... Si direbbe che ha paura a star sola con me! — Che fortuna — pensava intanto Lalla in cuor suo — che alla mamma non sia venuto in mente di correre a cercarmi! Erano soli nel salotto, cosa che accadeva loro di rado. Lalla aveva preso un fiore dalla cesta di mezzo al tavolo e in punta di piedi si sforzava per aggiustarlo nell’occhiello dell’abito di Giorgio, arrabbiandosi con attucci piacevoli, perchè non ci riusciva. Giorgio, innamorato più che mai, aveva circondato con un braccio il bel vitino della fanciulla e parlandole fra i capelli, le domandò la grazia di un bacio. Lalla non rispose, ma rialzò quel suo visetto così fine dove si scorgeva adesso un amabile sorriso far capolino di sotto ad una comica serietà, e facendosi un po’ indietro colla persona, alzò le manine e gliele porse tutte due unite sulle labbra, con un garbo che voleva dire: — Ti fo grazia delle mie mani, baciale pure, ma ricordati bene che chi comanda sono io! — Il Della Valle, uno dopo l’altro baciò allora quei dieci ditini bianchi, dalle unghie rosee di madreperla, ma poi, vedendola ancora sopra pensiero: — Scommetto — le disse — che indovino a cosa tu pensi in questo momento. — Davvero? — e Lalla sorrise di quella ingenua pretesa. — Tu pensi a tutto il gran bene che io ti voglio. — Oh, no!... niente affatto! — Tu menti... e menti senza arrossire! Lalla glielo lasciò credere volentieri: ma non mentiva. — Che fortuna — pensava ancora la duchessina fra sè — che alla mamma non sia venuto in mente di correre a cercarmi! XXI L’ultimo mese, prima del matrimonio, lo passarono tutti uniti a Santo Fiore, dove si era fissato di celebrare le nozze, per isfuggire ai pettegolezzi ed alle noie di Borghignano. Il Della Valle aveva preso in affitto, per quell’autunno, il villino del marchese di Vharè, i cui affari andavano sempre di male in peggio, e che adesso da Monte Carlo era passato a Roma per far la corte ad una celebre contralto dell’Apollo. In quanto a Lalla, poveretta, appena arrivata in campagna fece un gran piangere: a Santo Fiore la aspettavano due tombe recenti: quella del vecchio Ambrogio e quella di Musette. — Già, essa lo aveva preveduto — diceva fra le lacrime, — che Musette sarebbe morta di crepacuore e che bisognava essere ben crudeli per volerla separare dalla sua padroncina!... Povera Musette! tanto buona, tanto cara, tanto intelligente e... — non ci fu verso, anche Giorgio dovette mostrarsi malinconico in memoria della cagnetta. Ma nemmeno Ambrogio fu dimenticato dalla signorina, anzi ordinò a don Vincenzo un ufficio di gran lusso per suffragare l’anima del vecchio servo; ma poi capitarono a Santo Fiore la Giulia e Pier Luigi, e Lalla ebbe in tal modo uno svago benefico. Anche Maria aveva sperato di ottenere dai nuovi ospiti un po’ di sollievo: era tanto, era profondamente infelice! aveva sempre gli sposi da sorvegliare; Maria doveva essere sempre fra quei due che si volevano bene e che non nascondevano il loro amore, nè la loro felicità; doveva essere testimonio ai loro colloqui, alle loro tenere carezze. L’uomo di cui essa era innamorata, lo vedeva farsi sempre più bello e più nobile sotto l’influenza di un amore, che rendeva lei sciagurata e Giorgio beato. Maria non cercava e non voleva miss Dill. Quando c’è una madre, spetta a lei sola quella delicata sorveglianza: era il suo dovere. Don Gregorio, vedendola intristire, lui che da tanto tempo leggeva sicuro nel segreto di quel povero cuore, tentava di confortarla; ma anche le parole del santo vecchio riescivano inefficaci. Egli conosceva il male, ma non conosceva chi ne fosse la cagione; e molte volte, senza saperlo, invece di alleviarlo, lo incrudeliva. Anche miss Dill le era sempre d’attorno piena di svenevoli tenerezze, di complimenti, di riguardi; ma incapace di un sentimento vero, con tutte quelle smancerie false, esagerate, la importunava senza giovarle. Oh! la miss aveva fatto un cambiamento assai notevole! La scaltra si era cattivato il favore di Lalla e di Giorgio per ottenere che, morto Ambrogio, lasciassero lei a Santo Fiore, governante di palazzo, e così godersi un avvenire tranquillo e sicuro; una grassa reggenza, per la quale avrebbe regnato in perfetta e dolce armonia colla santa Chiesa. E oltre tener d’occhio i due giovani innamorati, Maria aveva ben altri incarichi e incombenze che le straziavano l’anima, mentre aveva pure la forza di mostrarsi sempre tranquilla e impassibile. Doveva pensare lei al corredo di Lalla, dalla veste candida di raso seminata di fiori d’arancio, fino alle comode vestaglie della giovine mammina, fino alle camicie così civettuole e provocanti della notturna toeletta; camicie finissime, dalle trine e dai ricami trasparenti, con ricchi nastri o rosa o azzurri, sotto le quali Maria vedeva la sua figliuola bella, palpitante, abbandonarsi all’uomo che lei stessa le invidiava con una gelosia tremenda, sentendo nella propria carne che uno solo di quei baci sarebbe bastato a farla morire di piacere e di amore. Dovea pensare a tutto, anche al nido dei due colombi, come lo chiamava scherzosamente Pier Luigi. Doveva pensare agli arredi della loro camera... alle spesse cortine dell’alcova... ai guanciali colle guarnizioni di pizzo, alle coltri di seta antica, damascata, agli stemmi, ai monogrammi delle lenzuola... Prospero Anatolio non si dava di ciò alcun pensiero, lasciava ogni cura alla moglie scusandosi col dire che ella era una benedetta donna, che si sarebbe arrabbiata se lui avesse voluto aiutarla. In verità, il duca Prospero si seccava assai tutte le volte che doveva incomodarsi per gli altri; e siccome si divertiva pochino anche a fare il terzo fra i due fidanzati, così, sulle prime, passava quasi tutto il giorno a Borghignano dove, piangendo a calde lacrime la morte di Vittorio Emanuele alla Costituzionale e quella di Pio IX al Vescovado, era riuscito a farsi nominare dai liberali moderati presidente della loro Associazione e, finalmente, coll’aiuto della Prefettura e degli amici del Della Valle, anche sindaco effettivo. Ma poi, ad onta del pieno trionfo, venuta la contessina di Rocca Vianarda a Santo Fiore, il duca Prospero cominciò a mostrare molta predilezione per la campagna. Le fresche, le rosee esuberanze della Giulia gli facevano girar la testa, e tanto più che, in quanto alla moglie, adesso che l’aveva riavuta, gli era tornata indifferente. Sua moglie... non era una donna, era una statua di ghiaccio!... Ma la co-contessina!... Egli le stava sempre vicino, e con una scusa o coll’altra, le metteva sempre le mani addosso. Si godeva a sentirla parlare, si divertiva al suo continuo movimento, e la faccia tonda e scialba del vecchio diventava accesa, quando lei si buttava a ridere di qualche motto un po’ libero di Pier Luigi, con quel suo riso schietto di fanciulla sana, che mostrava i bei dentini minuti e bianchi. Fra quei due vecchi, la Giulia non pativa di soggezione e, per averne ancor meno, li chiamava appunto i suoi papà. Scherzava, saltava, faceva il chiasso con loro; si lasciava toccare, si lasciava stringere, appoggiandosi al loro braccio, buttandosi loro addosso, con tutto l’abbandono, nel bisogno di espandersi, di sfogare l’esuberanza della propria vitalità. Si godevano d’accordo, tutti e tre sempre insieme. Anche Pier Luigi, che adesso, col matrimonio di Lalla, sapeva bene dove avrebbe potuto mettere a posto la pupilla, si sentiva più sollevato, ed era sempre di buon umore. Però avevano risolutamente rifiutato di sorvegliare il tenero gru-gru degli sposini. Che! C’era la duchessa colla sua aria grave e severa, creata apposta per far la parte di carabiniere. Essi non ne volevano sapere. — Non ci trovavano gusto, non ci trovavano — e meno di tutti la Giulia, che forse ci soffriva anche per un po’ d’invidia. Invece passavano gran parte del giorno e tutta la sera, chiacchierando fra loro in sala, sul terrazzo, o di fuori, nei lunghi viali del parco, i due vecchi bambinescamente gelosi l’uno dell’altro, per le preferenze che la Giulia, scherzando, accordava ora all’uno, ora all’altro, facendo insieme la partita al domino, voltandole le pagine della musica, mentre andavano in estasi, quando suonava; insegnandole, con molta malizia di concetto e di esecuzione, a giuocare al bigliardo, oppure conducendola sull’altalena in giardino, che le avevano fatto costrurre appositamente. La Giulia vi montava su, in piedi, tenendosi ben stretta colle mani alle corde, mentre Pier Luigi e Prospero Anatolio, l’uno da una parte e l’altro dall’altra, spingendola tratto tratto, la facevano ondeggiare. Lei, colle ginocchia, si serrava addosso le sottane, ma non ci riusciva del tutto; e quei di sotto la potevano adocchiare due dita più su del collo del piede, mentre si chinavano aspettando il momento buono per dare la rispinta. I due vecchi daddoloni crepavano dalla fatica, ma tenevano duro. Il conte da Castiglione, stringato, imbottito in un abito grigio da giovinotto, traballante, con una lunga e larga ciocca di capelli ingommati, che ad ogni scossa gli si rizzava sulla nuca, scoprendogli una fetta pelata di cranio; e Prospero Anatolio col respiro affannoso, gli occhietti bigi, luccicanti, il faccione raso, madido, vestito coll’inseparabile abito nero, lungo e largo. E in mezzo a loro, come un’eco lontana dei vent’anni rimpianti, quella creatura bella e rigogliosa passava e ripassava con vicenda misurata dal cigolio degli anelli che tenevano le corde sospese dentro la spranga di ferro; passava e ripassava ritta, balda, sicura, i capelli che le fremevano sulla fronte e le svolazzavano liberi, dietro le spalle; passava e ripassava respirando dalle nari dilatate, con la bocca semiaperta e le pupille socchiuse, quell’aria fresca e profumata della campagna che le accarezzava la faccia, che le sibilava nelle orecchie, ch’ella sentiva in tutto il molle abbandono del suo corpo, come un’ondata di voluttà lenta e tranquilla. Lalla, civettina sempre, era seccata un po’ anche da quella corte, che dai due vecchi veniva prodigata alla Giulia, e quantunque ne ridesse col suo innamorato, pure lo lasciava qualche volta solo con la mamma per turbare un pochino il trionfo dell’amica. Ricordava bene il desiderio curioso di Pier Luigi e gli faceva credere di essere quasi tentata di salire sull’altalena; e allora prendeva le due corde colle mani, stuzzicando il frollo ganimede col bagliore delle braccia nude, che uscivano dalle maniche larghe dell’abito, ma poi lo piantava sul più bello e invece di salire in piedi sull’altalena vi s’inginocchiava appena, fermandosi subito dopo la prima spinta. Le sue, per altro, erano apparizioni brevi e assai rare. In quell’ora, di solito, Lalla andava a fare una gita in carrozza colla mamma, con Giorgio e colla miss, E fu in una di queste scarrozzate che Maria fu a un punto di tradirsi, e proprio per un altro capriccio di Lalla. Il cocchiere, che sceglieva lui le passeggiate a suo talento, quel giorno era andato a finire verso il Poggio dei Platani. Maria, a poco a poco, era rimasta sedotta e vinta dai cari ricordi che quei luoghi le suscitavano intorno; a poco a poco, si era obliata in essi interamente e fantasticando correva col pensiero assai lontano, in un altro mondo, nel mondo del suo cuore e delle sue memorie tormentose a un tempo e dilette. Pensando a quel mattino, di tanti anni addietro, quando lì, dal Poggio dei Platani, aveva veduto Giorgio passare per l’ultima volta, e confondendo le angoscie di quel tempo con quelle che presentemente soffriva, le pareva, allora, di essere stata felice. La felicità, spesse volte, non è altro che un ricordo di sventure più lievi. Giorgio era allora libero... aveva la patria sola nel cuore... non vi serrava dentro Lalla, sua figlia!... Ed ella, ella stessa, in una solitudine cara, tranquilla, rispettata, coll’intima compiacenza della ottenuta vittoria, poteva abbandonarsi all’affetto di un ideale che la consolava e che le concedeva pure qualche ora di riposo e di conforto. Quella mattina... quando aveva veduto Giorgio passare così rapidamente, quando anche il più lontano frastuono del convoglio era cessato, quando credette che non lo avrebbe riveduto mai più, nella solitudine così vasta, così profonda che l’avvolse, aveva sofferto assai, aveva pianto lungamente, affannosamente; ma come erano diverse le lacrime che le sgorgavano allora dal cuore da quelle che oggi le si serravano strozzate nella gola!... Quelle almeno le poteva ricordare senza rimorso, e queste invece... — A voi, duchessa Maria, non rammenta nulla il Poggio dei Platani? — scappò da un momento all’altro a domandare il conte Della Valle coll’aria distratta... tanto per dire qualche cosa. La testa l’aveva proprio nei piedi, coi quali accarezzava e stringeva lo scarpino di Lalla, complice l’angusta oscurità della pedana. — Vi ho veduta qui l’ultima volta a cavallo, mentre io passavo per andare a Venezia... lo rammentate? Era di buon mattino e con voi mi pare ci fosse anche... — No, non lo rammento; — e Maria, che s’era sentita la faccia diventar prima pallida, poi accesa, rispose confusa, con una stretta al cuore senza poter riuscire a padroneggiarsi, rispose quel — no — seccamente, aspramente. Allora fu la scarpettina di Lalla che toccò il piede di Giorgio. Il conte alzò gli occhi: la fanciulla lo fissava con un’espressione ch’era tutta un punto interrogativo. Ma nè l’uno nè l’altra, per quante domande si facessero a quel modo, non potevano intendersi; anzi Giorgio sapeva benissimo che tutt’altra doveva essere la sua interpretazione da quella data dalla fanciulla al — no — così strano e inesplicabile di Maria. Egli dubitava di essere stato imprudente ricordando quell’episodio alla duchessa, perchè... perchè in quella tal mattina l’aveva sorpresa fuori di casa, a cavallo, in un’ora sospetta, sola sola col marchese di Vharè. E un’altra volta, malgrado suo, un sospetto assurdo, mostruoso, ma avvalorato da inesplicabili circostanze, il sospetto che fra il marchese e Maria ci fosse stato qualche legame assai più intimo di un’amicizia superficiale, lo turbò a un tratto, e vivamente. Sì, era un sospetto mostruoso, assurdo, egli lo credeva, voleva crederlo: ma, e allora, perchè quel pallore?... Perchè quella confusione?... Lalla, naturalmente, spiegava in un modo ben diverso il contegno della mamma: già le pareva di aver notato che la mamma non fosse entusiasta come il babbo a proposito del conte Della Valle. Ma sotto quella freddezza ci doveva essere qualche cosa di oscuro e ingarbugliato che la fanciulla, da sola, non riusciva a sciogliere. Intanto, come spiegare l’intimità che c’era sempre stata fra Giorgio e sua madre, fra i Della Valle e i Santo Fiore, con tutti gli anni trascorsi, non solo senza vedere il conte in casa d’Eleda ma senza ch’ella mai, nemmeno di volo, ne sentisse parlare, ne udisse a pronunciare il nome? Perchè?... Per qual ragione? Chi poteva saperlo?... — Certo qualche mistero; c’era un mistero. Certo la mamma aveva qualche cosa nel cuore che voleva nascondere... — E Lalla, spinta dalla curiosità, volle mettere Maria sul punto di scoprirsi... di tradirsi forse! La carrozza correva via rapidamente, lungo una stradetta deserta e silenziosa, quella stradetta che passava poco lontana dal sagrato, e che Maria aveva fatta a piedi con don Gregorio, la sera stessa della sua partenza da Santo Fiore. Tacevano tutti nella carrozza. Non si udiva che il trotto regolare e serrato dei cavalli e, di tanto in tanto, il colpo secco, sonante d’un ferro che batteva contro un ciottolo e lo spionciare acuto, improvviso del fringuello messo in fuga. Lalla, seduta, vagamente raccolta colla breve personcina in un cantuccio del landò, alzava gli occhi timidamente appassionati, negli occhi di Giorgio; e in uno di quei taciti ricambi di tenerezza, quasi volendo concludere un pensiero nel quale allor allora s’erano intesi tutti e due: — Fra qualche giorno — disse al suo fidanzato — sarò... saremo... sarò sua moglie, e lei, — qui abbassò timidamente gli occhi lunghi e vellutati, ma voltandoli in modo da poter osservare anche Maria — e lei, ancora, non ha dato un bacio alla nostra mamma! — Ben volentieri! — esclamò subito il Della Valle che, desiderando rimediare alla scappata di poco prima, si era alzato mezzo dal sedile, colle braccia protese verso la duchessa. Maria si rizzò con un grido, ma notando lo stupore di tutti, si calmò subito e mormorò, rivolgendosi a Lalla: — Sai pure che le scene drammatiche non mi garbano. — Poi stese la mano a Giorgio e gliela strinse sorridendo. Nessuno fiatò; ma desiderarono tutti che quella passeggiata finisse presto. — Certo, certo, il mio Giorgio non è molto simpatico alla mamma — pensava Lalla in cuor suo. — Ma... perchè?... E lo stesso perchè il Della Valle, mortificato, chiedeva inutilmente a sè medesimo: — Che sia stato il Vharè a ispirare nell’animo della duchessa tanta avversione e tanta diffidenza contro di me?... Il conte Eriprando, che ormai non si poteva più muovere a cagione della gotta che lo tormentava, non fu presente a Santo Fiore per la cerimonia nuziale. Il parentado vi fu rappresentato invece da una marchesa genovese, cugina di Prospero Anatolio; una vecchia quasi cieca e sorda, che non faceva altro che sorridere scioccamente. Tuttavia, quantunque il matrimonio si celebrasse in famiglia, Prospero() Anatolio non volle perdere l’occasione di stringere qualche influente legame; i testimoni furono scelti fra i pezzi grossi delle due Camere, e dovevano arrivare in pompa magna, il giorno stesso della firma e della benedizione. La duchessina, intanto, avea fatto precedere il giorno solenne da una novena rigorosissima, con digiuni ed esercizi spirituali; il tutto ordinato e disposto da don Vincenzo, che sfoggiò per l’occasione un camice nuovo con ricami e pizzi di gran valore: un regalo della piissima miss. Pareva quasi che Lalla non fosse alla vigilia di maritarsi, ma che all’indomani dovesse pronunziare un voto monastico: vestiva sempre di nero, nascondendosi la faccia con un velo fittissimo, restando molte ore in chiesa, o ginocchioni a pregare, o seduta a leggere l’uffiziolo, non mangiando altro che legumi; senza frutta, senza dolci. Giorgio quasi non le poteva più dire nemmeno una parola, e gli era proibito anche di stringerle la mano, senza contare ch’egli pure, volere o non volere, dovette confessarsi di tutti i suoi peccati e comunicarsi... cosa che egli fece una mattina, quasi di nascosto, in camera di don Gregorio. In sulle prime, Giorgio aveva tentato di opporsi a quelle prepotenze; ma Lalla si mostrò inflessibile, e così a mano a mano, un giorno per non disgustarla, un altro perchè era un po’ malatina, egli terminò con fare sempre tutto quanto desiderava e voleva la capricciosa. La cerimonia della comunione di Lalla fu solenne: anzi più solenne che commovente. La chiesa era affollata come un teatro; e fra le autorità si vedeva in prima linea il signor Domenico, il quale teneva d’occhio attentamente il duca d’Eleda quando si sedeva, si alzava, o s’inginocchiava, per fare subito altrettanto. C’erano tutte le fanciulle della Dottrina Cristiana, presiedute dalla Veronica che aveva scritto, per l’occasione, un’ode, in poesia, nella quale encomiando le pie virtudi della nobile donzella e le larghezze sue al tempio, ai mendichi e ai grami le augurava che fossero: Pegni d’immenso gaudio Che dura eterno ognor. La signora Veronica non era punto mutata: secca, striminzita nell’abitino nero, stinto, di seta gros, aveva sempre il fegato avvelenato dalla gelosia contro l’Ottavia, che adesso le contendeva vittoriosamente l’effetto erotico dei vergissmeinnicht sul vice pretore. La duchessina rimase genuflessa sulla viva pietra dell’altare tutto il tempo che durò la funzione, e quando don Vincenzo le avvicinò la sacra particola alle labbra; era tanto commossa che pareva venisse meno da un momento all’altro. Rientrata in casa, ritrovò don Gregorio che l’aspettava; era lui che all’indomani doveva celebrare le nozze. Lalla, vedendolo, gli si gettò subito fra le braccia, poi volle per forza inginocchiarsi di nuovo, per essere benedetta anche da don Gregorio. — Sì, sì; che il Signore sia con te, figliuola mia, — mormorò il buon vecchio, accarezzandole i capelli colla mano tremante; — sempre con te, e ti conceda perennemente quella felicità che oggi ti trabocca dal cuore. Ma non dimenticare che noi tutti, su questa terra, abbiamo una missione da compiere, e che ci attende un — al di là — inesorabile. Sii sposa affettuosa e sommessa; e se un giorno il Signore volesse porre alla prova la tua costanza, il tuo coraggio, la tua cristiana rassegnazione, devi ricorrere fiduciosa a tua madre; essa non avrà che a cercare nella sua vita per confortarti e per edificarti coll’esempio di virtù sante e modeste. La voce di don Gregorio, a questo punto, fu rotta da un singhiozzo. Piangevano tutti: Maria stringeva Lalla fra le braccia, convulsamente, coprendola di baci e di lacrime, e offrendo a Dio quello strazio del proprio cuore, purchè Iddio la ricambiasse con altrettanta felicità per la sua figliuola. L’emozione di Lalla era grande, indescrivibile, e già si temeva che ne potesse soffrire anche la sua salute, quando fortunatamente, per distrarla in buon punto, arrivò un facchino della stazione, con una cassa sulle spalle. Era l’abito da sposa della duchessina, che arrivava fresco fresco da Parigi. La Giulia che lo aspettava da due giorni, appena vide il facchino colla cassa sulle spalle, battè le mani con un grido di contentezza e corse subito in cerca di Lalla. Lalla, che pure ci aveva il cuore sospeso, prima ancora che Giulia glielo dicesse, indovinò che si trattava dell’abito e se ne andò di corsa dietro alla cugina senza più badare, senza salutare nemmeno don Gregorio. Poi colla Giulia, miss Dill, la Luigia, la Nena e colla marchesa di Genova, che si trovava avvolta, presa, spinta da quella folata di ragazze, senza capire un ette di ciò ch’era avvenuto, Lalla seguì Lorenzo, che adesso portava lui la cassetta sulle spalle. Tutte insieme facevano grandi profezie sul taglio e sulle guarnizioni e discutevano animatamente a proposito del giorno in cui il vestito doveva essere stato spedito da Parigi. — Sì, doveva essere il giorno, precisamente, in cui era arrivata la Giulia a Santo Fiore. — No, no, non poteva essere. — Era possibile. — Non era possibile. — In conclusione, andavano tutte d’accordo nel riconoscere che madame Fanny era un portento, una donna sublime. — E l’ampio scalone, perchè Lorenzo doveva portare la cassa nella camera di Lalla, risonò allora tutto pieno, assordato da quel chiacchierìo, da quella grande contentezza così giovanile e chiassosa. Lalla fece mettere la cassa in piena luce, sotto la finestra; poi inginocchiandosi per terra accanto a Lorenzo, si provò per aiutarlo, graffiandosi le manine delicate. Lorenzo piano piano, con molto garbo, ma con una lentezza che urtava i nervi, prima colla tenaglia levò i chiodi più grossi, poi; adagio, ne sollevò il coperchio: quand’ebbe finito. Lorenzo fu addirittura buttato da una parte, e allora Lalla, la Nena, la Giulia e la Luigia, delicatamente, levando uno dopo l’altro i larghi fogli di carta bianca che erano stesi sull’abito, lo scoprirono nel suo intatto splendore. Lalla era diventata rossa, cogli occhi sfavillanti: la Luigia preso l’abito per la fodera della vita lo teneva sollevato, disteso, mentre colle dita dell’altra mano, dando alla veste certe scossettine vibrate, precise, ne faceva meglio risaltare la freschezza e l’eleganza. Giulia era in ammirazione, la Nena rimaneva estatica, miss Dill, inforcati gli occhiali sul naso, approvava gravemente, ma con convinzione, e la vecchia marchesa, che stava in disparte e che proprio bene non lo poteva vedere, esclamava tratto tratto: — O l’è na vea maavegia; o l’è na vea magnificenza! — Quando ci sposeremo, Nena, farò arrivare da Parigi, anche per voi, un bel vestito come questo! — scappò a dire, strizzando l’occhio, quel burlone di Lorenzo. Ma non era il momento di perdersi a ridere: c’era troppo da fare. Lorenzo fu mandato via, e Lalla provò subito il vestito. Si spogliò in fretta, e intanto, finchè la Luigia le teneva sollevata la sottana perchè Lalla l’infilasse passandovi sotto col capo, risero tutte allegramente, vedendo quella sposina che, mezzo svestita, in gonnella corta, pareva ancora più piccolina: — pareva una Giovanna d’Arco in miniatura!... L’abito le andava a perfezione, ma... ma davanti, sul petto, le faceva una piega di traverso, che non avrebbe dovuto esserci: una piega della quale madame Fanny non aveva forse tutta la colpa. — Giulia sorrise maliziosamente, e si accarezzò colle mani il seno rotondo e palpitante sotto la giacchettina di maglia scura. — Bisognerebbe tirarlo un po’ su; stringerlo di spalle — disse la Nena alla Luigia, fissandola per farle capire dov’era il difetto, ma senza spiegarsi di più, per non mortificare la padroncina. — Avete un bel dire voi; ma io non mi arrischio... — Non conviene — esclamò Giulia. — È cosa tanto di poco! — Allora, dopo lunga e seria discussione, si concluse di non toccarlo. Lalla non disse mai una parola, aveva capito dov’era il difetto e pensava che, vestendosi all’indomani, avrebbe rimediato da sè. In casa d’Eleda si pranzò, quel giorno, più presto del solito: prima dell’Ave Maria bisognava essere in chiesa per la Novena. Nemmeno Pier Luigi ci voleva mancare. Se gli piacevano le belle donnette, non era una ragione per essere eretico. E poi egli assisteva sempre con vero piacere alla conversione del sinistro nipote — il quale si avvicinava a grandi passi verso il centro, si avvicinava, e da rosso scarlatto s’era fatto d’un bel viola canonico, inondato com’era continuamente dallo sguardo azzurro della sua Lalla... dallo sguardo! Ritornarono a casa tristi e muti. Nessuno aveva il buon umore delle altre volte: era quello un momento troppo serio e solenne. Giorgio aveva poi un’altra ragione di essere melanconico: la grande felicità che abbatte e che sgomenta quasi come un gran dolore. Egli sentiva tutto ciò, e la sua tristezza era ben naturale; e Lalla che lo sapeva, a tratti faceva pure la mesta, quantunque forse, per il suo spirito di contraddizione, quella sera avesse addosso l’argento vivo ed una voglia matta di correre e di saltare. Durava una gran fatica a star ferma, e fra uno sguardo tenero e una paroletta dolce al fidanzato, usciva sotto il portico a ridere colla Giulia, o passava in tinello a dare ordini alla Nena. Ma prima di uscire dal salotto abbracciava la mamma sospirando, oppur stampava un bacione sonante sulle guancie del babbo, come per dire all’uno e all’altro: — A voi due vorrò sempre un gran bene. Nel tinello s’incontrò una volta con Frascolini padre, che era venuto al Palazzo apposta per fare il suo dovere. Il pover’uomo pareva invecchiato di dieci anni: curvo, sfinito con una tossaccia di cattivo augurio. Era stata quella testa matta del suo figliuolo a ridurlo a quel modo; ma lui testardo, non lo voleva confessare, e così soffriva peggio, struggendosi dentro, senz’avere uno sfogo. A Lalla quell’incontro non fece nessuna impressione: solamente le ricordò Sandrino, e sentì un impeto di sdegno. Pure seppe frenarsi e gli domandò conto della sua salute, della vendemmia, dell’Amministrazione comunale, e anche di quel cattivo mobile che lo faceva disperare... e tutto ciò senza mai un tremito nella voce, sempre tranquilla, sempre disinvolta. Alla Nena, invece, ch’era lì presente, batteva il cuore tanto forte che pareva le volesse saltar fuori dal corsetto. — No, di quel... — signore là — non ho nessuna notizia, nè mi curo di averne — borbottò il vecchio; ma l’impeto d’ira finì con due lacrime che gli gocciolarono dagli occhi. Lalla non pensò nemmeno, nè il vecchio avrebbe sospettato, che la causa prima di quella sventura, di quella rovina potesse essere lei, e: — Bene, bene — gli disse — speriamo che ogni cosa si accomodi per il meglio e che ritorniate ad essere tutti felici. Il Signore avrà voluto provarvi, ma vi consolerà presto. Sperate nella sua bontà! — E lasciò che il povero vecchio, commosso da tanta degnazione, le baciasse la mano singhiozzando. Quando la duchessina rientrò in sala, Prospero Anatolio e il Della Valle davano le disposizioni per l’indomani. Il Della Valle sarebbe andato lui solo alla stazione, incontro ai testimoni: erano quattro commendatori, due della Camera alta, due della Camera bassa, e avevano appena telegrafato che sarebbero giunti col primo treno. I saluti furono quella sera più espansivi ed eloquenti del solito. La melanconica tristezza che aveva durato fino allora si dissipò e l’effusione trattenuta proruppe in uno scambio di promesse, di proteste, di strette di mano e di abbracci cordialissimi. Giorgio, prima di andarsene a casa, offrì il braccio, insistentemente, alla duchessa Maria, e volle accompagnarla fino sull’uscio della sua camera; non c’era un pretesto plausibile per rifiutare; Maria accettò il braccio e si avviò col Della Valle su per le scale. Quando furono nel salottino che precedeva la stanza da letto, Giorgio si fermò e non lasciò che Maria entrasse subito colla Luigia, ma facendole dolce violenza la trattenne per una mano. — Prima di salutarvi stasera, permettetemi un’altra parola; permettete che io vi domandi perdono ancora una volta, se negli anni addietro, senza saperlo, vi ho procurato qualche dispiacere. Siate buona. Maria, lasciatemi la certezza che voi non serbate nessun rancore contro di me; lasciatemi la certezza che accettandomi come vostro figlio, voi non vi rassegnate all’altrui volontà, ma lo fate spontaneamente col pieno consenso del vostro cuore. — Sì, sì... con tutto il cuore. — Maria ebbe ancora la forza di frenarsi. — Con tutto il cuore... Non dubitate dei miei sentimenti. Invecchiando... mi sono mutata e... mutata in peggio. Sono diventata anche... un po’ meno... meno espansiva; ma vi sarò riconoscente con tutta l’anima se voi, come ne ho fede, riuscirete a rendere felice la mia figliuola!... — La vostra riconoscenza?... E se la sola riconoscenza... non mi bastasse?... — No? — Maria si fece più seria... per dominarsi, per vincere il tremito da cui si sentiva presa. — No, Maria, no. La riconoscenza non mi basta; desidero, voglio un pochino di bene. Ve ne supplico, ve ne scongiuro... se sapeste come ne ho bisogno!... Il vostro affetto mi pare che debba conservarmi intatto l’amore della mia Lalla, che debba essere la salvaguardia della mia felicità!... Dunque?... vogliatemi un po’ di bene, se non altro per Lalla, per la vostra figliuola che amo, che adoro, Dio mio, quanto voi, mamma, non sapete ideare! Maria si teneva appoggiata all’uscio socchiuso; per questo il sussulto che la fece trasalire, non fu notato da Giorgio. — Dunque?... — continuava il conte che le baciava e ribaciava la mano, che prima stringeva fra le sue. — Dunque?... un po’ di bene, me lo vorrete, mamma? — Sì, fate felice mia figlia: a domani! — e scomparve. Il Della Valle, neanche questa volta, non ebbe ragione di entusiasmarsi nè per la cordialità, nè per il calore della sua futura suocera... anzi, tutt’altro! E perciò finì col pensare che Maria avesse proprio qualche stranezza e che ci fossero parecchie contradizioni nella sua superba e fredda alterezza; ma poi, sentendosi addosso troppa beatitudine per volersela guastare, diè un’alzata di spalle e dimenticò presto la mamma, pensando solamente alla figliuola. Maria, quando entrò in camera, era quasi soffocata dalla commozione. Si buttò nel letto, e rannicchiandosi, tremando per la febbre, col petto che si sentiva lacerato da una tossetta secca e profonda, ebbe l’abnegazione sublime, sovrumana, di ringraziar Dio per averle data la forza di poter continuare quella vita, e lo scongiurò di sostenerla ancora per il momento supremo che si avvicinava. Allora, fatta più serena da quella stessa preghiera, sentì un rimorso della freddezza che avea dimostrata al conte Della Valle; pensò che quel suo contegno avrebbe forse potuto turbare la felicità di lui e di sua figlia e promise a sè stessa come già aveva fatto in quegli ultimi giorni, di essere con Giorgio e con tutti, più cordiale e affettuosa. E mentre pregava e prometteva a Dio e a sè stessa di sacrificarsi sempre volonterosa e ignorata, le lacrime le colavano dagli occhi spesse e vive col tepore del sangue che sgorga da una ferita. Stava così da molto tempo, sempre piangendo, colla mente sempre rivolta alle vicende dolorose di quell’amor suo infelice, quando, all’improvviso, fu scossa e spaventata da un gridare, da uno strillare acuto che veniva dalla camera della Giulia. Tese più attentamente l’orecchio, trattenendo il respiro per sentir meglio: non c’era di che inquietarsi; colle grida si udivano scoppi di risa; erano Lalla e Giulia che facevano il chiasso. Lalla, quando svestita stava già per saltare in letto, provò, in sull’attimo, una paura tale, da non potersi ridire: c’era lì un coso nero, brutto... — Oh, che razza di scherzi! Le avevano nascosto sotto le coperte il beduino che serviva da ferma uscio! Lalla indovinò subito da chi le veniva quel tiro, e toltosi il beduino in braccio e gettandosi addosso uno scialle, pian piano si avviò per compiere le sue vendette contro la Giulia, ma la Giulia, a sua volta, veniva appunto lì volendo assistere alla burla, e perciò tutt’e due s’incontrarono nel corridoio. L’una volle scappare, l’altra le corse dietro, Giulia saltò subito in letto nascondendosi sotto le coperte; e Lalla infine gliele strappò via e la costrinse a baciare, a ribaciare e a tenersi addosso, stretto stretto, quel brutto coso di carta pesta. Quella sera tutt’e due le ragazze, erano un argento vivo. Si baciavano per mordersi, si tiravano dietro i guanciali, le vesti, tutto quanto capitava loro fra le mani; poi ad un tratto spensero i lumi, ebbero paura, chiamarono in aiuto la Nena e la Luigia, e non si calmarono finchè non furono tanto stanche di ridere, di gridare, di correre, da non poterne più!... L’indomani Maria si alzò prestissimo; non aveva potuto chiuder occhio in tutta la notte. Era indebolita, aveva la febbre, tossiva, tossiva... Dio, Dio, come si sentiva male! Si doveva celebrare il matrimonio religioso prima, poi il civile. Il religioso alle dodici del mattino, l’altro alle tre, per lasciar tempo alla sposa di mutare d’abito. Dopo, alle cinque, c’era il pranzo, al quale erano invitati anche don Gregorio, don Vincenzo, il sindaco... e finalmente gli sposi sarebbero partiti per il loro viaggio di nozze. Lalla era ritornata seria, malinconica; per altro faceva tutti i suoi piccoli preparativi senza confondersi, senza distrarsi. Invece il conte Della Valle dimenticava tutti gli ordini che aveva da dare... Maria era sfinita... non aveva più lacrime; ma Prospero ne sgocciolava anche per lei mentre, dopo aver spalmato di burro il pan fresco, lo inzuppava, gemendo e sospirando, in una tazza di caffè e panna. La cerimonia religiosa non avrebbe potuto riuscire più commovente. La chiesa era stipata; il pubblico rumoreggiava curioso e pettegolo; ma quando don Gregorio unì indissolubilmente nel santo nome di Dio, in un nodo sacro, eterno, le due creature e le due anime, egli seppe trovare, benedicendole, parole così soavi da intenerire non solo gli sposi, Prospero Anatolio e i quattro commendatori, ma da suscitare in tutta quella gente una commozione viva e sincera. In Municipio, invece, non si fece altro che ridere; si rise per i guanti bianchi di filo di Scozia e la sciarpa nuova che sfoggiava il signor Domenico, si rise della goffa ed impacciata importanza ch’egli si dava, e si rise più assai, quantunque tutti si sforzassero per contenersi, quando il signor Domenico, firmato l’atto, diede principio con voce altrettanto solenne quanto nasale, ad un discorsone proprio coi fiocchi. Era questo l’unico frutto ottenuto dalla sua unione colla dotta signora Veronica; ma, pur troppo, il sindaco di Santo Fiore, dopo quel giorno-, non potè più dire: — Chi ben comincia è alla metà dell’opera! — Il signor Domenico aveva cominciato benino il suo discorso, ma dopo i primi periodi incespicò, si confuse, mangiò le parole, e ne saltò mezzo, spaventato dagli occhietti bigi del duca Prospero, che lo fissavano con aria meravigliata. Quando rientrarono in casa, la sposa si mostrò subito più disinvolta; era già in abito da viaggio: un abito grigio, attillato alla persona, che lasciava scorgere i fremiti della sua magrezza di sensitiva. I bei capelli, sciolti dalla noiosa corona di fiori di arancio, avevano ripreso il loro artistico disordine. Le guance, soffuse d’un leggero incarnato, le davano l’aspetto quasi di una bambina, e così era piacevolissimo il contrasto tra il suo visetto infantile e gli occhioni profondi e vellutati. Giorgio Della Valle la seguiva passo passo e pareva rapito in estasi. Egli non poteva credere che quella donnina tanto cara, tanto gentile, tanto aggraziata fosse proprio sua moglie. La guardava muto, estatico, senza saper dire una parola; la guardava lungamente, teneramente, supplicandola. Lalla invece, era affabile e affettuosamente chiacchierina con suo marito e con tutti quanti. E Giorgio, sempre dietro, non la perdeva d’occhio un momento. Non viveva altro che col cuore, e il cuore è sempre l’eterno fanciullo!... Pieno di una beatitudine inquieta, guardava sua moglie a muoversi, a parlare, a ridere... — Sua!... — Era sua! Una volta, mentre la seguiva, era stato trattenuto da uno dei quattro commendatori che gli annunciava la prossima nomina di Prospero a senatore; allora chiamò Maria per liberarsi dell’importuno e — Mamma! Mamma! — le disse — come mi sento felice. In quanto a Prospero, per il momento non pensava a malinconie; gongolava tronfio fra il Senato del Regno e la Camera dei deputati. Il pranzo fu cordialissimo. Pier Luigi, seduto accanto alla nuova nipotina, la stuzzicava con certe allusioni sul viaggio di nozze, molto arrischiate. Lalla arrossiva e abbassava il capo modestamente, ma poi lasciava intendere allo zio, con un volgere malizioso degli occhi sfavillanti, ch’ella capiva tutto benissimo e che ne rideva. Pier Luigi cominciava fino d’allora, non si potea dire che perdesse il tempo, a corteggiare la contessa Della Valle, ch’egli trovava piccante e seducentissima; e Lalla, pur senza perdere tempo, si godeva a lasciarsi fare la corte e ad ottenere l’ammirazione e le attenzioni del conte Pier Luigi, nel quale vedeva l’uomo esperto, che in fatto di donne s’era creata la riputazione d’intelligente. Per tutto ciò ci teneva a piacergli, e scherzava e gli si dimostrava amabilissima, e ridendo si aggiustava le trecce che aveva annodate sulla nuca facendo con quell’atto, risaltare meglio la bellezza delle sue braccia. Tuttavia il marito non era trascurato. Egli era anzi il punto fisso dove Lalla terminava sempre col girare degli occhi; e sotto quello sguardo languido e soave, Giorgio sentiva una scossa per ogni fibra e spasimava di stringersi fra le braccia... sua moglie!... di baciarla, di sciuparla, di morderla, di tuffare le mani in quei capelli biondi e profumati. Don Gregorio, fattosi più grave, e come impensierito, continuava ad osservare attentamente Maria, la quale aveva lui alla sua destra, e il signor Domenico alla sinistra, i due che le avevano maritata la figliuola. Ma il signor Domenico avrebbe ceduto il privilegio assai volentieri. Lo avrebbe ceduto magari ad uno qualunque dei quattro commendatori!... Il modesto sindaco di Santo Fiore si sarebbe trovato assai meglio, nascosto in un cantuccio, godendosi a tutto suo agio quelle vivande così prelibate che il signor Francesco gli era andato descrivendo da tanti giorni, degnandosi anche d’indicargli quelle in cui avrebbe dovuto di preferenza mettere i denti. Così, invece, la soggezione gli lasciava appena il tempo di assaporare com’erano buone; gli si fermavano i bocconi nella strozza e restava istupidito quando, dimenticandosi per un momento, lasciava sul piatto la forchetta o il coltello e quei camerieri infuriati gli portavan via tutto! Invidiava il coraggio di don Vincenzo che, con le labbra unte, il naso rosso e la bocca sempre piena, strippava, macinando a due palmenti, tutta quella grazia di Dio, così che la povera miss Dill, vedendosi trascurata, se ne offendeva e metteva il broncio. Solo alle frutta, quando don Vincenzo, dopo d’essersi lasciato scappare il primo rutto, la fissò con una tenerezza da ciuschero, facendole scorrere la tabacchiera di sotto alla salvietta, miss Dill, rabbonita, gli sorrise clemente, sentendosi tutta rinvenire, come un gambo d’insalata dopo un’acquazzone d’estate. — E Prospero Anatolio?... — Prospero non mangiava, ma, invece, divorava la Giulia: egli l’aveva accosto, vicinissima tanto da sentirne il calore, con quelle sue carni bianche e rosse, sparse di un pelolino simile alla pesca duracina. Verso la fine del pranzo tutti s’erano animati: parlavano sempre a due a due, ma le voci si facevan più vive, il ridere più frequente e più forte, l’intimità più espansiva. Fu uno dei quattro commendatori, un pezzo grosso dei Lavori Pubblici che, dopo di aver guardato l’orologio, avvertì gli sposi di affrettare i preparativi, se non volevano perdere la corsa. Eccetto don Gregorio e Maria, che non ne ebbe il coraggio, vollero tutti accompagnare gli sposi alla stazione: il caffè lo avrebbero preso al ritorno, con più comodo. Coi saluti, cominciarono le lacrime. Piangevano tutti, e alla tenerezza di circostanza s’era aggiunta quell’altra, assai più spontanea, provocata dagli effetti di una buona digestione, perchè l’uomo, come il coccodrillo, si commuove più facilmente a stomaco pieno. Il conte Della Valle soltanto e Maria avevano gli occhi asciutti; Giorgio tradiva l’interno sentimento che lo agitava col pallore del volto e il tremito delle labbra; Maria... povera Maria!... Ma per fortuna nessuno badava a lei in quel momento, tranne don Gregorio, che per ciò era diventato a mano a mano sempre più inquieto. Lalla singhiozzava, non sapeva staccarsi dal babbo e dalla mamma e si sfogava colle carezze e con gli abbracci. Prospero aveva ricominciato a sospirare e a soffiarsi il naso. La Giulia pure piangeva, e miss Dill pareva impietrita dal dolore. Poi la commozione dei padroni si diffuse anche fra i servitori, e l’addio della Luisa e della Nena fu affettuosissimo. Ormai tutti erano pronti e si doveva partire. Lalla volle ancora abbracciare la mamma: poi la Giulia, poi don Gregorio. Quindi affidò la sacchettina dei gioielli alla Nena e le raccomandò di non abbandonarla un momento; in fine, appena seduta nella carrozza e mentre i cavalli si muovevano salutò la mamma un’ultima volta: — Scrivi! scrivi presto! subito! Giorgio doveva montare nel landò, che veniva dopo, con Pier Luigi, la marchesa di Genova ed un commendatore. Gli altri già erano a posto, quand’egli, prima di salire alla sua volta, si avvicinò a Maria, come aveva fatto Lalla e l’abbracciò teneramente. Maria non ricambiò e non respinse l’abbraccio; rimase muta, immobile come l’immagine del dolore. Ma quando il cancello del giardino, richiudendosi dietro all’ultima carrozza, diede il suo addio agli sposi col sonante ripercuotersi delle spranghe di ferro, allora, senza nemmeno un gemito, cadde a terra svenuta. Quando rinvenne, si trovò adagiata, distesa sul canapè del salotto: don Gregorio era solo con lei. Il buon vecchio, che ormai aveva tutto compreso, avea saputo con un pretesto allontanare anche la Luigia, temendo che Maria, nello stato in cui si trovava, potesse perdersi con qualche parola imprudente. — Coraggio, coraggio! — le disse subito, appena vide i suoi occhi guardare attorno spalancati, con un’aria di sorpresa e di sgomento. — Coraggio, il Signore ti ha fatto trionfare anche dell’ultima prova. — No, no, don Gregorio; non ho potuto trionfare — e la povera donna, ritornando alla dura, alla spietata realtà della vita, non potè più oltre contenersi, e a quelle parole che le rivelavano scoperto il suo segreto, sentì sprigionarsi, prorompere dall’anima, dal cuore, da tutta sè stessa la piena del proprio dolore, come ad un urto che ne apra le chiavi, l’acqua della corrente irrompe furiosa ad allagare la campagna. — No... non posso, non posso resistere... e Dio... Dio non c’è! No... e se ci fosse... sarebbe peggio... sarebbe un Dio crudele! Qual capriccio feroce il suo di concedermi la forza di affrontare l’ora del sacrificio... e togliermela poi all’ultimo istante?... E farmi adesso rimpiangere il sacrificio stesso, e farmi cattiva, disumana; e così, dopo di avermi resa infelice a questo mondo, dannarmi anche nell’altro? Le lacrime le colavano copiose dagli occhi, mentre coll’urto dei singhiozzi scoteva la bella testa addolorata, convulsamente balbettando fra una parola e un singulto: — No... no... Dio... non esiste... Dio non esiste... Don Gregorio, intanto, piangeva con lei e pregava: pregava Iddio fervidamente per la poveretta; pregava Iddio perchè ridonasse la calma al suo cuore e perchè perdonasse, nella sua bontà infinita, quell’infinito dolore. Solo quando l’impeto dei singhiozzi cominciò un poco a rallentarsi, egli disse dolcemente, prendendole una mano: — Il Dio che senti nel tuo cuore, esiste, ed è un Dio di perdono e di pace. Egli, nella sua sapienza divina, riserva, alle creature elette, forti come tu sei, la missione di aiutare coll’esempio i deboli e i vacillanti nelle battaglie della vita. Ringrazia, Maria, ringrazia il Signore con tutta la sincera espansione dell’anima, e non imprecare alla sua bontà previdente. Dell’uomo che poteva essere per te uno strumento di perdizione, ne ha fatto il figliuolo del tuo cuore; ti ha riserbata la contentezza, la gioia di vegliare al suo bene, e alla sua felicità; lo ha riunito, lo ha confuso nel più grande affetto e nel più santo dovere della tua vita: nell’affetto, nel dovere di madre. Lalla è giovanissima ancora; la sua indole non è come la tua: essa ha bisogno di una madre che la sorvegli, che la sorregga; ha bisogno di te perchè tu infonda nel suo cuore quello spirito di carità e di fede che vivifica il tuo. Così serenamente e santamente avrai compendiata tutta l’esistenza nel preparare, nell’assicurare e nel difendere la felicità... di chi ha la tua tenerezza ed il tuo affetto. Vedi, figliuola mia, quanto il Signore è stato buono con te? Lo spirito del male voleva tentarti, ma Iddio lo vinse colla rettitudine della tua coscienza, ti salvò dal peccato, dalla colpa sollevandoti sopra le ali della fede, fece di te il buon angelo custode dell’uomo che tu ami. Queste parole di don Gregorio scesero benefiche nell’anima di Maria. Ella intravvide come un raggio di sole penetrare e diffondersi nelle tenebre della propria esistenza, mentre un’aura di pace aleggiava intorno a lei, consolandola con una commozione dolce e profonda. — Fra qualche tempo — continuò il buon vecchio — quando il fervore del sangue si sarà intiepidito, quando il cuore rallenterà l’impeto dei suoi palpiti, quando ritornerà il sereno della tua mente coll’alba riposata di una prima ciocca di capelli bianchi, allora, invece dello squallido rimorso che avrebbe turbata la tua vecchiaia solitaria, invece del disprezzo e dell’odio, ti vedrai circondata dall’amore e sarai benedetta come il santo orgoglio della tua casa. Allora, rivolgendo uno sguardo tranquillo in mezzo alla ridente felicità de’ tuoi cari, potrai dire di aver creato tu stessa quel Paradiso, col tuo eroismo e col tuo sacrificio; e accarezzando delle vaghe testoline bionde, che ti saluteranno col sorriso degli angeli, non dirai più, come stasera, che Iddio non esiste; ma lo sentirai vivo e possente in un inno di gratitudine che proromperà dal tuo cuore. — Grazie, grazie, don Gregorio!... Voi mi avete salvata!... — e Maria, cogli occhi ancora bruciati dalle lacrime, baciò con trasporto la mano del vecchio che stringeva la sua. Don Gregorio aveva vinto; aveva saputo far rinascere la speranza e tornare la calma nel cuore di Maria. Il dolore l’avrebbe uccisa a ogni modo, essa lo sentiva e lo bramava; ma adesso non vedeva più la sua tomba solitaria e deserta; le appariva invece sparsa di fiori e di ghirlande, come l’oasi prediletta della gratitudine e dell’amore. Quella missione di angelo tutelare infiammava, col misticismo che la involgeva, la sua immaginazione casta e poetica. Simile alla suora di carità che non abbandona il letto dell’infermo anche quando sente il contagio penetrarle nel sangue, Maria sarebbe rimasta coraggiosa, al fianco di Lalla, per riscaldarla colla sua propria fiamma, per riunire e confondere in uno solo, come il profumo di due fiori, l’amore di sua figlia e l’amor suo, facendolo alitare sulla cara esistenza di Giorgio colla perenne profusione di una corrente viva e benefica. Quando il duca e gli amici ritornarono dalla stazione, don Gregorio se n’era già andato e Maria si fece scusare; nè la loro mancanza fu molto lamentata. Avevano tutti una voglia matta di ridere e di scherzare mentre bevevano il caffè colla chartreuse, in circolo, attorno al caminetto, riscaldandosi con una bella fiammata allegra e scoppiettante. Ma più assai del caminetto era la contessina di Rocca Vianarda che riscaldava la brigatella. Ciascuno faceva con lei il galante e lo spiritoso, eccitato dal riso libero e sano della bella fanciulla, dagli arditi atteggiamenti, dalle forme ricche e tondeggianti. Chi per altro cominciava a perderci la misura era Prospero Anatolio, il quale pareva già confortarsi del distacco di Lalla. Egli aveva sempre qualche cosa da dire alla Giulia a bassa voce, nell’orecchio. La prendeva a braccetto e, colla scusa ch’essa era l’unica figlia che gli era rimasta, voleva abbracciarla; e una volta incontrandola tra due porte, all’oscuro, la strinse con tanta forza che la fanciulla, un po’ seccata, gli disse respingendolo vivamente: — Calma, calma, caro duca; stringete troppo per un padre e specialmente per un — santo padre! — Prospero Anatolio arrossì, confuso, e non ebbe più il coraggio di guardarla in faccia per tutta la sera, ma abbassando gli occhi, le rispondeva impacciato, quando la Giulia gli rivolgeva qualche scherzo o qualche piacevolezza, rincrescendole di averlo troppo mortificato. Intanto miss Dill e don Vincenzo si erano dileguati, e con loro anche la vecchia marchesa. Quando, suonata la mezzanotte, la riunione si sciolse e ognuno si ritirò nella propria camera, Prospero Anatolio non si coricò subito, ma si sdraiò vestito sulla poltrona, accanto al letto. Pensò alla Giulia, al suo fiero rimprovero, a quella nota di sarcasmo così pungente, alla figura ridicola ch’egli ci aveva fatto... e l’immagine della bella fanciulla gli era sempre viva dinanzi agli occhi. Sentiva ancora il calore del suo corpo; vedeva il riso della bocca umida, giovane coi suoi dentini che apparivano sfacciati fra le labbra rosse. Quanto era bella!... Ah!... se lui fosse stato ancora un giovinotto, o un uomo piacente! E col pensiero penetrava nella camera di lei, desiderandola, e non l’abbandonava durante la notturna toeletta... Per distrarsi volle pensare a sua figlia, ma anche lì mille immagini ribelli lo tormentavano... — Signore Iddio benedetto, che cosa ho addosso questa sera! Era stato lo champagne! ne aveva bevuto troppo!... Stette così qualche tempo ancora, poi si alzò risoluto e uscì di camera. Neppure Maria si era spogliata: era rimasta immobile per molto tempo, sdraiata nella sua poltrona, poi si era inginocchiata per pregare; e adesso, dopo aver pregato, tornava a piangere, a singhiozzare, quando udì bussare all’uscio, con un toccheggiare esitante: — Scusami, cara, vorrei parlarti — disse al di fuori Prospero Anatolio, con voce malferma. Maria asciugò in fretta gli occhi e aprì. Prospero Anatolio entrò nella camera sorridendo: ma negli occhiettini bigi ebbe un lampo di malumore, vedendo la moglie ancora vestita. Maria non se ne accorse perchè il marito non la fissava in faccia, ma la guardava di traverso, mentre si buttava, come se fosse stanco morto, a sedere sopra un piccolo divano. — Che cosa vuoi? Prospero non rispose, ma si tirò accanto a Maria sul canapè, e con mano tremante cominciò a carezzarla ravviandole i capelli dalla fronte. — È... partita. — balbettò alla fine, vedendo che sua moglie lo fissava negli occhi muta, impassibile. — È proprio andata via per sempre... Adesso, co-come vedi, ne sento tutto l’affa-fanno, non so darmene pace, mi turba un vuoto do-o-lorosissimo! — Lo hai voluto tu, — rispose Maria seccamente. Prospero Anatolio tacque a lungo, poi sempre senza osare di guardarla in viso, sussurrò qualche parola inarticolata, ch’ella per altro comprese bene. Si alzò di colpo, pallida, tremante: Prospero ne ebbe quasi paura; balbettò, volle scusarsi, e uscì dalla camera scomposto e barcollando come un ubbriaco. Maria, superato il ribrezzo e lo sdegno, si era sentita agghiacciare. Le pareva che il Cielo, dopo averle così crudelmente spezzato il cuore, volesse anche schernire, svillaneggiare il suo immenso dolore, con quella domanda oscena che le veniva buttata in faccia! Si rannicchiò sul letto senza spogliarsi, e stette così fino al mattino. Quando si alzò, un colpo di tosse le addolorò il petto e la gola arsiccia, mentre sentiva correre sulle labbra alcunchè di denso, di tiepido, d’un sapore dolciastro; si asciugò la bocca e poi guardò il fazzoletto... era macchiato di sangue. Allora Maria ritornò a piangere, ritornò a credere e a pregare: Iddio la consolava colla più cara delle sue promesse; e la morte sorrise alla povera donna come la sua ultima speranza, come il perdono e la pace. XXII Nemmeno nei primi mesi della luna di miele la contessina Lalla perdette il suo tempo: no, no; anzi, quando Giorgio si abbandonava accanto a lei inebriato e inebetito, colle pupille stanche, ella apriva i suoi grandi occhioni, e attentamente studiava il marito per imparare il modo di guidarlo e di dominarlo. E già poteva chiamarsi contenta: c’era riuscita proprio bene. Quell’uomo, in apparenza tanto forte, non isfuggiva alle sue manine bianche e delicate. Con un sorriso o con una lacrima, con una preghiera o con un po’ di malumore, coll’arte di saper concedere a tempo, e a tempo di saper negare, Lalla lo teneva legato alla propria volontà, con fili invisibili, ma tenaci. Una volta, fu la prima ed anche l’ultima, egli tentò ribellarsi al giogo adorato, negandole risolutamente di accompagnarla alla messa. Lalla pregò, supplicò, pianse, tutto inutilmente. Vi andò sola, ma colle ciglia aggrottate, e ritornata a casa si serrò a chiave in camera sua. Giorgio ebbe un bel fare: quell’uscio gli rimaneva chiuso in faccia ostinatamente. Venne la sera, la notte, ma sua moglie, quantunque avesse paura a dormir sola, fu inesorabile, e l’indomani soltanto, quando il marito tornò pentito di chiesa, essa gli riaperse l’uscio e le braccia. Dopo d’allora Giorgio cominciò a transigere con lei; e, si sa bene, le transazioni sono come le ciliege: la prima si tira dietro le altre. Perchè doveva egli turbare la fede di sua moglie?... Appunto, se egli non credeva alla messa, poteva benissimo accompagnarla, come l’avrebbe accompagnata in qualunque altro luogo. Così, perchè non avrebbe mangiato di magro il venerdì ed il sabato?... O che?... il pesce non gli era sempre piaciuto?... Già, una donna libera pensatrice non l’avrebbe sposata, e nemmeno una dottoressa repubblicana; dunque doveva bene lasciarla fare e pensare a suo modo; e Giorgio intanto non si accorgeva che invece cominciava lui a fare e a pensare come voleva la moglie. Del resto era una pietà piuttosto strana, quella di Lalla; essa credeva ciecamente in un Dio di manica larga, che perdona sempre, e si accomoda facilmente, e col guadagnare l’empio consorte alla fede non aveva dubbio di accaparrarsi l’indulgenza per il passato... e per l’avvenire. E il Della Valle di tutto questo non capiva nulla; e mentre sarebbe corso ad una nuova Mentana, se un’altra volta ci fosse stato da sciogliere col fucile la questione religiosa, chinava la fronte e le ginocchia dinanzi all’elegante clericalismo della bionda duchessina che lo aveva innamorato. Il conte Della Valle, che per il trionfo dei suoi principî avrebbe speso la vita, li sacrificava adesso ad uno ad uno, sotto l’arcana influenza delle carezze di Lalla. Questa sua influenza per altro, essa non la esercitava soltanto in pro della Chiesa e delle istituzioni. La carità comincia da noi, dice il proverbio, e così faceva Lalla. Per esempio, volendo assicurarsi da ogni possibile birbonata che il Frascolini le volesse giocare, Lalla, a prevenire il pericolo, aveva raccontata e fatta credere a suo marito una storiella tutta d’invenzione, nella quale dipingeva Sandro come un matto, un farabutto che, perduta la testa, si era innamorato di lei, che s’era messo a guardarla sfacciatamente, a perseguitarla, seguendola ad ogni passo, finchè un giorno le scrisse anche una lettera. E siccome lei gliela fece restituire dal vecchio Ambrogio, senza neppure averla letta, s’intende, e con un solenne rabbuffo per giunta, lui la minacciò che, un dì o l’altro, quell’azione gliela avrebbe fatta scontare e... e il povero Ambrogio nella sua qualità di morto, naturalmente era obbligato a tacere! A Roma, dove da tempo avevano stabilito di passare l’inverno, la contessa Della Valle spiccò non poco per la sua grazietta attraente, pei grandi occhi vellutati, per lo spirito fine, per la bella personcina sottile e flessuosa, per il sorriso a volte timido e modesto, a volte birichino, e per il tutt’insieme nobile e signorile. Anche a Roma continuarono a chiamarla la duchessina, ed era attorniata da uno sciame di adoratori che la corteggiavano con molta insistenza. Giorgio, da principio, era gelosissimo; ma Lalla, in poco tempo, seppe ridurlo alla ragione. Quando ritornavano da qualche festa, e liberati dalla presenza della cameriera, rimanevano soli, Lalla, mezzo spogliata, si sedeva sulle ginocchia del marito, che fumando l’ultima sigaretta sdraiato in una poltrona, si godeva a contemplarla. E lì fra carezze e baci e mille moine da gattina, essa circondandogli il collo colle braccia nude, che gli faceva ammirare e baciare, fissando sempre lei il numero dei baci, confidava al marito tutte le dichiarazioni ricevute durante la serata. Allora con quella monelleria tanto garbata e briosa, Lalla faceva la caricatura di tutti i suoi eleganti innamorati, mettendo in burletta il languore dell’uno e il fuoco dell’altro, imitandone il gesto, l’espressione, l’accento. Giorgio era contento e beato, perchè così acquistava la convinzione che quella cara e innocente bambina gli avrebbe contato sempre tutto, in ogni occasione e, in tal modo, senza una sorveglianza importuna, avrebbe potuto prevenire i pericoli; e Lalla era pure soddisfatta vedendo che il giuoco le riusciva bene. Per ciò, e in breve tempo, ella si trovò affatto libera di andare, venire, stare e ricevere chi meglio le accomodava. Una volta sola il Della Valle mise innanzi un bel no; ma fece fiasco. Il fatto successe nell’occasione che fu presentato alla duchessina il marchese di Vharè. — Ti prego, Lalla, di non invitarlo in casa nostra... mi è antipatico; e poi... compromette tutte le donne!... — Come fare?... è tanto amico della mamma! Giorgio arrossì, Lalla se ne accorse, e il dialogo fu interrotto; ma poi, qualche giorno dopo, il Della Valle vide entrare il Vharè da sua moglie. Lalla lo assicurò di non averlo invitato; era vero, ma aveva fatto intendere al marchese ch’ella stava in casa tutti i mercoledì dalle due alle cinque, di giorno, e che il sabato riceveva alle dieci di sera. Il Vharè, per Lalla, non era mai stato indifferente: perchè? chi sa!... Forse fra quelle due nature dal sangue guasto, esisteva una corrente simpatica: certo è poi che la fama di scapestrato, di Don Giovanni adorato dalle donne e temuto dagli uomini, fama ch’egli non s’era scroccata, costringeva Lalla ad ammirarlo. Anche gli scandali eleganti, sollevati dai suoi amori colla diva Soleil, riconfermata per quel carnevale da un impresario di Roma, eccitavano continuamente la sua attenzione e la sua curiosità. Giacomo di Vharè aveva passato i quarant’anni, ma restava tuttavia un uomo piacente. Alto della persona; pallido, coi baffi biondi e i capelli brizzolati, che appena sulle tempie cominciavano a farsi radi. Aveva una coltura varia, facile, alla portata di tutti, e perciò da tutti ammirata, ch’egli aveva saputo acquistarsi coi suoi viaggi e con una memoria straordinaria. Riteneva subito, e per lungo tempo, tutto ciò che gli capitava di leggere nei giornali e nelle riviste. Parlava bene, parlava molto, e aveva uno spirito pronto, paradossale. Conosceva poi la gente più in voga di tutto il mondo, da Sarah Bernhardt al padre Curci, e la conosceva davvero, perchè di esagerazioni era schivo, massime quando parlava di sè. Non citava mai i suoi duelli, non alludeva mai alle sue fortune amorose, non nascondeva i suoi debiti e ci teneva molto al marchesato, quantunque non fosse di buona lega. Scettico ma freddamente cortese, aveva quell’aria indefinibile di padrone del mondo e di grand’uomo andato a male, che si fa ammirare dagli sciocchi... e gli sciocchi sono in maggioranza. Con tutto ciò, è naturale, in quel vivaio di adoratori, Giacomo di Vharè fu il primo e il solo che arrivò a farsi notare dalla duchessina. Lalla scherzava sempre, era con tutti amabile e civettuola; ma, sicura del fatto suo, non ci pensava più che tanto a quelle farfalle che si bruciavano le ali attorno alla sua fiamma, o se ne occupava appena per contarle. Col marchese, invece, la cosa era ben diversa; con lui diventava seria, non era più motteggiatrice, chiacchierina, ma lo ascoltava attenta coi grandi occhi fissi. Il marchese di Vharè, a poco a poco, si abituava a quella bambina, cominciava a trovarsi bene con lei, ad accorgersi ch’ella avea molta intelligenza e molto spirito, e la stuzzicava a proposito del suo sentimentalismo di fanciulla bionda, e del suo clericalismo di duchessina legittimista, godendosi a sentirla ragionare così composta, così aggraziata, con la voce dolce, d’argento che accarezzava l’orecchio come una musica. A farle la corte non si provava nemmeno: gli pareva impossibile di poter riuscire — interessante — lui, non più giovane, a quel fiorellino pallido e delicato, che sbocciava allor allora, fragrante di soavità. Una sera, per un momento, ne aveva avuto quasi il capriccio, la tentazione: poi non ci pensò più; era una cosa assurda, ridicola. ... Quella sera aveva avuto luogo, al teatro, la beneficiata della diva Soleil e uno splendido mazzo di orchidee e di violette russe, che spiccava fra i moltissimi stati offerti alla festeggiata cantatrice, aveva suscitato nel palchetti i commenti ed i pettegolezzi delle signore. Certo, certo, era stato il Vharè! Era il dono del Vharè! Era l’omaggio del Vharè! Dopo teatro, c’era riunione dalla principessa di Kleigenburg e tra gli invitati si notavano anche Lalla e il marchese. Quest’ultimo, dopo aver girato attorno fra le signore, facendo complimenti, o lanciando qualche epigramma, si sedette vicino alla duchessina, coll’abbandono di chi, dopo essersi molto seccato, si procura un istante di sollievo. Lalla non gli aveva mai fatto parola a proposito della diva, nemmeno per dirgli che la Soleil cantava bene; ma quella sera essa voleva parlare e intanto lo fissava sorridendo... e fissava pur sorridendo l’occhiello del suo frak, dov’erano infilate alcune violette. — Bellissime... — Mi spiace, duchessina, ma non posso, non oso offrirgliele. — Teme un dolce rimprovero? Giacomo guardò Lalla stupito: — Oh, no; tutt’altro! — Allora, le sono molte care quelle violette? — Nemmeno, contessa; ma che vuole? le parrà strano, eppure anche noi vecchi roués abbiamo il nostro pudore e... Lei non mi può capire, contessa, nulla di meno questo fiore così sciupato... ecco... mi parrebbe di mancarle di rispetto se gliel’offrissi. — Le reticenze marcate e studiate con molta arte stabilivano un’antitesi, fra il contralto e la duchessina, molto lusinghiero per quest’ultima. Quando Giacomo tacque, si guardarono tutti e due lungamente, senza parlare; poi Lalla, colle labbra un po’ tremanti e il seno che dalla scollatura dell’abito si vedeva ansare più forte, fissandolo sempre, stese la mano aperta verso di lui, con un’espressione dolcissima di preghiera e d’affetto. Giacomo si tolse le violette dall’occhiello e più per abitudine che per deliberato proposito, strinse leggermente le dita di Lalla: e Lalla presi i fiori li chiuse, con molta cura, nel suo ventaglio di pizzo. — È una dichiarazione od è uno scherzo? — pensava il marchese fra sè. — Mah! chi può capire le donne?... Perchè mai vorrebbe ch’io le facessi la corte?... Amarmi?... lei? Sentire simpatia per me, che devo esserle stato dipinto da suo marito col pennello di Bosch, il pittore dei mostri?... Eh! questa intanto potrebbe essere anche una buona ragione... Poi è una donnina di talento e chissà, trovandomi meno stupido degli altri... No, no; è impossibile; divento vecchio, e per lusingarmi basta anche un’amabilità, affatto innocente... o ingenua! Con quell’aria così composta? Con quegli occhi così modesti?... Eppure, alle volte, sa guardare in un certo modo... No, no; è inverosimile, è assurdo! — Invece, quantunque inverosimile, la cosa era proprio vera. Lalla ci godeva assai, e ci teneva a far girar la testa al marchese di Vharè, più che ad ogni altro. Ma perciò non bisogna credere che il Vharè dovesse il buon successo soltanto alle memorie infantili della piccola duchessina; vi concorse anche un’altra circostanza, molto singolare e molto efficace. Al Della Valle era stata offerta in vendita la casa di campagna del marchese Giacomo e, prima di recarsi a Roma, Giorgio e Lalla, passando da Santo Fiore per salutare i d’Eleda. erano andati insieme a visitarla. Giorgio aveva abitato un mese in quel villino senza scoprirvi nulla di singolare; Lalla invece, subito, appena dentro, fatti appena i primi passi, in tutta quell’intimità ricca ed elegante, in tutti quei mille gingilli, vide come apparire, animarsi, muovere il dissipatore simpatico e capriccioso, il seduttore amabile, dal gusto finissimo, e dalle abitudini signorili; e in un tappeto con due cifre graziose, che non erano nè una V nè una G. quasi nascoste dagli arabeschi, e in un vasetto di fiori appassiti, e in un pennaiuolo ricamato, e in un coltroncino trapunto, essa indovinò, al primo sguardo, le manine di una donna, o di più donne, che volevano, o che avevano voluto molto bene al padrone di casa. Con quel suo istinto di bimba curiosa e indiscreta, Lalla guardava, toccava tutto, e di tutto voleva sapere, indovinare il perchè. Essa correva di qua e di là, dallo studio al salottino, dal salottino alla camera da letto, cercando, frugando, rovistando, trovando sempre qualche cosa di nuovo, e d’interessante. Pareva in casa sua là dentro, essa pareva lo spirito, l’anima, il folletto di tutto quel piccolo regno dell’amore e della femminilità. Quando da uno specchio era riflessa la leggiadra personcina di Lalla, così vagamente bizzarra, coll’ampia pelliccia scura, che la freddolosa si serrava addosso stretta stretta, col berrettone di lontra che non le nascondeva punto le ciocche scompigliate dei bei capelli, quello specchio pareva mutarsi per incanto in un bel quadro di genere messo lì, a suo posto, dal buon gusto di un artista sapiente. Lalla correva di qua e di là; ma d’un tratto, nella camera, accanto al letto, si fermò, prima attonita, poi pensierosa. Fra le cortine rialzate, vicino al capezzale, aveva scoperto un quadrettino piccolissimo, qualche mistero di certo, perchè, di sotto al vetro, era calata una tendina di seta verde, con un disegno stinto nel mezzo. Come ci riesce bene il diavolo quando ci vuol mettere la coda!... Giorgio, in quel momento, era alla finestra, occupatissimo col notaio incaricato della vendita, che gli indicava i vari confini dei fondi adiacenti alla villa. Lalla staccò il quadretto, lo guardò da tutte le parti, con una smania un po’ nervosa, finchè, nascosta tra i fregi della cornice, in un angolo, scoperse una piccola molla; la spinse forte, colle dita; la tendina si alzò di scatto, e Lalla vide una miniatura, il ritratto di una donna bellissima, nuda fin oltre la metà del seno, e circondata da un arruffio di capelli biondi (era bionda anche lei!...) che riempiva tutto lo spazio rimanente del piccolo quadrettino. Quella signora così... bionda era una gran dama dell’alta aristocrazia romana, celebre non soltanto per la sua bellezza, ma più ancora per la sublime e rara virtù. Invece... invece era l’amante del Vharè. Intanto Giorgio che trovava conveniente l’acquisto di tutti quei beni, stava fissando col notaio i termini del contratto. — Nella vendita è compreso il mobilio?... E anche gli oggetti d’arte? — domandò la duchessina. — Il signor marchese — rispose il notaio — si riservò soltanto alcune memorie di famiglia, che intende conservare. — Ho capito — pensò Lalla sorridendo. La bella miniatura sarebbe stata conservata... tra quelle memorie!. Ma tutto ciò, ad insaputa stessa del Vharè, gli aveva aperta la via per entrare diritto nel cuore di Lalla; e dopo successa la scena del fiore, quando Giacomo per la prima volta arrischiò, a mezza voce, una mezza dichiarazione, egli vide gli occhi di Lalla, solitamente così modesti, fissarlo, interrogarlo quasi supplichevoli, vide le sue guance tingersi di un leggiero incarnato e il respiro farsi anelante... come quando, senza parlare, essa gli aveva chiesto, cogli sguardi desiderosi il gradito omaggio delle violette. Giorgio era seccato, pareva sospettoso. Appena Lalla si metteva a discorrere col Vharè, egli diventava serio, stava attento, e subito, e non sempre con abbastanza disinvoltura, correva a mettersi in mezzo fra di loro. Lalla scorgendo quelle ansietà, quelle mosse, sorrideva impercettibilmente, più cogli occhi che colle labbra; capiva bene che suo marito, sicuro di tutti, di — quello lì — non lo era punto; capiva che — lì — egli presentiva il pericolo e con una logica tutta particolare, Lalla ne deduceva, per conseguenza, che il Vharè doveva valere molto di più degli altri; e nei colloqui notturni, quando essa rivelava al marito tutte le dichiarazioni ricevute nella serata, quelle del Vharè passavano sempre sotto silenzio. Anzi una volta che Giorgio le domandò con alquanta circospezione, per non turbare la sua innocenza, se il Vharè non aveva mai tentato di farle — un po’ di corte — essa gli rispose tranquillamente, candidamente. — No; mai. — Senti, Nino mio, ti assicuro, a te il Vharè è antipatico e ne avrai le tue buone ragioni, ma io l’ho trovato sempre cortese, rispettosissimo: dalle sue labbra non è ancora uscita una parola che possa parere una dichiarazione: dice sempre che potrebbe essere mio padre e, via, non ha torto, sai, perchè sembra più vecchio di te!... Insomma sta tranquillo, gelosone, nemmeno un briciolino di corte; nemmeno un briciolino così!... — alzando il braccio nudo, fuori dal candido accappatoio, mentre coll’altro si teneva stretta al collo del marito, gli mostrava, stringendo il pollice contro l’indice, l’ultima estremità di un’unghietta brillantata. — I tuoi cari amici, invece, i tuoi colleghi (sinistra, destra, ed anche la montagna!) a sentirli loro, si fonderebbero tutti in un partito solo, contro di te! — E Lalla rideva col suo riso schietto, squillante, baciandogli la bocca, gli occhi, i capelli che ella si godeva ad arruffare colle manine nervose. Giorgio era felice, imbambolato dall’amore e dalla voluttà. Egli, del resto, aveva troppa fiducia in sua moglie per temere il Vharè come seduttore, ma gli spiaceva un’apparente intimità con uno scapestrato di quella specie. Che poi il Vharè non avesse in animo di fare la corte a Lalla, egli ne era sicuro! anche per quell’altra sospetto che covava dentro di sè da tanti anni e che per quanto fosse un sospetto assurdo, ridicolo, pure non aveva mai potuto scacciare dalla sua mente. Per tutto ciò, il Della Valle inquieto ed incerto sul da farsi, non giudicava nè prudente, nè conveniente, il mettere alla porta il Vharè, vedeva con molto piacere, come un grande sollievo, avvicinarsi il giorno della loro partenza da Roma: così, senza pettegolezzi, senza dover imporsi, senza far scene, riusciva a liberarsi definitivamente da quell’importuno. Ma invece... invece, la bimba cara, aveva già fissato in quelle ultime sere, trovandosi sola soletta col bel marchese di Vharè, il giorno e l’ora in cui questi, salvando le apparenze, l’avrebbe raggiunta a Borghignano. Tuttavia, per quanto Lalla fosse stata molto civettuola, non era andata più in là di un amoretto platonico, sentimentale; e le ragioni di questo fatto, assai importante, bisogna ricercarle in due farse ben diverse; una proveniente da Lalla, l’altra dal Vharè. Giacomo sentiva per la bella donnina una tenerezza soave, melanconica, che gli parlava al cuore, più che ai sensi, e di cui fin allora non aveva mai provata l’eguale; una timidità delicata e affettuosa. Se qualche volta si faceva troppo ardito, gli occhi di Lalla si facevano grandi grandi e lo fissavano timorosi ed egli allora, sorridendo, la chiamava — bambina — e rimaneva pago della simpatia idealmente affettuosa di quella creatura cara ed innocente. In quanto a Lalla, il suo — no — era affatto istintivo. La sua indole, il suo gusto delicato, la rendevano repugnante a tutto ciò che faceva perdere all’amore i poetici e interessanti colori della sentimentalità; tanto più, poi, che suo marito le voleva molto bene e glielo dimostrava molto, e perciò essa aveva il sangue calmo, e i nervi tranquilli. In quanto alla coscienza... Oh, era una coscienza che faceva sentir la sua voce sempre a proposito... per ammonire che il peccato cominciava appunto là, dove Lalla trovava per lo meno incomodo di dover arrivare. Perchè una donna, come la duchessina, giunga a pronunciare l’ultima parola dell’amore, l’amante solo, per quanto avveduto e audace, non basta quasi mai; fa d’uopo il concorso di molte circostanze di tempo, di luogo e... e anche di temperatura. Circostanze varie, impensate, indefinibili; che la sorprendano nel cuore, nei sensi, nel capriccio, quando meno lo sospetta ella medesima, e le tolgano volontà e lena di combattere. Tutto ciò può accadere in otto giorni, può farsi aspettare mesi e mesi e, alle volte, può anche non capitar mai. Dopo, finito l’incanto, o quel momento d’oblio appare come un punto nero, e allora resta isolato nella vita della donna che riesce con disinvolta facilità a dimenticarlo, oppure ebbe una scintilla, un lampo di elettricità luminosa, e allora essa ne popola il cielo del suo amore, colla profusione delle stelle che risplendono, nella cupezza serena di una notte bruna, dopo la tempesta. Lalla ci teneva molto che il Vharè le facesse la corte; ma era stata presa dalla vanità, non dal cuore. Egli, più che altro, aveva per la duchessina le capricciose attrattive del frutto proibito; e l’antipatia ombrosa e paurosa manifestata contro di lui dal marito, ne accresceva il fascino. Ma Lalla, in presenza di Giacomo, era sempre padrona di sè, quantunque egli esercitasse su di lei una certa influenza; quantunque fosse l’unico che, sovente, la facesse impallidire e arrossire, inspirandole una soggezione strana, un orgasmo, una titubanza indefinibile, quasi paurosa. Ma erano fenomeni di poco conto, che la storditaggine stessa di Lalla bastava a dissipare. La duchessina si sentiva contenta; le bastava di aver domato il suo Mefistofele. Più forte e più abile delle altre donne che col Vharè avevano tutto perduto, anche l’onore, per vederlo poi, stanco e disonorato, Lalla, con una sola parola, con una lusinga vaga, indeterminata, lontanissima, riusciva, conservando il proprio equilibrio, a tenerlo legato dietro al carro del suo trionfo. Lalla non amava, ma voleva essere amata; non sentiva il bisogno di libare al calice dell’amore; ma il bel calice si godeva a tenerlo in mostra, fra le artistiche minuterie del suo salottino. Accresceva per lei il piacere dei balli, dei teatri, delle riunioni il sapere che là, come le altre, aveva il suo moderno cavalier servente, che l’aspettava ansioso, geloso, inquieto, innamorato. Tutti i misteri, le ipocrisie eleganti, l’impreveduto, il romantico ed anche il drammatico dell’amore e degli amori, la divertivano assai. Ma fino ad un certo punto; soprattutto non voleva commettere un passo falso e voleva conservare la propria libertà: non voleva perdere la propria riputazione e non voleva darsi un padrone. Subito appena si furono spiegati, fu la prima Lalla a trattare Giacomo col tu, francamente senza esitare, giubilante di poter dire a sè stessa che quell’uomo, il quale faceva tanto discorrere di sè, quel babau della morale, era ai suoi piedi, era suo, era — il suo amante. Ma quando egli le domandò il primo bacio, — no, sai, non te lo dò, un bacio — gli rispose rannicchiandosi in modo, nel cantuccio del canapè, da sembrare ancor più piccina, e ancor più bambina; — no, perchè coi baci, si sa come si comincia... ma non si sa poi... come si finisce; — ed abbandonò invece la manina morbida, nella mano di Giacomo, che gliela stritolò convulsamente, pallido, imbronciato, meravigliando in cuor suo, che — la bambina — avesse tanta esperienza. Tuttavia l’esperienza non mancava nemmeno al Vharè: egli aspettava paziente e rispettoso, senza esser punto disperato. Uno solo, fra tutti i suoi adoratori timidi e sottomessi, ebbe la sfacciataggine di mancare a Lalla di rispetto; e fu il conte Pier Luigi. Sicuro; Lalla aveva voluto fare la civettina anche col vecchio zio: così... non per altro che per riderne colla Giulia!... Era un giochetto che le riusciva tanto bene!... Un giorno, sul tardi, nel salottino s’era fatto un po’ buio, le altre visite s’erano dileguate, e lo zio e la nipote aspettavano l’ora del pranzo. Lalla languida languida, colla testina chinata, tagliava lentamente con una stecca d’avorio, le pagine di un romanzo nuovo, mentre scherzava col suo piedino tra il falbalà della veste. Pier Luigi, colla faccia invasata, le era seduto accosto e le ripeteva che era una donnina irritante. Lalla si ostinava a volerne sapere il perchè, fingendo di non capire ciò che invece capiva benissimo. Pier Luigi allora le disse, con la voce grossa, che si era fatta bella, e lei, di rimando, a rispondergli che mentiva, che sapeva di essere brutta e che lui parlava così, perchè c’era buio! Pier Luigi minacciò di alzare la tendina, e lei ad opporsi amabilmente e a non volere che lo facesse... — Allora non gli sarebbe piaciuta più!... — Il vecchio non fiatò, non rispose, ma, d’improvviso, le stampò un bacio sul collo. Lalla si alzò di colpo, fremente d’ira e di ribrezzo; ma lo zio, che la teneva stretta con un braccio, le strisciò un altro bacio sulla bocca. Lalla pallida, senza un grido, si sciolse violentemente da quella stretta, spingendo il vecchio lungi da sè, e balbettando: — Vi trovo ributtante, sapete; ributtante, ributtante!... Lalla, prudente, per evitare dispiaceri, non riferì quella scenaccia al marito; ma Pier Luigi, punto sul vivo, non le perdonò mai più. ... E l’angelo custode, nel frattempo, che cosa faceva? Maria scriveva di continuo alla figliuola lettere lunghissime, colme d’affetto, di premurose sollecitudini, di consigli, e di ammaestramenti. Ma Lalla trovava quelle lettere noiosette e melanconiche, perciò le scorreva in fretta, saltando le mezze pagine e spesse volte guardando appena alle ultime righe, tanto per accertarsi che il babbo e la mamma stavano bene. Maria aveva fissato di recarsi a Roma col duca Prospero, e questi, infatti, vi raggiunse la figlia e il genero, verso la metà di maggio, tre giorni dopo che gli fu comunicata, ufficialmente, la sua nomina a senatore del Regno; ma alla duchessa d’Eleda, all’ultimo, era venuto meno il coraggio, ed era rimasta sola a Borghignano. a provvedersi di forze, per il momento, ormai prossimo, del ritorno di Giorgio e di Lalla. Già la poveretta aveva sperimentato a proprie spese come il volere e il coraggio abbiano un limite; e ciò nell’occasione che gli sposi fecero a Santo Fiore la loro gitarella, quasi all’improvviso. Per un giorno Maria potè reggere, mantenersi tranquilla, e mostrare una contentezza che non sentiva nel cuore, ma poi, malata, colla febbre, dovette rimanersene a letto. Da qualche tempo la salute della duchessa peggiorava a vista d’occhio; ma Prospero Anatolio non vi badava gran fatto. Egli si lamentava, invece, trovando che sua moglie era eccessivamente lunatica, piena di egoismo e vuota di cuore: lei non faceva nulla per alleviare al marito il doloroso distacco della figliuola. Ma l’infelicità di Prospero Anatolio non era altro che rettorica; egli aveva un solo dispiacere: quello di non possedere l’ubiquità di Sant’Antonio, e perciò di non poter, essere, nello stessa tempo, nel palazzo municipale di Borghignano, dove imperava autocrate assoluto, e nel Senato del Regno, in cui, alla prima seduta, domandò subito la parola. Peccato che il caldo cominciasse a liquefare gli onorevoli e fossero imminenti le vacanze delle Camere. In casa Della Valle si cominciava intanto a fare le valigie, e con gran consolazione della Nena, la quale, a Roma, forse perchè non era nè un deputato, nè un senatore, non ci si poteva vedere. Pativa di nostalgia, in mezzo a quell’andirivieni di facce nuove, e non capiva la maraviglia dei signori che si fermavano colla bocca aperta, ammirando certe case rovinate, certe statue senza naso, certi fusti di colonna col capitello rotto. La Nena non avrebbe dato il corso di Borghignano per tutta Roma. A Borghignano, almeno, le strade erano pulite e piane, mentre a Roma bisognava arrampicarsi su su, come in montagna, e si ritornava a casa colla testa intronata. E poi la Nena ci soffriva di amor proprio a non essere conosciuta da nessuno. A Borghignano sapevano tutti chi era; le facevano di cappello, e i merciai, i giovani di negozio, erano pieni di garbatezza e di premure; ma a Roma?... A Roma pareva che le facessero un piacere a venderle la roba, e la servivano in fretta e in furia, senza nemmeno lasciarle il tempo di barattare quattro parole. A consolarla un poco, le capitò, altrettanto caro quanto inaspettato, il Corriere d’Euterpe con una corrispondenza da Palazzolo sull’Oglio, segnata col lapis rosso. Il cuore le disse subito ch’era stato Sandro Frascolini a mandarle quel giornale; allora si chiuse sola nella sua camera e, compitando lesse la seguente corrispondenza: «Palazzolo (sull’Oglio). «Ieri sera, nella Favorita, melodramma del celebre maestro cav. Donizetti Gaetano, abbiamo assistito al debutto del giovane primo tenore assoluto, signor Alessandro Frascolini. Dire non lice, all’umile penna del vostro corrispondente, gli applausi ch’egli riscosse caldi e ben meritati, egregiamente assecondato eziandio dalla valente prima donna assoluta, signora Mochetti Giuseppina. Soddisfacendo le brame addimostrate dall’affollato uditorio, il sullodato debuttante bissò la sua bella romanza dell’ultimo atto «Spirto gentil» fra il generale e crescente entusiasmo. Il signor Alessandro Frascolini ha bella voce, nobile l’aspetto, è ben aitante della persona, ed affrontando con disinvolta spigliatezza le difficili tavole del palco-scenico, impronta, con vero slancio di provetto artista, il carattere del personaggio rappresentato. «Avanti, signor Frascolini! Avanti sempre! Gli applausi dell’intelligente pubblico di Palazzolo sull’Oglio vi devono essere di sprone a perseverare nelle parti di tenore assoluto, nelle quali Euterpe vi riserva splendido, per l’avvenire, l’aurato serto di Elicona. «Il Ficcanaso» La Nena, quella notte, dormì colla prosa di Ficcanaso sotto il capezzale: era incerta, titubante se dirne qualche cosa alla signora contessa: poi, si persuase, che ormai Frascolini non aveva mandato il giornale altro che per lei, la Nena, solamente per lei: si consolò tutta, allora, e pregò la Madonna perchè le facesse la grazia di potersi incontrare a Borghignano, almeno una volta con Sandrino, reduce dai trionfi di Palazzolo sull’Oglio. XXIII Lalla e il Vharè s’erano data l’intesa di ricongiungersi a Borghignano nella prima domenica di giugno. In quella sera, per solennizzare la festa solita dello Statuto era stato disposto un gran concerto di beneficenza al teatro dell’opera. Lalla vi sarebbe intervenuta, Giacomo pure, e così si sarebbero incontrati naturalmente, senza che Giacomo dovesse correre il rischio di aspettare due o tre giorni per non destar sospetti, con una visita troppo sollecita in casa Della Valle. Era la prima volta che accadeva al Vharè di fare un viaggio per celebrare la festa dello Statuto e per assistere ad un concerto di beneficenza. Egli, per altro, quantunque fosse il primo a riderne in cuor suo, godeva assai tutte quelle sensazioni intime e misteriose: gli pareva di ritornare giovine e di ricominciar allora la vita con una nuova provvista di poesia. La diva, infatti, che si era accorta del suo raffreddamento, aveva accettata una scrittura per l’estero, e Giacomo ne sentì più sollievo che dispiacere; le cose lunghe diventano serpi, e quell’amore filarmonico durava da tre anni, il che vuol dire nove stagioni d’opera all’incirca, e col repertorio limitato del contratto, egli ormai aveva fatto un’indigestione di Preziosille e di Azucene!... Poi la nuova passioncella di Giacomo era piena di tirannie gelose e prepotenti. L’amore schietto, sincero, che gli si donava con prodigalità spensierata, lo aveva sempre lasciato libero, padrone di sè; invece quella voluttà, avara, paurosa, piena di reticenze e di restrizioni, lo preoccupava e lo dominava continuamente. Giacomo di Vharè non aveva un’idea esatta dell’onore e nemmeno della virtù; perciò confondeva la civetteria degli atteggiamenti ingenui e fanciulleschi cogli scrupoli del dovere e della verecondia. In buona fede, egli pensava fra sè e sè che gli avveniva allora, per la prima volta, di amare una donna e di poterla stimare: e quell’uomo cinico, beffardo, corrotto, che al mondo aveva una sola religione sincera, un solo affetto che non fosse una colpa, la memoria di sua madre, per la prima volta, accanto a quella memoria santa e adorata, collocava un’altra immagine di donna: la figuretta gentile della cara bambina. La presenza del marchese di Vharè al gran concerto di Borghignano non fu l’avvenimento meno importante di quella memorabile serata. I commenti furono innumerevoli, variate e fantastiche le interpretazioni. Gli uni assicuravano che il marchese, rovinato completamente, era venuto a Borghignano per la liquidazione definitiva del suo patrimonio; gli altri giuravano invece ch’egli aveva vinto a Monte Carlo somme favolose, e che appunto tornava in patria, sempre amante delle novità, per pagare i propri debiti. Chi lo faceva ammogliato segretamente colla diva Soleil, e chi lo fidanzava ad un’americana arcimilionaria, la quale voleva metter su casa a Borghignano, per darvi grandi pranzi e grandi feste nel carnevale. Tutti, però, gli furono d’attorno, con dimostrazioni di simpatia e di rispetto; e fra le strette di mano e le larghe scappellate, i — buoni provinciali — lo squadravano da capo a piedi, con una maraviglia curiosa e pettegola. Il maggiore dei fratelli Tangoloni de Lastafarda, che ci teneva molto a darsi l’aria del viveur consumato nelle orgie e nelle bische, mentre, invece, tutta la sua dissipazione si riduceva nella perdita di qualche partita al bigliardo od al tresette, lo prese sotto il braccio e lo accompagnò nel palchetto dei nobili, affettando con lui una dimestichezza da compagnone, e l’erre aristocratica. Lì dentro, non gli lasciarono prender fiato, ma in due o tre, toltogli di mano il cappello, a viva forza lo trascinarono nel camerino, dove, tutti insieme, gli offrirono thè, vino, dolci e sigari. Fortunatamente, a sollevarlo da quello zelo soverchio, capitò in buon punto il presidente del teatro, un vecchietto lindo, lindo, tinto e profumato come una saponetta, che volle condurlo sul momento a visitare i ristauri del palcoscenico, e la nuova rampa del gaz, fatta costrurre apposta sul disegno di quella della Scala di Milano. Quel buon vecchietto vagheggiava un’idea ch’era ad un tempo il sogno della sua vita e l’orgoglio della sua carica: ottenere, per una stagione d’opera, la diva Soleil al teatro di Borghignano. Per questo motivo faceva la corte al Vharè, e sentiva per lui un misto di invidia e d’ammirazione. Quando ritornò nel camerino dei nobili, il Vharè cominciò a lodare le innovazioni del palcoscenico, la ricchezza dell’illuminazione, la bellezza e il buon gusto delle signore di Borghignano, e notò che i cori erano meno stonati dei cori dell’Apollo. — Insomma, voi altri qui a Borghignano — concluse — sapete far le cose per bene. Si direbbe di essere in una piccola capitale!... — Allora ricominciò l’assalto col vino, coi sigari e col thè. Giacomo ebbe anche l’amabilità di trovare il thè delicato e il vino squisito. Il direttore-economo del palchetto, sensibilissimo agli elogi, si fece avanti, per raccontargli che il vino lo aveva comperato all’ingrosso, tenendolo in serbo per le varie occasioni; che lo aveva pagata un franco e cinquanta al litro, mentre Tangoloni de Lastafarda, quando era economo lui, prendeva del Bordeaux nazionale, a due lire la bottiglia, che invece di cavare la sete, bruciava la gola. I giovani bontemponi a questa scappata sghignazzarono; il marchese (lo chiamavano tutti marchese, anche i più accaniti nel contrastare a Giacomo l’autenticità del titolo) sorrise appena, vedendo che lo scherzo non era stato bene accolto dal Tangoloni; poi, continuando a parlare colla sua verbosità facile ed elegante di teatri, di politica, di Monte Carlo, si avviò nel palchetto, seguito sempre dalla brigatella, e colla scusa di voler sentire l’Ave Maria di Gounod, che l’orchestra aveva appena incominciata, si mise a filare con Lalla. Il Tangoloni e gli altri, approfittarono del momento per esaminarlo di sottecchi, studiandone il taglio dell’abito e il nodo della cravatta. Il Vharè portava i capelli corti, all’inglese; e il giorno dopo il parrucchiere dei lions di Borghignano aveva da tagliare una decina di zazzere!... Giacomo si sentiva di buon umore, ed era contento di Borghignano ed anche di quei giovanotti. Pareva che la duchessina, dal suo palchetto, diffondesse una luce che gli tingeva tutto color di rosa. Egli l’aveva veduta subito, appena entrato in teatro; ma, per un senso quasi di timidità, in lui affatto nuovo, aspettò qualche momento prima di fissarla col cannocchiale. Lalla, seduta in faccia a Prospero Anatolio, voltava le spalle all’orchestra: tutta bianca, avvolta nei veli e nelle trine, spiccava dal palchetto, come sul fondo scuro d’un quadro. Senza adornamenti al collo e alle orecchie, senza un nastro, senza un fiore, senza neppure una gemma nel caratteristico disordine dei capelli biondi, volgeva attorno quei suoi occhi cangianti, come il colore del mare, con una tranquillità soave. Eppure quantunque il giro del suo sguardo avesse una meta prefissa, non si fermava punto al palchetto del Vharè, ma passava via lentamente, per ritornare un’altra volta, rifatto un altro giro, coll’orbita determinata di una stella. Quando vide Giacomo apparire nella barcaccia dei nobili, con quell’aria elegante che lo faceva somigliare ad un principe che viaggiava incognito, Lalla non arrossì, non si turbò affatto, non si lasciò sfuggire dagli occhi uno di quei lampi fugaci che tradiscono l’amore, ma adagio adagio, cominciò a giocherellare col ventaglio chiuso, segnale convenuto per avvertirlo di non andarla a salutare in palco quella sera: poi lo aprì e lo richiuse tre volte, indicandogli con quest’altro avviso che l’indomani lo aspettava a casa; tutto ciò, ella fece, senza mutare d’una linea il suo atteggiamento raccolto, composto, sempre colla testina bassa, con alcun che di verginale e d’immensamente dolce nell’aspetto. Ella sembrava un essere etereo, vaghissimo, che non respirasse dalla bocca socchiusa l’aria calda, pesante della sala, ma solo quella musica divina dell’Ave Maria che le alitava intorno mesta come un lamento, appassionata come una preghiera. Il Vharè, che dopo il primo cenno del ventaglio si era fatto un po’ pensieroso, al secondo si tranquillò di nuovo. Certo Lalla, potendolo ricevere in casa il giorno dopo, preferiva quella visita ai saluti diplomatici in teatro; e siccome egli capiva bene, che non avrebbe potuto visitarla la sera in palco e l’indomani subito in casa, senza commettere un’imprudenza, così l’approvò contento, col cuore in gioia. Vicino al palchetto della contessa Della Valle c’era quello della duchessa d’Eleda, La mamma, lo dicevano tutti, si conservava bene, ed era ancora bella, più bella della figliuola, la quale, in compenso, era generalmente più simpatica. Maria, pallidissima, era di un’eleganza severa, matronale: — se pure destava l’ammirazione, fermava, agghiacciandolo, qualunque desiderio. — La d’Eleda è sempre uno splendore! — esclamò ad un tratto il Vharè. — Sfido io, — rispose un socio della barcaccia, che ci teneva a fare il freddurista — si conserva nel ghiaccio! — Io però preferisco la Della Valle, — interruppe un terzo; — non è una bellezza come sua madre, ma è assai più piccante. — Voi, caro Vharè, dovete averla conosciuta a Roma? — Sì, andavo da lei, il sabato sera. — Aveva parecchi adoratori, dicono? — Abbastanza, perchè non si potesse sospettare di nessuno. — Guardate la duchessa, com’è pallida, — osservò il più giovane dei Lastafarda. — Ho paura che sia vero ciò che mi ha raccontato mio fratello. — E che cosa ti ha raccontato?... — Che ha un principio di mal sottile. — Se lo ha davvero, è tanto sottile che non si vede, — sghignazzò il freddurista dopo di averla fissata anche lui col cannocchiale. Il Vharè guardò nuovamente Maria; ma non era più tanto pallida: vicino a lei discorreva, seduto, il conte Giorgio Della Valle. Giacomo, vedendolo appena, non pensò ad altro, si alzò, e salutati e ringraziati gli amici della barcaccia, andò diffilato verso il palco della d’Eleda. Da uomo pratico, non voleva che gli scappasse l’occasione d’incontrarsi con Giorgio in un terreno neutro e così di rompere il ghiaccio, per il suo ritorno inaspettato. La duchessa accolse il Vharè colla cortesia un po’ fredda che le era abituale; Giorgio, invece, gli dimostrò una sostenutezza molto significante; ma, tuttavia, il Vharè non si perdette d’animo; cominciò a discorrere di Gounod, di Borghignano, della crisi ministeriale, rivolgendosi ora a Prospero Anatolio, ora alla duchessa, senza mai parlare direttamente con Giorgio, per non essere costretto a notare la sua freddezza. Solamente quando Giorgio si alzò per congedarsi, egli lo pregò di presentare i suoi omaggi alla contessa Della Valle. Giorgio gli rispose con un grazie, con un leggero inchino, e uscì. Intanto, Prospero Anatolio che alle prime parole del Vharè sulla crisi ministeriale si era sprofondato, sospirando, ne’ più gravi pensieri, non ebbe agio di notare il contegno di suo genero, e Maria... povera Maria!... era così commossa, da non capire quello che le dicevano gli altri, e quasi, da non sapere nemmeno ciò che agli altri rispondeva lei stessa. Il cuore le batteva forte, con violenza dolorosa; brividi ghiacciati le correvano per le ossa, mentre una fiamma calda le bruciava la faccia. La sala del teatro, che pareva un vasto selciato di teste, e la curva dei palchetti luccicanti come punti bianchi, gialli, verdi, le giravano d’attorno con vertigine affannosa. Il malumore del conte Della Valle, quantunque dagli altri due inavvertito, a Giacomo, in sulle prime, riempì l’animo di dubbi e d’inquietudini; ma poi pensò, che se fossero successe novità, Lalla non gli avrebbe certo fatto segno di andare da lei l’indomani, e per questo si acquetò interamente. Terminato lo spettacolo, senza aspettare l’uscita della duchessina dal teatro, si avviò verso casa: un quartierino mobiliato ch’egli teneva a pigione, e che durante le sue lunghe assenze affidava alla custodia d’un vecchio servitore di sua madre. L’indomani, alle due, il marchese di Vharè domandava al portiere dei Della Valle, se la contessa era in casa, e se poteva riceverlo. — È in casa di certo, ma non so se riceve. — Andate a vedere. Il portiere uscì nella corte e suonò un campanello, che fece spuntare la testa d’un servitore alla vetrata della galleria del primo piano. — La padrona riceve? — gli gridò il portiere. — Non so. Bisogna domandarlo ad Andrea. Il portiere andò in cerca di Andrea, il quale ne chiese alla cameriera e finalmente, dopo un quarto d’ora, il Vharè fu accompagnato e introdotto dalla contessa. — Se ogni volta che io vengo da lei — pensava Giacomo nel salire le scale — si mette sossopra tutta la casa, sarà più prudente che venga lei da me!... Passò per un lungo quartiere, dove le sale dai mobili e dagli arazzi antichi si succedevano le une alle altre, larghe, alte, silenziose. I vetri delle finestre e le gelosie ermeticamente chiuse, le tendine calate, impedivano all’occhio del visitatore di notare i capolavori d’arte colà dentro raccolti. A Giacomo pareva di attraversare un androne buio, interminabile, spirante un’auretta fresca e profumata. D’un tratto il servo si fermò, e sollevando con la mano la tenda di una portiera, inchinandosi fe’ cenno al Vharè di accomodarsi in un salottino dove c’era ancora più buio che nelle altre sale. Giacomo entrò, ma poi si fermò su due piedi, aspettando che gli occhi si abituassero nell’oscurità. Allora un’onda odorosa lo avvolse, e mentre udiva ancora il passo del servitore battere chiaro e secco, a mano a mano che si allontanava, sul pavimento intarsiato delle sale, sentì dappresso il fruscìo di una veste e proprio di contro a sè distinse la bianca personcina di Lalla che, allungate le braccia, gli allacciava il collo, fissandolo amorosamente, il capo arrovesciato, mentre i capelli le cadevano sul volto, sulle spalle, e coprivano le mani di Giacomo, che la tenevano sollevata. Così, avvinti l’uno all’altra, Lalla camminando all’indietro, Giacomo accompagnandola un po’ curvo, strascicando co’ piedi, per ischivare le vesti, si avvicinarono ad un piccolo canapè e vi caddero insieme, a sedere. — Finalmente sei qui!... — disse Lalla con un filo di voce insinuante, chinando, abbandonando il capo sul petto di Giacomo, che senza dir nulla, respirava appena, colla bocca immersa nei capelli biondi odorosi. Tacquero lungamente: lei tranquilla, felice, fremendo dal corpicciuolo esile, flessuoso, scosse di voluttà, compendiate in un lungo sospiro; Giacomo pallido, commosso, fatto timido e rispettoso da un abbandono così ingenuo e così sicuro. Fu Lalla a parlare per la prima: Giacomo le rispondeva soltanto con monosillabi, quasi inintelligibili. Quello della cara bambina era un discorrere sommesso e appassionato; era un’anima che traboccava tutta in un’altra anima. Intanto, la vista abituandosi là dentro a poco a poco, vi si diradavano le tenebre. Già si distinguevano benissimo alcune pianticelle di gardenie, poste sopra due sgabelli dorati, di fianco all’uscio, che lentamente chinavano la testina bianca, per udire che cosa mai si dicevano quei due, così a bassa voce. Si scorgevano i tulipani, di cui era fitto un panierino, collocato fra le tende nel vano della finestra, allungare il collo; i garofani sbocciare dalla curiosità; le azalèe, raccolte in una coppa di bronzo sopra una colonnetta, in uno degli angoli del salotto, aprire, per ascoltar meglio, i loro petali vermigli, mentre da una coppa intarsiata, che pendeva giù dal soffitto, una campanula indiscreta si abbassava allungandosi, più delle altre, per intendere quel linguaggio nuovissimo, che, nel silenzio profondo della stanzetta, mormorava misteriosamente come le note di un’armonia lontana. Ma tutti quei fiori freschi e fragranti, testimoni e complici ad un tempo di quelle ebrezze, non riuscivano a capir nulla. Soltanto un giglio il quale aveva perduto un simbolico candore dell’innocenza, per farsi rosso come il mantello del diavolo, pettegolo, sfacciato, ghignando e mostrando dalla bocca enorme spalancata la sua linguetta viperina, contava ad un mazzo di petunie che que’ due, seduti là, così vicini, facevano all’amore. — Come ti voglio bene, Nino mio! — diceva Lalla. — Ho pensato sempre a te, sai, continuamente, in tutti questi giorni. Quando ti allontani da me, mi sembra che tu ti porti via la mia anima, qui dentro, in questo taschino, sul cuore; — e Lalla scherzava colle dita in un taschino del gilet di Giacomo. — Allora me ne vado tutta sola nella mia camera, e sto per ore ed ore sdraiata in una poltrona, fingendo di dormire per non essere seccata. Ma non dormo affatto, sai, no; chiudo gli occhi per vederti. Se tu sapessi come ti vedo bene, col tuo bel viso serio e pallido; come ti vedo bene certe volte, col tuo sorriso cattivo, ma che a poco a poco diventa dolce, melanconico, diventa carino carino... così, come adesso!... Mi piaci tanto così, e mi sento tanto felice, perchè mi sembra di essere io quella che ti fa diventare più buono. — Che cosa sono io, per te?... Dimmelo. Giacomo la guardava sorridendo, e taceva sempre. — Ditelo subito, subito! — E Lalla aggrottava le ciglia in tono imperativo, con una grazietta incantevole. — Sei il mio angelo. — Non hai detto — angelo — alle altre?... mai?... mai, Nino mio? — No... ma... — Che cosa ma? — Volevo dire che... lo saresti un po’ più, se tu lo fossi un po’ meno. Mi spiego? — Sta zittino... subito!... non si dicono queste brutte cose! — Le pareti hanno le orecchie e gli occhi, qui dentro: badaci. — Ascolta, cara! l’appartamento è così lungo... mezz’ora prima si sentirebbe camminare sui parquets, se capitasse qualcuno. — Se capitassero visite!... Ma la Giulia? il papà, che è in casa nostra tutto il giorno? la mamma? (se lo sapesse, sai, colla sua severa morale, Dio Dio che spavento!...) e Giorgio?... Possono entrare improvvisamente da una porticina segreta, che ti farò vedere nella stanza qui appresso. E... ci sta bene, pare, quella porticina, se no, lei non avrebbe giudizio! — A proposito di... di tuo marito: ieri sera ci siamo incontrati, nel palco della duchessa, e l’ho trovato molto sostenuto con me. Che cos’ha? — Non gli sei simpatico, te l’ho detto, e, siamo giusti, non ha tutti i torti. Non gli sei simpatico, no, no, no! Ti tollera per un riguardo alla mamma, dice lui, ma, in fondo, credo che gli manchi il coraggio d’impormi di metterti alla porta. Oggi è andato in campagna, tornerà stasera e, spero, non saprà che sei venuto, così potrai ritornare più presto. Volevano che ci andassi anch’io in campagna; ma mi sentivo poco bene — per andare in campagna, s’intende! — Non ho detto bugie però, sai, la testa mi doleva davvero, — Quando iersera a teatro t’ho fatto segno col ventaglio di venir qui, sei stato contento?... Sì?... davvero davvero?... Fosti ben poco gentile, sai: dovevi almeno mandarmi un bacio, per ringraziarmi! Come sarebbero rimasti sorpresi, di’, se ti avessero veduto colla tua serietà diplomatica a mandarmi un bacio dal palchetto!... — E Lalla, a questa idea, che le pareva molto ridicola, rise di cuore, coll’allegria schietta di una bambina senza pensieri e senza rimorsi. — Ma se... se non... se quell’altro non c’è?... Allora?... — Giacomo, distratto, non ascoltava bene ciò che Lalla gli diceva. — C’è la Giulia, t’ho detto, e poi, da un momento all’altro, aspetto la mamma; anzi c’è da stupirsi che non sia ancora venuta. A proposito, dimmi la verità, ma la verità vera, non t’è mai saltato in mente di far la corte alla mamma? — No, mai. — Giura! — Giuro. — Che bel fiascone avresti fatto! — E Lalla, battendo il palmo della manina sulla bocca aperta si pose a dirgli la baia. — Lo credo; ma non ho mai pensato di tentare. — Perchè?... — Perchè... non so, è una bella donna, pure... — Oh! certo, più bella di me, non è vero? — Tu mi piaci molto di più! — Perchè ti piaccio di più? — Perchè mi fai sentire nel cuore, nel sangue, ciò che non provo affatto vicino ad una donna bellissima, anche più bella di te. — Che cosa ti faccio, sentire, Nino? — Sei terribile!... non credi, Lalla? — Cattivo!... — E la Giulia, dunque, anche qui come a Roma? Sempre fra i piedi. — Sempre. — Quando è arrivata? — L’altro giorno. — Che seccatura! Ci fosse almeno un cane che la sposasse! — Adesso si tenta esplorando la provincia; ed io devo godermela a tutto pasto. — Perchè ti accomoda! — Sei carino!... Sono io, vero, che comanda? Oh, se potessi fare a modo mio, almeno un giorno!... — E Lalla sospirò con la rassegnazione della vittima. — Tu, per altro, avresti potuto liberartene con qualche scusa. — Non sei contento di me? — Niente affatto. — Così dicendo, Giacomo si alzò imbronciato, lasciando Lalla sola sul canapè e andò a guardare alla finestra. — Vedi, come sei? — mormorò Lalla, con una vocina piena di lagrime. — Vedi come sei? Io mi ero fatta una festa pensando di stare un’ora con te — io e te, soli, finalmente! — dopo tanti giorni che non ci vedevamo; ho preparato quest’ora, tutta nostra, con mille noie, con mille artifizi, che tu bene sai quanto mi costino, col mio carattere... Ero così contenta, così allegra, e tu adesso... guasti tutto! Ma, per altro, mi vendicherò, non dubitare! Avevo una bella cosa da dirti, e invece, non te la dirò, ecco, perchè sei proprio cattivo, cattivo, cattivo! Giacomo non potè resistere, — con Lalla non sapeva lottare — e allora, pensando che per una volta nella vita si può essere anche ragazzi, a prezzo di tante e così nuove seduzioni, ritornò a sedersi vicino a lei. — Sentiamo. — No. — Che cos’ha da dirmi? — Nulla. — Adesso era Lalla che faceva il muso; un musino incantevole. — Parla, andiamo; sarò buono, sono buono; a costo di essere... un imbecille! — No... No!... Vada... Vada all’estero, raggiunga la diva; quella non ha scrupoli, e non lo rende ridicolo! — Perdonami!... Ti domando; perdono!... Che hai da dirmi?... — Lalla tenne ancora il musino, per un momento, ma poi fissò Giacomo, sorrise, gli si avvicinò di nuovo e passando un braccio sotto quello di lui, colla testina bassa, gli disse pianino pianino, giocando con una mano colla catenella dell’orologio del Vharè: — Mi confesso, non è vero?... — Sì... sì... — Ebbene... quando ti ho lasciato a Roma ho pensato fra me: adesso bisogna fare un esperimento... Sai bene?... il rimorso... — E che hai pensato? — Ho pensato: se in questi giorni sento di poter vivere sopportabilmente, senza di lui, se riesco qualche volta a dimenticarlo, a non averlo sempre così vivo dinanzi agli occhi, allora.... allora quando egli arriva a Borghignano, non mi lascio più vedere. — Brava; benissimo! — Mi confesso, dunque devo dire tutta la verità. — Allora pregherò Giorgio di condurmi via l’estate senza dir dove; Giacomo pure mi dimenticherà, ed io potrò ritornare buona, potrò ascoltare i consigli della mamma e potrò vivere senza rimorsi. Pur troppo invece... — Invece?... — Invece ho capito che... — Che cosa? — Ho capito di volerti più bene... di quanto credevo! Giacomo la serrò stretta sul cuore: Lalla si allungò, quasi strisciando, e gli baciò la bocca. Erano i primi baci ch’ella gli dava; ma adesso non aveva paura di lui, sapeva di dominarlo bene e ci si arrischiava. Di più, Lalla, sentiva ancora sulla propria bocca il contatto delle labbra viscide di Pier Luigi e le pareva, così, di cancellare quell’impressione disgustosa. In quei giorni si era anche facilmente persuasa che il bacio non era poi questo gran peccato, se uno zio non si peritava di darne alla moglie di suo nipote. Cominciarono gli addii: Giacomo sarebbe ritornato tre giorni dopo, se quell’altro non ne avesse saputo nulla: già lei, onde prevenire le domande, si era abituata a contargli sempre chi c’era stato a farle visita; e perciò, anche se ne dimenticava qualcuno, non era questo — un mentire! Prima che il Vharè se ne andasse, prima di mandarlo via ebbe un altro trasporto di tenerezza e di abbandono: — Vedi, Nino, — gli diceva, — se tu lascerai che io ti ami sempre così, senza voler urtare contro certe mie idee, allora ti vorrò ancora più bene, e te ne sarò riconoscente con tutta l’anima!... Di’, Nino, non siamo più tranquilli, più contenti, più felici?... Il poter pensare l’uno all’altro senza arrossire, è pure una gran consolazione, sai? E poi, per me, vedi, c’è un’altra cosa che mi consola, che è una grande parte del mio amore, quella di non essere costretta a rinnegarlo dinanzi a Dio! Se tu sapessi la gioia che io provo quando prego per te e se... se invece... capisci?... allora non potrei più pregare e certo qualche grande sventura ci colpirebbe, forse... sarebbe tutto scoperto... e non potrei vederti mai più!... E tu?... Tu non preghi, non è vero?... Giacomo sorrise, ma si sentiva un po’ commosso. — Tu non pregheresti nemmeno per me?... Tu non credi?... Cattivo! Come sarei beata, orgogliosa, se un giorno potessi riuscire a farti credere! Il marchese di Vharè uscì da quella casa ringiovanito. Gli pareva che gli fosse tornata la gioventù del cuore, e si sentiva la coscienza soddisfatta per aver risparmiata quella donna. — Aveva tanto candore e gli era tanto cara!... Certo che... un giorno o l’altro... non voleva essere ridicolo; ma perchè si sarebbe affrettato a distruggere tutto l’incanto di quell’abbandono lento del cuore e dei sensi che, a poco a poco, avrebbero vinta la ragione... e il timore?... Alla fine poi non poteva lamentarsi; progressi ne avevano fatti!... Era proprio vero che la duchessina a Borghignano amava molto di più, o amava meglio, il Vharè, di quanto non lo amasse a Roma. Ma se a Roma il marchese di Vharè non rappresentava che un episodio della vita elegante di Lalla, a Borghignano, invece, ne formava l’argomento principale. In quella sua vita quieta tranquilla, senza distrazioni, Lalla ricordava Giacomo più spesso, lo vedeva in quel mondo meschino, lillipuziano, apparire ancora più diverso e più attraente degli altri. Per tutto ciò, ella gli voleva anche più bene o, per lo meno, credeva di volergliene di più. E poi, a Borghignano, la duchessina si annoiava, e quando una donna sbadiglia, il diavolo, dice un proverbio spagnuolo, le entra per la bocca e le va diritto sino al cuore. Lalla era di gusto fine, delicato; aveva il temperamento e i nervi aristocratici; per ciò, la corruzione profonda, ma raffinata, del marchese di Vharè, si rivestiva agli occhi suoi di nuove attrattive al confronto delle marachelle democratiche e trivialucce dei giovani — provinciali — di Borghignano, le quali consistevano nell’andare a cena colle coriste e le ballerine sudice e sbilenche, nell’ubriacarsi rumorosamente col vino da fiasco o colla birra, nel rovinarsi, a poco a poco, ai tavolini delle trattorie e colle carte nostrane, senza il lusso e l’effetto drammatico di una bella catastrofe rumorosa. A Borghignano il fior fiore dell’aristocrazia mascolina era rappresentato dai fratelli Tangoloni de Lastafarda, che godevano molto credito ed erano molto invidiati perchè si vestivano a Milano, perchè avevano amici a Milano, perchè partivano per... o arrivavano da Milano, ogni altro giorno. Erano sempre insieme, questi due. vestivano collo stesso taglio e colle stesse stoffe dello stesso colore, all’inglese, ed erano cretini, tutti e due, alla Nazionale. Il più giovane certo, aspettando il suo turno, faceva intanto da moretto al maggiore. Il maggiore dei Tangoloni diceva una qualche spiritosaggine? Il minore correva a ripeterla nei salotti e nei palchetti. Il maggiore faceva la corte ad una signora?... Il minore, in segretezza, spifferava la gran notizia a tutta Borghignano, e spesse volte, per l’onore della famiglia, aggiungeva di suo. Tangoloni seniore parlava col prefetto? Allora Tangoloni iuniore andava raccontando al club e al caffè: — mio fratello discorrendo col prefetto lo ha consigliato a... — oppure: — il prefetto, trovandosi con mio fratello, gli ha confidato che... — e così via, di seguito. Del resto i Lastafarda erano ricchi, di buona nobiltà, e a Borghignano dittatoreggiavano senza accordare punto costituzioni; e il novellino, che stava lì lì, titubante e desioso per ispiccare il primo volo nel bel mondo, doveva sottostare al noviziato, entrare nel seguito dei Lastafarda ed aspettare che uno dei due fratelli lo prendesse a braccetto trattandolo() col — tu: — fatto, codesto, col quale a Borghignano, dalla mattina alla sera, si passava dalla plebe all’aristocrazia, dalla gente ordinaria alla compagnia dei nobili. Un altro astro di primo ordine era rappresentato dal marchese di Toscolano, nobile come Bajardo, spiantato come San Quintino; costui non aveva che una passione, ma sfrenata, quella dei cavalli. Passione divisa, del resto, da tutta l’aristocrazia genuina o assimilata di Borghignano, che sapeva a memoria la vita ed i miracoli di tutte le rozze sfiancate che passavano sotto i brum. Il marchese di Toscolano aveva un cavallo solo, in scuderia, e gli aveva messo nome Adamastor, mentre sarebbe stato meglio battezzarlo Bortolo o Pasquale, per la sua andatura lenta e monotona, che gli dava l’aria pacifica e rassegnata d’un vecchio impiegatuccio a milletrecento, che trotterella, curvo e striminzito, da casa all’ufficio. Il Toscolano non faceva nient’altro, in tutto il giorno, che visitare le varie scuderie degli amici, e così, qualche volta, dalla corte passava al piano nobile a salutare le signore, sempre con gli sproni agli stivali, i calzoni scamosciati, lo scudiscio in mano e, tutt’intorno, un puzzo da mozzare il fiato. Il marchese aveva poi un’abitudine, che ingenerava molta confusione: i cavalli, i cocchieri e le signore chiamava soltanto col nome di battesimo: Adamastor, Dirce, Vandalo, Fanny, Sandro, Cecco, Toni; l’Ippolita, la Jenny, la Norina. Un altro bell’originale era Gianni Rebaldi, un omaccione sulla cinquantina, con una gran zazzera bionda, ritinta, spaccone scempiato, e sussurrone fastidioso, coll’aggiunta di una velleità seccante, quella di ostinarsi, col mezzo secolo in groppa, a voler fare il ganimede e il giovinottino che cerca moglie. Gianni Rebaldi aveva trascorso a Bologna la prima e la seconda gioventù, divorandosi tutto il patrimonio fino alle ultime briciole e, adesso, a Borghignano, coll’aiuto delle signore, ripristinava, per suo proprio conto una specie di diritto d’asilo. Egli sfuggiva dalle persecuzioni dei creditori insediandosi, per mezze giornate, in un salotto o in un altro, discorrendo delle avventure di Bologna, delle feste di Bologna, delle signore di Bologna, tutto di Bologna, accapigliandosi sovente coi due Lastafarda, i quali pretendevano, invece, che a Milano, soltanto a Milano, vi fosse tutto il bello e tutto il buono del mondo. Attorno a costoro, qualche avvocatino sentimentale e senza clienti, qualche piccolo vice-segretario di prefettura, qualche ufficialetto dilettante di musica, e i gran lions di Borghignano c’erano tutti. Si può immaginare dal quadro il bel divertimento di Lalla!... Essa sentiva come un sollievo, come un’eco della vita elegante di Pegli e di Roma, abbandonandosi alla passioncella pel Vharè; e mentre aspettava ansiosamente il suo arrivo, aveva intanto scritto lei alla Giulia, quantunque al Vharè avesse lasciato credere il contrario, perchè venisse subito a tenerle compagnia a Borghignano. Lalla capiva già che il marchese Giacomo sarebbe stato molto più forte a Borghignano di quanto non lo fosse stato a Roma, e perciò aveva chiesto il ritorno della Giulia, nella quale ella avrebbe avuto un pretesto sempre pronto da adoperare all’occorrenza, una salvaguardia, una inconscia e potente alleata. Poi, anche in casa, la vita di Lalla sarebbe stata troppo monotona senza il soccorso del brio e delle effervescenze della Giulia. L’amore profondo di Giorgio, tenero, rispettoso, era sempre uguale, senza burrasche, senza le seduzioni dell’ignoto e dell’impreveduto. Prospero Anatolio, che colla Giulia faceva l’amabile e l’accompagnava in carrozza al passeggio, con Lalla diventava serio, tanto per far credere che, in politica, lui aveva più peso di suo marito, e le riferiva, parola per parola, le interminabili discussioni del Consiglio Comunale, e i discorsoni ch’egli preparava e teneva in serbo per l’apertura del Senato. Maria, malaticcia, melanconica, aveva sempre pronto qualche buon consiglio od una qualche opportuna rimostranza. Discorreva a lungo colla figlia de’ suoi affetti, de’ suoi doveri e del suo avvenire; ma quanto era spontanea l’effusione di Maria, altrettanto Lalla l’ascoltava sommessa in apparenza, con un raccoglimento forzato che, il più delle volte, nascondeva a stento uno sbadiglio: uno sbadiglio leggero, che poteva anche passare per un sorriso. Così per tutto questo, il Vharè tornava carissimo a Lalla che otteneva da quell’idillio coll’avvenente marchese distrazioni nuove e piacevoli, che alleggerivano la noia delle lunghe giornate. In un modo o nell’altro, riuscivano a vedersi ed a parlarsi frequentemente. Giacomo in casa non le poteva fare più di due visite alla settimana, e soltanto, ma ben di rado, quando il conte Della Valle andava in campagna, oppure era in seduta al Consiglio Provinciale, ne arrischiava una terza. Adesso era Giorgio che domandava alla moglie se aveva avuta la visita del Vharè, e quando gli aveva detto di sì, egli s’imbronciava, ma senza fiatare, ciò che faceva sorridere e divertiva Lalla moltissimo. Invece il marchese Giacomo si faceva assiduo in casa d’Eleda, dove incontrava Lalla senza destar sospetti e dove, accattivatosi Prospero, lusingandolo nella sua vanità d’uomo di Stato, vi era ricevuto benissimo. Poi, Lalla e Giacomo combinavano d’accordo visite e ritrovi presso qualche comune conoscente, e non si peritavano nemmeno di commettere l’imprudenza, che più tardi dovettero pagare ben cara, di fissar convegni per istrada, e di fare insieme un breve tratto di via. Una volta Giacomo si arrischiò di proporre all’amica una rapida volata nel suo piccolo quartierino — sicuro per ogni verso; — ma Lalla rispose subito che — quella cosa lì, non l’avrebbe mai fatta. Oltre agli incontri, ai ritrovi, agli appuntamenti, c’era anche l’aiuto del teatro, quand’era aperto, del caffè nelle sere di musica, delle riunioni private, dei concerti; e tutto questo complicatissimo orario veniva combinato, diretto ed anche modificato all’occorrenza, da uno scambio, da un andirivieni continuo di libri che servivano pel solito sistema di corrispondenza che Lalla aveva già usato, la prima volta, col Frascolini, e che adesso aveva insegnato lei, l’innocentina, a quel suo don Giovanni, tanto vecchio del mestiere. Di mandar lettere non si fidava, e diceva al Vharè, sovente, tanto per scusarsi: — quando mi metto allo scrittoio e comincio a scriverti, mi sento presa da una soggezione strana che mi turba, mi confonde, mi fa perdere le idee e le parole. Tu hai tanto ingegno! Tu sai tante cose, ed io, invece, non sono altro che una povera... ignorantina! Certi rispetti al passato, il — pudore delle memorie — essa non lo sentiva affatto. Un giorno, rovistando a caso in uno scrignotto, le era corso fra le mani l’anellino di Sandro, e Lalla, anche un po’ per liberarsene lo affidò in deposito al Vharè, facendogli credere che lo aveva ricevuto in dono, per la sua prima comunione, dalla zia di Genova; la famosa marchesa vecchia e sorda. L’ascetismo poetico, non solo durava vivo in quell’idillio sentimentale, ma cresceva sempre d’intensità. Adesso il Vharè era costretto a tenersi chiusa nel portafoglio una piccola medaglina benedetta; e tutte le volte che erano soli nel salotto, Lalla gli toglieva con una carezza il portafoglio di tasca, lo apriva, ne frugava i segreti, levava la medaglina, la baciava, e voleva, colle sue moine, che la baciasse anche lui, cosa che il Vharè non rifiutava di fare, dopo però di avere imposto a Lalla, ed ottenuto, qualche dolce compenso. Quindi, finite le divozioni, essa gli riponeva il portafoglio nella tasca dell’abito, e si fermava qualche momento colla mano sul petto di Giacomo, per sentirne i battiti del cuore. Un giorno ch’ella lesse in un libro di preghiere, tradotto dallo spagnuolo, un’Ave Maria in versi, inspirata e gentile, volle, ad ogni costo, che il Vharè l’imparasse a memoria: se lo fece inginocchiare dinanzi, sorridendo voluttuosa, le mani nei capelli di lui, che la teneva abbracciata per la vita e baciandogli la bocca, gli occhi, la fronte, gliela fece ripetere tante volte, finchè Giacomo la potè dire da solo. Lalla s’era messa in mente d’essere come una specie di piccolo missionario, che sperava, riconducendo la pecorella smarrita al buon pastore, di scusare, e quasi di rendere meritorie le sue scappate. Si sa bene, se alle volte doveva pur sottomettersi e doveva cedere, concedendo qualche piccolo premio a quel peccatore così difficile da convertire, anche Domeneddio avrebbe dovuto chiudere un occhio e forse tutt’e due... per il trionfo della fede. Il fine giustifica i mezzi; tuttavia la duchessina non avrebbe sempre potuto cantar vittoria se anche la Provvidenza non l’avesse aiutata. Erano diversi giorni che il Vharè si faceva vedere imbronciato. — Così non la può durare — borbottò con l’amica. — Sento, capisco, non mi volete bene. — Lalla protestava; si stringeva nelle spalle sospirando, gemendo, spremendo qualche lacrimetta dagli occhi bellissimi e... non si andava più in là. Che fare?... Il Vharè cominciava ad essere seccato, arrabbiato, nervoso: — Era tempo di concludere, ormai, o di finirla. Ma faceva i conti senza l’astuzia finissima di Lalla, ed insensibilmente le si era troppo legato per poterla lasciare. Stavano così le cose, quando la Prefettessa di Borghignano, nell’occasione del proprio onomastico, offrì alle varie notabilità del Comune e della Provincia, una serata di gala. A Borghignano, l’aristocrazia affettava di non intervenire ai ricevimenti pubblici del Prefetto, prima di tutto perchè il Prefetto rappresentava un Governo di sinistra, e i Lastafarda avevano riferito che anche a Milano la nobiltà, quella pura, non si lasciava vedere in simili riunioni, e poi perchè, naturalmente, vi era ammesso un po’ di tutto. L’aristocrazia di Borghignano era un’aristocrazia spiantata, che teneva molto al sangue e ai titoli, anche per il resto che se n’era ito, e con una invidia assaettata, odiava i nuovi ricchi, i quali, se avevano lasciati i blasoni al loro posto, s’erano impadroniti delle ville più grasse e dei palazzi più splendidi. Così . . . . la rancida Muffa Patricia credeva di vendicarsi contro le sopraffazioni del denaro, sfoggiando un’alterigia altrettanto impertinente quanto ridicola. Dal Prefetto dunque i corpi santi, come si chiamavano le matrone meglio inquartate, non comparivano affatto; soltanto i loro mariti, per convenienza e per curiosità, vi facevano una fugace apparizione, tenendosi appartati e cuciti sempre insieme, alle falde, gli uni cogli altri, temendo quasi di perdersi in quel bailamme, silenziosi, duri, impettiti, come i congiurati nel Ballo in maschera. Lalla, figlia del senatore e moglie del deputato di Borghignano, non poteva rifiutare l’invito, e poi aveva troppo ingegno e troppo spirito per patire simili bizze; tuttavia non volendo correre il rischio di restar sola, condusse la Giulia con sè. Questa paura era esagerata: per amore o per forza sarebbe intervenuta alla festa anche la moglie del generale Calandrà, una baronessa polacca, papista sfegatata e arciduchina in fondo all’anima; secca di corpo grulla di spirito e attempatuccia; rigonfia, a chiacchiere, di principî e di morale; in pratica, spavento e arpia dei giovani ufficiali d’ordinanza di suo marito, che li voleva scegliere sempre lei, che li voleva sempre scapoli, assoggettandoli a servizi straordinari, non contemplati dai regolamenti. Poi non avrebbe nemmeno potuto mancare ad una festa data dal Prefetto la moglie del Presidente del Tribunale, una piemontesona coll’erre, che nasceva dai Bertù di Saint-Florin de la Baltea, sciocca, linfatica, schifiltosa e pettegola, che girava attorno con un’aria balorda, che parea dire a quel volgo in guanti bianchi: — tireve-’n là, i veui pa spörcheme. — Maria no: Maria non si lasciò vedere nonostante le sollecitazioni di Prospero, il quale voleva diventar popolare per le solite elezioni del quinto dei consiglieri comunali. La duchessa d’Eleda non aveva lena di muoversi, di affaticarsi. Tutte le sere le veniva la febbre, e perciò era sempre più debole e più sofferente. — Sarò stasera al ballo del Prefetto, — diceva Le journal d’une femme, del Feuillet, mandato da Lalla a Giacomo. — Non so se vi potrò venire, — rispose la Conquête de Plassans, rimandata dal marchese alla duchessina. Il Vharè, certo, non voleva mancare alla festa, ma rispose così per mostrarsi in collera. L’appartamento del Prefetto, illuminato a spese della Provincia, lasciava molto a desiderare in fatto di buon gusto: le sale parevano quelle di un albergo, riempite, per l’occasione, col mobilio di tutta la casa. Le stoffe dei canapè e delle seggiole erano differenti di tessuto e di colore, forse in omaggio ai vari partiti politici che vi erano ospitati. Povero l’apparecchio, i servitori portavano i baffi e si vedevano rinfagottati nelle livree stinte coi bottoni lustri. Anche le signore, meno poche eccezioni, erano di una bellezza e di una eleganza da far innamorare un pittore di pappagalli. Alcune, fra le altre, mogli rispettabili di qualche consigliere comunale o provinciale, o di qualche regio impiegato, s’erano messe intorno, per fare del lusso, tutto il guardaroba, e il tesoro di famiglia, dalle buccole di corallo al bel medaglione di lava del Vesuvio. Andavano guernite con nastri a mille colori, che sulle tuniche chiare, di seta greggia, o di grenadine celeste, stonavano maledettamente, come il pianoforte della sala da ballo, anche quello di proprietà della Provincia. Di tanto in tanto si vedevano dondolare braccia nude, secche e nere, che ricordavano le lingue affumicate; ma la maggioranza era rappresentata dalle donne grasse, rigonfie, colle spalle nude picchiettate da rosse bollicine che la cipria non riusciva a nascondere, e con quel tutt’insieme di poco pulito, esalante un odore di sudaticcio, che si potrebbe dire il profumo della fedeltà coniugale, perchè, si sa, la donna, in generale, non si trascura... se ha degli amanti. Lalla, la Giulia, la Bertù e la generalessa, corteggiate da Gianni Rebaldi, da qualche ufficiale di cavalleria e da due o tre piccoli segretari di Prefettura, formavano un circolo a parte. Lalla, nascondendo le risatine, dietro il ventaglio, si divertiva a mettere la gente in caricatura, e la Bertù arricciava all’aria il naso aquilino, sempre malcontenta di tutto e di tutti e toglieva addirittura il respiro colle sue interrogazioni inconcludenti e scipite. Parlava senza mai una battuta di pausa, come il tè-tè-tè-tè monotono e stonato di una trombetta di legno. E voleva sapere se quella signora vestita di verde era ricca, se quell’altra coll’abito giallo aveva figliuoli, se questa in lilla andava d’accordo con suo marito; domandava il nome e l’indirizzo e i prezzi delle sarte, delle modiste, e discuteva sulle vesti, sulle acconciature e sui buoni costumi, con un calore, che avrebbe fatto ridere, se però avesse seccato meno. La sua vittima principale era la Giulia, che le rispondeva distratta, essendo occupatissima nel tener vive, ad un tempo, le speranze di quattro innamorati. Il conte Della Valle discorreva di politica col Prefetto e d’amministrazione col Presidente dei Luoghi Pii, mentre Prospero Anatolio dava il braccio, accompagnandola in giro per le sale, alla moglie di un celebre avvocato ultra democratico ch’era il leader dell’opposizione municipale. E quando il duca passava con quel carico vicino a Lalla e alla Giulia, evitava di guardarle. Oh! parlava spedito, quella sera, Prospero Anatolio: l’avvocatessa non poteva esercitare su di lui i fascini occulti che gli legavano la lingua! Era un donnone colossale, colle spalle e colle braccia rosse e rigonfie. In capo aveva un’acconciatura di penne bianche e di fiori finti, con le fogliuzze d’oro; vestiva un abito di seta chiara, a strie verdognole, guernito con bottoni d’acciaio brillantato. Al collo portava una collana di perle false, nelle orecchie smeraldi di Murano, in mezzo al petto, enorme e sformato, uno spillone di filagrana, con una miniatura rappresentante la Piazzetta di S. Marco e la laguna. Aveva la bocca grande, il labbro superiore ornato da due baffetti da matricolino, i denti guasti e il naso a ballotta. Per farsi bionda, essendo rossa di capelli, s’era coperta di cipria e ne aveva sul collo, nelle orecchie, sulle braccia, tanto da infarinare la giubba di Prospero Anatolio, che non poteva a meno di sentire una certa ripugnanza scorgendo un cordoncino annerito dal sudore e dall’uso, il cordoncino del corsè, che usciva fuori, di dietro, sulle spalle, fra il candido fisciù dell’ampia scollatura, rivelatore indiscreto di certi misteri che non destavano curiosità. Portava i guanti bianchi, ad un bottone solo; le braccia erano coperte da braccialetti d’oro, di tartaruga, di corallo e di venturina. Camminando, la fiera avvocatessa, faceva il passo dell’angelo, sventolandosi con un ventaglio di struzzo, che perdeva le piume, appeso ad una catenella di nickel legata attorno alla vita, e dimenandosi tronfia, per essere al fianco del duca d’Eleda, pur non ascoltando altro che distrattamente tutto ciò che Prospero Anatolio le diceva d’amabile, occupatissima com’era ad osservare se quelle altre la vedevano così accoppiata, e se la vedevano tutte, e se, finalmente, crepavano di rabbia!... Tuttavia, la signora aveva una punta di amarezza, in mezzo alla sua piena felicità: sapeva di non dover quel trionfo ai propri meriti personali, ma invece... a suo marito!... Era costui un omiciattolo scarno, gobbo e irrequieto, insaccato nella giubba logora e con un dito sempre nel naso, forse per impedire alle idee di scappar fuori da quella parte. Permaloso e aggressivo nella vita pubblica, era docile assai con la moglie, la quale, per vanità, volendo sfoggiare in pubblico il suo predominio su quel piccolo Robespierrino, si godeva a mortificarlo con spostature e rispostacce che impacciavano abbastanza il duca d’Eleda, non abituato a quelle beghe, ma che poi anche lo vendicavano di quello sgorbio addottrinato, del quale aveva dovuto inghiottire più di una volta, nelle sedute del Consiglio Comunale, le demagogiche requisitorie. Il marchese di Vharè entrò l’ultimo: la festa era già cominciata da un pezzo. Con un’aria di noia e di sonnolenza altrettanto di buon genere, quanto era poco lusinghiera per la riunione, egli si guardò attorno stringendo le palpebre in cerca della padrona di casa, e quando l’ebbe veduta in un angolo, in fondo della sala, si avviò diritto verso di lei e le strinse la mano con dimestichezza, sorridendo appena, a fior di labbra, in un modo che voleva dire: — Capisco che vi dovete seccare assai e vi compiango sinceramente. — Poi passò vicino al Prefetto e gli fece un saluto distratto, con un cenno del capo, come se già lo avesse veduto poco prima; quindi si fermò un momento, cercando intorno cogli occhi e, alla fine, quando ebbe scoperto le quattro signore appartate, mosse adagio verso il gruppo, stringendosi coi gomiti per non urtare la folla e strisciando leggero co’ piedi, per evitare gli strascichi. Giunto dinanzi all’eletto circolo s’inchinò tre volte, in tre tempi e, sempre senza dire una parola, senza curarsi particolarmente di Lalla, si adagiò, stirandosi, sopra uno sgabello vicino alla Giulia, le tolse il ventaglio e cominciò a farsi vento, scompigliando l’esercito timido dei piccoli adoratori e facendo subito allontanare Gianni Rebaldi, che passò vicino alla Bertù. La Saint-Florin de la Baltea si scagliò su Rebaldi. té-té-té-té, per conoscere gli anni, le rendite e il casato del marchese Giacomo. Gianni Rebaldi che lo odiava per invidia, quantunque ci mettesse molta buona volontà, non riuscì a calunniarlo altro che a proposito degli anni; ma il naso della Bertù ch’era rimasto indifferente all’enumerazione dei debiti del Vharè fatta con l’accanimento di chi non paga i propri, si arricciò quando sentì dire che quel marchesato non era autentico e si contorse scandalizzata al racconto delle audacie galanti del marchese, perchè la signora Bertù di Saint-Florin de la Baltea era assai schifiltosa in fatto di morale. La contessina Giulia era bellissima quella sera, e il Vharè si godeva a farla ridere, per vedere i dentini bianchi apparire fra le labbra umide e rosse. Lalla, un po’ mortificata, osava appena di rivolgere, colla sua voce più morbida, qualche paroletta a Giacomo, che le rispondeva distratto, mostrandosi solo occupato della sua bella vicina. Intanto colla Prefettessa, che passava e ripassava strizzando l’occhio, facendo frequenti e rapide corse in quella piccola riunione, prendendo viva parte ad ogni discorso che vi si faceva, mostrando chiaro come col cuore fosse tutta lì in mezzo, quantunque i pesi della rappresentanza la obbligassero altrove, si stava combinando un carrè, per i primi lancieri; un carrè a parte, fra loro sole, composto dalla Bertù, dalla Calandrà, dalla Giulia e da Lalla. A poco a poco anche il Prefetto, il Generale, il conte Della Valle e Prospero Anatolio, che con bella maniera aveva deposto il carico avariato, si accostarono al circolo, e allora, trovandosi tutt’insieme, come in famiglia, respirarono più liberamente, cominciarono a ridere ed a scherzare. Giulia si alzò la prima, perchè si sentiva sete; il Vharè le offrì il braccio e la condusse al buffet. Là s’intrattennero più del necessario, discorrendo fra di loro soli, pianino; Giulia, coll’intenzione di far risolvere, mediante lo stimolo della gelosia, l’uno o l’altro dei suoi timidi pretendenti; Giacomo, recitando apposta quella commediola perchè la Della Valle ne dovesse soffrire, e siccome egli sapeva bene la sua parte, il gioco gli riusciva pienamente. Infatti furono presto raggiunti dalla duchessina e da Prospero Anatolio che, anche lui senza parere, non perdeva mai di vista la Giulia, come fa un vecchio avaro col suo tesoro. Lalla era nervosa e non si sentiva più tanto sicura, tanto padrona di sè. L’ultima volta che s’era trovata col Vharè c’era stato un po’ di burrasca: Giorgio, proprio all’indomani della festa del Prefetto, doveva andare in campagna, e il Vharè, avendolo saputo, voleva un appuntamento; ma Lalla era stata risoluta a non volerlo concedere, e da ciò la collera e i dispetti... Dall’altra sala, frattanto, giungeva allegra la musica del valzer e il frastuono vivace, animato delle varie voci confuse col fruscìo delle vesti. Giacomo fece un cenno alla contessina Giulia, inchinandosi sorridendo: la fanciulla rispose accettando l’invito, gli si appoggiò mollemente con una mano sulla spalla, e tutti e due, stretti insieme, sparirono, travolti come da un’onda, in quel turbine di colori e di luce, per ritornare poco dopo, Giulia al braccio del Vharè, col volto acceso, il seno palpitante, spirando dal languido atteggiamento di tutta la persona l’ebbrezza goduta in quella volata rapida e voluttuosa. Il duca Prospero non volle più saperne di simili corteggiamenti: appena la vide, le mosse incontro, la prese lui con bel garbo sotto il braccio e la ricondusse a sedere accanto alla Bertù. Lalla e il Vharè rimasero così faccia a faccia, e come fossero soli, perchè in mezzo a gente che non conoscevano e che non dava loro nessuna noia: tuttavia un po’ impacciati, per trovarsi giunti al momento desiderato e aspettato con tanta ansietà. — Cattivo!... — balbettò Lalla con un filo di voce. Giacomo la guardò fissamente, senza parlare. La musica del valzer era finita, e adesso l’instancabile maestro cominciava sul pianoforte i primi accordi che preludiano i lancieri, mentre le coppie si univano, si avviavano chiacchierando al loro posto. — Li ha già impegnati questi lanciers, signora contessa? — domandò Giacomo finalmente, con un leggero tremito nella voce. Lalla alzò i grandi occhi sopra di lui con due lacrimone belle che li rendevano ancor più dolci e insinuanti. — Sì... con te! Giacomo le offrì il braccio, e lei, nel passar di sotto colla mano, trovò il destro di pungerlo forte, fin nelle carni, colle sue unghiette di madreperla, così bene affilate. Il Vharè impallidì, poi sorrise, premendo col suo braccio il braccio nudo della duchessina. La pace era fatta. Le coppie della Calandrà, della Bertù, della Giulia si erano già messe di fronte: Lalla col suo bel cavaliere venne a compire il carrè, ma quel carrè non fu certo un modello di ordine, nè di compostezza: Gianni Rebaldi, che non ballava, si divertiva a fare lo spiritoso, a cacciarsi in mezzo alle coppie, così grosso e bracalone, durante i traversez e i retraversez, a imbrogliare un demi-ronde o un tour de mains, a dare indicazioni sbagliate colla voce fessa e uggiosa, ridendo sgangheratamente quando riusciva a confondere tutta la figura. Le signore, tranne la Bertù che girava attorno severa, composta, colla maestà ch’era fusa nel sangue dei Saint-Florin, secondavano il chiasso animatamente, dando la beffa a Gianni Rebaldi e percuotendolo leggermente coi ventagli e chiamando la Prefettessa perchè gli comandasse di smettere, di stare zitto, di andar via; e tutto ciò accresceva il disordine, la confusione, il brio schietto e disinvolto che tutti gli altri carrés, i quali compivano il dos-à-dos, la visite, la promenade e la reverence, taciti, composti, senza mai confondersi nelle figure, osservavano, invidiavano e disapprovavano scandalizzati. Lalla aveva perduta ogni prudenza: parlava troppo, e sempre a bassa voce, col Vharè. Negli intervalli gli si appoggiava al braccio con languido abbandono e, quasi sempre, distratti tutti e due, erano chiamati all’ordine dalle altre coppie. Quando, per le combinazioni delle varie figure, Lalla doveva dare il braccio ad un altro cavaliere, continuava a fare segni e a rivolgere a Giacomo occhiatine e parolette che sottintendevano discorsi interi, mentre Giorgio, che non la perdeva di vista, si faceva, a mano a mano, più serio e imbronciato. Il frastuono, la vivacità, il calore crescevano sempre: Gianni Rebaldi era riuscito nel più bello d’un chassez croisez ad allontanare dalla sua dama un ballerino poco esperto e a mettersi lui al suo posto. Lalla, che di solito nel tour de mains e nella chaîne offriva due dita sole al cavalieri, adesso invece, quando incontrava la mano del Vharè la stringeva fortemente, segandola colle unghiette che si sentivano bene anche sotto i guanti. La confusione raggiunse il colmo alla chaîne finale. Chi passava da una parte e chi dall’altra, incrociandosi rapidamente, vorticosamente, ridendo e vociando, sfogandosi in un’allegria obliosa, espansiva, correndo e saltellando, fermandosi ad ogni tratto per salutarsi, per inchinarsi e poi per ritornare a correre e a girare attorno, storditi e anelanti. Era una vertigine di colori, di spalle nude, di capelli biondi e neri, di faccie pallide, di occhi scintillanti; un disordine ed un eccitamento nuovo dei sensi istigati e irritati dal continuo stringersi delle mani, dal premere delle braccia, dallo strisciar dei fianchi e delle vesti, mentre le orecchie rimanevano intronate da quella musica del cembalo chiara, pettegola, che ripeteva insistente il monotono ritornello dei lancieri, affrettandolo nelle ultime battute con una vibrazione più calda e più animata. La Bertù era già uscita dal carrè prima che il ballo finisse; Gianni Rebaldi, rosso invasato, il colletto della camicia molle di sudore, dondolante, sventolandosi col fazzoletto, facendosi becero per la smania di sembrar disinvolto, finì collo sdraiarsi, sghignazzando, sopra una lunga poltrona vicino al buffet, dove ingoiò mezzo pasticcio con una bottiglia di Marsala. Lalla, accesa in volto, il respiro ansante e gli occhi che le sfavillavano, come se quei tepidi lancieri avessero sollevate per lei le complici ebbrezze del valzer, si appoggiava colla piccola personcina, tutta rorida e fremente, al braccio di Giacomo, che doveva ricondurla nel solito cantuccio dell’altra sala, fra la contessina Giulia, la Generalessa e la Bertù. — Dunque?... Domani?... le chiese il Vharè, sottovoce. Lalla lo guardò appena, timida, amorosa, poi palpitando più forte e premendogli il braccio con le dita della mano, ch’ella vi aveva appoggiata, chinò il capo senza rispondere. — Alle due? — insistè l’altro. La duchessina non lo guardò, ma rispose un sì lento, quasi inintelligibile, che corse con un brivido per le vene di Giacomo. Quando il Vharè l’ebbe accompagnata al suo posto, s’inchinò salutandola; girellò qua e là per la sala, discorrendo coll’uno o coll’altro del più e del meno, ma presto sparì dalla festa. Il suo scopo, ormai, era stato raggiunto. — Avevi da parlare di cose molto importanti, col signor Vharè? — domandò Giorgio alla moglie, mentre si spogliavano per andare a letto. — M’è venuta una buona idea; voglio persuaderlo a sposare Giulia. — È un’idea pazza!... Uno spiantato pieno di debiti e di vizi!... Non incaricartene affatto, e ricordati: meno colui ti verrà fra i piedi, più ne sarò contento. Quel tono aspro e freddo, quella severità del marito, mentre Lalla era così piena di dolci ricordi della serata, la irritò, le sembrò cosa cattiva, ingiusta, e Giacomo le diventò, per il contrasto, ancor più piacente e più caro. Essa rispose a Giorgio con altrettanta durezza ed ironia: — Senti, caro: io non posso, nè voglio fare degli sgarbi a chi è sempre stato amico della mia famiglia, a chi è sempre stato molto gentile con me, senza mai mancarmi nè di riguardo nè di rispetto. Se tu vuoi metterlo alla porta, buon padrone; ma tocca a te: sei tu... l’uomo forte. Non era il primo caso, codesto, nel quale Lalla si mostrasse adirata; ma le altre volte Giorgio smetteva subito la bizza e le domandava perdono, accarezzandola. Invece, quella notte, tacque imbronciato; e mentre Lalla, svestita e inginocchiata dall’altra parte del letto, diceva le sue orazioni, Giorgio, coricato, cominciò a leggere il Diritto. Lalla fini di pregare, si segnò, baciò l’amuleto che teneva appeso sul capezzale, e leggiera, svelta si tuffò sotto le lenzuola. Giorgio continuò imperturbabile a leggere il Diritto. Quella resistenza era affatto nuova e Lalla ne rimase un pochino impressionata. Ma Giorgio non leggeva: meditava, assorto col pensiero nel Vharè e nelle parole di sua moglie. Certo, da molti anni colui era l’amico della famiglia d’Eleda... l’amico di Maria. Il dubbio, persino, gli ripugnava, ma... Ma pure, vedeva ancora Maria e Giacomo come in quella triste mattina, così per tempo, a cavallo, soli soli, sul Poggio dei Platani... Giorgio continuò per un pezzo a fantasticare, ma poi finì, secondo il solito, persuadendosi di essere un pazzo... — Sì, sì; un pazzo!... Dubitare di Maria? — Se non era altro che una statua di ghiaccio!... Se non aveva cuore per nessuno!... Che!... avrebbe giocata la vita, sull’onestà, classica, di quella donna! Poi, dopo un momento, tornava a pensare: — Discorrevano della Giulia. Certo, certo; se il Vharè avesse intenzione di fare la corte a Lalla, Lalla stessa, che mi conta tutto, me lo avrebbe già detto. Metterlo alla porta?... Si fa presto a dirlo, ma... come si fa? E le chiacchiere? I commenti? E poi, comprometterei il mio onore e l’onore di mia moglie, senza una ragione! Del resto ho un bel mostrarmi freddo, inurbano con quello sfacciato: o non capisce, o non vuol capire!... Eh, se ci fosse qualche cosa!... per Dio!... lo ammazzerei!... Povera Lalla; tanto buona... ed io tanto sospettoso!... Ma non è di te che dubito, no, angelo mio, è della perfidia, della cattiveria altrui!... Se potessi portarmela via, lontana da tutti, sola... con me... — Così pensando, si voltò verso la moglie, per vederla dormire; Lalla riposava tranquilla, come una bimba, i bei capelli disciolti, le braccia incrociate sul petto, la bocca socchiusa e ridente. Egli la guardò a lungo, con una tenerezza profonda, appassionata, e allora tutti i suoi cattivi pensieri svanirono come per incanto. Non volle destarla, ma lievemente, trattenendo il respiro, depose un bacio su quella bocca fragrante come un fiore... ritornò a guardarla... a guardarla... poi, sospirò, spense il lume e si rannicchiò per dormire. Ma appena il lume fu spento, Lalla aprì lei gli occhi e senza muoversi, senza farsi sentire, sorrise con una contentezza birichina: suo marito era sempre lo stesso innamorato! XXIV Chi dormì meno di tutti, quella notte, o, per dir meglio, chi non dormì affatto, fu il marchese Giacomo di Vharè. Il sì di Lalla, che sentiva sempre vivo nel sangue, lo teneva desto agitato. Egli era ritornato ai turbamenti e alle commozioni dei primi amori. Lalla aveva saputo incatenarlo assai strettamente; ma l’indole sua non poteva resistere a lungo a quella ginnastica platonica, e la sensualità vi si faceva sentire ancora più prepotente per quel tanto ch’era stata trattenuta e domata. Non potè dormire in tutta la notte; soltanto verso l’alba riposò un poco. Si alzò tardi, con gli occhi pesti, col capo intronato, con un gran desiderio addosso e con un grande sgomento. Gli era pur cara quella donnina così amorosa, così intelligente e sagace e nello stesso tempo così ingenua! Era l’ultima volta ch’egli amava o, per lo meno, era adesso alla sua ultima passione. Riflettendoci bene, ebbe paura di poter compromettere per imprudenza tutta quella sua grande felicità; poi pensò ai propri guai finanziari... al giorno, non lontano, nel quale non potendo più tirarla innanzi coi ripieghi sarebbe stato costretto a saldare i creditori con un colpo di rivoltella. Morire? E Lalla?... Lalla avrebbe trovato un nuovo amante!... Allora, proprio come un collegiale, gli si affacciò l’idea di morire tutti e due, ma finì presto col ridere di questa sua pensata alla Werther. Lalla era tanto giovane. Ben presto ella stessa lo avrebbe piantato per un altro. Si guardò nello specchio e si consolò; il pericolo non pareva imminente!... Il Vharè era una di quelle fortunate eccezioni, che non invecchiano mai, oppure che, anche invecchiando, colla loro testa grigia, ardita, espressiva, fanno fantasticare le testine romantiche delle fanciulle. Allora poi egli poteva dirsi ancora nel fiore dell’età. Più che essere un bell’uomo, cosa stupida alle volte, quanto, alle volte, lo è anche una bella donna, egli era un bel tipo. Che cosa importa la sostanza, quando al di fuori egli appariva simpatico, attraente, con un tutt’insieme dove c’era del poeta e del gran signore, del diplomatico e del rompicollo?... Appena vestito se ne andò subito al caffè a far colazione; dopo, accese un sigaro, e girellando a caso, coll’immagine di Lalla che gli vezzeggiava dinanzi agli occhi, fece, come Dio volle, venir le due. Quando passò la soglia del palazzo Della Valle, aveva la faccia ancora più pallida del solito e gli batteva il cuore precipitosamente. — La contessa è in casa?... — Sissignore. — Erano già stati dati ordini in proposito; il portiere tirò la corda del campanello senza nemmeno passare nell’atrio a domandare ai servitori se la contessa volesse ricevere. Giacomo, per tali indizi, fu preso da una gioia espansiva, quasi fanciullesca; ma ahimè! — la gioia dei mortali... è un fumo passeggero! — Nella corte c’era il marchese di Toscolano, — stivali alla scudiera, giacca di velluto e il solito scudiscio fra le mani; — col cavallerizzo del conte Della Valle egli stava provando un puledro storno, che uno scozzone faceva passeggiare dinanzi alla scuderia. Il Vharè sperava di passar via senz’esser veduto, ma la scampanellata aveva messo il Toscolano sull’avviso. — Oh! caro, carissimo il nostro bel marchese! — Grazie, altrettanto! — e il Vharè sperava di poter tirar dritto. — Vai su, da Lalla? — Appunto, salgo un momento dalla contessa. — Aspetta; vengo anch’io. Giacomo, in cuor suo, mandò quell’altro in tanta malora, pure dovette contenersi, ed aspettare l’amico, ammirando insieme il bel puledro. Il Toscolano disse qualche parola, in aria di mistero, al cavallerizzo, poi, dopo di aver regalato allo scozzone, mettendoglielo in bocca, il sigaro di virginia ch’egli stesso fumava, prese Giacomo a braccetto, sbattendo e strisciando i piedi per nettare le suole dalla ghiaia. — Ma tu, scusa, — gli domandò il Vharè infastidito, — ti presenti alle signore... in questa toilette?... — Sicuro!... O bene che mi prendano così o che non mi prendano! — Bella bestia, non è vero? Se non accade qualche disgrazia, quello si farà un cavallo famoso, e bisognerà che tu corra il ben di Dio, cane d’un marchese, prima di trovarne un altro eguale!... Sai chi mi ricorda quel puledro? Un morello che aveva tuo padre: lo comperò, ci sono entrato anch’io nell’affare, lo comperò da un aiutante di Radetzky, e lo ha poi venduto, con cinquecento svanziche di regalo sul prezzo di costo, allo zio dei Lastafarda, il signor Nicola, — sai! — quello che stava a Sant’Antonio e che mangiava i gatti in salsa, per far economia. Discorrendo, avevano fatto la scalone. L’anticamera era deserta; altro indizio, codesto, che fece rimaledire a Giacomo l’incontro di Toscolano. Attraversarono l’appartamento e furono incontrati da Lalla che usciva dal salottino. Essa si mostrò meravigliata che non ci fosse nessuno in anticamera, e intanto, non poteva a meno di sorridere; indovinava, dalla faccia stralunata del Vharè, com’egli dovesse trovarsi male per quell’incontro così inopportuno. Lalla rientrò nel salottino; i due la seguirono. Si parlò del più e del meno, di Giorgio ch’era andato in campagna, del puledro storno e della festa del Prefetto. Il Toscolano si vantava di non averci messo piede, quantunque avesse ricevuto l’invito. — Questo signore aveva ballato da tutti i governatori austriaci succedutisi a Borghignano, ma di Prefetti di sinistra non ne voleva sapere, perchè tutti i sinistri, diceva lui, erano nemici mascherati dell’Italia e della Monarchia. — Giacomo, su le prime, se la cavava con bastante disinvoltura, tanto per mostrare a Lalla che aveva spirito e che sapeva far buon viso alla disdetta, ma poi, rodendosi dentro perchè quell’altro non dava segno di voler andar via, a poco a poco diventò taciturno e imbronciato. — Vieni o rimani? — gli domandò alla fine il Toscolano, dopo un momento di silenzio. — Rimarrei, se la contessa lo permette. — Io... bisogna che me ne vada! — e così dicendo il Toscolano cacciò le mani in tasca e si sdraiò ancora più comodamente nella poltrona. Lalla si godeva assai vedendo quell’altro che pareva sulle spine, in fondo al cuor suo, provava una certa inquietudine, un timore vago, indefinibile... insomma, aveva un gran piacere... a non restar sola col Vharè. Il Toscolano domandò delle signore meglio vestite della festa, e Lalla, con molto brio descrisse l’abbigliamento dell’avvocatessa, mentre l’altro sobbalzava e lacrimava a forza di ridere. Poi il Toscolano tornò a guardare l’oriuolo, e accavallando una gamba sull’altra, e battendo il tempo col tacco, si pose a cantarellare sull’aria dei cospiratori nella Madama Angot: — Bisogna che me ne vada! Bisogna che me ne vada! — ... E non si moveva. Giacomo, tuttavia, non aveva perduta ogni speranza: da un momento all’altro quell’importuno se ne sarebbe andato, ed ogni ritornello del Toscolano lo confortava... Ma, sul più bello, si sentì un rumore di passi, un fruscio di vesti, e questa volta, annunziata dal servitore, si fece avanti la Calandrà. Allora sì che il Toscolano battè subito in ritirata; ma rimaneva quell’altra, a guardare la piazza!... La generalessa domandò conto della Giulia: Lalla rispose che sua cugina aveva detto, ed era vero, di voler dormire fino all’ora del pranzo, perchè si sentiva stanca; allora si tornò da capo a discorrere della festa del Prefetto. Giacomo non ne poteva più, ma le sue pene erano ben lungi dalla fine. Poco dopo la generalessa, capitarono i due Lastafarda, che in quei giorni si affaccendavano in visite, perchè tutti e due avevano da sfoggiare un soprabito ultima novità; poi, andata via la generalessa, venne Gianni Rebaldi, colla zazzera impomatata, non più bionda, ma d’un rosso cupo, avvenimento che a Borghignano si spiegava raccontando d’una certa operazione di credito ch’egli aveva conchiusa di fresco e sulla quale, in conto di altrettanta valuta, avea dovuto accettare i fondi di bottega di un profumiere fallito. Qualche cosa di vero in queste chiacchiere ci doveva essere, perchè il Rebaldi, infatti, sentiva di muschio, di verbena e di violetta lontano un miglio, e i suoi capelli cambiavano ogni giorno di colore. I Lastafarda se ne andarono presto: a Milano si usa di far visite corte; ma il Rebaldi rimase duro, fermo, al suo posto. Egli, dopo aver ripetute le spiritosaggini dette la sera innanzi, voleva che Lalla gli trovasse moglie e per un bel pezzo continuò a cantare e a descrivere la verginità del suo cuore, tanto che Giacomo, stizzito, gli buttò in faccia, un po’ sgarbatamente, che a cinquant’anni, sonati, non si poteva più sposare che la propria governante. Il Rebaldi rimase imbronciato, ma non andò via, tanto più che, ad aumentare il ghiaccio fattosi d’intorno, capitò la Bertù, colla sua aria da ficcanaso, la quale si mostrò molto sostenuta col Vharè, affettando di chiamarlo sempre il signor Vharè, e niente marchese. Giacomo era arrivato al colmo dell’impazienza!... Aveva la testa intronata da tutti quei discorsi così vuoti, inconcludenti, interminabili; si dondolava sulla seggiola, strappava convulsamente la fodera del cappello e, cogli occhi levati, numerava ad uno ad uno i putti del soffitto, Lalla, invece, gaia e ridente, si godeva a lanciare sul Vharè certe occhiate maliziose, significantissime, che la rendevano ancora più attraente. Ad ogni costo egli avrebbe aspettato di restar solo! Almeno un bacio, ma glielo voleva dare! La Bertù e Gianni Rebaldi stavano finalmente combinando d’andar via insieme, in carrozza. Lui sarebbe disceso al club; lei ci doveva passar sui piedi, tornando a casa. Si alzarono, cominciarono i saluti, il Vharè era lì lì per spuntarla, quando, — chi è? chi non è? — si affaccia sull’uscio Pier Luigi da Castiglione, che arrivava in quel punto da Viareggio, senza avere scritto prima, perchè voleva fare un’improvvisata. L’arrivo di Pier Luigi non fu molto gradito alla duchessina: essa ebbe il presentimento che quell’uomo capitava apposta per farle del male. Tuttavia si mostrò lieta, e sonò, perchè avvertissero subito la Giulia. Il Vharè era proprio spacciato. — Sicuro; vengo da Viareggio... vengo. Ho per te — e si rivolse a Lalla — i saluti della Raimondi, della Rescalvi e della Vigofanti; sicuro. Sì sperava che saresti venuta a Viareggio, ma... Tò, tò, tò, guarda chi vedo! Il nostro caro marchese!... A Borghignano, voi?!... Ma, come mai?... Eh! Eh! Eh! cherchez la femme, cherchez!... Cercate la donna, cercate! Si strinsero la mano e si guardarono in viso, tutti e due. Il Vharè se ne andò presto con la Bertù e col Rebaldi. Egli sperava di sfuggire all’occhio maligno di Pier Luigi, ma aveva cominciato troppo tardi ad essere prudente; quella sua visita a Lalla, così prolungata, determinò e precipitò la catastrofe. Appena la Calandrà e la Bertù si trovarono insieme nella serata, quella domandò a questa chi ci aveva veduto dalla duchessina: — Gianni Rebaldi e il signor Vharè — rispose l’anemica discendente dei Saint-Florin. — Come?... il Vharè era ancora da Lalla quando ci sei stata tu? Se ce l’ho trovato io pure! — Mah! — Questo mah della Bertù esprimeva un sospetto e un lamento insieme. — Allora le fa la corte? — Pare... — Lalla, ci casca per inesperienza. Bisogna impedire che la cosa si faccia seria. — Certo, bisogna salvarla. — Bisogna salvarla! La stessa osservazione, la stessa maraviglia, i medesimi commenti, si erano fatti al club fra il Toscolano e il Rebaldi. A poco a poco, la notizia importante fu divulgata, smentita, confermata, e tutta Borghignano fu messa sossopra. Alcuni assicuravano che ormai al conte Della Valle non rimaneva più altro che reprimere, altri sostenevano, con pari calore, che c’era tutto il tempo per poter prevenire. Al club si notava la faccia del Vharè quando entrava, l’ora e la strada che prendeva quando ne usciva. In una farmacia, vicina al palazzo Della Valle, nascosti dietro le tendine verdi dei cristalli, c’erano sempre parecchi curiosi che spiavano il Vharè mentre si recava a far visita alla contessa Della Valle. Nel caffè di Borghignano, la mattina all’ora di colazione e la sera dopo il teatro si sospese, per il momento, di salvare la patria, volendo salvare invece il conte Della Valle, dal serio pericolo che correva. Pochi accusavano Lalla; i più la difendevano; tutti esaltavano i meriti di Giorgio, e condannavano, senza pietà, il marchese Vharè: quelle brave persone erano diventate, ad un tratto, altrettanti Catoni, altrettanti Collatini insieme e in solido! E non indietreggiavano neppure dinanzi a qualche grave incomodo. — Lalla e il Vharè non poteva mai uscir di casa senza avere, l’uno o l’altra, un bracco dilettante alle calcagna, il quale poi, secondo la direzione della pesta, correva a mettere la quiete o l’allarme in città. Il Lastafarda, numero due, girava attorno in cerca di notizie e di aneddoti che riferiva poi al Lastafarda numero uno, il quale, in tal modo, era riuscito a diventare piacevole alle signore. Gianni Rebaldi assicurava che a Bologna uno spiantato, roso dai debiti, non sarebbe stato ricevuto nella buona società, e il marchese di Toscolano, ora scommetteva la testa e ora la coda di Adamastor, sostenendo che il Vharè aveva fatto un buco nell’acqua. La Prefettessa difendeva Lalla a spada tratta; la Calandrà elogiava con molto calore il conte Della Valle, la Bertù faceva da pubblico ministero con requisitorie draconiane che condannavano tutti quanti!... Pier Luigi era il solo della famiglia che gli amici mettessero a parte di quello scandalo; uno scandalo che, a sentire lo stesso Pier Luigi, pareva scandalizzare anche lui!... Tutti lo consigliavano circa il da farsi: gli uni, trovavano necessario di aprire gli occhi al marito, altri, invece, di aprirli alla moglie. La Bertù voleva che Pier Luigi ne parlasse subito al duca Prospero, la Calandrà alla duchessa Maria, ma la Prefettessa suggeriva di star a vedere come si mettevano le cose. — Mio fratello, — esclamava smaniando il giovane Lastafarda, — ha detto stamattina che s’egli fosse nel conte Pier Luigi, se la prenderebbe col Vharè, soltanto col Vharè, tagliando i nodi alla militare, con una buona sciabolata! Ben presto anche la contessa Della Valle e l’amico suo si accorsero del nuovo ambiente che si andava loro formando intorno. Nel palchetto, in teatro, erano lasciati soli, quasi sempre: in casa, appena arrivava Giacomo, le altre visite si dileguavano subito. Poi, le allusioni degli amici e delle amiche, le mezze parole, i sorrisi a freddo, i musi lunghi della Bertù, l’aria diplomatica della Prefettessa, e le effusioni della Calandrà, la quale, se dietro le spalle non risparmiava la Della Valle, a tu per tu con lei, faceva l’impossibile per entrarle in amicizia, per ottenere le sue confidenze. Inoltre l’austerità, gli scrupoli, l’onore della famiglia, roba nuova di zecca, colla quale Pier Luigi rimpinzava ogni sua cicalata, e finalmente qualche parolina, qualche scherzo della Giulia, tutto ciò non lasciava dubbio: il loro segreto incominciava ad essere il segreto di Pulcinella! Il Vharè ne fu seccato; Lalla spaventata, e si consolava pensando che era ancora — a tempo — di ritirarsi, che, ancora, non aveva fatto — niente di male. La prima, che parlò a Lalla del Vharè, fu sua madre. A Maria nessuno avea osato dire una sola parola, ma lei stessa, per suo conto, aveva finito col notare la grande assiduità del marchese. Allora mostrò con lui un contegno così freddo ch’egli, per forza, dovette accorgersene. Due o tre volte di seguito, gli fece dire, senza una parola di scusa, che non lo poteva ricevere. — Giacomo cessò dal presentarsi in casa d’Eleda; ma, naturalmente, Maria si avvide presto, che allontanandolo da sè, non era riuscita ad allontanarlo anche da sua figlia. Lalla, dapprima, ascoltò le rimostranze della mamma un po’ inquieta e cogli occhi bassi: temeva avesse capito, scoperto qualcosa. Ma poi, quando fu ben sicura che la mamma era lontana da qualunque sospetto, allora si ribellò contro una morale troppo rigida, troppo austera. Quella sorveglianza la inquietava e la infastidiva: — alla fine era donna, e delle sue azioni non doveva render conto a nessun altro che a suo marito!... — So bene, cara mamma; non ricevendo alcuno, chiudendosi in casa, come fai tu, è certo: non si corre nemmeno il rischio di prendersi un raffreddore; ma, a me pare, scusa, sai, a me pare sia anche lecito... si possa anche tenersi qualche amica, qualche amico d’intorno. Dovrei offendermi perchè il marchese preferisce la mia compagnia, alla compagnia della Bertù, che non sa parlar d’altro che di abbigliamenti e d’araldica? o a quella della Calandrà, che discorre soltanto di affari di servizio?... In quanto a me poi, lo confesso, fra il puzzo di scuderia del Toscolano e le spiritosaggini del Rebaldi, preferisco il Vharè, che ha spirito e che è molto per bene! — Lalla si era fatta un po’ ardita, perchè punta sul vivo, e perchè sentiva, in fondo, che la mamma aveva ragione. — Il Toscolano e il Rebaldi sono persone... indifferenti e senza conseguenze! — E tu, mamma, credi il Vharè... pericoloso? — Non gode certo una buona opinione — rispose ingenuamente la duchessa, che non aveva notata l’ironia birichina della figliuola. — Oh, sai!... Ci vorrebbe altro!... Preoccuparsi di tutte le chiacchiere! — Una donna deve preoccuparsi moltissimo di tutto ciò che può dire la gente quando le sta veramente a cuore non soltanto il proprio onore, ma anche l’onore di suo marito. Lalla non sapeva più che rispondere, e tormentava nervosamente le stecche del suo ventaglio; Maria, temendo di essere stata un po’ dura, si avvicinò a Lalla e, dopo averla abbracciata, mentre con una mano le accarezzava i bei capelli, le domandò con un’espressione piena di dolcezza: — Senti, carina mia, tu non ci tieni molto alle visite del Vharè?... — No. — Ebbene, in tal caso, puoi fare un piccolo sacrificio alla tua mamma: quel Vharè, mandalo a spasso! Sarà un capriccio, ma che vuoi!... si può accontentare la mamma anche in un suo capriccio. Quando eri bimba io ne ho appagati tanti de’ tuoi! — e Maria le sorrise teneramente. — Ma... Come si può fare?... Metterlo alla porta? Egli non me ne ha dato nessun motivo. — Lalla capiva che non doveva ostinarsi, che doveva cedere, o almeno fingere di cedere, per non compromettersi. — Fa, come ho fatto io. Veniva da me con troppa frequenza e la cosa non mi accomodava perchè veniva sempre quando c’eri anche tu; ebbene, ho dato ordine che gli dicessero alla porta, per due o tre volte, che non ero in casa... e non è più venuto. Se così ti par troppo, gli puoi far dire che hai fissato di non ricever più fino al tuo ritorno dalla campagna. Tanto, tra un mese, andiamo via tutti. — Buona ragione... per anticipare la noia d’un mese! — Ma santo Dio!... Si direbbe, a sentirti parlare, che non sei innamorata di tuo marito! — Innamoratissima, mamma cara, ma non l’ho sposato per morir d’amore! — Come rispondi a sproposito, certe volte!... Dovresti sentirti orgogliosa di tuo marito... — Lo sono tanto, ma... — Dovresti essere felice solamente per lui e con lui, non dovresti domandare, non cercar più nulla, non pensare più ad altro, dovresti sentirti gelosa contro tutto ciò che potesse togliertelo per un’ora soltanto, che... — Oh! oh! quale entusiasmo, mammina cara! Maria tacque d’improvviso, arrossendo. — Eppure — continuò Lalla, — che vuoi?... Non mi pare tu abbia sempre riscontrato in Giorgio le virtù più sublimi. — Non capisco!... — Volevo dire che... non sono senza memoria. Mi ricordo quando eravamo fidanzati. Tu non eri, certo, la più contenta, di noi tre. Mi ricordo che ti mostravi pochissimo espansiva; e una volta, che io ho desiderato ch’egli ti abbracciasse, tu, quasi, volevi buttarti giù dalla carrozza. Maria senti stringersi il cuore e non potè trattenere le lacrime, e allora fu Lalla, che l’abbracciò, che cercò di consolarla, che le promise di fare sempre e in tutto ciò che la mamma le avrebbe consigliato. Non le conveniva disgustarla() e temeva, persuasa com’era della poca simpatia di sua madre pel conte Della Valle, di aver fatto male mostrando di averci badato. Lalla e il Vharè si trovarono insieme poco dopo e fu convenuto, fra di loro, ch’egli diraderebbe le visite; anche Giacomo capiva bene che, per il momento, bisognava usare molta prudenza. Si sarebbero incontrati qualche volta, si sarebbero veduti la sera al teatro, o al caffè... Ma fra un paio di mesi, si troverebbero liberamente a Roma... A Roma dove Lalla doveva ritornare con suo marito, per la riapertura della Camera. Quanta felicità allora!... Sì; bisognava essere prudenti per non arrischiare di perderla. Giacomo, intanto, voleva almeno approfittare dell’occasione; voleva indurla a scrivergli direttamente; ma non ci fu verso. Lalla aveva paura; era troppo tenuta d’occhio; potevano sorprenderla da un momento all’altro. No, no, non avrebbe mai avuto il coraggio di mettere lei, colle sue proprie mani, una lettera in buca!... Da che aveva imparato a scrivere, consegnava le lettere al servitore, il quale le rimetteva, colle altre della casa, al maggiordomo, e il maggiordomo, due volte al giorno, le portava alla posta. Pensandoci solamente di doversi fermare vicino alla cassetta per gettarvi dentro una lettera, si sentiva diventar rossa dalla vergogna. Le pareva che tutti dovessero guardarla e ghignare, dicendo fra di loro: — quella lì, manda una lettera all’amante! — Insomma, la ripugnanza era più forte di lei; no, no; era impossibile!... — Questo... come il resto... tutto prova che non mi vuoi bene; — rispondeva il Vharè secco secco. Lalla cercava di persuaderlo del contrario, ed egli a lungo andare non aveva più il coraggio d’insistere, sebbene sentisse che quella donnina non era ancor sua, che non la teneva ancora ben stretta fra le sue mani e che, anzi, da un momento all’altro gli poteva sfuggire. Si combinò uno scambio di libri per l’indomani, e fissarono d’incontrarsi il venerdì prossimo, mentre lei sarebbe andata a piedi dalla Prefettessa. — Venerdì?... Brutto giorno! — pensava Lalla che era superstiziosa; ma poi dovette cedere, perchè sabato era troppo tardi per Giacomo, e giovedì troppo presto per lei. Ma intanto il temporale si addensava sul loro capo. Pier Luigi ne sapeva già abbastanza e gli premeva di vendicarsi in qualche modo di Lalla, e di mettere il bastone fra le ruote a quel marchese conquistatore. Certo, egli, adesso, aveva il diavolo dalla sua, e se l’intenzione era cattiva, gli effetti erano quelli di un’opera santa. Pier Luigi, faceva il bene per disperazione, per non aver potuto fare il male; ma, ad ogni modo, egli restava sempre dalla parte della morale e delle... istituzioni. Dopo averci riflettuto lungamente, trovò che il meglio da farsi era di tenerne parola, come già gli aveva consigliato la Bertù, a Prospero Anatolio, e gliene parlò in fatti, avendo cura di protestare che riteneva la duchessina pienamente innocente e che soltanto agli occhi del mondo avrebbe potuto correre un serio pericolo. — E bisognava soffocare le chiacchiere subito subito, ipso facto, perchè, se la virtù della donna — diceva il conte da Castiglione — può parer di cristallo ed essere invece di diamante; l’onore dell’uomo, è sempre di vetro, è sempre, anche quando lo si crederebbe d’acciaio; il che vuol dire che è fragilissimo; vuol dire. Il duca Prospero lo ringraziò colle lacrime agli occhi, premendosi, sul cuore, le due mani di Pier Luigi. — Grazie, grazie; non dico altro. È un tratto... d’amico vero, di parente affezionato! — E il duca, volle abbracciarlo, spinto da uno slancio di tenerezza e di riconoscenza. — Ma, in questo caso, più dell’autorità del padre deve agire, deve imporsi la prudente oculatezza del marito. Sapete, caro Pier Luigi?... Io non potrei altro che consigliare, e i consigli, entrano da un orecchio, per uscire da quell’altro!... — Se ne fa l’abitudine... se ne fa. — Bravo! Precisamente!... Giorgio, invece, è un altro paio di maniche. È il marito, è l’autorità costituita... Mi spiego? — Parlatene voi stesso, a Giorgio. — No, no, no, ottimo amico; non mi pare. La cosa, per sè stessa delicatissima, si farebbe subito troppo grave, per il mio medesimo intervento. Capite, Pier-Luigi?... Fra suocero e genero, fra la destra, come sarebbe a dire, e la sinistra — e Prospero lasciò scappare una risatina maliziosetta — -si fa sempre una politica d’opposizione. Sapete qual’è il miglior partito?... Di questo dolor di testa incaricatevene voi!... Voi, che non solo siete lo zio, ma l’amico dilettissimo del nostro Giorgio. Egli vi ama, vi stima e vi professa tutta quella considerazione che... — Non facciamo complimenti, non facciamo... — No, no; lasciatemi dire — che giustamente, giustissimamente vi è dovuta. Dunque?... Siamo intesi? Il conte da Castiglione si fece pregare, ma poi, in fine, disse di sì: tuttavia prima di parlare con Giorgio, ben conoscendo il predominio di Lalla, volle aver tanto in mano da non poter essere smentito. Allora si pose a far la posta, non perdendo più d’occhio la cara nipotina, e quel venerdì, appunto, nel quale Lalla e Giacomo dovevano vedersi per andare dalla Prefettessa, egli le tenne dietro appena uscì di casa, la vide incontrarsi col Vharè, salutarsi, fermarsi e poi, bel bello continuar la strada... insieme. Pier Luigi affrettò il passo, li raggiunse e, oltrepassandoli, salutò la nipote e il marchese con una grande scappellata, un grande inchino e un cordialissimo sorriso. I due rimasero colpiti, spaventati e si lasciarono subito: Lalla, col solito espediente dei libri, avrebbe fatto sapere a Giacomo se mai l’incontro di quel — iettatore — avesse portato disgrazia; se invece non vedeva libri, egli sarebbe andato la domenica prossima, alle quattro, ora diplomatica, a farle visita. La Della Valle si fermò un minuto solo dalla Prefettessa; dopo, corse a casa inquietissima, con mille timori nell’animo. Essa temeva la linguaccia e l’odio di Pier Luigi! Era sicurissima che quel vecchio esoso non si lascerebbe sfuggire una così buona occasione per vendicarsi. Appena a casa si spogliò del cappellino, della mantellina, poi si accomodò nel cantuccio del suo salotto, tranquillissima in apparenza, e prese a sfogliare una rivista, aspettando che Giorgio andasse a cercarla. Ma non leggeva; pensava al suo metodo di difesa. — Aveva ben ragione quando temeva che il venerdì le sarebbe stato fatale!... E... Giorgio, crederebbe più a lei, o a Pier Luigi?... In quelle ore — eterne — non pensò che al pericolo dal quale era minacciata la sua pace e il suo avvenire. Se pensava al Vharè, era soltanto per confortarsi di... — non aver rimorsi — e, al caso, di poterlo anche giurare! Del resto s’inquietava a torto; nessuno, nemmeno Pier Luigi, e suo marito meno ancora degli altri, voleva mettere in dubbio la sua innocenza. Pier Luigi, uscendo dal club con Giorgio, lo prese a braccetto e gli disse appena, in via di discorso, che nella sua qualità di stretto parente si trovava in obbligo di consigliarlo a impedire l’assiduità del Vharè presso sua moglie, perchè il mondo l’aveva notata; e soprattutto, doveva vietare a Lalla di lasciarsi accompagnare per via da quel pessimo soggetto. — La moglie di Cesare — concluse Pier Luigi — non deve essere nemmeno sospettata, non deve essere! Giorgio non pronunziò una parola; ma fu preso da un impeto d’ira contro la leggerezza di Lalla... — poteva far supporre a qualche imbecille, anche ciò che non era!... — E si avviò difilato a casa, risoluto, questa volta, a parlar chiaro e ad imporre la propria volontà. Lalla lo sentì subito, al passo che risonava lungo l’appartamento: c’erano molte sale da attraversare, e le pareva ch’egli non arrivasse mai; lo affrettava quell’istante e tuttavia avrebbe voluto allontanarlo all’infinito. Appena Giorgio si presentò sulla porta, Lalla capì che lo zio non aveva perduto tempo: Giorgio era pallido, col volto contratto. — In quel momento, se il Vharè avesse potuto guardare nel cuore della sua amica, non vi avrebbe trovato nemmeno più l’ombra di un po’ d’amore: l’amore era tutto sparito; non c’era dentro altro che una gran paura! Giorgio le parlò brevemente, duramente. Lalla rispose balbettando, poi scoppiò in lagrime, giurando e spergiurando la propria innocenza. — Ah, viva Dio, credo bene! — rispose l’altro, sempre più adirato. — Non sarei qui da te, se ne potessi dubitare! — A Lalla si allargò il cuore, ma continuò a gemere e a piangere. — Era stato lui, il marchese, a fermarla... per caso... perchè aveva da farle i saluti del commendator Pasoletti...; poi, il Vharè, sentendo che lei andava dalla Prefettessa, le offrì di accompagnarla... le seccava... le seccava molto... ma non poteva mandarlo via! — E questo è avvenuto, perchè?... Perchè gli hai data troppa confidenza! perchè lo hai ammesso, quasi, nella tua intimità, e io non volevo, te l’ho detto cento volte, non una, cento volte che non lo volevo fra i piedi!... Intanto si mormora, capisci? ed io, ridicolo, non lo voglio essere, e non lo voglio nemmeno parere! — Dimmi tu... tutto quello che vorrai... lo farò, lo farò senza esitare... ti prometto... ti giuro... tutto tutto. Nino mio! — Domani... andremo in campagna, e... ricordati bene: non devi dirlo a nessuno. — E a chi lo dovrei dire! — esclamò Lalla alzando gli occhi bellissimi, ancora scintillanti di lacrime. Ma quando Giorgio uscì, essa respirò sorridendo: l’uragano era passato. Ci avrebbe pensato lei, a far ritornare il bel tempo. Poco dopo, venne sua madre a trovarla: Lalla le raccontò la scena, gettandole le braccia al collo e singhiozzando. Maria l’accarezzò e la consolò, pur facendole capire, delicatamente, come sarebbe stato assai meglio se avesse badato subito a’ suoi consigli; e dopo non la lasciò più, in tutta la giornata. Il Della Valle, dinanzi alla pronta ubbidienza e al dolore di Lalla, si era calmato pienamente. Egli temeva, anzi, di essere stato troppo severo; e accompagnando Maria, quando se ne andò, fino alla carrozza, se ne scusò anzi con lei, ringraziandola del suo affetto, baciandole e ribaciandole la mano, con tenerezza affettuosa. Si era combinato, che i Della Valle sarebbero andati in campagna subito, il giorno dopo, e che Maria e il Duca li avrebbero raggiunti nella settimana. Appunto, per essere tutti uniti, anche gli sposi andavano a Santo Fiore: questi, per altro, nel Villino che Giorgio Della Valle aveva comperato dal Vharè. Ma quella sera la duchessina, già spogliata e inginocchiata, in camiciuola, accanto al letto, non finiva mai di dire le sue orazioni. Giorgio, coricato, leggeva serio la gazzetta; ma stava attento a Lalla che non si moveva, e però, ad un certo punto, si accorse che piangeva... che singhiozzava. — Animo, Lalla — le disse allora con dolcezza; — non c’è ragione di piangere. Io non sono in collera con te, lo sai bene. Lalla baciò le sue madonnine, si asciugò gli occhi, poi in fretta, saltò nel letto, ma tenendosi affatto sulla sponda, dalla sua parte, il più lontano possibile dal marito, e senza guardarlo, senza dire una parola. Giorgio buttò via il giornale, e si tirò lui più vicino, ma Lalla continuò a non guardarlo, rimanendo immobile cogli occhi spalancati. — Animo... via, non voglio vederti a piangere, mi fa pena; — e si piegò per darle un bacio, ma Lalla gli puntò contro il petto le sue braccia tese, così fortemente, che sembravano di ferro. — No, — gli disse, — non mi devi più baciare, dal momento che non mi vuoi più bene. — Ma no, cara! Ti voglio tanto tanto bene, ed è per questo che... — Oh, se tu mi amassi davvero, mi stimeresti anche, e non avresti creduto subito alle bugie di un cattivo; perchè c’è stato un cattivo che ha voluto metter male fra di noi. — Ascolta, bambina mia... — No... tua, no, più! — Giorgio a questa minaccia, tentò di prenderle una mano, ma Lalla non volle saperne. — No!... no!... Io ti ho sempre raccontato tutto, fin le sciocchezze che mi dicevano per farmi la corte, e tu hai potuto credere, non so come, che io potessi mentire! — No, non l’ho mai creduto. — Se vuoi domandarlo alla mamma, essa ti potrà dire che, non più tardi dell’altro giorno, mi ero consigliata con lei appunto per trovar modo, senza parere, di far diminuire al marchese le sue visite. E ciò, sai, non perchè egli me ne avesse dato motivo, ma per togliere ogni pretesto alla malignità di certa gente. — Sì, cara, ti credo, ti credo; ma non devi pensare che io non ti voglia più bene. — Oh, pur troppo, la scena d’oggi non potrò dimenticarla per un pezzo! Dio mio!... non ti avrei mai creduto così!... — Via, Lalla... sii buona... perdonami. — È impossibile. — Te ne prego... ti supplico!... — È impossibile... — No, sai: vado sola... in un’altra camera! — Ti amo!... ti amo tanto! — Adesso, mi ami... ma oggi, no; oggi non mi volevi più bene! E... e non ci fu verso. Giorgio dovette rassegnarsi e cominciò a credere di essere proprio lui dalla parte del torto. Il giorno dopo Giacomo di Vharè chiese due o tre volte al suo vecchio servitore se erano stati mandati dei libri: nulla; non era arrivato nulla. Nella mattina della domenica (la domenica dell’appuntamento) nemmeno; alle tre tornò a casa: poteva esser capitato qualche avviso, ancora all’ultimo momento... — non c’era niente! Allora, ormai sicuro che l’incontro del venerdì non aveva avuto cattive conseguenze, si avviò tranquillamente a casa Della Valle. — C’è la contessa? — domandò al portinaio; ed era tanto sicuro di trovarla in casa, che si avviò diritto verso la scala, senza aspettare la risposta. Ma invece il portinaio gli corse dietro gridando: — Nossignore! Nossignore! non c’è nessuno! — Come?... Non è in casa la contessa? — Non c’è nessuno. — I padroni sono andati in campagna, a Santo Fiore. — Per tutto il giorno?... — Per due o tre mesi: non si sa quando ritorneranno. Il Vharè guardò fisso il portinaio e gli sembrò di scorgere sotto una cera umile e rispettosa un sorrisetto maligno. — Va bene. — Giacomo prese dal portafoglio un biglietto da visita, lo piegò ad uno degli angoli e se ne andò con aria indifferente, senza dir altro. Ma, invece, egli era assai turbato, assai inquieto e addolorato. La notizia di quella partenza lo aveva messo tutto sossopra. Era accaduto certo qualche cosa di grave; Lalla, chissà, non avea nemmeno avuto il tempo di avvertirlo! — Povera Lalla!... Povera Lalla! Pensò di seguirla, di correre da lei, nascondendosi in qualche casetta dei dintorni; ma era un agire da pazzo e non da uomo: l’avrebbe perduta interamente, senza scopo; e vi rinunciò. Egli era sicuro che appena Lalla potesse farlo, gli avrebbe subito scritto, informandolo di tutto. Ma, invece, passarono due, tre, quattro giorni... e nessuna lettera, nessun avviso... niente. Aspettò ancora, sempre colla speranza, colla febbre: aspettò un’altra settimana... niente, niente. Allora cominciò a calmarsi e a ragionare. — Com’è possibile che in tanto tempo, non abbia mai trovato il modo di potermi scrivere, almeno una parola?... Un servitore, un contadino, una persona qualunque si trova facilmente, e nei casi disperati si manda al diavolo anche la prudenza! Aspettò ancora un altro poco, finchè un giorno vide, sul Corso, Giorgio Della Valle, proprio lui, — quel cane! — che andava per le botteghe a fare acquisti. Giacomo pensò subito di avvicinarlo e di fermarlo: così almeno sarebbe uscito dall’incertezza. Giorgio era un carattere troppo franco e sincero, per saper fingere, per saper simulare. Il Vharè attraversò la strada col cuore sospeso, ma con piglio risoluto. — Buon giorno, conte! — Oh, buon giorno, marchese. — Si possono aver notizie della contessa Della Valle? — Sta benissimo, grazie. — Vi pregherò di presentarle i miei omaggi. — Grazie, marchese! Giorgio era stato più amabile del solito col Vharè, e per poco non lo invitava a Santo Fiore!... Per Dio, il conte Della Valle, certo non aveva l’aria di far morire sua moglie, o di tenerla relegata nel fondo di una torre come un tiranno del Medio Evo!... Dunque? Che cosa pensare? Qualche cosa era accaduto, ad ogni modo, ma nulla di serio, nulla di grave. Dunque?... Era Lalla la leggera, la civetta, la perfida!... Era lei che si era messa a scappare alla prima scaramuccia!... Sicuro... Lalla non amava, non sapeva amare!... Innanzi al primo pericolo, il suo amore, così pieno di giuramenti e di promesse, svaniva a un tratto e tutto dimenticava, anche quell’uomo che soffriva per lei e che con una parola, con una sola parola ella avrebbe potuto illudere e consolare. No, non aveva cuore, come non aveva sangue: egli ne aveva sempre dubitato; adesso ne era sicuro. Una sera, poco tempo dopo, egli seppe a teatro, dalla Calandrà, che la contessa Della Valle si divertiva in campagna, ch’era allegrissima, che vedeva molta gente e che spesso facevano gite a cavallo e combinavano cacce alla volpe, numerosissime. La Calandrà, non potendo riuscire ad ottenere le confidenze di Lalla, voleva tentare di avere quelle del marchese, e perciò gli parlò lungamente, con aria di mistero, della duchessina, promettendo a Giacomo che gli avrebbe fatto sapere quando sarebbe ritornata a Santo Fiore. — Grazie, molte grazie!... — rispose il Vharè, senza mostrare di aver capita la generosa offerta della Calandrà. — La pregherò soltanto di ricordarmi particolarmente ai d’Eleda e ai Della Valle. Quando il Vharè ritornò a casa e si chiuse nella sua camera, gli pareva di soffocare; aveva la gola secca e il cuore gonfio. Cominciò per svestirsi, ma poi d’un tratto, si buttò sopra una poltrona, ch’era a’ piedi del letto, piangendo come un ragazzo. Ma con quelle poche lacrime sgorgò dal suo cuore tutto quanto vi era di gentile e di nobile; con quelle poche lacrime si consumò tutto il suo dolore, tutto il suo amore... ed egli non sentì più altro per la duchessina che dispetto e disprezzo. — Sì, — borbottava, — ne convengo! mi hai giocato bene!... Sei stata più furba di me, e sei la sola che può vantarsi di avermi ingannato!... Ma chi avrebbe indovinata la tua perfidia sotto quell’apparenza timida e pudibonda? Ma... chi sa?... ride bene chi ride l’ultimo. Chi sa?... chi sa?... A questo punto il marchese Giacomo di Vharè, che aveva finito di svestirsi, si cacciò nel letto, e poco dopo si addormentò profondamente. XXV A Santo Fiore, in questo frattempo, era successo un fatto molto importante: nientemeno che la signora Veronica e la bella Ottavia... erano rimaste incinte tutte e due, con grande contentezza e meraviglia del signor Domenico e del signor Niso, ai quali le rispettive consorti non avevano mai concesso un tanto onore. Il nuovo segretario comunale, succeduto al povero Frascolini, morto da qualche mese, un giovinottino della città, tisicuzzo, giallo, biondo e un po’ gobbetto, ma ricco di cuore e d’un pince-nez, era riuscito a rappattumarle fra di loro, tanto che adesso, tutt’e due, la Minerva e la Venere del paese, facevano disegni in comune, pei loro nascituri, e volevano essere chiamate zia, l’una e l’altra, dal rispettivo bébé dell’amica. Era un divertimento per tutto Santo Fiore quando la brigatella andava insieme e d’accordo per istrada, a fare la passeggiata igienica del dopo pranzo. Camminavano adagio adagio; ma il gobbetto rimaneva in mezzo, quasi nascosto dalle donne e dall’Omnibus, gazzetta di Borghignano che egli teneva spiegata, leggendone ad alta voce l’appendice. La bella e maestosa Ottavia, dondolante, la pancia gravida che risaltava sotto un grembiule scarlatto, voleva far la bambina, la vergognosetta, e arrossiva, frignando, ad ogni scherzo che le veniva diretto. E a quelle allusioni, quando il signor Niso si trovava presente, arrossiva anche lui, per una contentezza fiera e modesta. La signora Veronica, invece, superba del suo stato, camminava colla testa alta, la faccia arcigna, lanciando certe occhiate che dardeggiavano e parevan dire a tutti quelli che incontrava: — Fate altrettanto, se ne siete capaci!... Ma, tuttavia, questo duplice e fortunato avvenimento, non era la sola novità importante di Santo Fiore: c’era ben altro!... Sandro Frascolini era ritornato al paese, appunto in que’ giorni, per raccogliere l’eredità paterna (una decina all’incirca di mille lire); e intanto, non volendo perdere il suo tempo, si dava attorno tentando di fondare il Circolo democratico degli Operai Agricoltori e cercava azionisti per un suo giornale politico di là da venire: L’Amico del Contadino. Il Frascolini, adesso, l’aveva a morte coi nobili e coi preti, ch’egli chiamava sepolcri imbiancati, poi prendeva spesso la sbornia, portava la cravatta rossa, il cappello alla Lobbia e usciva sempre con un nodoso bastone. Egli aveva dovuto abbandonare il canto per la politica, dietro il consiglio di un classico pugno che aveva preso in un occhio, per amori e gelosie del dietro scena. Era però sempre un bel giovane, anche con un occhio solo; il vuoto lasciato da quell’altro, che se n’era ito, lo teneva nascosto con una benda di seta oscura. I crapuloni, gli oziosi e le birbe lo portavano in auge; ma aveva perduta la stima delle persone dabbene. Il signor Domenico, per esempio, il sindaco, gli aveva levato il saluto. Il medico e il veterinario lo schivavano, e il maresciallo dei carabinieri gli teneva gli occhi addosso. In quanto al signor Niso... Il signor Niso lo salutava sempre, ma poi se ne scusava, sospirando, colla moglie, che non voleva — vergogna! — e lo strapazzava per quella sua debolezza. Invece don Vincenzo soffriva una gran paura del Frascolini, e quando usciva dalla canonica, faceva sbirciare dal nonzolo se lo scorgeva sulla piazza, e se c’era, sgattaiolava dalla porticina di dietro. Il Frascolini non lo insolentiva, e non lo minacciava: soltanto si levava il cappello, e inchinandosi profondamente gli gridava dietro ad alta voce: — Mi saluti la signora, reverendo! La Veronica e l’Ottavia incontravano spesso il Frascolini nelle loro passeggiate, ma era tal e quale come se non lo avessero mai conosciuto. Tiravano via diritto, la Veronica guardandolo fiera, minacciosa, a testa alta, la Ottavia abbassando gli occhi, pudicamente, e stirandosi il gonfio grembiule colle mani. Quando poi erano passate innanzi, si scambiavano un’occhiata di sopra al piccolo segretario, il quale, alla vista dell’ex tenore, parea volesse nascondersi tutto dentro la gazzetta. In quanto al Frascolini, egli non ci badava, nemmeno per riderne! Si sentiva salito troppo in alto per occuparsi delle signore di Santo Fiore! La duchessina, lo stesso primo giorno ch’era arrivata in villa, lo vide subito, fermo sulla piazza della Stazione; ma, sul momento, non lo aveva nemmeno riconosciuto. Gli fu indicato da miss Dill, la quale era andata incontro alla contessa Della Valle, componendosi sulle labbra una smorfia, un sorriso, col quale voleva esprimere tutto il suo giubilo; ma invece, in fondo al cuore, la miss era molto seccata pel ritorno della duchessina. Ormai ci avea preso troppo gusto a spadroneggiare a Santo Fiore e ad essere libera de’ fatti suoi. A Lalla la vista del Frascolini non fece nessuna impressione; tant’e tanto, a lei non poteva far nulla di male!... La sua figura plebea, gli stessi ricordi dell’ultima scenata ch’egli le aveva fatta a Borghignano, tutti insomma i molti ricordi di quella scappatella sentimentale, s’erano via via dileguati dal suo animo, alla stessa guisa che i primi tepori d’un bel mattino d’autunno fanno dileguare dai cristalli della finestra i fantastici rabeschi, i fregi bizzarri che la nebbia e il freddo della notte vi avevano disegnati. D’altra parte il Frascolini, per qualche giorno, non si lasciò vedere dalla duchessina; egli invece si ubbriacava più spesso, e le sue sfuriate contro le carogne aristocratiche si facevano più irose, più violente. Adesso aveva imparato a memoria lunghi brani dei Misteri del Popolo di Eugenio Sue, e spesso ripeteva le profetiche invettive dei figli di Gioele, il brenn della Tribù di Karnak, spacciandole come roba sua. Durante quelle sfuriate stringeva i pugni, si mordeva le dita, e schizzava foco dal suo occhio vivo, iniettato di sangue, con un’espressione di rancore, di odio, di ferocia, da non lasciare in lui nessuna traccia del buon Guglielmo (quello dei Due Sergenti) che tante lacrime aveva fatto spargere alle sensibili donnine di Santo Fiore. Ma, con tutto ciò, Sandro Frascolini non mostrava molto coraggio contro la casta esecrata: tutt’altro!... bastava ch’egli udisse, mentre stava predicando in piazza, la sonagliera dei due poney della contessa Della Valle, perchè fuggisse via, come un cane scottato! Un giorno, per altro, rimase preso, lì, su due piedi, quando meno se l’aspettava. La contessa usciva dal palazzo a braccio di Giorgio per andare a salutar don Gregorio, e Sandro la vide passare vicina, tanto vicina, da udire ancora una volta il timbro della sua voce, tanto vicina, da vederla ancora una volta nella sua personcina vaga, sottile, tutta bianca e odorosa come un fiore, con quegli occhioni grandi e modesti... Tutti s’inchinavano umili e riverenti; ella passava via leggera, tranquilla, simile alla visione di un sogno. E dire ch’egli l’aveva stretta fra le sue braccia quella creatura superba che sembrava una regina!... e dire ch’egli l’aveva baciata in bocca, ch’egli le aveva cacciate le mani nei capelli, ch’egli avea confusa la sua propria colla voluttà di quella creatura vereconda... che sembrava una madonna!... Quell’incontro di Lalla, inasprì la ferita sempre aperta. Sandro tentò di ubbriacarsi, prima col vino, poi co’ liquori; ma non ci riuscì. Rimaneva freddo, cupo, coll’immagine di Lalla fissa dinanzi agli occhi. Imprecava contro di lei, la malediva, la copriva d’insulti, ma Lalla gli sorrideva cogli occhi languidi, la bocca umida, socchiusa, dalla quale usciva l’alito caldo e profumato, che gli risollevava nel sangue il ricordo dei fremiti lunghi e voluttuosi di quel suo corpicciuolo morbido di sensitiva. Sparuto e taciturno, viveva solo, lasciando in pace, per il momento, tutti i figli di Gioele, il brenn della Tribù di Karnak. Sfuggiva gli amici, i soci, i camerati, e mancò più di una volta alle sedute del Circolo democratico degli Operai Agricoltori. Lalla aveva l’abitudine di ritornare da Santo Fiore al Villino tutte le sere a piedi, dopo di aver preso il perdono in chiesa, con miss Dill e con don Vincenzo. La strada, larga e dritta, era tutta chiusa da folte siepi di pruno selvatico, rese più fitte dagli ontani che vi si spesseggiavano. Solo ad una metà circa del cammino, venendo dal paese, le siepi erano aperte da due passaggi, l’uno di contro all’altro, che mettevano nei campi. Lungo quella strada non s’incontrava mai anima viva: una sera Lalla sentì camminare al di là delle siepe, ma non vi fe’ caso. La sera dopo, invece, avvicinandosi dove si apriva il passaggio, appoggiato ad uno de’ cancelli vide un uomo fermo, immobile, colle braccia incrociate sul petto. Lo indicò agli altri e lo riconobbero subito: era Sandro Frascolini, Si consultarono a bassa voce: tornare indietro non si poteva, dunque, per amore o per forza, bisognava tirare innanzi e passargli proprio sui piedi. Lalla aveva una gran paura, il cuore le batteva fortemente, e colla coda dell’occhio guardò se il Frascolini si levava il cappello, perchè gli avrebbe fatto anche lei, di ricambio, un salutino gentile, tanto per non irritarlo maggiormente. Ma il Frascolini non si mosse. A don Vincenzo tremavano le gambe, non fiatava. Il povero prete si faceva curvo, piccino, piccino, sperando, quasi, lui così grosso, di potersi nascondere dietro alla miss, che camminava impettita, dura come fosse di legno. Gli passarono davanti adagio adagio, poi a mano a mano, senza accorgersene, affrettarono il passo sempre di più, e quando furono in vista del Villino si può dire che andavano di corsa, tutti e tre stretti insieme, senza mai voltarsi, senza mai parlare, colle sottane svolazzanti, innalzando mentalmente una preghiera al buon Dio in tre lingue diverse: in italiano, in inglese e in latino. Giunti a casa, al sicuro, miss Dill bevette subito un bicchierino di acqua di tutto cedro, ed ordinò al credenziere di sturare una bottiglia per don Vincenzo. Lalla non prese nulla; passato il pericolo, era passata anche la paura, e scherzava e rideva raccontando a Giorgio quanto le era accaduto, e metteva in burletta don Vincenzo e l’istitutrice. Ma disse al marito che le altre sere sarebbe andata a Santo Fiore in carrozza e che lui l’avrebbe dovuta accompagnare. Giorgio ne fu ben contento, quantunque in pericolo, in tutto ciò, non vedesse altro che le spalle del Frascolini. Quando la duchessa Maria e il duca Prospero erano venuti in campagna, avevano condotto seco anche la Giulia che, in quegli ultimi giorni, aveva dovuto abbandonare i Della Valle per casa d’Eleda. Era stato Prospero Anatolio a consigliare ed a voler così, non trovando nè conveniente, nè divertente per la ragazza, quel dover correre dietro a far da comodino fra marito e moglie. Pier Luigi, senz’altro, aveva approvato ed accettato il cambiamento, ed era partito per Varese. — Sarebbe poi ritornato a Santo Fiore, sarebbe, a riprendere la pupilla, in ottobre, dopo le corse, dopo. Le due famiglie, unite e d’accordo, vivevano sempre insieme. I Della Valle andavano a pranzo — dalla mamma — quasi ogni giorno e dopo, accompagnati dai d’Eleda, a piedi, avendo i medici consigliato alla duchessa qualche breve passeggiata, ritornavano al villino, dove passavano la sera giocando e facendo un po’ di musica. In quelle piccole gite, Lalla dava il braccio a miss Dill. Fra la vecchia istitutrice e la contessa Della Valle era nata di fresco una grande intrinsichezza: la mattina andavano insieme alla messa di don Vincenzo (don Vincenzo la diceva apposta un po’ più tardi) e insieme combinavano molte altre divozioni. Miss Dill, aveva sempre qualche notizia, qualche pettegolezzo da riferire in segreto e fu lei che fece prendere una sgridata solenne alla Nena, raccontando alla contessa di averla veduta col Frascolini, poco lungi dalla villa. Il duca Prospero, invece, dava il braccio alla Giulia e le confidava, sospirando, di essere un marito infelice: sua moglie, la Madonna di neve, non sapeva comprenderlo e tanto meno apprezzarlo. Maria e Giorgio venivano gli ultimi, un po’ discosti dagli altri, perchè Maria, più debole, si stancava più presto. Dopo che Lalla aveva fatto capire alla mamma di essersi accorta della sua freddezza per Giorgio, Maria aveva creduto bene di mutare contegno e di mostrarsi col genero assai meno riservata. Ella temeva che quella bizzarra figliuola potesse sinistramente interpretare la rigidezza fino allora mantenuta ne’ suoi rapporti col conte Della Valle. Ne parlò prima, in proposito e lungamente, con don Gregorio, e il buon prete pure la persuase che, ormai, essa non aveva più nulla da temere, che ormai, tutte le prove più aspre erano state superate e che però poteva, anzi doveva espandere in una nuova tenerezza, tutta quella grande passione che l’aveva colpita, senza riuscire ad abbatterla. — Non hai più nulla da temere... No... consolati... hai vinto! — diceva a Maria don Gregorio. — Per quanto possa essere grande la tua tenerezza, io ti conosco bene, tu lo amerai coll’affetto di una madre. Maria, a quelle parole, chinava il capo e sospirava. Sì, lo avrebbe amato come una madre; ma sentiva pure che nessun figliuolo al mondo sarebbe stato amato come Giorgio Della Valle! Un’altra voce più intima, segreta, consigliava a Maria quel mutamento: una voce le diceva, consolandola, che molto ancora non le rimaneva da vivere; e Maria non voleva... aveva diritto di non lasciare una memoria che non fosse cara, un rimpianto che non fosse duraturo. Non era tutto per lei?... La sua consolazione, la sua felicità, il premio suo che sospirava, che domandava a Dio, per le angosce sofferte? E in quelle indimenticabili passeggiate, era sempre Lalla il prediletto argomento d’ogni loro discorso. Giorgio confidava — alla mamma — tutto l’amore, tutta la passione che gli traboccava dall’anima e le confidava (a lei, a lei sola) premendole il braccio teneramente, — ch’egli sperava sempre... che il suo sogno dorato non era del tutto svanito... insomma... quella sua felicità così grande sarebbe stata compiuta soltanto da un bambino... un bambino della sua Lalla!... Maria, pallidissima, ma col volto irradiato da un sorriso mesto e soave, riusciva, forse lacerandolo, ad aprire il suo cuore a quell’eloquenza dolce e appassionata!... E mentre Giorgio, lietissima di riacquistare così la sua buona sorella, ma dolente di averla in quegli anni tanto sconosciuta da non rifuggire dinanzi a un sospetto mostruoso, esprimeva con calda espansione la stima profonda che le professava. Maria, che non voleva desiderare di più, innalzava sospirando gli occhi al cielo, ancora scintillanti di lacrime. E anche Maria faceva voti, anch’essa, la povera martire, perchè il desiderio di Giorgio fosse esaudito. Del resto, quel bimbo (e maschio, s’intende) era un po’ il desiderio di tutta la famiglia; ma le speranze parevano diminuire con ogni giorno, anzi, con ogni mese che passava. Anche Lalla n’era contrariata, e non voleva farlo capire. Ci teneva ad essere invidiata anche nella sua perfetta felicità, e perciò ripeteva a tutt’andare che l’aver figliuoli non era altro che una seccatura!... Ma poi... Pier Luigi ghignava, la Giulia sorrideva e il duca... povero duca! Egli era addolorato più di tutti!... Aveva ottenuto che il primogenito dei Della Valle avesse a portare riuniti i nomi delle due famiglie e chiamarsi Prospero Giorgio Maria Anatolio conte Della Valle e duca d’Eleda, ma... ma come per fare un arrosto di lepre occorre per lo meno la lepre, così per ottenere un futuro duca d’Eleda, occorreva... un contino Della Valle!... Giorgio, dal canto suo, si guardava bene dal lasciar trasparire neppur l’ombra del dispiacere; e ciò, primieramente, perchè egli voleva troppo bene a sua moglie, e poi perchè, sua moglie aveva finito coll’imporsi in tutto e per tutto e coll’avere su di lui un grande predominio. Quasi quasi, certe volte, si sentiva intimidito, aveva un po’ di soggezione, specialmente a doverla contradire. Essa faceva tanto presto a montare in collera!... E le collere di Lalla, ad onta della sua dolce soavità, ad onta della sua compostezza tranquilla, erano sorde e ostinate. Non gridava, non faceva scene, ma non gli rivolgeva più la parola, e a qualunque cosa che egli le dicesse rispondeva con un — come vuoi — immutabile di espressione e di tono, mentre alle sue carezze essa si faceva di ghiaccio. La più ostinata di quelle collere bianche — era Pier Luigi che le chiamava così — il Della Valle l’ebbe appunto da combattere nei primi giorni che erano arrivati a Santo Fiore. Appena Lalla fu persuasa che suo marito non aveva alcun sospetto fondato e che ormai la credeva più candida di un’innocente colombella, pensò subito a difendersi per l’avvenire e anche un pochino a vendicarsi, per lo spavento avuto. Giorgio tentò ogni mezzo per acquetarla: la dolcezza, le carezze, le preghiere, i rimproveri; — niente: non c’era verso di smuoverla! Lalla ci teneva troppo a far sì che quella lezioncina fosse ricordata ben bene, e quando cedette finalmente, e solo perchè cominciava ad essere seccata lei stessa della propria ostinazione, volle ancora stravincere, e ci riuscì. — Ebbene, io dimenticherò e perdonerò — disse a Giorgio che la supplicava, — ma ad un patto. — Quale?... tutto ciò che vuoi!... — Devi essere sincero e rispondere sì o no, francamente, ad una mia domanda. — Ti dirò tutto! — Fu tuo zio, fu Pier Luigi, non è vero, quello che s’è presa la briga... — e Lalla sorrise con malizia birichina — quello che s’è preso il bel divertimento di aprirti gli occhi? — Scusa, ma prima di rispondere bisognerebbe... — O sì o no!... — Ma... — Sì o no? Giorgio la guardò facendole capire ch’essa aveva indovinato, ma non volle dirlo apertamente. — Lo sapevo, sai, oh lo sapevo!... Quello invece che non sai tu, è perchè il tuo caro zio mi odia. — No, Lalla, non ti odia; anzi, ti vuol molto bene! — Troppo... troppo bene!... — esclamò Lalla, diventando rossa, palpitante di vergogna e di collera. — Sai, Giorgio? ho dovuto difendermi a viva forza! Mi ha baciata a tradimento!... L’ho scacciato dalla mia stanza!... Per questo si vendica! — Lui?... Pier Luigi?... Pier Luigi?! — esclamò Giorgio balzando in piedi. — Sì!... Soltanto perchè era lui... Pier Luigi... perchè era tuo zio, ho taciuto... ho soffocato tutto dentro di me!... Ma quanto piangere, Giorgio! Piangevo sola, di nascosto, piangevo di vergogna, di collera, di ribrezzo!... Dio, Dio, che giorni, che notti orribili! Ma speravo di poter risparmiare, almeno a te, questo gran dolore! Invece ora... non posso più tacere; mi sento il dovere, ho il dovere di dirti tutto. Speravo che il modo col quale l’ho trattato potesse bastare; invece no; mi sono ingannata! Cattivo e perfido, quanto è brutto, ributtante! Approfittò della mia stessa bontà per farmi del male, per avvelenare il nostro amore! È un’infamia!... È infame! — E Lalla, tutta tremante per l’urto dei singhiozzi, finì scoppiando in un pianto dirotto. Giorgio, pallido, smorto, non disse una parola. Oh, se Pier Luigi gli fosse capitato dinanzi in quel momento, egli lo avrebbe schiaffeggiato... ammazzato. Ma poi non potè reggere a lungo: quel miserabile che aveva insidiato il suo onore, insidiata sua moglie, era il fratello di sua madre!... E si buttò sopra una poltrona coprendosi il volto con le mani. Lalla cessò dal piangere, si strinse al petto di Giorgio e lo coprì di baci. — Nino mio, Nino mio! La tua Lalla ti vuol tanto bene!... Giorgio sospirò, scrollando il capo; Lalla, tenera, affettuosa, sedendosi sulle sue ginocchia, stringendolo colle belle braccia odorose, tornò a baciarlo, continuò a baciarlo, sussurrandogli parolette care e deliziose ch’erano altrettante carezze: — Oh, Nino mio, tu sei stato ingiusto colla tua piccola Lalla e l’hai giudicata a torto; hai dubitato di lei, del suo affetto per te: l’hai sgridata, l’hai spaventata con una scena terribile; l’hai costretta a scappar via da Borghignano a precipizio, e tutto ciò per che cosa?... per chi?... Per un brutto cattivo!... Ma d’ora innanzi crederai sempre alla tua Lalla, vero?... alla tua Lalla che ti vuol tanto bene!... — Sì. — Crederai sempre a me?... E a nessun altro?... — Sì!... Sì!... — rispose Giorgio vinto, consolato, innamorato; e Lalla, in compenso di una tale promessa, lo fece delirare con un furore di baci. In quella commozione e in quel trasporto la duchessina era spontanea e sincera. — Povero Giorgio, tanto buono! — Era contentissima di non aver rimorsi e il Vharè non lo voleva più vedere, sentiva che non lo amava più. No, no; non voleva più saperne di sotterfugi: aveva avuto troppa paura. Sentiva ancora, come in quel malaugurato venerdì, i passi di Giorgio, quando si avvicinava al salottino: — Dio, Dio! Che angoscia!... che momento terribile... Ma, dopo qualche giorno, ormai pienamente sicura di suo marito, ricominciarono le inquietudini per via del Vharè. — Come avrebbe egli accettata quella scomparsa improvvisa e, sopratutto, quel suo continuo silenzio?... — Lalla, appena a Santo Fiore, aveva pensato se gli doveva scrivere, tanto per calmarlo. — Ma, poi, per mandargli la lettera? — Di chi si sarebbe fidata? — Della Nena?... E se Giorgio l’avesse spiata e scoperta?... Allora... allora suo marito avrebbe avuto ragione di credere anche quello che non era, perchè lei, infine, non aveva rimorsi! — Non sarebbe stato prudente nemmeno il valersi, come al solito, dei libri. Giorgio, che non era uno stupido, avrebbe capito subito il contrabbando. — Era meglio lasciar correre l’acqua per la sua china... — e lasciò correre. Per altro, passato molto tempo, quando fu sicura che il Vharè non pensava, nè avea mai pensato di correrle dietro, allora si sentì un po’ mortificata. — Ma dunque?... non era innamorato come diceva?... Si rassegnava a perderla, e per sempre, senza ribellarsi, senza fiatare?... Oh, — allora, per ripicco, voleva mostrarsi indifferente anche lei!... — E per ciò, quando arrivarono le prime visite della Bertù e della Calandrà, la contessa Della Valle fu di buonissimo umore, raccontando che vedeva molta gente, che andava alla caccia, che andava a cavallo, insomma che si divertiva dalla mattina alla sera. E tutto ciò perchè il Vharè lo sapesse e fosse convinto che se lui si era subito confortato, anche lei non moriva di dolore!... In tal modo, senza che Lalla se ne fosse accorta, il bel marchese, uscitole dal cuore da una parte vi rientrava dall’altra; sempre, è vero, per stradette oscure e recondite chè, direttamente, lì dentro per la strada maestra, non vi entrava nessuno. Cessati tutti i timori, quella rottura col Vharè le spiacque anche per un’altra ragione: Pier Luigi, la Bertù, la Calandrà, Gianni Rebaldi, tutti insomma i pettegoli maligni di Borghignano, avevano ragione di stare allegri; avevano ottenuto il loro scopo; quello, cioè, che il Vharè non le andasse più in casa, e non le facesse la corte. Ogni volta che pensava a questo fatto, e nella solitudine di quella sua vita uniforme e noiosa Lalla ci pensava troppo di sovente, si sentiva rodere per un po’ di rabbietta. A poco a poco, essa cominciò a dir male del mondo e della società; le sue parole erano piene di amarezza; tutti erano — cattive lingue — tutti erano — maligni — e quando la Calandrà e la Bertù ritornarono a Santo Fiore — perchè d’autunno e di primavera esse andavano in giro per le ville, a scroccare pranzi e colazioni — furono ricevute da Lalla tanto freddamente, che non osarono ripetere l’improvvisata. Un altro signore che si ebbe un’accoglienza non molto cordiale in casa Della Valle, fu Pier Luigi; questi, come aveva promesso a Prospero Anatolio, era venuto dopo le corse di Varese a Santo Fiore, per riprendere la Giulia. — Allontanare Pier Luigi da Giorgio!... — Lalla trionfava; ma col marito si mostrò dolentissima di essere la cagione innocente di quella rottura, e lo consigliò, lo pregò, lo supplicò a non fare scene, e lasciar correre. — Quello che gli stava ben detto, glielo aveva saputo dir lei; ma non conveniva inimicarselo; ormai lo conoscevano, e perciò del male non poteva più farne. Giorgio le promise tutto ciò, ma non andò a prendere lo zio alla stazione, e anche al Villino gli fece un’accoglienza glaciale. — Ah, ah!... la colombina, ha confessato, la colombina! Sicuro, ha confessato il peccato mio per nascondere il proprio! — borbottava Pier Luigi, che aveva tutto indovinato. — Me l’ha fatta; ma me l’ha fatta bene, ed a tempo. Eh, c’è sangue, c’è!... Un po’ che volesse ingrassare, sarebbe una perfezione, sarebbe! Io mi tenevo sicuro che non avrebbe parlato! Diabolo... Diabolo!... Se ho cercato di saltare il fosso, la spinta, per altro, me l’ha data lei e secondo le buone regole avrebbe dovuta tacere! Ad ogni modo... è carina; e perciò bisogna accordarle le attenuanti. Ha parlato solamente quando ha capito che era utile e necessario. Sono stato un imbecille, sono stato, a voler predicare la morale. Forse, colla pazienza e perseveranza chi sa?... Povero Giorgio! Per lui sarebbe stato molto meglio se avesse sposata la Giulia... Per lui, e per me. Almeno io avrei finito di fare il padre nobile, avrei finito. Di questa rottura, chi ne sentì più forte il dispiacere, fu Prospero d’Eleda. In famiglia, è naturale, si notò subito la freddezza fra Giorgio e lo zio, e il d’Eleda si adoperò a tutt’uomo per sapere che cosa diamine fosse accaduto! Era un dovere per lui, in quel caso, di mettersi in mezzo e far da paciere. E si arrabbiava con Maria perchè non lo secondava con bastante calore; ma la duchessa sospettava intorno la verità e, troppo delicata per parlarne con chicchessia, approvava in cuor suo la condotta di Giorgio. Il duca, invece, borbottava e smaniava, dichiarando energicamente che se il signor conte era matto, buon padrone! Lui non voleva seguirlo sul terreno delle sgarbatezze, e fu fissato che Pier Luigi, in dicembre avrebbe ricondotta Giulia a Borghignano per tener compagnia alla duchessa quando i Della Valle sarebbero ritornati a Roma. La duchessa, infatti, aveva bisogno di compagnia e di svago, perchè andava peggiorando di giorno in giorno. Santo Fiore e le passeggiate le avevano fatto più male che bene, e invece di andare a Roma coi figliuoli, come sarebbe stato il primo disegno, doveva rimanere a Borghignano per curarsi. Prospero Anatolio sarebbe rimasto a Borghignano anche lui e finalmente in marzo o in aprile, avrebbe potuto tornare a Roma per i lavori del Senato. Povero duca!... Egli si sacrificava (e lo diceva a tutti, sospirando) a cagione della salute di sua moglie, e degli studi di un nuovo progetto sulla riforma e sulla cessione in appalto del Dazio consumo, che aveva sollevato, nel Consiglio e fuori, un forte partito avverso all’Amministrazione d’Eleda. L’ultimo giorno che i Della Valle rimasero in villa, pareva ancora un giorno tepido di ottobre. La campagna anch’essa ha le sue civetterie e molte volte, quando noi siamo sulle mosse per abbandonarla, ella sembra adornarsi, farsi più bella, più gaia, ringiovanire, quasi volendo lasciare nel nostro cuore, col suo ultimo ricordo, un desiderio e un rimpianto. La Giulia e Pier Luigi, se n’erano andati da vari giorni e a Prospero Anatolio, dopo quella partenza, erano capitati addosso tanti conti da regolare e da rivedere, da non lasciargli nemmeno il tempo, assicurava lui, lamentandosi, di respirare. La brigatella si trovava dunque ridotta a due sole coppie: a Lalla che camminava davanti con miss Dill, e a Giorgio con Maria un po’ più indietro. Giorgio, durante quella passeggiata che, in certo modo, si poteva dire di commiato, scherzava amabilmente intorno a quell’avversione che Maria, negli anni passati, sembrava nutrire per lui. Maria, scherzando a sua volta, si schermiva con molta finezza, ma poi, fatta più seria, concluse che quelle accuse non avevan ombra di fondamento: se gli fosse stata nemica e se, invece, non lo avesse molto stimato, non gli avrebbe mai concessa in moglie la sua figliuola. — Oh, in quanto alla stima, siamo d’accordo! ma fu la vostra confidenza, fu la vostra affezione che mi toglieste ad un tratto. Perchè?... Questo è il problema! Maria, tornò a ripetere che non era vero, che si ingannava; non si sentiva bene e ciò la metteva spesso di malumore. — No, no, — insisteva l’altro, — voi non mi dite tutto; no, non posso ingannarmi, vi conosco troppo bene. Forse, adesso, vi siete ricreduta, forse adesso mi avete quasi perdonato, e soltanto per il grande amore che sento per vostra figlia. — Sì, sì; vi sono molto riconoscente di... del vostro affetto per Lalla; per mia figlia. Giuratemi, giuratemi che l’amerete sempre così! Giorgio, premendole il braccio, la guardò lungamente, in un modo che valeva assai più di qualunque risposta. — Voi credete, non è vero, che al di là... Voi credete che ci sia un al di là? — Oh, se ci credo! — rispose Maria levando al cielo gli occhi umidi e lucenti, con un’espressione che rivelava tutto il suo favore e tutta la sua fede. — Ebbene, — continuò Giorgio, indicando Lalla amorosamente — anche al di là... io l’amerò sempre così, perchè la mia anima è piena di lei, come il mio cuore. — Grazie... grazie. — Ma la poveretta non potè continuare, interrotta da un urto di tosse forte e doloroso come un singulto. Giorgio si fermò guardandola colpito. — Vi sentite male? — No, no; è passato;... anzi, mi sento meglio; molto meglio. Le vostre parole... il sapere che voi amate mia figlia... Sono contenta, mi sento tanto felice — è la mia gioia più grande, questa; è la gioia che mi farà forse, guarire. — Allora, in cambio della mia promessa, ne voglio un’altra, da voi. — Quale?... Quale?... — La voce di Maria si era fatta tenue come un sospiro, come un gemito. — Quando ritorneremo da Roma, vi troverò buona, come siete buona... adesso? — Sì; fate felice mia figlia, amatela sempre sempre, e sarò buona, ve lo prometto. — Grazie, mamma, grazie!... Oh se sapeste quanto vi voglio bene! — E Giorgio, così dicendo, — erano soli nella stradetta, — l’abbracciò con improvvisa tenerezza e le baciò i capelli e la fronte. Maria gettò un grido; Lalla e miss Dill si fermarono voltandosi; ma Lalla indovinò tutto e correndo presso la mamma e abbracciandola, come aveva fatto suo marito, finse amabilmente d’esserne un po’ gelosa. — Sì, sì, — esclamò Giorgio, — l’amo più di te! assai più di te! — E presale una mano, si tirò Lalla sul cuore, e la baciò, la strinse con tanta passione, da rendere ancor più evidente il giuoco di quelle parole. Miss Dill, commossa e muta dinanzi a quella scena si tolse il pince-nez, e colla punta del dito mignolo si asciugò lentamente due lacrime: una per occhio. XXVI La contessa Della Valle, ritornata a Roma, si trovò con pochissimi adoratori. Oramai non era più una novità e poi correva la voce che a lei piaceva scherzare, ma che, allo stringer dei conti, lasciava tutti con un palmo di naso, e citavano l’esempio del Vharè. — È innamorata di suo marito, — dicevano, e questa calunnia, inventata ad arte dalle donne, e messa in giro dagli uomini, toglieva ogni attrattiva alla povera contessa. Il corteggiarla non era di moda; anzi voleva dire... fare la figura del novizio. A teatro, visite corte, per paura del pozzo; in casa, qualche onorevole, amico del marito, e nessun altro. Alle feste da ballo i giovanotti eleganti le parlavano appena, tanto erano affaccendati. Non già che la trascurassero per farle dispetto, ma, in fine, non avevano tempo da perdere e consumavano le loro fiamme per altre divinità che si sapeva — si sperava — non facessero languire i supplicanti. La duchessina, era innamorata di suo marito; dunque, era anche troppo se con lei sacrificavano, per turno, qualche quadriglia o qualche giro del cotillon. Lalla si mostrava amabile, lusinghiera, più carina che mai; cercava, tentava tutte le sue risorse; ma non riusciva a ritornare in auge. — Innamorata di suo marito? — Non c’è niente da fare. — E non se ne curavano più. Lalla ci soffriva assai; e quando tornava a casa stanca e seccata, pensando alle emozioni e ai trionfi dell’anno prima, le veniva da piangere. In quelle notti sognava spesso il bel marchese Vharè, quando la stringeva fra le braccia e vagavano voluttuosamente, trascinati e travolti dall’onda calda del valzer, mentre tutto il bel mondo le si affollava d’intorno, pieno di ammirazione e di entusiasmo. Allora sì... allora sì, era felice!... Ma allora la gente non era tanto stupida; allora non la credevano innamorata di suo marito. Chi mai aveva inventata quella sciocchezza?... E così, in cuor suo, la duchessina sperava sempre che il bel marchese non l’avesse dimenticata interamente; sperava sempre di vederlo tornare da un momento all’altro; ma ben presto dovette perdere anche la speranza. Il Vharè era a Nizza a passare l’inverno e a giocare; in quei giorni egli aveva avuto un duello molto grave, finito colla peggio del suo avversario, e, in proposito, si faceva il nome di una notissima signora milanese. Quando fu raccontato questo fatto alla contessa Della Valle, Giorgio era con lei, e quando rimasero soli, Lalla non potè a meno di esclamare, con un misto di amarezza e d’ironia: — Adesso non avrai più paura che il Vharè mi faccia la corte! Era proprio gelosa di quella nuova avventura. — Come il — perfido — l’aveva subito dimenticata!... Almeno lo avesse fatto per vendicarsi di lei!... — E di tutto ciò, chi più ne portava la pena era, naturalmente, il marito. Ne portava la pena senza averne alcun vantaggio; diventando sempre più innamorato, e quanto più Lalla era nervosa, tanto più, per amore e per timore, egli ne subiva l’influenza, in casa, fuori di casa, e persino alla Camera, dove il suo colore politico sbiadiva a vista d’occhio, mentre invece il duca Prospero avanzava ogni giorno, giovanilmente, verso le idee liberali. Lalla, era spesso triste e si sentiva come sfiduciata. Anche a Nervi, dove si recavano l’estate coi d’Eleda. perchè i medici avevano prescritto a Maria l’aria del mare, il suo umore era inquieto e lunatico; e fu ancora peggio quando, alla fine, ritornarono a Borghignano. Borghignano, in quei giorni, era commossa da un grande avvenimento: la Presidenza del teatro dell’Opera aveva scritturata, per la prossima stagione di carnevale, nientemente che la diva Soleil per cantare nella Forza del destino e nell’Aida. Non si parlava d’altro; e tutti, pareva si fossero data la parola per riferire e ripetere alla Della Valle, magnificandola, la straordinaria notizia. I Lastafarda, il Rebaldi, il Toscolano discutevano dinanzi a lei, se e quando la diva aveva fatto la pace col Vharè; ma poi, sopravveniva la Calandrà a tagliar corto; e marcando le parole, per ferire Lalla nel vivo, assicurava che il Vharè le aveva fatto capire che la Soleil, per il suo spirito bizzarro e originale, era l’unica donna che gli aveva fatto impressione e che non avrebbe potuto mai dimenticare. Anche la Bertù (quella stupida, quella mummia a freddo della Bertù!) diceva di aver veduta la Soleil a Torino al Circolo degli Artisti, e che aveva l’aria molto comme il faut; era un modo qualunque, ma buono, per far scontare a Lalla la sua freddezza di Santo Fiore e la sua accoglienza così poco gentile e poco incoraggiante. Lalla, partì da Borghignano col cuore gonfio di dispetto e di amarezza. Sentiva gelosia contro il Vharè, trovava che con lei s’era condotto assai male, le pareva di essere stata ingannata e tradita; insomma era molto infelice, e prometteva a sè stessa che, per vendicarsi, non l’avrebbe riveduto mai più. Invece, lo rivide presto, prestissimo; lo rivide tal e quale, col suo volto pallido e beffardo e colla sua aria alla lord Byron. Questa volta, guardando il Vharè, la duchessina sentì battersi il cuore con violenza, e per amore e per puntiglio, per far dispetto alla Calandrà, alla Bertù e a tutti i pettegoli di Borghignano che l’avevano angustiata, per punire gli imbecilli di Roma che l’avevano trascurata, e finalmente per il suo trionfo di donna, lo volle suo; volle rapirlo alla Soleil, volle rapirlo alla bella signora di Milano! La contessa Della Valle era andata in quell’autunno a Torino col babbo e col marito, per assistere alle feste della Mostra Nazionale di Belle Arti. Giorgio faceva parte della rappresentanza della Camera. Prospero diceva, ma non era vero, che gli seccava moltissimo quel viaggio — gli seccava per dover abbandonare sua moglie sempre malaticcia; ma come si fa?... Doveva alla sua volta rappresentare il Senato, — In verità, quando non c’era la Giulia, tutti i pretesti gli facevano comodo per andarsene a spasso e piantar la moglie, che, davvero, non era una compagnia molto allegra. Erano arrivati a Torino di sera e avevano preso alloggia all’Hôtel d’Europa, e subito erano scesi, tutti insieme, nella sala da pranzo. La sala a specchi, ad arazzi e a fregi dorati era illuminata con tre grandi lumiere cariche di globetti, di gocciole, di pestellini di cristallo sfaccettati. A quell’ora, tutte le tavole erano vuote, e solamente in fondo c’era ancora una comitiva di giovanotti eleganti e di ufficiali che si divertivano al giochetto della mela: un giochetto che consiste nel far girare attorno una mela infilata in un forchettone; ognuno dei commensali per turno, con un coltello deve tagliarne una fetta d’un colpo; chi fa cadere l’ultimo pezzetto ha perduto e paga lo sciampagna. Quando la Della Valle col duca Prospero entrarono nella sala, il giuoco era finito allor allora e lo sciampagna era stato perduto da un ufficiale, fra le grida e gli evviva dei vincitori: ma per altro appena comparsa una bella signora, tutta quella gente si calmò ad un tratto per guardarla. — È molto carina! È molto elegante!... Chi è? Lalla, seria seria, non voltò mai gli occhi verso quei signori, ma valendosi del giuoco degli specchi, aveva subito notato di aver fatto colpo; poi, improvvisamente, un colpo lo sentì lei al cuore: là, fra quella gente, c’era lui... il Vharè... Giacomo!... Lalla, non arrossì, non si confuse. Fu Giorgio, il primo, a riconoscere il Vharè e ad indicarlo agli altri, dopo aver salutato con un cenno cortese del capo, perchè, adesso, gli spiaceva di essere stato ingiustamente freddo con lui e quasi sgarbato. Il Vharè si alzò, rispondendo al saluto di Giorgio, e si avvicinò alla tavola della contessa Della Valle: strinse la mano a tutti e a Lalla, naturalmente, prima di tutti, senza mostrare il minimo turbamento; e dopo aver complimentato il loro arrivo a Torino, cominciò a discorrere del Morelli, del Michetti e di Satanella, un dramma nuovissimo che si recitava al Gerbino con grande successo. — Ci andremo domani? — chiese Lalla a Giorgio. — Come vuoi. — Temo, contessa, che non ci sarà posto: anch’io sono andato oggi per prendermi una poltroncina e non l’ho trovata. — Se i signori desiderano delle fauteuilles per il Gerbino, — soggiunse inchinandosi un cameriere — al bureau dell’hôtel credo ve ne siano ancora; una famiglia che le voleva per domani, e che deve partire improvvisamente, le lasciò disponibili. — Sappiatemi dire quante sono — ordinò Giorgio al cameriere. Questi uscì dalla sala e vi rientrò poco dopa con cinque poltroncine: dal numero 18 al 22. — Ne prendete una anche voi, marchese? — domandò Prospero Anatolio, rivolgendosi a Giacomo. Giacomo, non rispose subito, ma volle prima aspettare che Giorgio gli ripetesse l’offerta: allora soltanto accettò, ringraziando con un piccolo inchino. La contessa Lalla non aveva detto una parola: tuttavia, assistendo a quello scambio di complimenti fra suo marito e... quell’altro, non potè a meno di sorridere fra sè. La presenza del Vharè non le cagionava nessuna commozione: pareva che lo avesse veduto il dì innanzi, pareva che l’avvenente marchese non fosse mai stato altro per lei che un buon amico. Essa mangiava quietamente, silenziosamente ed anche con discreto appetito, godendosi a rosicchiare i grissini. Giacomo scambiò ancora qualche parola, poi raggiunse gli amici, che si erano alzati, e uscì con loro. — È un grande chiacchierone, ma ha un certo spirito!... — esclamò il duca Prospero, appena il Vharè fu scomparso. Il Della Valle approvò sorridendo, e non disse un ette contro il Vharè. Non voleva lasciar credere a Lalla di essere ancora in sospetto, e perciò cercava tutte le occasioni per mostrare la sua piena fiducia. Lalla continuava sempre a rosicchiare i grissini e non mostrava nessuna preoccupazione per quell’incontro inaspettato. Tutta la sera fu di buonissimo umore e affettuosissima col marito; ma senza premeditazione, così, perchè si sentiva contenta, perchè si sentiva allegra, perchè le piaceva di essere a Torino. Il Vharè portava sempre l’anellino che gli aveva regalato lei, quello del Frascolini, — la turchina colle rose d’Olanda, — e ciò l’aveva fatta sorridere di compiacenza; e di più, aveva notato che sotto ad una disinvoltura apparente, il Vharè era impacciato e confuso. Il giorno dopo, Giacomo non si lasciò vedere nè all’Esposizione, nè sotto i portici di Po e nemmeno all’albergo, all’ora del pranzo. Prospero Anatolio era malcontento di questo fatto, perchè lo avrebbe veduto volentieri per raccontargli tutte le feste e le cortesie di cui gli erano stati prodighi i Torinesi. Quella sera, dopo teatro, dovevano andare, lui e Giorgio, e accompagnati dal Sindaco di Torino, al Club del whist, e più tardi dovevano incontrare i ministri Miceli e De-Sanctis, coi quali erano stati invitati a colazione dal duca d’Aosta. Giorgio avrebbe fatto senza volentieri di quell’invito; ma ne sorrideva con compiacenza; invece Prospero Anatolio confidava a tutti che quella colazione era per lui una gran seccatura, una gran noia, ma internamente ne era beato. Il marchese di Vharè capitò in teatro quando il primo atto di Satanella era già verso la fine. Il Della Valle, salutandolo, passò nell’altra poltrona, rimasta vuota, e gli cedette il posto vicino a Lalla. Lalla, quella sera, non solo era piacente, ma pareva bella; vestiva un abito di seta, d’un bianco a fondo giallo, coperto di trine e chiuso sotto al mento. Dalle maniche corte si vedeva uscire il braccio nudo quando guardava col cannocchiale, o quando si appoggiava mollemente col capo ad una mano. Aveva un cappellone bizzarro, guernito colla stoffa e le trine dell’abito, e di sotto alle tese larghe e lunghe il visino di Lalla, cogli occhioni grandi, appariva ancor più birichino e più carino. Con un cenno del capo sorrise appena al Vharè, poi ritornò attentissima al dramma, rimanendo immobile, ed esprimendo una commozione vivissima. Il dramma, che in quel punto cominciava a diventare assai interessante, rappresentava una delle più ardite, delle più arrischiate variazioni sul tema eterno dell’amore. Satanella non era una donna; era un caso patologico. Essa inebriava di sè tutti quanti l’avvicinavano; e quando aveva fatto serpeggiare nei sensi dell’uomo un fuoco divoratore, ritornava fredda e impassibile. Cleopatra uccideva lo schiavo al quale il suo capriccio avea voluto concedere una notte di amore. Satanella, dopo i suoi baci, rendeva pazzo l’amante con un riso schernitore. Ma il poeta aveva rivestito il suo mostro con versi splendidi e ispirati; la maravigliosa attrice, che ne interpretava il carattere, oltre di aggiungervi il fascino delle forme magnifiche, sapeva infondervi tanta vita, tanta verità, tanto calore, che il pubblico, sedotto, si appassionava, si entusiasmava, s’innamorava anche lui di Satanella, e l’applaudiva con frenesia. Il pubblico è un gran fanciullo: a volte capriccioso, crudele, diffidente; a volte credulo, sublime, minchione; ma sempre fanciullo!... Alla fine del primo atto, Satanella s’incontra in un altro caso patologico; un giovane biondo e forte, che riuniva la ferrea volontà d’un tedesco all’anima divampante di un italiano. Il seguito del dramma rappresentava appunto la lotta e la sconfitta di Satanella. Essa spensierata, credeva di poter ripetere lo stesso giuoco anche con lui; ma si accorge subito che ha da combattere con un avversario ben diverso dagli altri, e ne rimane impaurita e sedotta. La iena, che ha fiutato il pericolo, si leva, si scuote, gli gira d’attorno sospettosa, vorrebbe affascinarlo, vorrebbe sorprenderlo, poi, scorata, intimidita, riunisce ogni suo sforzo e con un anelito supremo tenta all’improvviso la fuga, ma invano!... Il nuovo amante l’afferra con una stretta poderosa, la scuote, la doma, la vince, e Satanella soccombe volente e innamorata. Allora l’urlo di quelle due passioni che s’incontrano, che si urtano, che si confondono, solleva in tutto il teatro un’eco potentissima, e Satanella palpitante, spettinata, scolorita è chiamata, invocata sei, sette, dieci volte alla ribalta da un pubblico inebriato, che non si sazia di rivederla, di salutarla, di festeggiarla, che l’applaude e che l’adora. Lalla, pallidissima, aveva gli occhi molli di pianto, le labbra arse; era stanca, sbattuta dall’emozione. Quella donna così superbamente bella, quei versi di fuoco, tutti quegli applausi, quelle grida, quelle feste di una folla delirante; quell’aria greve, viziata della sala che le bruciava la faccia; quella luce, quei colori che l’abbarbagliavano, l’avevano confusa, sbalordita, trasportata. Non sapeva più dove fosse, non pensava più a nulla; questo solo sentiva, che il suo cuore batteva forte col cuore di Satanella. Verso la fine del terzo atto, quando la bella eroina, stanca di lottare, si getta impazzita alla sua volta, e impazzita d’amore, fra le braccia dell’amante gridando — hai vinto! — con uno slancio, con una espressione così potente da sollevare nel pubblico un urrà d’applausi, il Vharè toccò, accarezzò col piede il piedino di Lalla: Lalla non ritirò il suo; ma rispose a quell’invito con un premito più forte, e mentre lunghi brividi di voluttà la facevano fremere, essa, dimentica di tutto e, più di tutto, della vereconda ritenutezza che le era abituale, languidamente fissava Giacomo col seno anelante e colla bocca socchiusa, dalla quale pareva pure fosse per prorompere l’hai vinto di Satanella. Finito il dramma, Lalla rimaneva sempre muta e immobile. Fu Giorgio a chiamarla, a scuoterla dal suo rapimento. — Vuoi che andiamo, cara? — Allora ebbe un tremito: si alzò, senza rispondere; aiutata dal Vharè e da Giorgio, si accomodò intorno lo scialle; poi si mosse come trasognata, con Satanella dinanzi agli occhi, con la sua fosca passione nel cuore, e nella testa, ancora intontita, l’eco viva, assordante degli applausi. Si avviarono tutti insieme, passo passo, verso i portici di Po, per ricondurre Lalla all’albergo; piovigginava e c’era un’aria fredda, frizzante. Giorgio discuteva di Satanella come opera d’arte, e gli pareva immorale. Prospero Anatolio, altro che immorale, la giudicava addirittura indecente! Il Vharè pensava a tutt’altro, e Lalla stretta nello scialle, e senza saperlo, pensava anche lei a ciò che pensava il Vharè. — Non sono che le dieci e un quarto, — disse alla fine Prospero a Giorgio, cambiando discorso, — dobbiamo andare al club? — Come vuoi; ci fermeremo molto?... — No, no. Un’oretta, non più. Sono troppo stanco. — Vuoi fermarti al caffè? Vuoi prendere qualche cosa? — domandò Giorgio rivolgendosi alla moglie. — Ho detto alla Nena che mi farò il thè. Se posso offrirgliene una tazza, marchese?... Le farà bene. — Lalla, sorridendo, si era rivolta al Vharè, con una finezza tutta sua. Giacomo, capì l’amabile malizia e rispose un — grazie — che non era nè un sì, nè un no. — Quando ritorneremo dal club, — soggiunse Giorgio, — ne prenderemo una tazza anche noi; non è vero, Prospero? — Oh, per me, ti ringrazio. Appena sono libero, scappo a letto! Erano giunti sotto l’atrio dell’albergo. Il Duca strinse la mano alla figliuola e sollecitò Giorgio perchè si sbrigasse; ma Giorgio aveva ricevuto dal cameriere due o tre lettere e stava sfogliandole. Quando ebbe finito, Lalla e la Nena, la quale, avvisata del ritorno della padrona era scesa ad incontrarla, si avviavano su per lo scalone. Giacomo, intanto, era scomparso. — Dov’è andato il Vharè? — domandò Giorgio, che voleva salutarlo. — Non so, — rispose Lalla come distratta — non lo vedo. — Andiamo, fai presto! — borbottò Prospero, impazientito. — Mi aspetti alzata? — chiese ancora Giorgio a Lalla. Quella sera egli non sapeva staccarsene. — Sì. — Fra un’ora, sai; non di più. Addio cara. — Addio, Nino; vieni presto. Il conte Della Valle se ne andò col suocero. Lalla non sapeva, davvero, dove il Vharè si fosse nascosto; non lo vedeva più. Tuttavia, lo sentiva... Era lì... lo sentiva. Era lì presso... aspettando il momento di trovarla sola. Il quartierino della contessa Della Valle era un po’ alto; essa cominciò a salire le scale adagino, con un’indolenza fiacca e cascante, poi, quando giunse al primo piano, si fermò un poco, come per riposare, indugiandosi nella Sala di lettura, ordinando alla Nena di precederla, di accendere la lucerna ed il fuoco e di preparare il bouilloire per il thè. Rimasta sola, si era appena messa a sfogliare l’Illustrazione, quando Giacomo le comparve dinanzi. — Contessa, le domando perdono della libertà che mi prendo, ma avrei qualche cosa di suo da restituirle. — Così dicendo egli s’era tolto ed offriva a Lalla l’anello del Frascolini. Lalla lo prese, lo guardò, sospirò, poi, colla testina bassa, senza alzare gli occhi, prese la mano di Giacomo e tornò ad infilarvi l’anello. — Cattivo!... Mi dia il braccio. Mi sento stanca, stanca... Egli non si mosse: la guardava serio, fisso. Ma Lalla gli si avvicinò, e passando il suo braccio sotto il braccio di lui, cominciarono a salire insieme lentamente. Lalla doveva essere davvero molto stanca, perchè si appoggiava tutta al braccio di Giacomo, fermandosi ancora, ad ogni ramo di scala, con atteggiamenti pieni di amorevolezza; e siccome, ad un certo punto, Giacomo si fermò risoluto, come per domandarle conto del suo abbandono: — Ho avuto paura, — ella gli disse. — Dio, Dio: credevo morire dalla paura. Ero sola: li avevo tutti contro di me... Più tardi, mi sarei arrischiata a farle avere mie nuove, ma lei... lei, dov’era andato? — E non aggiunse altro; capiva bene d’essersi abbastanza spiegata e giustificata. Quando arrivò sull’uscio del suo piccolo quartierino si sciolse dal braccio del Vharè, entrò, attraversò l’anticamera, seguita da quell’altro, sempre un po’ imbronciato, e si fermò nel salotto: la Nena aveva accesa la lucerna, che da una campana smerigliata diffondeva una luce ristretta e tranquilla. Sul caminetto i fastelli scoppiettavano levando una vampa viva, mobilissima; sul tavolo, in mezzo alla stanza, una fiamma azzurra, debole, incerta, faceva grillettare l’acqua del thè. Lalla sciolse lentamente i lunghi nastri del cappellino, che la Nena portò nell’anticamera; ma lo scialle volle tenerlo, perchè aveva, freddo, e finalmente con un lungo — ah! — di soddisfazione, potè sdraiarsi sulla lunga poltrona accanto al caminetto. — Desidera altro, signora contessa? — No, va pure: quando tornerà il padrone ti chiamerò. La Nena uscì. Giacomo, immobile, diritto dinanzi al fuoco, appoggiato con un gomito al piano del caminetto, fissava Lalla senza parlare. La duchessina, così illuminata dal chiaror della vampa, aveva nell’insieme alcunchè di fantastico e di bizzarro. Lo scialle scuro, quasi nero, nel quale si teneva avvolta, contrastava coi colori chiari dell’abito, collo splendore delle braccia nude e coi vaghi riflessi dei capelli biondi, mentre il piedino, chiuso in una scarpetta a strie d’oro ricamate, sbucava fuori, colla punta sottile, come un serpentello curioso che, nascosto sotto le vesti, spiasse lo svolgersi di quel peccato. Giacomo non voleva esser lui a rompere il silenzio e, sempre più oscurandosi in faccia, batteva il tacco sulla pedana con un tic, tic, tac, convulso e minaccioso. E neppur Lalla ci si arrischiava a esser lei, e però di tanto in tanto fissava Giacomo con un’occhiata ch’era un rimprovero, un lamento e una preghiera, poi riabbassava il capo come mortificata, sfilando, con un moto delle dita febbrili, le frange dello scialle. Durò a lungo quella scena muta; ma, anche tacendo, avevano cominciato a spiegarsi, a intendersi, a concludere che si amavano ancora, finchè Giacomo, il quale adesso guardando Lalla, la bruciava più delle fiamme del caminetto, le si avvicinò all’improvviso, preso da una subita risoluzione, e — Sai — balbettò — sai di avermi fatto molto male?! — Lalla rialzò il capo un’altra volta e un’altra volta fissò Giacomo negli occhi; ma lo sguardo di lei non era più triste, non era più mesto; appariva inondato di dolcezza. Giacomo, chinandosi, teneva una mano stretta alla spalliera della poltrona. Lalla la vide e la baciò... la baciò, proprio, dove c’era l’anello colle rose d’Olanda... poi con un atto pieno di grazia infantile e di tenerezza, posò languidamente su quella mano la sua bella testina. Giacomo, pallido, tremante, s’inginocchiò per esserle più vicino, ma senza toglier la mano sulla quale ella aveva appoggiata la guancia, che scottava come avesse la febbre. Colle ginocchia, con mezza la persona, la duchessina toccava adesso il petto di Giacomo; ma non si ritrasse, non si mosse nemmeno; continuava a guardarlo, sorridendogli con passione infinita, e lui, inginocchiato fra le sue vesti, le raccontava con infinita passione, tutte le pene, le angoscie, lo strazio patito! Le disse di averla amata sempre, come un pazzo, come un delirante: le disse che invano aveva voluta odiarla; che invano avea tentato di dimenticarla, perchè la sentiva sempre nel cuore, nella mente, nel sangue, perchè la voleva. Lalla, continuava a tacere e a guardarlo, ma sotto la calda veemenza di quelle parole il suo volto ora sbianchiva affilandosi, ora arrossiva infocato; gli occhi umidi, profondi, lanciavano fiamme, e il petto le si sollevava anelante. Giacomo la strinse più fortemente, e colla mano che avea libera, prese una mano di Lalla, poi il braccio, e accarezzandolo ne seguì le linee morbide, tondeggianti, penetrando nei caldi misteri della manica larga, guernita di trine. Egli pure anelava, smorto, tremante. La voce gli si rompeva rauca, ma parlava sempre. Non era più un rimprovero il suo, non era più un lamento; era una preghiera audace, insistente, che tentava Lalla, che la stordiva, avvolgendola in un assopimento, in un’inerzia voluttuosa. Ella si teneva stretta intorno lo scialle e si teneva ancora colla testa appoggiata sulla mano di Giacomo, ma i suoi occhi, a poco a poco, s’erano spenti, aveva la bocca socchiusa, le labbra umide, tremanti, come se nell’estasi sua volesse rispondere coi baci a quell’inno d’amore... A Giacomo, frattanto, le parole uscivano sempre più rotte, confuse, poi tacque ad un tratto e baciò avidamente quella bocca umida, odorosa che lo tentava; baciò i capelli, gli occhi, di Lalla, la coprì tutta di baci. Lalla si scosse, abbrividì, spalancò gli occhi esterrefatta, ma poi, sciogliendosi dello scialle e sfavillando negl’improvvisi riflessi della sua veste gialla, cacciò le mani nei capelli di lui e balbettando — chiamami Satanella! — con voce rotta, soffocata — chiamami Satanella!... Satanella tua! — si abbandonò così, senza muoversi dalla poltrona, dimentica di tutto, senza lacrime, sorridendo, vinta dai sensi e dalle immagini che le tumultuavano nella mente. A poco a poco, quando il calore del loro sangue si fu intiepidito, quando all’ebbrezza delirante seguì il dolcissimo e lento risveglio, Giacomo, accoccolato alle ginocchia della sua cara, cercava di riprenderle la mano, ch’ella adesso teneva nascosta sotto lo scialle, per tornare ad accarezzarla; ma Lalla si ritrasse come una sensitiva, e con un’occhiata ed un sorriso significantissimi indicò la porta del salottino. Giacomo sorrise della loro imprudenza e del pericolo che avevano corso; passò nell’anticamera a vedere se l’uscio era chiuso, poi, rientrando, si tirò dietro e serrò colla molla anche quello del salotto e ritornò a baciarla, ad accarezzarla. — No, sai. Nino; ho paura, troppo paura... — gli rispose Lalla schermendosi. — Egli può venire, da un momento all’altro. ...Egli infatti entrava là dentro poco dopo, e vide il Vharè, diritto, vicino al fuoco, appoggiato al caminetto, che fumava parlando dell’Esposizione, parlando di quadri e di statue, e Lalla, sdraiata nella sua poltrona, avvolta, stretta nello scialle, che lo ascoltava un po’ stanca e un po’ assonnata. Sul fuoco la baldoria dei fastelli era finita; ma in mezzo al tavolo la fiammella azzurra, mobile, silenziosa della theiera, continuava a far bollire l’acqua che gorgogliava fumando. Nel salottino spirava un’aura di tranquillità e di pace che, certo, non dava nessun indizio delle passate commozioni, come, dopo la tempesta, la calma ritorna sul mare e vi diffonde una serenità limpida e gioconda che ricrea e che consola. Giorgio, entrando là dentro, col tepore dell’ambiente, sentì la soavità di quel benessere e di quella pace; però sorrise a Lalla, e si avvicinò al marchese di Vharè stendendogli la mano. XXVII Se a Torino il duca d’Eleda si dava buon tempo, ciò non voleva dire che l’amministrazione comunale di Borghignano navigasse in placide acque: tutt’altro; ed anzi Prospero Anatolio, terminate le feste e ritornato con Lalla e con Giorgio a Santo Fiore, non vi si fermò che un giorno o due, poi corse precipitosamente in città per scongiurare la crisi. Chiuso, solo solo, e sballottato nel suo coupé, egli meditava il piano di difesa. Non c’era da farsi troppe illusioni: lo stato delle cose era molto grave. Fra i più formidabili nemici sollevati contro la Giunta municipale dal nuovo progetto per la riforma delle gabelle e la cessione in appalto del Dazio Consumo si schierava, con un accanimento spietato, anche l’unico organo dell’opinione pubblica di Borghignano, il giornale l’Omnibus, che, di punto in bianco, mutato l’auriga e rotta l’alleanza di prima, s’era messo al servizio dall’Opposizione. Questo colpo, i costituzionali, la Giunta e il duca Sindaco, erano ben lungi dall’aspettarselo; capitò loro addosso, tra capo e collo, proprio come un colpo d’accidente. L’Omnibus, col fervore dei neofiti, non la risparmiava a nessuno — di quei signori della camorra — e menava botte da orbi: e ciò sia detto senza metafora, perchè appunto il suo nuovo direttore era orbo di un occhio: era il celebre Frascolini! Fra le varie ditte aspiranti all’appalto del dazio comunale c’era anche una Società Anonima, che s’era apposta costituita e della quale faceva parte l’antico direttore dell’Omnibus. Costui sostenne, da principio, a spada tratta, il progetto e le riforme proposte dalla Giunta, finchè ebbe la speranza che gli fosse aggiudicato l’appalto; ma poi, quando invece i signori del Municipio, non trovando abbastanza solide le garanzie proposte da quell’impresa, conchiusero il contratto con una casa bancaria di Genova, l’ira del direttore dell’Omnibus non ebbe più ritegno. Egli cominciò dal fare una guerra sorda, coperta all’amministrazione d’Eleda; ma, per quanto avrebbe desiderato, senza contradire tutti i precedenti della sua vita politica e giornalistica. Si trovava sbilanciato, in certo qual modo, combattuto fra l’utile proprio e il proprio partito, e cercava una via di cavarsela con decenza, se non con onore, e... di vendicarsi! In quei giorni, bazzicava spesso negli uffici dell’Omnibus, per l’appunto, il Frascolini, il quale voleva combinare colla medesima stamperia della gazzetta un contratto per la pubblicazione del suo giornale L’amico del contadino. Il direttore dell’Omnibus, da uomo pratico, subito, appena lo vide, trovò in lui tutte le qualità dello Sparafucile che tornavano bene al suo caso. — Coll’impianto di un giornale nuovo, tu, — e lo lusingavo con quel tu, buttato lì come a un confratello, — tu ci rimetti de’ bei quattrini per il gusto di dare al mondo un morto di più. Ti converrebbe meglio rilevare addirittura un giornale che avesse già i suoi abbonati, il suo nome, il suo pubblico, il suo ambiente insomma... mi capisci? — Eh, per capire, capisco; ma io voglio spiegare le mie forze, voglio combattere qui, su questa zona di territorio. — E chi ti dice il contrario? — Ma di giornali, a Borghignano, non vedo altro che il vostro; che il tuo! — E così?... Se vuoi, io te lo cedo! È una mia creatura, lo amo come un figliuolo, ma in questo caso so di affidarlo in buone mani. Sono vecchio, sono stanco, sono seccato di questa vita, di queste lotte quotidiane. Credilo, caro Frascolini, a lavare la testa all’asino ci si rimette il ranno ed il sapone e poi si corre anche il rischio di buscarsi dei calci per soprammercato. Comperare l’Omnibus?... Essere lui, Sandro Frascolini, il padrone, il despota(), quello che avrebbe dettata la legge a Borghignano?... Poter mandare all’aria, nello stesso tempo, il Duca d’Eleda costituzionale e il Della Valle progressista?... Ripresentarsi minaccioso, terribile, dinanzi alla signora Duchessina? — L’occhio di Sandrino, — peccato ne avesse uno solo, — scintillava fiammeggiando. — Ma... — c’era un ma. — L’Omnibus non è un giornale del mio colore. — E che importa?... Il colore d’un giornale è quello del suo direttore. Impara dall’America; perchè è dall’America che dobbiamo tutti imparare! — Sicuro... sicuro. E quali sarebbero le tue pretese? Io non ne ho molti da spendere. Allora intavolarono le prime proposte: un altro giorno si discusse più a fondo il negozio, e in una settimana e coll’intervento di un avvocato, scelto di comune accordo, fu combinato e accettato dalle due parti un contratto, in forza del quale, Alessandro Frascolini diventava il direttore-proprietario del giornale l’Omnibus, obbligandosi al pagamento di una certa somma, divisa in varie rate semestrali. La notizia della vendita e della compera dell’Omnibus scoppiò come un fulmine a ciel sereno: i moderati, quei della Giunta specialmente, ne erano rimasti sbigottiti e andavano dicendo roba da chiodi dell’ex direttore del giornale, chiamandolo un Girella, un venduto, un farabutto. Però si vedeva che erano avviliti e che cercavano colle chiacchiere, colle scappellate, colle proteste di liberalismo e di vera democrazia, di crearsi degli aderenti e parare il colpo. I progressisti, invece, insuperbivano ed esaltavano il coraggio, il patriottismo, la lealtà e soprattutto il carattere antico dell’ex direttore dell’Omnibus e, per sottoscrizione, indissero un gran banchetto in suo onore. In quanto poi al Frascolini, il nuovo direttore, nessuno lo conosceva; ma per gli avversari, cioè per i moderati, era una canaglia, una specie di mezzo analfabeta, un fallito, un porco; per gli altri il vero tipo del giornalista americano, un carattere integerrimo, un grande amico di Cairoli e di Zanardelli. Il Caffè di Borghignano era stato il centro di tutte queste commozioni; mattina e sera, non vi si parlava d’altro. Là si sparse, per la prima volta, la notizia della vendita dell’Omnibus e là arrivarono le prime informazioni intorno alla somma pattuita nel contratto, somma che subiva rialzi e ribassi favolosi; là si discutevano con pazienza e con amore i vari articoli del contratto. Il notaio che doveva redigerlo era uno della comitiva, e il giorno in cui fu messa la firma i progressisti e moderati del Caffè, tutti uniti e d’accordo, lo aspettarono curiosi, e appena capitò dentro gli furono addosso, se lo strapparono l’un l’altro di mano, soffocandolo sotto una grandine fitta fitta di domande, tante domande che non gli lasciavano nemmeno il tempo di rispondere, di capire, di tirare il fiato. Figurarsi poi come rimasero la prima mattina che il Frascolini, con un fascio di giornali sotto il braccio (la posta del mezzogiorno), entrò nel Caffè a far colazione: pareva che tutti quegli avvocati e tutti quei cavalieri avessero mutato mestiere e vocazione: stavano attenti e attoniti a guardarlo, a studiarlo, ad ammirarlo, senza fiatare. Il Frascolini, intanto, duro duro, faceva colazione, sfogliava i giornali, con un gran sussiego, e strapazzava democraticamente il cameriere. Quando ebbe finito e se ne andò via, scoppiarono tutti insieme a gridare pro e contro il nuovo direttore; e si riscaldavano specialmente per quell’occhio che gli mancava. Lo aveva perduto in battaglia — no — lo aveva perduto in un duello — no — era stato accecato da un questurino durante una dimostrazione; — ma nessuno sapeva o diceva la verità. Tutto questo gran rumore era quello che precede lo scoppio del temporale; e il temporale in fatti, anzi la tempesta, si scatenò sulla Giunta con articoloni sesquipedali che tuonavano fino dal titolo: Fame e camorra — I proletari — La tratta dei bianchi — L’agonia di un delinquente, ovvero gli ultimi giorni dell’Amministrazione d’Eleda, — catilinaria, infocata contro il duca Prospero Anatolio, — I tentennanti, ovvero i rossi di ieri, — fiera botta, diretta contro il deputato Della Valle. Giorgio alzava le spalle e non ci badava; tutt’al più quelle sfuriate senza logica e senza grammatica lo mettevano di buon umore; ma il duca d’Eleda, che a Borghignano era sempre stato trattato coi guanti, leccato, adulato, ed anche discusso, ma col rispetto col quale si discutono le cose sacre, il povera duca d’Eleda, a sentirsene dire di cotte e di crude, e da un Frascolini qualunque, s’infuriava e diventava di tutti i colori, come i capelli del Rebaldi. Cominciò col dire che quel Frascolini bisognava farlo bastonare; che era un ignorante, un mariuolo; ma a mano a mano che quell’altro aumentava la dose delle ingiurie s’intimoriva sempre di più, e considerava l’Omnibus come una forza, e domandò a Giorgio s’egli non credeva fosse il caso di avere un’intervista per sapere, almeno, da quel Maramaldo, qual era lo scopo de’ suoi attacchi, della sua guerra insensata. Il conte Della Valle non ne volle sapere; anzi, disse chiaro al suocero, che un tal passo, disdicevole sempre, nel loro caso particolare, sarebbe stato ancora più sconveniente e indecoroso, e gli lasciò trapelare qualcosa delle strambe impertinenze del Frascolini verso Lalla. — Ah, già, già! Allora... allora, sicuro; bisogna lasciar correre!... — rispose sospirando Prospero Anatolio; ma nel suo interno pensò che Giorgio non era altro che un famoso egoista. — Certo, — borbottava, — a lui le tirate di questo ciuco imbizzarrito non possono far nessun danno, e per questo si diverte a lasciar correre e a disprezzarlo. È infeudato, lui, nel suo collegio, e se quell’altro gli grida contro che smonta di colore questo gli giova, invece di nuocergli. Nel Consiglio Provinciale, poi, le votazioni sdrucciolano come l’olio! Ma vorrei vederlo un po’ ne’ miei panni. Oh, se vorrei vederlo, colla marea che monta e la tempesta che soffia da tutte le parti!... Quel becero affamato voleva fare il patito a Lalla?... Sciocchezze!... Sarà stato ubriaco, appunto come lo è sempre, anche quando scrive. Del resto Lalla è come la Giulia; a sentirle tutti s’innamorano come matti, appena le vedono, principi e villani!... E intanto chi si cura, chi si dà pensiero di questo povero vecchio?... Nessuno. — Ah, Signore Iddio, che mondaccio egoista! — e il duca sospirava, alzando gli occhi al cielo. Quando, dunque, il senatore d’Eleda, sballottato nel suo coupé, ritornava da Santo Fiore a Borghignano per prepararsi alla battaglia ultima e definitiva, egli riandava nella mente tutta la storia degli ultimi avvenimenti si affaticava indarno per trovare, nel buio fosco e minaccioso, una qualunque via di salvezza. La sua condizione e quella della Giunta era ancor più disperata perchè non potevano disporre d’un giornale per difendersi dalle accuse, per dissipare gli equivoci, per soffocare le calunnie che inventava e diffondeva l’Omnibus quotidianamente. Tutt’al più dovevano limitarsi a far scrivere corrispondenze su qualche giornale di fuori, che poi arrivavano in ritardo a Borghignano e che l’Omnibus riproduceva stronche e alterate, con cappelli e code che toglievano loro ogni efficacia. Si era pensato, in quel frangente, di pubblicare un altro giornale, ma ormai era troppo tardi: un giornale nuovo non avrebbe avuto tempo di acquistarsi il credito, e uscito proprio all’ultima ora, apposta per difendere il Sindaco e la Giunta, avrebbe fatto più male che bene. — Se il Frascolini fosse stato un uomo onesto e... abile? Perchè non provare... cercando d’illuminarlo sulla vera condizione delle cose?... Uno scopo, e recondito, ci doveva pur essere che lo spingeva in quella guerra fiera e sleale. Bisognava cercare di conoscerlo questo scopo e poi... poi chi sa; colle buone avrebbero forse potuto addomesticare la bestia!... Ma!... Tuttavia... tuttavia se il signor conte Della Valle era un famoso egoista, il duca d’Eleda non voleva essere un minchione, e non era obbligato a seguirlo, tanto più che militavano ciascuno in un campo opposto. D’altra parte il Sindaco di Borghignano aveva non solo la sua Amministrazione da difendere, ma eziandio l’utile superiore del partito, al quale doveva sacrificare anche il risentimento personale. Poteva andare incontro a certa rovina, senza tentare ogni via per scongiurarla? Poteva assistere impavido alla sua prossima sconfitta? Poteva vedere, in una parola, minacciato il reale benessere di Borghignano, della sua diletta Borghignano, senza tentare, per quanto almeno era fattibile, di scongiurare la catastrofe?... Sicuro, era assai penoso il dover scendere a spiegazioni con un Frascolini qualunque; ma, e perciò?... Doveva egli arrestarsi sulla via del dovere? — No, mai. — Quel passo era penosissimo, ma bisognava compierlo od ogni modo. Forte della sua coscienza, avrebbe sacrificato l’uomo privato all’utile del paese. Egli certo non voleva essere un perfetto egoista come il conte Della Valle; quel suo caro signor genero senza carattere, senza coraggio, senza iniziativa. Meditato e approvato il bel disegno, Prospero Anatolio volle subito metterlo in esecuzione, e appena giunto a Borghignano mandò un bigliettino al direttore dell’Omnibus, pregandolo d’indicargli un’ora nella giornata, per discorrere insieme su vari argomenti di interesse pubblico. Il Frascolini aspettava e desiderava da molto tempo un simile invito, e per ottenerlo più presto spingeva ogni giorno di più la violenza e l’acredine della sua polemica. Egli aveva dubitato, prima ancora di rivederla a Santo Fiore, che anche l’ultima promessa di Lalla fosse stata una promessa bugiarda come tutte le altre. Ma quando s’incontrò con lei; quando la rivide, sebbene perdesse allora anche l’ultima illusione, tuttavia l’immagine di quella creatura fatale gli riaccese nel sangue un tumulto di memorie e di desideri, che la lontananza aveva solo intiepidito. La contessa Della Valle, colla sua indifferenza superba, non riuscì a cancellare Lalla dal suo cuore, soltanto, prima vi era circonfusa d’amore, e adesso invece, quella figuretta gentile vi sollevava impeti feroci di gelosia e di odio. Sandro era smanioso d’incontrarla, di rivederla, di ridestare in lei qualche sensazione, fosse pure di sgomento, di essere ancora qualche cosa nella sua vita, fosse pur la sventura. Egli la vedeva sempre, aveva sempre la signorina, viva, dinanzi agli occhi; e nelle ore tetre, uggiose del giorno e nei lunghi sogni affannosi delle sue notti, tutto era pieno del sorriso, dei capelli biondi, del viso di lei, ora acceso d’amore, ora freddo e ironico ed ora pallido, scolorito, come in quei tempi beati delle loro angosciose ebbrezze di fanciulli. Non curato dalla contessa Lalla, egli cercò della Nena colla quale aveva sempre tenuta viva l’amicizia, pensando di valersene in ogni evenienza; ma non potè trovarsi con la Nena che una sol volta, perchè la padroncina, già informata da miss Dill, aveva vietato aspramente alla cameriera di avere rapporti e tener colloqui col Frascolini. Sandro, finchè rimase a Santo Fiore, non amava più, odiava la duchessina, e avrebbe dato tutto il suo sangue, pur di riuscire a vendicarsi. Tuttavia, quando egli si trovò a Borghignano, a cassetta dell’Omnibus, da quella posizione elevata sperò ancora di poter giungere fino alla contessa Della Valle; e a mano a mano che nella sua fantasia vagheggiava un seguito avventuroso di quell’amore infelice, l’odio nuovo svaniva e ritornava l’antico affetto colle belle illusioni e le sue belle speranze. Nella breve dimora che la contessa Della Valle fece quell’anno a Borghignano, ritornando da Nervi per andare a Santo Fiore, il Frascolini cercò d’incontrarla ma non gli riuscì: incontrò invece la Nena, e allora, e perchè gli piaceva, essendo un bel pezzo di ragazza, e perchè avrebbe potuto valersene per vedere e spiare in casa della padrona, strinse i nodi a quell’amoretto; e una domenica, dopo averla condotta a passeggiare per viuzze deserte, la fece capitare nelle vicinanze degli uffici dell’Omnibus, che erano nella casa medesima dove c’era la tipografia del giornale, e dov’egli aveva il suo alloggio. Sandro, fingendo d’essere capitato a caso in quel luogo, offerse alla Nena di condurla a vedere le macchine: ma poi, dopo le macchine, dopo la stamperia, forzandola un po’, violentando i no — no — debolissimi, paurosi ch’ella opponeva, volle mostrarle anche il suo quartierino e lì... E quando la Nena pallida, sconvolta uscì da quella casa, confessava a se stessa di aver fatto male, assai male, a disubbidire la padrona e a ritornare a discorrere col signor Sandrino. Ma, oramai, era inutile il rimpianto, e la Nena, che aveva un debole per quel bel ragazzo e che in lui, anche adesso che il Frascolini aveva un occhio solo, vedeva sempre l’eroe dei Due Sergenti, da quella domenica in poi fu roba sua, tutta sua, anima e corpo. Povera Nena!... Era tanto innamorata da non accorgersi nemmeno, da principio, che il suo amante le parlava sempre della sua padrona, più della sua padrona che di lei; ma ci badò più tardi e ne fu gelosa, e ne pianse. In quel tempo, ricomparsa Lalla a Borghignano, si ritornò a discorrere dei suoi amori col Vharè, e la notizia giunse naturalmente anche alle orecchie del direttore dell’Omnibus, il quale, allora, ritornando a perdere le speranze, ritornò ad odiarla e d’un odio ancor più feroce di prima, perchè oltre di non amarlo più lui, Lalla adesso faceva peggio, ne amava un altro. Domandò subito alla Nena, in uno di quei loro ritrovi domenicali, se era vera, propriamente vera la — infame tresca — ; ma la Nena gli rispose negando tutto e arrabbiandosi contro quelle pitocche di Borghignano che dicevano male della sua padrona perchè era più bella e più ricca di loro. — Se la signora contessa, — concluse poi — aveva agito male con lui — Sandro le aveva raccontato che era stata la sua amorosa e che erano stati soli insieme e che si erano baciati per notti intere — se la signora contessa aveva agito male con lui, bisognava scusarla, perchè allora era ancora una bimba, e non sapeva quello che si facesse, ma adesso era un angelo di virtù, e non amava altri che il signor conte. Simili assicurazioni non calmavano certo il Frascolini: la signora contessa non avrebbe dovuto amare nemmeno suo marito, anzi suo marito meno degli altri. Non gli aveva giurato che lo sposava per forza? Tutte queste contradizioni, tutti questi opposti sentimenti ispiravano ogni atto della vita del Frascolini e perciò egli aveva voluto far paura al duca Prospero perchè il duca, smessa la superbia, si facesse umile e cercasse di cattivarselo per averlo alleato, se non amico. Il Sindaco di Borghignano non aveva obbligo di usare molta deferenza verso il quarto potere? verso gli uomini dell’avvenire? E se lui, Frascolini, lo attaccava anche ingiustamente, non era tenuto a invitarlo a reciproche e franche spiegazioni? Non doveva illuminarlo perchè potesse condurre il suo Omnibus sulla buona strada?... Sicuro, Sandro Frascolini non desiderava altro che questo: condurre l’Omnibus sulla buona strada, e lo desiderava per le aspirazioni del proprio cuore prima di tutto... ed anche per certi interessi, che egli chiamava — di tipografia. — È poi da notare che in questi ultimi tempi il Frascolini si era di molto dirozzato e aveva perduto un po’ di quelle sue arie di cantante a spasso che lo facevano primeggiare nelle sedute burrascose del Circolo democratico degli Operai Agricoltori. Sandro Frascolini entrò dal duca d’Eleda, serio, impettito, colla tuba e col vestito nero: il duca, gli corse incontro, scusandosi graziosamente di averlo incomodato; gli prese la mano che strinse cordialmente, con effusione, fra le sue, e lo fece sedere sul canapè. Allora Prospero Anatolio cominciò a ricordare l’antica famigliarità dei Santo Fiore coi Frascolini; gli disse che si ricordava di lui, Sandro, quando era ragazzo e che si ricordava di suo padre col quale era stato sempre in ottimi rapporti — un uomo integerrimo operoso, intelligente!... — E a mano a mano commovendosi, concluse ch’egli aveva creduto di evocare tante care memorie per scusare e per spiegare in certo modo, il grave passo fatto dal Sindaco di Borghignano verso l’egregio uomo che dirigeva l’Omnibus, dal quale (e qui cominciava un pochino a riscaldarsi) egli non si sarebbe mai aspettato una guerra accanita, personale, ingiusta; no, mai, perchè si era abituato a considerarlo come un amico!... Sandro, a questo punto, credeva che il duca avesse finito, ma questi, invece, non si fermò nemmeno per pigliar fiato e non lasciandogli il tempo di risponderci cominciò a giustificarsi, a difendersi, saltando() da un argomento in un altro, dal Dazio Consumo alle Riforme, dalla Costituzione alla Progressista. Poi tornò a commoversi, a intenerirsi, e finì coll’aggiungere che quella guerra dell’Omnibus, — accanita, personale ed ingiusta — aveva dato un gran dolore anche alla duchessa Maria, alla sua moglie diletta e... e (sospirò) e così malandata in salute. Il Frascolini aveva la testa piena, confusa da tanti discorsi; non sapeva che cosa dire, non sapeva come regolarsi, non sapeva più se doveva accusare o se doveva difendersi. — Veramente — cominciò poi, lisciando adagio, col palmo della mano, il cappello a cilindro, — veramente, la polemica sostenuta del nostro giornale non è diretta al duca d’Eleda, ma all’Amministrazione del Comune. — E all’uno e all’altra, amico mio; ed anzi, se volete dirlo francamente, forse più all’uno che all’altra, ed è ciò che mi addolora, ed è ciò che mi sconforta, come uomo privato e come uomo pubblico. — Io posso aver sbagliato, avrò sbagliato... ho sbagliato! Ditemelo voi, chi è infallibile a questo mondo?... Ma l’Omnibus, viva Dio, mi attacca anche nelle intenzioni!... Sono in errore?... Le mie idee non si accordano colle vostre?... Il progetto delle nuove riforme, che mi costa tanti studi, tante veglie angosciose, lo giudicate improvvido?... Ebbene, discutiamolo! Dio buono, discutiamolo! Io non domando di più, non domando di meglio: discutere!... E se mi convincerete che sono in errore, sarò io il primo a ringraziarvi e a sottomettermi, perchè, credete, egregio e caro amico, io non sono un ambizioso! Io amo il mio paese al quale ho sacrificata la quiete, la vita: ecco tutto! — Scusate — replicò Sandro, mettendo il cappello sopra una sedia, e familiarizzando con quel voi che gli accarezzava l’orecchio. — Scusate, ma ammesso, come dite, che l’Ominibus abbia combattuto qualche volta il duca d’Eleda, ha combattuto solamente l’uomo pubblico, e non ha mai tirato in ballo l’uomo privato, quantunque... — Grazie tante, ma... — Lasciatemi finire! Quantunque anche l’uomo privato, abbia aspirazioni diametralmente opposte a quelle che informano la nostra vita di pubblicisti; perchè mentre noi siamo gli uomini dell’avvenire, siamo l’avanguardia, siamo... siamo... dirò così... — Il direttore dell’Omnibus cercava un’altra bella frase per tornir meglio il periodo, ma non riuscendo a imbroccarla dovette troncarlo a mezzo: — siamo liberali insomma, — soggiunse, — e voi no!... — Ecco l’errore!... Ecco l’equivoco!... Ecco la grande Ingiustizia! — Non siamo liberali noi? — Non sono liberale io? — E Prospero Anatolio accavallò una gamba sull’altra, dondolandola democraticamente. — Non sono liberale?... Liberale lo sono quanto voi, più di voi. Sissignore! Solamente non voglio correre, voglio camminare... per non dover precipitare, o peggio, per non dover tornare indietro. — A questo punto il duca Prospero sfoggiò un’eloquenza tribunizia da far strabiliare. Citò la Francia e la Germania, l’Inghilterra e l’America, il conte di Cavour e Leone Gambetta, gli ultramontani e i nichilisti, i fatti delle Romagne, Cantelli e la spedizione di Crimea; il quarantotto, il novantatrè ed il settanta; la legge elettorale, l’abolizione del corso forzoso e la trasformazione dei partiti. I partiti — concluse finalmente, — che cosa vogliono, che cosa rappresentano i partiti in Italia? Qual’è la vera demarcazione fra la destra e la sinistra, tenuto calcolo, specialmente, delle oscillazioni dei centri? Noi, vedete, amico mio, noi dai nostri stalli tranquilli del Senato teniamo d’occhio la baraonda della Camera giovane e... Volete proprio sapere qual’è lo studio più assiduo che vediamo farsi là dentro? Quello di cercare una scusa tutti i giorni, tutti i giorni un pretesto nuovo, per non venire fra destra e sinistra a spiegazioni reciproche, per continuare nell’equivoco, altrimenti, — è chiaro come il sole — destri e sinistri non avrebbero ragione di esistere. — Prospero Anatolio scoppiò in una risata, il riso fa buon sangue, e il Frascolini approvò. — Ma vedete, duca Prospero — cominciò dopo un momento di silenzio, — noi... — Noi siamo radicali?... È questo che volete dire? — Appunto; rispose il direttore dell’Omnibus, — noi siamo radicali. — Ma Dio mio, caro Frascolini, chi oggi non è radicale, non è repubblicano... in teoria?... Ci si cammina, non dubitate, ci si cammina, verso la repubblica; ma se non vogliamo esser noi stessi i necrofori dell’opera nostra, dobbiamo attendere lo sviluppo naturale degli avvenimenti, dobbiamo preparare il terreno gradatamente, dobbiamo educare il popolo a questa libertà benedetta, se no, gli potrebbe dare le vertigini! Ricordate le parole di un mio amico carissimo: — fatta l’Italia, bisogna fare gl’Italiani. — E perciò, è necessario uno scambio d’idee, un connubio, direi quasi, fra gli uomini della permanente, gli uomini di ieri, come sono io, cogli araldi della rivoluzione, cogli uomini del domani, come siete voi. Il Frascolini non ci capiva più nella pelle!... Quantunque avesse viaggiato, fosse stato applaudito nella Favorita e si trovasse ora alla direzione dell’Omnibus, in fondo in fondo egli restava sempre il ragazzotto di Santo Fiore, che, per tradizione di padre in figlio, riconosceva nel duca d’Eleda una autorità istintivamente subìta e che la lettura dei Misteri del Popolo aveva scossa, ma che non era riuscita a vincere interamente. Quella familiarità del signor duca, quel voi alla buona, quell’amico mio, quel carissimo Frascolini lo facevano arrossire di piacere, e per il momento non avrebbe potuto desiderare di più. Dalla burbanzosa protezione del signor Domenico, il sindaco sensale di Santo Fiore, era arrivato all’amicizia del duca d’Eleda! — Nei primi giorni del suo amore, — quando Sandrino passeggiava per la campagna solo solo, colle mani in tasca e il sigaro spento in bocca, fantasticando il romanzo del proprio avvenire, egli non era giunto ad immaginare un capitolo più luminoso. Che cosa ne avrebbe pensato la contessa Lalla sentendo suo padre parlare con ammirazione del carissimo, dell’onorevole Frascolini?... Egli le aveva giurato che sarebbe arrivato a farsi un nome, una posizione e... e Prospero Anatolio lo chiamava amico, lo invitava in sua casa e lo trattava da pari a pari!... Oh la cara signora contessa avrebbe veduto bene come le sue promesse egli sapeva mantenerle! Intesi e d’accordo in massima, sulla politica interna ed esterna, si cominciò a discorrere diffusamente intorno al progetto sulla riforma delle gabelle ed alla cessione in appalto del Dazio consumo; l’argomento del giorno, come diceva il duca d’Eleda, o la questione vitale e palpitante, come la chiamava Sandro Frascolini. Il duca Prospero, cominciò allora a spiegare, al direttore dell’Omnibus, tutti i vantaggi morali e materiali che dovevano venire da tali riforme alle esauste finanze del Comune; gli fece toccar con mano che l’opposizione era mossa da interessi privati, e riuscì facilmente a convincerlo che il partito, il colore politico, ci entrava come il cavolo a merenda. Il Frascolini, dopo di aver conservato un silenzio severo, e dignitoso, verso la fine del discorso approvò le conclusioni del duca d’Eleda con un lento chinar del capo; ma fece aspettare un qualche minuto il proprio responso. Pareva incerto, dubbioso, stringeva le labbra, chiudeva gli occhi, come per raccogliere meglio i pensieri; ma poi, finalmente, stendendo la mano a Prospero Anatolio che lo guardava sospeso: — Ebbene, sarò franco, — gli disse; — le vostre spiegazioni mi hanno quasi... non dirò... Mi hanno scosso in molti punti. — Ne ero certo, — esclamò il duca — ma è troppo giusto; voi, caro direttore, non dovete credere soltanto a me, non dovete prestare cieca fede alle mie parole. — no e poi no; — ci dovete veder dentro coi vostri occhi. — A questo punto il Frascolini, che degli occhi ne aveva uno solo, diventò rosso visibilmente, e l’altro si accorse d’averla detta grossa; ma tuttavia al duca d’Eleda non mancava lo spirito, e tirò innanzi diritto senza interrompersi e senza nemmeno tentare di correggersi. Pregò il caro direttore a voler ritornare la sera di quello stesso giorno, alle nove. Avrebbe trovato gli altri membri della Giunta e così, dedicando al loro nuovo progetto un maturo e coscienzioso esame, egli avrebbe veduto se non fosse stato il caso, invece di combatterlo, di appoggiarlo. — Borghignano, — concluse poi, accompagnando l’egregio amico verso l’uscio del salotto, — Borghignano attraversa un periodo molto grave. Se io fossi un egoista, dovrei desiderare una maggioranza sfavorevole. Sicuro! Ho bisogno di riposo; mia moglie sta sempre poco bene e poi... e poi sono trent’anni, capite, caro Frascolini, sono trent’anni che combatto e che sto sulla breccia!... Se ne discorreva appunto anche l’altro giorno a Torino, col duca d’Aosta. La lotta, la battaglia non mi ha mai fatto paura. Anche trent’anni fa, vedete, io ero ritenuto un clericale; e allora, anche più d’adesso, — e sapete perchè? — Perchè sono sempre stato l’uomo dell’ordine, della prudenza, perchè ho predicato sempre, nella Camera e fuori — piano piano, chi va piano va lontano! E, infatti, ditemelo una buona volta, francamente; se non c’era una maggioranza che votasse le guarentigie, credete voi che i Governi stranieri avrebbero accettato i fatti compiuti?... — No!... — Oh! bravo!... Che ci sia almeno un uomo del vostro valore che mi rende giustizia. Chi ama il proprio paese, deve sacrificarsi, sfidando l’impopolarità, ed io mi son sempre sacrificato;... Dunque, come vi dicevo... vi dicevo che... ah, ecco, per me, se questa volta il Consiglio mi dà, come si dice, il voto nella schiena, io lo ringrazio tanto e lo saluto. Mi ritiro, domando la giubilazione!... E non ci avrei altro che da guadagnare. Tuttavia (lasciamo da parte, adesso, la mia persona), ritenendo che in questo momento la caduta dell’Amministrazione potrebbe essere causa di gravi danni al nostro credito, così, per non avere rimorsi, cerco, tento di tenere in piedi la baracca. Se poi non riesco, sia detto in amicizia, fra di noi, — e il duca d’Eleda si guardò attorno, come per assicurarsi che nessun indiscreto fosse lì,— ad ascoltare, — sia detto in amicizia, se non riesco, tanto meglio! Dal salotto, sempre discorrendo, Prospero Anatolio accompagnò l’onorevole pubblicista nell’anticamera, uscì con lui fino sullo scalone, e lì con un — dunque, a questa sera — ultimo e definitivo, gli tornò a stringere tutte e due le mani con espansione vivissima. Sandro uscì dal palazzo d’Eleda felice, raggiante. Era arrivato finalmente!... Venivano a patti con lui, tutti quei cani di signori!... E quando si trovò solo in ufficio, non si potè più trattenere e fece un salto dalla gioia, canterellando, colla sua bella voce da tenore, un’arietta del repertorio favorito. E la contessa Lalla?... Oh la cara contessa sarebbe stata sua! Ne era tanto sicuro, che non la odiava più, tornava a volerle bene. La sera andò alla riunione della Giunta. Fra quei parrucconi si tenne sulla sua, usando il noi con molta affettazione, parlando lungamente di Law e del libero scambio; ma, nello stesso tempo, lasciandosi menare bellamente per il naso. Si combinò che l’Omnibus, riservandosi piena libertà d’azione per l’avvenire, in quel dibattito finanziario avrebbe appoggiata la Giunta. Il Frascolini ammise di non aver prima studiato a fondo il nuovo progetto, fidandosi di alcune notizie inesatte che gli erano state esposte; però, adesso, meglio informato, sentiva di doverlo difendere. Dichiarò di appartenere al grande partito democratico, ma di non essere al servizio di nessuno, e che non voleva imposizioni altro che dalla propria coscienza. Il giorno dopo, fra la maraviglia e i più disparati commenti, uscì un articolo nell’Omnibus — Serio esame, ovverosia le nuove riforme — col quale il Frascolini trattava la questione dal punto di vista puramente economico. Era un passo indietro, fatto apposta per prendere lo slancio e saltare il fosso. Al primo articolo, infatti, tenne subito dietro il secondo: — La politica in Municipio — sostenendo l’Omnibus che il Consiglio comunale non doveva fare politica, ma soltanto una buona amministrazione; e poco dopo buttò via la maschera, schierandosi con tre colonne di Franche parole, ovvero gli interessi cittadini — fra i più caldi sostenitori del progetto presentato dalla Giunta. Allora fu la volta pei costituzionali di andare in giro pettoruti, ed erano invece i progressisti che scantonavano mogi mogi e costernati, dicendo corna dell’amico integerrimo di Cairoli e di Zanardelli. Frattanto il giorno della battaglia si avvicinava e non c’era da farsi illusioni. O il progetto presentato dalla Giunta era approvato dal Consiglio, e allora l’Amministrazione d’Eleda restava al potere, oppure veniva respinto, e bisognava dimettersi. Fra i soliti avventori del Caffè di Borghignano c’era un orgasmo febbrile. La mattina, all’ora di colazione o la sera, dopo il teatro, non si faceva altro che scrivere col lapis, sui tavolini di marmo, il nome di tutti i consiglieri comunali, mettendo in fila — separatamente — quelli che avrebbero votato per il sì, e quelli che avrebbero votato per il no, poi facevano le somme; ma risultava sempre sul tavolino dei progressisti la maggioranza pel no, e su quello dei costituzionali pel sì. Alla vigilia della gran seduta, la Giunta e i suoi aderenti si abboccarono un’ultima volta col Frascolini, in casa d’Eleda. Fu convenuto, dopo una discussione molto vivace, di pubblicare l’indomani stesso sull’Omnibus un ultimo articolo cannonata. L’Omnibus sarebbe uscita apposta un’ora prima del solito, e l’articolo col titolo — All’ultima ora — era stato scritto da un egregio avvocato, segretario della Costituzione e fabbricere del Duomo. Fu discusso, corretto in qualche punto, e poi raccomandato caldamente al direttore. Il Frascolini lesse ancora l’articolo per suo conto, lentamente, sotto voce, poi stringendo le labbra, concluse: — Non c’è malaccio, ma è troppo lungo. Chi lo ha scritto, si capisce, non è del mestiere. Tuttavia, per accontentarvi, non adopreremo le forbici: lo faremo soltanto precedere da due righe di cappello. — No, non occorre! — esclamarono tutti gli altri spaventati, tranne il d’Eleda, che quella sera si mostrava abbattuto assai. — Lasciate fare, lasciate fare: — rispose il Frascolini coll’aria seccata. Egli mostrava un gran sussiego, proprio come se nel suo Omnibus portasse a spasso l’Europa. Ma il cappello si ridusse poi ad una sola aggiunta nel titolo, che fu stampato così: — All’ultima ora, ovvero Voto e Coscienza. E venne il domani, finalmente, quel domani memorabile, aspettato con tanta apprensione! Il Consiglio era quasi al completo, le tribune affollate: la lotta fu accanita d’ambo le parti. Il piccolo avvocatino dei progressisti, il Robespierre in sedicesimo, fu eloquente, impetuoso, terribile. L’altro, l’avvocato dei costituzionali, pacato, forbito e prudente, sgattaiolava a destra e a sinistra, di modo che il fulvo campione della democrazia terminava col tirar colpi al vento e perciò, qualche volta, perdeva le staffe; ma caduto una volta, si rialzava più inferocito. L’uno combatteva le riforme e la cessione del Dazio consumo, nel nome della giustizia e della fame del popolo, e citava l’America; l’altro le difendeva per la salute della finanza, per il benessere morale e materiale del paese e della famiglia, e citava l’Inghilterra. Esaurita la discussione, quando fu il momento di passare ai voti, Prospero Anatolio, pallido, la fronte molle di sudore, suonò il campanello con mano tremante. Il momento era solenne e definitivo per l’una parte e per l’altra. Si sa bene, moderati e progressisti avevano tutti sotto gli stivali il Dazio consumo e la riforma delle imposte! Adesso, la questione vitale, palpitante, come diceva l’Omnibus, era una sola: la Giunta e i moderati volevano restare al potere; i progressisti, invece, volevano rovesciarli, per mettersi al loro posto. Erano tutti in piedi! giù i consiglieri negli stalli, e su, in alto, i curiosi delle tribune. Prospero Anatolio soltanto rimaneva seduto: era commosso, gli tremavano le gambe. Il silenzio era imponente e si sarebbe udita una mosca a volare e due farfalle a fare all’amore... Finalmente si conobbe l’esito della votazione; il progetto della Giunta era stato accettato con due soli voti di maggioranza; e il risultato fu accolto con grida, con applausi, con l’entusiasmo d’ambo le parti. Erano tutti contenti: i costituzionali si gloriavano di aver vinto, e infatti avevano ottenuta la maggioranza; i progressisti sostenevan che la vittoria era stata dalla loro parte e che loro avevano applicato alla Giunta uno schiaffo morale, perchè il progetto era passato dal buco della chiave, per due miserabili voti racimolati all’ultima ora. L’indomani, quando Prospero Anatolio arrivato fresco a Santo Fiore, raccontava in famiglia le vicende della fiera battaglia, si doleva, sospirando, di quella vittoria che lo obbligava a restare sindaco di Borghignano. Egli che avrebbe buttato via tanto volentieri quella camicia di Nesso!... Era stanco, seccato, di sacrificarsi tutto e sempre al servizio del pubblico, il quale ricambia con amarezze e ingratitudine. In quanto a’ suoi colleghi, confidava a Giorgio, in segreto, che l’avevano fatta molto grossa venendo quasi a patti col direttore dell’Omnibus!... Quello era stato un passo falso che aveva creato malcontenti nel seno stesso del partito e che, a occhio e croce, aveva spostato tre o quattro voti di maggioranza. Nulladimeno, a Natale, capitò al Frascolini il diploma che lo nominava Cavaliere della Corona d’Italia, e quel diploma gli fu annunziato da una lettera molto gentile e obbligante del duca d’Eleda. — Cavaliere?... Lo era davvero, lui. Se l’era guadagnato, quel titolo, col proprio ingegno, col proprio lavoro, colla propria onestà, e valeva assai più di tutto il marchesato posticcio del signor Giacomo Vharè. XXVIII Povero Vharè!... I suoi affari precipitavano a rotta di collo! Ormai, da vario tempo, non viveva più altro che del credito; ma il credito, per chi lo gode, è come una rete: strappata una maglia, si rompe tutto l’ordito. A Torino, quando successe l’incontro suo colla contessa Della Valle, non si era recato per le feste della Mostra, ma per tentare una grossa operazione di credito che gli era stata scovata e indicata da un agente di cambio: operazione che, riuscendo, gli doveva fornire il denaro necessario per poter far fronte a due o tre scadenze imminenti e per pater passare quel resto dell’inverno a Nizza o a Monaco. Ma il sovventore, richiesto dell’imprestito, mentre dapprima si era mostrato molto condiscendente, riservandosi soltanto un par di giorni per la risposta definitiva, quando Giacomo si presentò la seconda volta, non si lasciò più vedere e gli fe’ rispondere che si trovava spiacente di non poterlo servire, stante il mancato incasso di una forte somma su cui aveva fatto assegnamento. Il Vharè non era un novellino, e capì subito che il capitalista, prima di concludere, aveva voluto assumere informazioni, e che queste erano state cattive. In un altro momento, anche quel brutto incaglio non gli avrebbe dato un gran colpo, ma allora lo avvilì profondamente. Era il quarto rifiuto in quindici giorni e intanto crescevano le difficoltà, cresceva il bisogno, e la fine dell’anno si avvicinava, sdrucciolando via le settimane, con la velocità tutta particolare, colla quale il tempo passa, corre, vola per i debitori. Si diede attorno di qua, di là, ridusse l’ammontare della somma, abbreviò il termine della scadenza, ma non ci fu verso: a quanti domandava danari, tutti rispondevano picche. Fatta la pace e partita Lalla per Santo Fiore, dopo la promessa scambievole di trovarsi a Roma ai primi di dicembre, Giacomo, riscaldato anche da questa impensata avventura, tornò daccapo al lavoro, con un’alacrità ed un’accortezza che sarebbero state degne di miglior successo. Da Torino passò a Genova, da Genova a Milano, da Milano a Padova, ma sempre collo stesso esito infelice; ragion per cui dovette in breve ritirarsi a Borghignano, avendo finiti i quattrini anche per quelle corse disperate. A Borghignano aveva casa sua, e per qualche tempo il piccolo credito, tanto per vivacchiare, non gli sarebbe mancato. — E all’avvenire? Oh, all’avvenire il marchese di Vharè non ci voleva pensare, perchè in tal caso avrebbe perduto anche l’appetito; l’unica cosa buona che gli rimanesse. Tuttavia, egli si conservava filosofo, e non si mostrava nè sgomento, nè triste, tanto più che dovendo tirarla innanzi col credito, avrebbe colla melanconia accresciuta la sfiducia. Il Vharè, del resto, conosceva gli uomini e le donne; e mentre si sarebbe guardato bene dal lasciar scorgere a’ suoi amici le perturbazioni del proprio bilancio, a Lalla, invece, gliene scrisse tosto a Santo Fiore, scherzandovi sopra e confidandole che dubitava, per quell’inverno, di poterla raggiungere a Roma, temendo di doversi fermare a Borghignano ad ammirare il trotto di Adamastor e le pelliccie nuove dei Tangoloni; a far la corte alla Bertù, a confidarlo alla Calandrà ed a tentare con Gianni Rebaldi la sorte del tresette. Ma chiudeva la lettera dicendole che la sua vita d’adesso, egli, ad ogni costo, non l’avrebbe cambiata con nessun altro perchè sentiva ogni contentezza, ogni gaudio, ogni felicità, pensando a Lei, colla certezza cara che gli volesse un po’ di bene. E il Vharè sapeva pure che confidando queste sue strettezze alla duchessina, in una forma brillante, non le avrebbero fatta cattiva impressione; anzi, era alcunchè di nuovo, di originale, di simpatico; mentre invece, se Lalla ne avesse sentito parlare da altri, ed egli avesse voluto farne un mistero, allora, forse, correva il rischio di scapitarci assai. I debiti sono come la canizie: portata con disinvoltura può ancora piacere, ma volendo nasconderla coi cerotti e le tinture diventa ridicola. Certamente egli non contava tutto alla duchessina, ma lasciava scorgere quel tanto del suo deficit che presentava qualcosa d’artistico e che non offendeva il gentiluomo. Oh, il Vharè si sarebbe guardato bene, per esempio, dal confidarle che gli era minacciato un protesto e che pranzava a credito. Dinanzi all’usciere e all’appetito, i debiti, anche per una duchessina sentimentale, diventano borghesi e non hanno più nessuna attrattiva. Appena successo a Torino il riavvicinamento fra Giacomo e Lalla, era subito cominciato fra loro un attivissimo scambio di lettere, ed era stata la prima Lalla a scrivere, ad onta delle sue ripugnanze, e della sua prudenza. Svegliandosi alla mattina, placidamente, accanto a Giorgio, dopo aver assorbito la sera innanzi col Vharè il delizioso thè della riconciliazione, essa provò il prepotente bisogno di un altra voluttà: quella di scrivere. — Perchè?... Giorgio doveva alzarsi e uscire presto per affari e le aveva dato un bacio solo e discretissimo, per via dell’emicrania di cui Lalla si era già lamentata la sera innanzi. — Ancora bobo?... — le aveva domandato, sorridendole, come ad una bambina, appena la vide muoversi e aprire gli occhi. — Ancora bobo?... — Sì... molto, molto. — Lalla si era scostata sospirando, e Giorgio, dopo aver sospirato alla sua volta, si era alzato adagino per lasciarla quieta e se n’era andato. Lalla rimase rannicchiata a godersi il delizioso calduccio del letto, e così tranquilla che non si sentiva respirare. Ma non dormiva: pensava, riandava tutti gli avvenimenti della sera innanzi. Essa non era soddisfatta. La realtà era molto al di sotto di quanto l’aveva immaginata, ed era meravigliata e mortificata perchè lo stordimento era cessato troppo presto. Il sangue tornava calmo e freddo, il cuore non batteva più violentemente, i ricordi non si affollavano tumultuosi, ma si schieravano ad uno ad uno, lentamente, chiari, precisi, in quella camera d’albergo, colle pareti vuote, di carta gialla... Pensava, riandava ricordando in ogni particolare quanto era successo, dall’incontro sulle scale, alla porta rimasta aperta. Pensava, ricordava tutto ciò, mentre le voci e i passi dei camerieri e il rumore e i suoni dell’albergo rendevano ancor più volgare quel suo ridestarsi ad una vita che avrebbe dovuto essere una vita nuova e tragica, agitata e sconvolta da terrori e da emozioni potenti... e che non era invece altro che la sua vita solita, solitamente tranquilla. Allora, in quel tepido dormiveglia, soffrì l’uggiosa impressione di chi entra di giorno in un teatro: quel vuoto, quel buio freddo, l’oro sbiadito dello stucco e del cartone, davano a Lalla un’uggia fastidiosa, strana, e cominciava lì, appunto, il suo rimorso, da tutto quel malcontento, da tutto quel disinganno... Lalla sentì il bisogno di muoversi, di arrischiare, di gettarsi a capofitto nella sua avventura, in cerca di emozioni più forti, che dovevano stordirla, eccitarla, inebriarla e così soffocare il persistente borbottìo della sua coscienza e del suo pudore. Sì, anche il pudore ci soffriva in tutta quella calma, anche il pudore sentiva il bisogno di coprirsi, di nascondersi in mezzo alle fiamme della passione: e però, credendo di poter ingannare sè stessa e sperando di poter riuscire a convincersi che si era abbandonata perchè vi era stata trascinata, vinta dall’amore, dall’amore il più forte, il più ardente, si alzò di colpo col desiderio e la risoluzione di commettere una grande imprudenza e scrisse una lettera al suo amante. Non era lui il padrone e l’arbitro della sua vita?... E con un caratterino minuto, fermo, regolare, riempì quattro paginette di carta profumata; ma, quando fu alla firma, pensò che non c’era bisogno di firmare... la solita prudenza cominciò ad avere il sopravvento e Lalla volle rileggere la lettera. Allora trovò che diceva troppo, la stracciò, la buttò sul fuoco, aspettò che fosse affatto distrutta e poi, preso un altro foglietto, scrisse due righe sole: «Mi ami tanto?... Ho bisogno che tu me lo dica sempre, che tu non mi lasci mai sola a riflettere... «Mi ami tanto tanto?... «Sempre: ricordati! «L.». Giacomo, prima di pranzo, andò a farle una visita, com’erano rimasti intesi, e la trovò sola. Allora, siccome lei partiva all’indomani, si fece promettere ch’egli le avrebbe scritto a Santo Fiore, dirigendo le lettere, chiuse in una busta suggellata e senza indirizzo e segnate con numero progressivo, in un’altra busta diretta a miss Dill. Le era penoso un tal passo, ma ormai indietro non potea più tornare. In quanto a lei avrebbe scritto a Giacomo direttamente. A Santo Fiore, combinato lo scambio coll’istitutrice, alla quale Lalla non diede nessuna spiegazione, e passato l’orgasmo pauroso delle prime lettere ricevute, ella se ne fece una piacevole abitudine e le aspettava con impazienza e le leggeva con grande interesse. A Santo Fiore essa non aveva altre distrazioni. Là, sola sola, pensava a Giacomo di frequente e alla vita che a Roma avrebbero fatta insieme. Certo, in quell’inverno, gli adoratori le sarebbero ritornati tutti intorno, e lei voleva vendicarsi del loro abbandono. Ma poi, in mezzo ai più bei disegni, cambiò, a un tratto, d’umore, diventò nervosa, lunatica... poi capitò la lettera del Vharè a mandar tutto in fumo, e così in dicembre partì per Roma, lamentandosi di dover essere in viaggio tutto l’anno. Ci pativa anche perchè la Bertù, la Calandrà e tutti gli altri pettegoli avrebbero creduto che il Vharè rimanesse a Borghignano per la Soleil. Nè una tale supposizione sarebbe stata fuori di luogo e Lalla stessa, in fondo al cuore, non era affatto senza sospetti. Il Vharè si mostrava nella sua lettera troppo di buon umore; e se non si fermava apposta, certo la presenza della Soleil gli avrebbe reso meno spiacevole quel domicilio forzato. Così, la rabbietta e un po’ di gelosia, suscitarono nella sua testolina bizzarra un altro di quei fuochi di paglia che in lei divampavano ad un tratto e con strani chiarori. Pensò ad un pretesto per non tornare più a Roma in quell’inverno, quando lei e Giorgio sarebbero ritornati a Borghignano per passar il Natale con la mamma. E un pretesto non solo, ma una ragione eccellente non le mancava. Era una ragione, per altro, che Lalla non avrebbe voluto mettere in campo; che anzi le ripugnava di adoperare in tale occasione; ma poi finì col servirsene, quando si vide costretta a farlo in mancanza di meglio, e quando capì che, ormai, per il timore ed anche un pochino pel rimorso, aveva taciuto anche troppo. Confessò il suo segreto alla mamma abbracciandola e arrossendo; alla mamma che, dopo averla ascoltata tremando, si strinse la figliuola al cuore e diede ella stessa, povera Maria, la cara novella a Giorgio, con un sorriso che appariva fra le lacrime, come un raggio di sole che attraversa la tempesta. Giorgio impallidì dalla commozione e abbracciò la sua Lalla, abbracciò Maria senza poter dire una parola: la gioia gli serrava la gola. Prospero Anatolio si mise a piangere dalla consolazione, poi prese il cappello e infilata la porta andò a partecipare all’Arcivescovo il miracoloso avvenimento. Ritornato a casa, regalò mille lire alla Congregazione di Carità, e a Lalla una collana di diamanti, approvando pienamente il suo desiderio di rimanere tranquilla a Borghignano, tanto più che, in tal caso, egli era sicuro che vi si sarebbe fermata anche la Giulia. Nella famiglia d’Eleda, da quel giorno in poi, non si parlò più d’altro, non si fecero progetti, preparativi, auguri che non fossero diretti all’atteso Prosperino. Il solo, che non prendeva parte a tanto giubilo era Pier Luigi. Sicuro!... Pier Luigi confrontava le date e sogghignava; ed alla Calandrà, che pianino discorrendo con lui, aveva fatto un’osservazioncella piuttosto impertinente: — Mah, — rispose il vecchio cinico, alludendo a Giorgio: — Chi si contenta gode; chi si contenta! Lalla, come aveva voluto, rimase dunque a Borghignano; e mentre Giorgio andava continuamente innanzi e indietro da Roma, ella perdeva il tempo e la pace a commettere imprudenze col Vharè, spinta dalla sua gelosia per la Soleil. Adesso però, la duchessina, per quanto facesse, non poteva ricuperare, tutto intero, il cuore di Giacomo. Egli era tornato daccapo, approfittando della buona occasione: la contessa Lalla era sempre simpatica, egli le voleva sempre bene, ma non le credeva più. Quando Lalla fuggì via da lui, piantandolo in quel brutto modo, essa aveva distrutta la sua ultima illusione, aveva distrutto il suo ultimo amore, destandolo, bruscamente da un sogno romantico; e il Vharè era troppo uomo e troppo esperto per riaddormentarsi di nuovo. Le bambinerie della duchessina, che una volta lo avevano commosso e sedotto, ora lo tenevano in sospetto; e dal candore, dalla grazia, dai timidi abbandoni e dalle ingenue sorprese della sua innamorata egli vedeva sorgere e far capolino quella finissima civetteria che, per una volta tanto, era pur riuscita a canzonarlo, e molto bene. Oltre a ciò, che sarebbe bastato anche da solo, c’era poi un altro sentimento, nuovo e profondo, che lo divideva da Lalla: la disistima. Per quanto corrotto, per quanto dissoluto, l’amante è sempre, per la donna che gli si abbandona(), il suo giudice più rigido e più spietato, quando la passione si acqueta e la verità comincia a farsi strada. Il marito, l’offeso, non può essere più implacabile. Il Vharè vedeva, adesso, tutta la colpa che Lalla commetteva giocherellando colle sue ariette fanciullesche, da null’altro spinta che da un leggero capriccio, e tutto ciò lo allontanava insensibilmente da lei, riavvicinandolo, invece, a poco a poco, alla Soleil. In fine, l’amore della Soleil era grande e sincero, mentre Lalla era stata spinta soltanto dalla vanità e dalla curiosità; l’una si era donata, l’altra si era fatta rubare. Si sa: quando l’amore se ne va, la logica ritorna. Bisogna anche aggiungere, ch’egli aveva abbandonata la Soleil dopo aver vissuto insieme per ben tre anni, e l’aveva piantata senza un motivo, anzi peggio, mettendosi assolutamente dalla parte del torto; bisogna aggiungere che s’incontravano, si rivedevano allora per la prima volta dopo quell’abbandono, e che il legame del marchese di Vharè colla diva non era stato uno dei soliti amoretti del palcoscenico. Quando Giacomo conobbe la Desirée Soleil, questa ormai pareva inaccessibile e inafferrabile. Co’ suoi straordinari e insperati trionfi si era sentita così pienamente felice da non aver bisogno d’altre emozioni: e poi la virtù le era allora consigliata anche dal medico, per conservar la voce. Tuttavia essa non negava di aver avuto amanti: soltanto, dichiarava di non volerne più. L’arrivare al suo cuore non era dunque facile impresa. Era una donna d’ingegno e d’esperienza, conosceva il mondo e le seduzioni, danari ne guadagnava tanti quanti ne voleva spendere, ed anche così inflessibile, era festeggiata e aveva adoratori fino alla noia. Anzi, questo suo, era forse il modo migliore per averne moltissimi. Si consolavano a vicenda della comune sconfitta, si deridevano l’un l’altro e continuavano a sperare tutti insieme ed ognuno per proprio conto. D’altra parte, la Soleil era buona, amabile, piena di spirito, tollerava qualche allusione un po’ arrischiatella e aveva il tratto di una gran dama. Il corteggiarla era di moda; il diventare uno de’ suoi intimi voleva dire essere una persona del bel mondo, un uomo d’ingegno o una celebrità del giorno, e però i suoi innamorati, non potendo giungere fino al suo cuore, si accontentavano di essere ricordati ai suoi occhi, ottenendo di farle porre i loro ritratti in un album ch’ella teneva esclusivamente per le fotografie degli amici, e nel quale, variando ad ogni piazza, figuravano, s’intende, tutti i giovanotti più eleganti delle varie città ove cantava. Non la lasciavano mai; si davano la posta a casa sua, a quell’ora precisa ch’ella prometteva la sera innanzi di essere visibile; e quando usciva dalla sua camera, ancora in vestaglia ed in pianelle, trovava il salotto già pieno di adoratori. Gli amici anticipavano sempre di qualche minuto: i loro orologi correvano per due motivi: per arrivare più presto a vederla, e per tenersi d’occhio l’un l’altro. Dalla Soleil bevevano cognac squisito, ch’era stato regalato alla diva da un ricco signore di Bordeaux, tanto perdutamente innamorato, da unirle al bariletto che le mandava ogni tre mesi, la formale domanda della sua mano; fumavano sigarette turche, speditele da un pascià, pure innamorato perdutamente, il quale continuava a rinnovare l’offerta di licenziare per lei il proprio harem; facevano il chiasso con una chitarra di un nobile Idalgo che tutte le notti, a Madrid, le cantava sotto le finestre: In Castiglia e nei tesori Dell’Alhambra e dei re mori Non v’è gemma per mia fè Che rifulga così splendida Come gli occhi a Desirée. E infine facevano musica sopra un piano-forte che le era stato regalato dall’imperatore del Brasile, il quale la chiamava sempre — il mio piccolo canarino — e le voleva bene come ad una figliuola. Tutte queste fortune gli amici della diva le sapevano a memoria, ma le stavano a sentire ogni giorno, senza interromperla, sfogandosi negl’intervalli, non potendo farlo colla padrona, ad abbracciare l’Assunta, la compiacente cameriera, con certe strette così furibonde da toglierle il respiro. Fra la padrona di casa e gli amici suoi, c’era molta armonia. Solamente, di tanto in tanto, passava qualche piccola nube a proposito delle signore della società, che la Soleil biasimava sempre con un accanimento ferocissimo. Ma la sua collera non durava molto, ed erano sempre gli amici i primi che le domandavano scusa, sempre in ginocchio, magari anche d’aver avuto ragione. Allora Desirée dava loro la mano da baciare, ma essi invece le baciavano il braccio più su che potevano: a tanta indiscrezione la diva ridendo, li scappellottava amabilmente, e la pace era fatta. La Desirée Soleil era una francese, di Milano, la quale, prima di calcare le scene, si chiamava Andreina Calziraghi. Era una donna assai bella: il suo corpo avrebbe potuto servire da modello per i contorni ad uno scultore dell’età d’oro, e per il colorito ad un pittore della scuola veneziana. Grandi e neri gli occhi di fuoco, neri, folti, lunghissimi i capelli, la bocca grande, coi denti candidi, regolari; le labbra rosse e vive. Tutta la sua persona pareva un invito alla voluttà; ma la sua faccia, mobilissima, caratteristica e simpatica, dalla quale trasparivano, a tratti, gli impeti del suo ingegno vivace, faceva pensare. Elegante, prodiga, spensierata, scriveva l’italiano come una tedesca, e parlava il francese come un’americana. Aveva molte stranezze: nell’inverno si avvoltolava fra le pellicce e nell’estate indossava certi abiti di velo che la riparavano dalle mosche più che dagli occhi. I suoi adoratori dovevano credere, o montava in collera, che vivesse soltanto di dolci, di frutta, di foglie di rosa che succhiava continuamente e di gramolate che sorbiva adagio adagio, con lunghe cannucce di paglia. Quantunque vantasse più magnanimi lombi, sua madre era stata una portinaia che l’aveva avuta dal suo padroncino di casa, un contino biondo e roseo come una ragazza. Andreina aveva dunque nella sua costituzione la schiettezza del popolo e le raffinatezze dell’aristocrazia; le carni rotonde e sode della mamma e la pelle bianca e fine del babbo; aveva del sanguigno e del nervoso ad un tempo; e se alcune volte il sangue materno l’aveva spinta fra le braccia di un qualche gagliardo e bel ragazzotto, il sangue paterno non tardava ad avere il sopravvento, e allora Andreina subiva i fascini d’un volto pallido e delicato. Quando cessò d’essere Andreina Calziraghi per diventare la Desirée Soleil, e non aveva più amanti d’intorno, ma soltanto sudditi e amici, allora si avvezzò presto all’aristocrazia, e tanto bene, che vi pareva nata. Cominciò a contare d’essere la figlia d’un barone francese, che possedeva miniere in America e schiavi di tutti i colori, e a questa paternità, a forza di ripeterla, terminò col crederci anche lei, anzi, era lei, la sola, che ci credesse un pochino. Le storielle erano il suo punto debole. Ne contava molte, ne contava troppe. Ne aveva una, fra le altre, che spacciava per uso e consumo de’ suoi adoratori, i più ricalcitranti al regime negativo, e che pareva un romanzo del Montépin. L’eroe era un principe russo, ricchissimo, possessore di venti villaggi, d’una barba orribile e d’una desinenza in off ancora più orribile, che voleva amarla per forza, quantunque lei gli rispondesse sempre di no. Il principe, al primo rifiuto sorrise cinicamente, offrendole, in cambio della sua virtù, manate di turchine e pugni di diamanti; ma lei, dura sul no, anche la seconda volta. Allora i peli della barba del principe si agitarono come tante lamprede fuori dell’acqua, e il sorriso cinico si mutò in un ghigno feroce; ma siccome non poteva farla frustare, si rassegnò ad aggiungere all’offerta delle turchine e dei diamanti anche quella della sua mano e della desinenza in off. A tale proposta, continuava a contare la diva, lei s’era messa a ridere, ringraziandolo d’averla corteggiata pour le bon motif; ma dichiarandogli, nello stesso tempo, ch’egli arrivava troppo tardi, perchè la Desirée() Soleil aveva sposato il teatro, e l’arte sola oramai le poteva far battere il cuore; era costretta quindi, avec beaucoup de chagrin, a dirgli di — no — pour la troisième fois. La barba del principe, all’ostinato rifiuto, non si mosse nemmeno: cattivo segno. La sera dopo, mentre lei e l’Assunta uscivano dal teatro, il principe, aiutato dalla polizia, le rapì tutte e due: sicuro, anche la cameriera, che a questo punto veniva citata sempre come a testimonio. Le peripezie del viaggio lungo i deserti di ghiaccio, coi lupi affamati che saltavano attorno alla slitta, erano innumerevoli e svariatissime, ma presto o tardi si arrivava felicemente al castello del principe. Era un castello in mezzo alla neve, con parco e giardino inglese, illuminato a luce elettrica. Nel castello, Barbarossa ne tentò di tutti i colori contro la virtù della diva. Tentò la grazia, la forza, e in fine tentò anche l’astuzia. Voleva addormentarla con un potente narcotico, ma lei, invece di bere il narcotico, mangiò la foglia e visse solo di frutta e di ghiaccio. Irritato da tanta fermezza, Barbarossa perde la prudenza: e colla faccia infocata, gli occhietti da basilisco, digrignando i denti, magro, sporco, sparuto, ella lo vide, una notte, capitare attraverso un quadro, nella sua camera da letto e... La lotta che successe allora fu terribile e grottesca. La Soleil, raccontandola, si animava, diventava rossa in faccia, e, alzandosi, afferrava uno de’ suoi amici, lo trascinava attorno due o tre giri per il salotto e finiva con un impeto potentemente drammatico a lanciarlo fuori dell’uscio che gli chiudeva sul muso, accompagnando la spinta con un — no! — nel quale echeggiava una bellissima nota di contralto. Anelante, tornava poi a sedere, e terminava tranquillamente di raccontare il drammatico epilogo del principe russo il quale, in capo ad una settimana, e a cagione di quell’amore infelice, diventato pazzo furioso e legato nel proprio letto, colla camicia di forza, non faceva altro che ripetere — no! — no! — no! — lo spietato — no, della diva! Ma quando le fu presentato il marchese Giacomo di Vharè, essa non gli raccontò la storiella del principe dei venti villaggi e nemmeno quella più modesta del babbo barone. Capiva che col Vharè doveva essere tutt’altra cosa, e invece di parlare sempre lei, come faceva con tutti gli altri, lo stava ad ascoltare attentamente, provando una seduzione nuova, profonda, indefinibile a quella parola così facile, così affascinante. La Soleil capì, subito, che avrebbe finito coll’amare il Vharè, e coll’amarlo forse tanto, quanto non aveva mai amato fino allora; e tutti questi suoi sgomenti una sera che, per caso, furono lasciati soli nel camerino, ella glieli confidò candidamente, come le uscivano dal cuore che pareva le si risvegliasse allora, dopo un sonno lunghissimo. Col Vharè essa non era più la Desirée Soleil, era ritornata Andreina Calziraghi, la semplice, la buona ragazza. — Siate generoso con me; — gli disse fissandolo quasi timidamente. — Non insistete tanto per farvi amare; non mi tentate così. A voi il lasciarmi non costa nulla, ed io con voi, lo sento, arrischierei troppo, arrischierei tutto. Ero così tranquilla e stordita; ero così beata. Ridevo, ridevo sempre, e voi tornate a farmi diventar triste e a farmi pensare. No, mi secca; non voglio!... Non voglio più voler bene; e se ne volessi a voi sarebbe una cosa seria; forse la più seria della mia vita, e terminerebbe coll’annoiarvi. Da bravo, marchese, ve ne prego, seguite un mio consiglio: presto la stagione sarà finita, non venite più da me, rinunciate al teatro, per queste poche sere, e tutti e due conserveremo la nostra pace. Giacomo vedeva bene che la Soleil non mentiva, e gli piacque la sincerità, il bel tipo di bruna, mentre lo allettavano l’ingegno dell’artista e le difficoltà dell’impresa. Invece di lasciarla, si attaccò a lei ancora di più; e Andreina, a poco a poco, si innamorava perdutamente e ritornava a sentire inquietudini e turbamenti, lei artista, lei cantante, lei che non era nuova nè all’amore e nemmeno agli amanti e che doveva essere agguerrita contro qualunque seduzione. Ma l’amore fa di questi tiri, e ne fa anche di peggio!... Quando dal suo camerino ella vedeva Giacomo avvicinarsi, le batteva il cuore e arrossiva d’improvviso, come una giovinetta, come un’ingenua sensitiva, ancora ai primi palpiti. Una sera, mentre era in iscena e cantava, lo sentì, più che non lo vedesse, entrare in un palco di proscenio, avvicinarsi al parapetto, fissarla col cannocchiale, e la poveretta, come se ritornasse alle emozioni dei virginali turbamenti, stonò forte, e non ebbe i soliti applausi alla sua aria favorita. Adesso non recitava la commedia, no, no; aveva paura davvero, e non vedeva il momento che si chiudesse quella malaugurata stagione per andarsene via, per fuggire, per non vederlo più; ma il Vharè non gliene lasciò il tempo. Un giorno Andreina era ancora seduta a tavola e pensava appunto al bel marchese di Vharè, giocherellando distratta e quasi triste, coll’orlo della salvietta: quella sera essa doveva cantare e però non voleva ricever nessuno; ma Giacomo seppe commuovere il tenero cuore dell’Assunta, e Andreina se lo vide capitare dinanzi, in quel momento che lo credeva più lontano. Lo accolse con un grido, si arrabbiò coll’Assunta, si mostrò crucciata con Giacomo, non voleva dargli la mano; ma non ebbe il coraggio di mandarlo via. La piccola stanzetta era quasi al buio: due candele rischiaravano appena il disordine della tavola apparecchiata, mentre dallo sportellino della stufa accesa usciva a tratti, come un respiro di fuoco, la fiamma rossastra. Faceva caldo, si soffocava lì dentro, e Giacomo venendo allora dal freddo della strada, si sentì bruciare la faccia, mentre respirava a fatica in quell’aria greve, impregnata dal profumo dei fiori e corrotta dall’odore che vi era rimasto delle vivande. L’Assunta, buona donna e affezionata alla padrona, si fermò un momento, sorridendo con malizietta affettuosa, poi, volendo farsi perdonare il tradimento, le disse forte, indicando l’orologio a pendolo della caminiera: — Si ricordi signora; fra dieci minuti, al più tardi bisogna vestirsi per il teatro... — Non c’era dunque tempo da perdere, e infatti, appena uscita la cameriera, Giacomo prese Andreina e la strinse fra le braccia mentre la diva, tremando tentava di allontanarlo, di difendersi e a bassa voce, per non essere udita dall’Assunta che preparava la cesta nella camera vicina, scongiurava Giacomo di non tormentarla, di andarsene, di aver compassione di lei. Poveretta!... Quell’uomo l’aveva sorpresa, era capitato là dentro come un ladro, per rubarle la sua felicità, la gioia stordita, rumorosa dei suoi trionfi di donna e di artista, per rubarle l’anima! Anche Giacomo pregava, supplicava. Pregavano, tutti e due, ma non s’intendevano, non si ascoltavano. Più che coi baci, Giacomo la stordiva colle parole appassionate, insinuanti ch’ella sentiva correrle pei capelli, pel collo, per tutto il corpo come un fiato caldo, voluttuoso, che la inebriava, che la vinceva. — No!... No!... Ti prego!... Ti prego!... Non voglio!... Ero così contenta! Ero così felice!... — Ma già Andreina, a poco a poco, si sentiva venir meno, si sentiva portar via come in un sogno; già lottava solo con un — no — debolissimo, convulso, che le usciva appena dalle labbra tremanti, e non più dal cuore; un — no — pieno di lacrime, di amore, d’abbandono e che sarebbe rimasto preso, soffocato da un bacio... quando improvvisamente un suono lungo, squillante echeggiò nel silenzio della stanzetta. Lontani lontani com’erano dal mondo tutti e due, trasalirono quasi: era l’orologio della caminiera che suonava le sette. Bastò un secondo a Giacomo per rimettersi, ma era bastato un istante anche ad Andreina per ricuperare la coscienza di sè e del pericolo che correva, e sciogliendosi vivamente dalle braccia di Giacomo, corse a salvarsi sull’uscio dell’altra stanza, gridandogli con voce rotta, soffocata: — No!... No!... Ve ne supplico!... Andate via! Andate via!... Stasera canto! — E chiamò l’Assunta. Stasera canto!... Cercando una scusa, un’arma per difendersi, per farsi rispettare, non ne aveva trovata una migliore. Ma non era più, adesso, la Desirée Soleil che lottava contro il principe dei venti villaggi, no; non era che la buona Andreina, la quale sentiva di non poter invocare in suo aiuto nè l’onore, nè il pudore, perchè quell’uomo ch’ella amava, avrebbe potuto deriderla; e però disse quelle semplici parole — stasera canto — tremando e piangendo, le mani giunte e con un’espressione di sgomento così viva che faceva pietà e che mutava la sua preghiera in un grido disperato dell’anima. Ma, pur troppo, la sera dopo ella non cantava, aveva riposo, e Giacomo di Vharè rimase solo con lei oltre la mezzanotte. Quando Giacomo se ne andò via, Andreina aveva voluto accompagnarlo fin sull’uscio dell’ultima stanza d’uscita, abbracciandolo un’altra volta con una tenerezza infinita. — Ascolta, Giacomo, — gli disse, — io ti ho data tutta l’anima mia; ormai non mi appartengo più. Non abbandonarmi subito; io non ti ho ingannato e non ho mentito. Darei la mia vita, il mio nome, il mio trionfo d’artista, tutto tutto, per essere ancora una donna onesta e poterti dire: — non sono stata che tua, e non sarò che tua. — Stordita, non ho mai avuto rimorso del mio passato; ora ne ho dolore per la prima volta e per te, perchè ti voglio bene Sento che ho finito ormai di essere calma e felice; ma non rimpiango la mia felicità, ti amo troppo, e non la ricordo nemmeno. Tuttavia, per poco che io possa contare nella tua vita, ci voglio essere come una memoria cara, voglio sfiorarla come un sorriso. Non voglio costarti nessun sacrificio, nessuna amarezza. Giura, amor mio, giurami che il primo giorno nel quale non sentirai per me più... più nessun desiderio, tu me lo dirai subito, francamente e lealmente. In compenso di tutta me stessa, non ti domando altro che questa parola sincera. — Ti amerò sempre, — le rispose il Vharè con galanteria. Andreina comprese la leggerezza di una simile risposta e sentì come un presentimento delle ore tristi che le si preparavano. — Sempre?... Le donne come me non si amano sempre. Ma ti prometto, ti giuro, che mi avrai sempre tua, finchè ti piacerà di tenermi. — E si lasciarono così, stringendosi la mano e baciandosi, lui con un sorriso, lei con un sospiro. Tre anni dopo, infatti era il Vharè che abbandonava Andreina, senza ch’egli avesse nulla da poterle() rimproverare. La Desirée Soleil, la diva, si mostrò indifferente a quell’abbandono così immeritato, ma Andreina Calziraghi ne soffrì assai, perchè essa amava sempre il Vharè, come già aveva sentito di amarlo quel primo giorno in cui l’orologio a pendolo l’aveva salvata. Essa ne soffrì assai, tanto che ammalò e per due stagioni stette senza cantare. Quando volle ritornar sul teatro dovette accontentarsi di quella misera scrittura di Borghignano, perchè gl’impresari dei grandi spettacoli temevano non fosse più quella di prima e non volevano arrischiarla. Andreina avrebbe riposato ancora volentieri, ma come si fa?... I suoi pochi risparmi erano consumati; le sue perle, i suoi brillanti erano impegnati e bisognava cantare per vivere. Certo, se avesse voluto, non le sarebbe mancata la generosità di un qualche amico e protettore; ma come vi sono donne nate nell’azzurro e che cadono giù, attirate dal fango, così ve ne sono altre, e dove forse meno si crederebbe, che si sentono attratte a sollevarsi in alto, sempre più in alto, nell’azzurro, e la buona Andreina era appunto di queste. A Borghignano, però, tornata la Desirée Soleil, fu compensata delle sue privazioni da un grande e straordinario successo. Andreina non sapeva che a Borghignano si sarebbe incontrata col Vharè, come non conosceva nemmeno la vera cagione del suo abbandono. A Borghignano, per altro, ci fu chi, credendo fare il proprio interesse, volle illuminarla di tutto. Non sapeva, l’ingenuo, che amore... perdona amore. Giacomo, vano e ambizioso della conquista della Soleil, non aveva mai apprezzato Andreina secondo il merito, e molto scettico, anche in fatto di donne, mentre si lasciava abbindolare da Lalla, credeva all’apparente indifferenza di Andreina; ma quando seppe, e lo seppe appunto poco dopo che la contessa Della Valle lo aveva piantato in quel bel modo, quando seppe che la diva aveva finito coll’ammalarsi per essere stata abbandonata, questa notizia fu per il Vharè una cara scoperta, e fu grato alla Soleil di amarlo a tal segno, sentendo nel suo cuore come un conforto, come un contraccolpo dal disinganno sofferto. Però, adesso che stava per incontrarla, per rivederla, sentiva che si sarebbero riconciliati e ricongiunti. Se la Desirée, offesa, non avesse voluto più amarlo, era sicuro che la buona Andreina avrebbe domandato grazia per lui. Nello stesso tempo che il passato risorgeva più bello e più cara nella memoria del Vharè, il fascino di Lalla, com’è naturale, scemava assai. Del resto, anche l’amore della duchessina procedeva a sbalzi: ora pareva insensibile e indifferente, ed ora aveva gli slanci, gli abbandoni e le esigenze più appassionate. Ma, in ogni caso, e più caro nella memoria del Vharè, il fascino di Lalla lo amava più per gli altri che per sè stesso. Al teatro, in quelle sere d’opera, le ripetevano tutti che il bel marchese si era fermato a Borghignano perchè c’era la diva a cantare, e Lalla voleva far sapere e far credere che invece il Vharè vi si era fermato per lei, solo per lei, e la sua vanità, punta nel vivo, arrivava dove non era arrivato il suo amore, e le faceva perdere anche la prudenza. Il Vharè non poteva andare che assai di rado in casa Della Valle; ma, in compenso la contessa Lalla era già stata due volte nel quartierino del bel marchese, posto in ottimo luogo per simili scappatelle; e tutt’e due le volte si era fatta promettere ch’egli non sarebbe tornato mai e poi mai, per nessun motivo, dalla Desirée; che non si sarebbe mai e poi mai lasciato vedere con lei, e che, incontrandola, non l’avrebbe nemmeno salutata. Giacomo, fino a questo punto, non voleva dare la sua parola; non c’era ragione perchè dovesse fuggire la Soleil e tanto meno usarle sgarberie, ma finiva poi col promettere tutto ciò che Lalla voleva, non trascurando, nel tempo stesso, di cercare l’occasione per incontrarsi con Andreina e fare la pace. Era sicuro, del resto, che la strana volubilità d’umore, e i capricci di Lalla gli avrebbero dato argomento di giustificarsi, nel caso che le sue bugie fossero scoperte. La diva a Borghignano faceva furore: tutti ne parlavano, tutti la lodavano, erano tutti innamorati di lei. La Direzione del teatro, composta di membri molto maturi, si tingeva capelli e barba due volte al giorno; il Presidente, che secondo le sue abitudini sperava molto, faceva la doccia; i due Lastafarda si esercitavano a parlar francese; Gianni Rebaldi faceva provviste di sigarette nel camerino della diva, e regalava all’Assunta i dolci che rubava ai bambini della Bertù. Il Toscolano le offriva Adamastor se voleva far passeggiate, e aveva grandi misteri col brumista che la conduceva tutte le sere da casa al teatro e viceversa. L’Assunta era fermata per istrada dai molti curiosi che volevano sapere gli anni della sua padrona e se era un’americana davvero e se i capelli che portava in scena erano tutti suoi. Fra il palcone degli ufficiali e la barcaccia dei nobili cominciò una fiera rivalità, ed erano corse sfide, che per altro non avevano avuto seguito, con grandissimo dispiacere degli avventori del Caffè di Borghignano, i quali, appena sentivano parlare di duelli, si accendevano, drizzavano le orecchie e diventavano spadaccini sino all’ultimo sangue... degli altri. Tutti i giorni la diva riceveva regali: abbondava però il genere fiori e marrons glacés. Ma chi faceva sul serio e le mandava ricchissimi gioielli, era il conte Pier Luigi, il quale si era incapricciato stranamente della Soleil, tanto da non muoversi più da Borghignano e da esserle sempre d’intorno, quantunque Andreina, che in principio accettava per debito di convenienza i suoi omaggi, gli avesse fatto capire che non gli avrebbe dato da baciare nemmeno la punta di un dito, tanto le faceva schifo. Per altro, a Borghignano, credevano tutti che già il vecchio milionario fosse riuscito a soppiantare il bel marchese, bello sì, ma spiantato. Tuttavia la Desirée Soleil si portò in modo che anche le cattive lingue dovettero presto ricredersi. E come stessero le cose fu chiaro a tutti i curiosi, una sera in cui la Desirée si era messa a fissare ostinatamente dal palcoscenico la contessa Della Valle, mentre questa, a sua volta, guardava la diva, sorridendo con olimpica indifferenza. Il Vharè, al quale non era sfuggito l’incrociarsi di quei due sguardi, trovò immediatamente il pretesto per fare la pace con Andreina: così impediva uno scandalo che avrebbe potuto perdere la contessa Lalla. Scese dunque sul palcoscenico, terminando di persuadersi che vi andava per compiere una buona azione; e consegnato il suo biglietto di visita al portiere, lo pregò di domandare alla signora Soleil se lo poteva ricevere. L’Assunta, che lesse per la prima il biglietto del marchese, corse, rossa dal piacere, ad annunziarlo alla padrona; ed il Vharè fu subito introdotto nel camerino. Andreina lo salutò stendendogli la mano, senza poter parlare, e alzando il volto impallidito e fissandolo con quell’espressione di mestizia e di affettuosa indulgenza, che traluce dagli occhi della donna soltanto quando essa perdona la colpa d’un figlio o quella di un amante. Anche al Vharè batteva il cuore e lo si vedeva impacciato. Lì, in mezzo a loro, sebbene straniero a tutti quegli affetti, c’era pure un altro cuore che batteva con violenza alla vista del marchese di Vharè: il cuore di Alessandro Frascolini. Il direttore dell’Omnibus si era recato poco prima sul palcoscenico per offrire alla diva l’omaggio del pubblicista e l’ammirazione del compagno d’arte. Andreina presentò l’uno all’altro: entrambi si salutarono appena, con un cenno del capo, senza stringersi la mano. Il Vharè non badò nemmeno al cavalier Frascolini, ma Sandro squadrava Giacomo da capo a’ piedi: c’era assai più che la gelosia, c’era ferocia in quel suo occhio torvo iniettato di sangue, e ci fu un momento nel quale sfavillò con una fiamma sinistra. Il Frascolini avea veduto in dito al Vharè l’anello ch’egli aveva regalato alla duchessina: la turchina colle rose d’Olanda. A quella vista, mille pensieri, mille ricordi gli si affollarono tumultuosi nella mente, e dinanzi all’odio che gli prorompeva dall’anima, ogni altro odio rimaneva muto, e lo stesso Vharè, il suo rivale, scompariva nel cocente desiderio di vendicarsi della duchessina e di farla finita, magari con un delitto. Egli salutò appena la Desirée, troppo commossa per poter notare il suo turbamento, non salutò affatto il marchese che, ritto in piedi, appoggiato alla parete e, mezzo nascosto da una sottana rossa e da un bournous grigio che vi erano appesi, non lo guardò neppure, ed uscì all’aperto dove si sfogò bestemmiando contro Lalla chiamandola una Faustina, una Brunechilde, una Mirofleda, la peggiore, insomma delle eroine baldracche della razza maledetta dai figli di Gioele... il brenn della tribù di Karnak. Rimasta sola con Giacomo, Andreina chiamò l’Assunta raccomandandole di star bene attenta per avvisarla quando «toccava a lei»; e lasciato che si chiudesse, come per caso, l’uscio del camerino dietro alla donna che usciva, gettò le braccia al collo del Vharè, stringendolo fortemente e lungamente. Intanto la comparsa inaspettata del marchese di Vharè avea prodotto sul palcoscenico un bolli bolli straordinario. I signori della Direzione, ch’erano innamorati in blocco della Soleil, per godersela da soli, almeno durante la recita, avevano proibito severamente l’accesso sulla scena a chi non apparteneva allo spettacolo, facendo solo una forzata eccezione per «i maledetti» giornalisti. Quei tre o quattro vecchiotti, fra un atto e l’altro, volevano mangiarsi tutti la diva, almeno cogli occhi, a pezzetti e a bocconcini: beati di poterle baciar la mano, di stringerle il braccio, di toccarle i fianchi, beati, gongolanti, quando potevano sorprenderla un po’ in disordine d’abbigliamento e non si movevano mai dal palcoscenico, tenendola d’occhio con gelosia sospettosa. In quella sera dunque, appena uno di costoro ebbe visto un intruso (e nientemeno che il Vharè!) nel camerino della Soleil, corse a dare l’allarme al Presidente. Il Presidente, montò su tutte le furie, come un Turco alla vista del proprio harem violato da un infedele; chiamò d’urgenza gli altri membri della Direzione, e tutti insieme, in un cantuccio del palcoscenico, si accusarono, l’un l’altro, di poca energia, di poca fermezza nel far eseguire gli ordini impartiti; ma poi tutte le ire si rovesciarono sul capo innocente del portiere, al quale intimarono lo sfratto, se il caso si fosse ripetuto. La sera dopo, il Vharè si vide chiudere sul naso la porta del palcoscenico; ma non si turbò: fece subito chiamare l’Assunta perchè avvertisse la padrona, e Andreina, in tale circostanza, si mostrò la figlia... di sua madre. Non si degnò nemmeno di venire a patti coi signori della Direzione, i quali si erano chiusi nel loro palchetto riservato, aspettando la fine della burrasca. Invece, mandò a chiamare l’impresario e gliene disse tante da stordirlo, strapazzandolo come un cane, protestando che nel suo camerino volea essere padrona di ricevere chi le accomodava; gridando che quelle scenate succedevano solamente in provincia e che, alla fin dei fini, il Vharè era il suo amante ed era padrone, padronissimo di andare da lei quando e quanto voleva. Il Presidente, o la Soleil non cantava, dovette togliere il veto; ma da quella sera memorabile i signori della Direzione mutarono affatto di contegno verso Andreina. Non le fecero più la corte, non andarono più in estasi, non si precipitarono più nel suo camerino per adorarla. Si sparpagliavano invece nel teatro, dove facevano notare agli abbonati che la diva era giù di voce e non mettevano più come prima tutte le mani, con mirabile accordo, sul fuoco, assicurando che il conte Pier Luigi da Castiglione non le aveva nemmeno toccato un dito. Invece si lasciavano fuggire certi mah!... certi uhm!... certi sorrisi maliziosi, che esprimevano tutto il contrario. Poi, ultima vendetta, sospesero, per economia, lo splendido e ricchissimo nastro col sole trapunto all’un dei capi, ch’era stato ordinato apposta per la sua serata, e non le fecero presentare dal servo di scena, altro che un mediocre mazzo di fiori, con un nastruccio scozzese, vecchio e stinto. Soltanto il Presidente, in fondo al cuore, rimaneva fedele agli incanti della diva: in fondo al cuore, chè non si arrischiava di contrariare, di mettersi in opposizione, co’ suoi colleghi. Se però gli altri non lo vedevano, egli, per far piacere ad Andreina, era amabilissimo anche col Vharè; e quando il camerino della Soleil rimaneva aperto, la adocchiava dalle quinte in faccia, coll’aria di uno studentello innamorato, tenendosi, per paura di compromettersi, mezzo nascosto dietro il pompiere. Tutte le volte che Andreina attraversava le quinte, se lo trovava sempre fra i piedi, rosso e timido. Con la diva, si arrischiava appena di sospirare, ma tutti i suoi dispiaceri li confidava all’Assunta, che il buon vecchietto si stringeva al cuore, paternamente, e regalava di zuccherini, contentandosi, così, di poter abbracciare almeno la cameriera... dell’oggetto amato. Questi pettegolezzi, che correvano per Borghignano, arrivarono ben presto, come si può credere, all’orecchio della contessa Della Valle, la quale avea dovuto rinunciare improvvisamente al teatro per la morte di un prozio materno, che dimorava in Sicilia. Dapprima essa ne fu punta nell’amor proprio, e al Vharè, che cercava scusarsi, fece qualche scenettina assai vivace; ma poi si rassegnò, si abituò, si consolò quasi delle infedeltà del bel marchese. E questa sua freddezza non era punto studiata. Non era una delle solite simulazioni; la sentiva proprio spontanea nell’anima e cresceva ogni giorno. Quando venne a sapere che, terminata la stagione d’opera, la Soleil si sarebbe ancor fermata fino ai primi di maggio a Borghignano, d’onde poi sarebbe partita per Genova e quindi per l’America, Lalla non se ne curò, non ne parlò nemmeno col Vharè. Certo gliene avrebbe parlato per avere una scusa di romperla con lui, se un pacchetto di lettere, con un nastrino azzurro, e ch’ella sapeva ben custodito in una scrivania del marchese, non l’avesse tenuta molto inquieta e in dubbio sul da farsi. Sì, la duchessina Lalla avrebbe voluto veder la fine di quell’intrighetto che da un momento all’altro era diventato seccante; del quale adesso sentiva vivo il rimorso, tanto che avrebbe fatto qualunque sacrificio pur di tornare indietro, ai bei giorni nei quali si sentiva la coscienza netta, com’era prima del loro incontro di Torino. Ma Lalla confondeva col rimorso il disinganno e la noia. Adesso non era più ambiziosa del Vharè, anzi evitava tutte le occasioni di farsi vedere insieme, perchè ne sentiva quasi vergogna. L’opinione pubblica di Borghignano lo aveva bello e spacciato. Lo sfuggivano tutti, lo guardavano d’alto in basso, e al club cercavano un pretesto per mandarlo via. La generalessa e la Bertù gli avevano tolto il saluto; il Toscolano riferiva che il Vharè andava tutti i giorni a desinare a scrocco dalla Soleil; i due Lastafarda, quantunque gli facessero il bello sul muso, perchè avevano paura di buscarsi una sciabolata, ne dicevano di cotte e di crude sul suo conto. Fra le altre, il Lastafarda juniore contava questa: suo fratello aveva dato mille lire al Vharè sulla parola, e non gli era stato più possibile di riaverle. Ma chi addirittura montava in bestia, solo a sentirne parlare, era Gianni Rebaldi, il quale era lì lì per ottenere un po’ di danaro in prestito da un usuraio, una perla del genere; ma l’usuraio, vantando un credito sul Vharè, aspettava che questi lo pagasse per avere la sommetta occorrente allo sconto della nuova cambiale. Il Rebaldi, gliene diceva contro di tutti i colori, rimproverando al Vharè di vivere alle spalle delle amanti, di far debiti e di non pagarli. Quando poi venne a sapere che l’usuraio, non potendo incassare i denari, si era accontentato, d’accordo con altri creditori, di porre il sequestro sui mobili del marchese, rinunciando per conseguenza a concludere l’affare con lui, egli si credette derubato dal Vharè, e avrebbe voluto, nientemeno, che lo cacciassero in prigione. Lalla, quando udiva parlare di queste cose, si sentiva venire i brividi. — Ah, se non ci fossero state quelle lettere!... — Ma, certe volte, anche il profumato pacchetto, legato col nastrino azzurro, essa lo vedeva messo sotto sequestro, e ciò la spingeva a pazientare, a dissimulare finchè le fosse capitata l’occasione di fare un’ultima visita nelle camerette di Giacomo e allora... allora trovare il modo e il momento di portarsi via le sue lettere. Dio, Dio, che felicità!... Una volta si era arrischiata di ridomandarle; ma Giacomo le aveva risposto, sospirando, ch’essa non le avrebbe riavute altro che dopo la sua morte. Giacomo in vero, non ci teneva gran che, e aveva risposto così per abitudine, per dire una delle sue solite galanterie alla Byron e ben lontano dal sospettare quante inquietudini e quanti sgomenti metteva in cuore, con tali parole, alla dolce amica. Oh, come la duchessina, adesso, avrebbe obbedito volentieri alla sua mamma, che le continuava a ripetere e a predicare, — che non le piaceva punto di vederle quell’uomo sempre vicino!... Che era una cosa sconveniente per ogni verso e che sarebbe stata la fonte di nuovi e gravi dispiaceri. — A Borghignano i vigili della morale, distratti dai debiti del Vharè, dal gran successo della Soleil e dell’amore accanito del conte Pier Luigi per la bella diva, ormai non si occupavano più che tanto della contessa Della Valle, la quale per di più, essendo in lutto, si lasciava vedere pochissimo. Quel suo capriccetto sentimentale per il bel marchese, era una cosa alla quale si credeva e non si credeva, ma che ormai aveva fatto il suo tempo: parce sepulto; non se ne parlava più; Maria sola, non mutava; il suo affetto era sempre vigilante, il suo pensiero fisso ad un punto e ogni volta che incontrava il Vharè dalla sua figliuola, mostrava a Giacomo la sua freddezza e non nascondeva a Lalla il suo malcontento. Sulle prime Lalla s’inquietava un po’ e un po’ si scusava; ma un giorno che sua madre tornò a rimproverarle quell’amicizia, ella si mise a piangere e, gettandosi nelle braccia di Maria, la scongiurò d’indicarle il modo di potersene liberare, chè davvero la frequenza del Vharè le diveniva uggiosa e mortificante, dopo le chiacchiere che correvano in giro. — Gliene parlerò io, sei contenta? — domandò Maria alla figliuola, dopo aver discusso un po’ sul da farsi. Lalla rispose che si metteva nelle sue mani e che avrebbe ubbidito in tutto. — Certo, — pensava intanto fra sè, — prima di guastarmi con Giacomo, bisogna che io riabbia le mie lettere; ma, ad ogni modo, non sarebbe male che la mamma gli parlasse un pochino lei, severamente. Ciò lo farà essere più guardingo, e potrà giovarmi per l’avvenire. Giacomo di Vharè ci teneva molto, presentemente, a farsi vedere in casa Della Valle e in casa d’Eleda. Finchè egli era ricevuto in quelle due grandi famiglie, nessun altro poteva arrogarsi il diritto di fargli sgarbi e, contenti o no, bisognava tollerarlo. Questo era l’argomento più forte che consigliava al Vharè di tenersi ancora legato a Lalla e che lo aveva spinto a ritornare dai d’Eleda, dove la freddezza con la quale Maria lo trattava gli era compensata dalla cordialità più espansiva di Prospero Anatolio, al quale il Vharè era simpatico tanto quanta capiva che era antipatico a sua moglie. Il duca lo riceveva gentilmente, appunto perchè sua moglie cercava di allontanarlo, e ciò non per altro che per il gusto di contraddirla sempre in tutto. In quanto ai pericoli che poteva correre sua figlia per quell’amicizia, toccava a Giorgio a pensarci: egli non voleva incaricarsene. Pier Luigi stesso, che una volta aveva voluto dire la sua, non era stato allontanato da casa Della Valle?... — Oh, quella lezioncina gli bastava; serviva d’esempio. Pochi giorni dopo che Lalla si era confidata colla mamma, Giacomo, senza punto sospettare ciò che gli doveva accadere, si presentò tranquillo e sereno in casa d’Eleda. Maria, che non dubitava, che non avrebbe mai dubitato, buona e santa com’era, di parlare coll’amante della propria figlia, e lo teneva solo come un importuno che avrebbe finito col comprometterla, lo accolse, questa volta, con straordinaria affabilità, indotta a mostrarsi gentile dalle tristi condizioni del Vharè, che nel suo cuore suscitavano una pietà viva e sincera. Cominciò col dirgli ch’egli saprebbe certo scusare le ubbie, i fantasmi che si crea una madre nelle sue continue inquietudini. Aggiunse che il mondo era così sospettoso, che la riputazione di una donna era tanto fragile da dover schivare ogni apparenza, anche la più lieve, la più insignificante; e per tutto ciò concluse pregandolo di volerle concedere un favore: diminuire la sua frequenza presso la contessa Della Valle!... In quei mesi il conte Giorgio era sempre lontano per il suo ufficio di deputato, e Lalla rimaneva sola, e perciò dava maggiore appiglio ai commenti malevoli. Giacomo, a tali parole, si sentì subito assai impacciato e tanto più che, oltre alla sorpresa e un po’ alle inquietudini che destava in lui un simile discorso, la duchessa gli si rivelava ad un tratto, come non l’aveva mai veduta, nè immaginata. Non era più la signora fredda e un po’ altezzosa; non era più la Madonna di neve che gli parlava, ma dal cuore di Maria prorompeva un’eloquenza così calda e appassionata, così sincera e onesta che, commovendolo, mal suo grado lo turbava. E mentre Maria credeva solamente di toccargli il cuore, ogni sua parola gli penetrava invece tormentosa anche nella coscienza. Ad accrescere poi la sua confusione, come se tutto ciò non bastasse, in quel punto ch’egli stava per aprir bocca (o bene o male doveva pur rispondere qualche cosa), ecco capitare Giorgio inaspettatamente: Giorgio Della Valle, arrivato allor allora da Roma, e che apposta non si era fatto annunziare, desiderando e sperando fare — alla mamma — una gradita sorpresa. Maria e il Vharè, com’è naturale, rimasero un po’ confusi per quell’apparizione; e tanto più in quel momento. Il Vharè, tuttavia, fece presto a rimettersi, ed anzi, da uomo esperto, ne approfittò per levarsi d’imbroglio, correre da Lalla e concertarsi a proposito del sermoncino che gli aveva fatto la duchessa e che credeva, in buona fede, dovesse recare molta meraviglia anche all’amica. Invece, il conte Della Valle, il quale sperava una ben diversa accoglienza, non riusciva a spiegarsi tanta confusione, tanta incertezza, tanta freddezza. Una cosa sola era chiara, molto chiara: egli era capitato assai male a proposito. Il Vharè trovò Lalla nel solito salottino, ma non più avvolto nelle tenebre, così care ai fidi colloqui. Dalle finestre socchiuse e dai vetri colle tendine alzate il sole entrava allegramente, con tutto il suo lusso di colori e di luce. Lalla leggeva Les rois en exil del Daudet, e quando vide Giacomo gli stese la mano, senza nemmeno alzare il capo dal libro. Ormai erano arrivati al punto, che il romanzetto vero di Giacomo aveva per lei minori attrattive di quello stampato che teneva fra le mani. — Vengo ora dalla duchessa. — Hai veduta la mamma? — Sì, e... mi ha parlato molto di te... Lalla alzò il capo un momentino, ma lo chinò quasi subito, per tornare a leggere. — Mi ha fatto una gran predica!... — E Giacomo, parola per parola, riferì a Lalla tutto quanto gli avea detto la duchessa Maria. — Ero sicura che mia madre un dì o l’altro ti avrebbe tenuto un simile discorso. Ieri, figurati, mi ha fatto una gran scena perchè, non so chi, se la Bertù o la Calandrà, è andata a dirle di averti trovato qui, da me. Una scena. Dio mio, che mi ha fatto star male tutto il giorno. Lalla si asciugò una pronta lacrimetta, e sospirò, ma tenne gli occhi sempre fissi sul libro e continuò a leggere. — Sono corso apposta da te; — le disse Giacomo, — per sentire ciò che si deve fare. — Pur troppo... capisco: il vedersi... diventa ogni giorno più difficile. — E lo dici, così?... — Ma io... — Ma tu... tu sei come gli altri. — E Giacomo, invece del solito ghigno beffardo, ebbe un sorriso tristo, doloroso. — Sì, cara contessa; è tempo di finirla. Non le pare? Un buon colpo di revolver e buona notte. Lalla, a tali parole, si sentì assai turbata. A lei la vita sorrideva ancora: qualche noia, qualche contrarietà, qualche leggero sgomento, ma scomparivano presto, lasciandola pienamente felice. La morte per Lalla era qualche cosa di lugubre, di spaventoso, e non l’avrebbe augurata nemmeno al suo più fiero nemico; perciò, l’idea sola che il Vharè fosse giunto al punto di desiderarla, le rivelava un’angoscia così grande da inspirarle una pietà nuova e profonda. Buttò via il libro, corse vicino a Giacomo per consolarlo e gli disse che — se adesso egli la vedeva più timida e più paurosa doveva capire che adesso lei non era più sola, ma che se tremava, tremava anche per suo figlio. E quando Giacomo le domandò rassegnato che cosa voleva ch’egli facesse e se doveva, come desiderava sua madre, non andarle più in casa, Lalla gli rispose di sì, che ciò era assolutamente necessario: poi saltandogli sulle ginocchia, sorridendo e baciandogli i capelli, gli aggiunse a bassa voce, colla bocca appoggiata all’orecchio: — Verrò io da te... se mi prometti di esser buono. — Quando? — Prometti prima che sarai buono, e che mi darai un bacio solo; sulla fronte. — Prometto. — Giura. — Giuro. Quando vieni? Lalla alzò il capo seria, per riflettere. Essa voleva le sue lettere, e se avea promesso di andare da lui, tanto valeva farla subito quest’ultima scappata, perchè ogni dì che passava il pacchetto col nastrino azzurro si trovava sempre in maggior pericolo. — Se quella certa scrivania venisse messa all’incanto?... — Domani, — rispose finalmente, dando a Giacomo un altro bacio sui capelli. All’indomani, in fatti, suo marito aveva seduta al Consiglio Provinciale e al Comizio Agrario. Giacomo la strinse al cuore ringraziandola: in quel momento Lalla, forse perchè stava perdendola, gli piaceva assai. Egli era poi così abbattuto: lo squallore, la vergogna della miseria lo circondavano così da vicino, che si sentiva consolare al contatto di quella donnina elegante, che gli spandeva d’intorno come un ultimo raggio de’ suoi lontani splendori. — Dunque domani? — ripetè Giacomo alzandosi per andar via: non voleva incontrarsi un’altra volta col marito. — Sì. Domani. — A che ora? — Aspettami fino alle due. Ma... — Ma? Lalla non disse una parola di più: Giacomo vide passare ne’ suoi occhi il nome della Soleil. — Cattiva! — Un’altra cosa, signor marchese. Intendiamoci: non bisognerà dimenticare ciò che mi ha giurato. — Un bacio solo... — E sulla fronte. — Lalla, civettina e stordita, fece una smorfietta di una gravità così comica e così gentile, che Giacomo non potè trattenersi dal sorridere e dal ripeterle che le voleva bene. Quando il marchese di Vharè uscì dal salottino e passò nell’altra camera, gli parve sentire qualcuno che si movesse dietro la porticina che Lalla gli aveva fatto vedere fino dalla sua prima visita a Borghignano. Si fermò su due piedi, aspettò un poco, voleva quasi tornare indietro per avvertire Lalla; ma poi, non udendo più nulla e pensando di essersi sbagliato, continuò diritto, tranquillamente, per la sua strada. Giacomo non si era sbagliato; da quella porticina avea avuto tempo di scappar via la Nena. XXIX La Nena era gelosa della sua padrona. Il Frascolini l’aveva soggiogata moralmente e fisicamente; colle carezze e colle botte, colla promessa di sposarla e colla minaccia di piantarla su due piedi se non voleva fare ciò che comandava lui, cioè spiare la signora contessa attentamente e riferire tutto ciò che poteva vedere e sentire. La Nena, in sulle prime, si era adattata assai di mala voglia al brutto mestiere; ma poi, per la gelosia, che le si destò forte e pungente, cominciò a farlo con passione. Appena la contessa Della Valle, ritornata da Roma, si era fermata a Borghignano, il direttore dell’Omnibus, ormai cavaliere e persona autorevole, si teneva sicuro di rientrare nelle buone grazie della duchessina, alla quale non doveva parer vero, secondo lui, di accogliere nel suo salotto una persona tanto ragguardevole. Perciò egli si credeva in obbligo di sfoggiare colla Nena un’aria di sussiego, certi atteggiamenti olimpici, che la mettevano sulle spine. Un giorno poi, — figurarsi! — la poveretta lo vide tutto vestito di nero, attillato, profumato e con un bellissimo occhio di vetro, che per qualche ora cominciava a poter sopportare, e seppe dal Frascolini stesso, che egli si era messo con tanto lusso, perchè doveva recarsi verso le tre, dalla contessa Della Valle! La Nena prima si fece seria seria; ma infine, vedendo che quell’altro non la guardava nemmeno, lo scongiurò di non farla diventar matta gridando che se aveva in mente di tradirla, sarebbe stato un bugiardo, un traditore, un infame. Il Frascolini lasciò sfogare la tempesta senza scomporsi; quindi, con molta gravità, cominciò a confortarla, assicurandola che, in ogni caso, egli la avrebbe sempre avuta a cuore; che, del resto, dovea ben capire come nella sua presente condizione egli non poteva bamboleggiare col sentimentalismo; egli aveva una gran missione da compiere, uno scopo da raggiungere. Il Patto sociale, simile all’Ebreo Errante, camminava sempre senza fermarsi mai, e attraversata la notte dei secoli, arrivava allora ai primi albori della civiltà. Il Terzo stato aveva fatto il suo tempo, il quarto avanzava, bisognava preparare il quinto. Del resto lui le avrebbe sempre voluto bene, ma a condizione che non lo seccasse, che non gli facesse perdere un tempo prezioso. Era inutile opporsi; lei del resto non lo poteva capire, e perciò loro due non si potevano intendere. Questo solo doveva mettersi in testa: «Non si trattien lo strale Quando dall’arco usci! Ed egli, ormai, s’era lanciato. La Nena, che aveva ascoltato Sandro cogli occhi spalancati, gli confessò che non lo capiva affatto; ma che per quella visita ch’egli voleva fare alla sua padrona, ella si sentiva stringere il cuore. Il Frascolini perdette la pazienza, la strapazzò come un cane e la mandò via. Un’ora dopo, egli si avviava verso casa Della Valle lentamente, con un gran batticuore, quantunque volesse fingere seco stesso di essere franco e sicuro del fatto suo. Egli vedeva ancora la signorina Lalla con quel suo vestitino succinto di mussola bianca, gli occhi bassi, le guance soffuse di un leggero incarnato; bella com’era bella l’ultimo giorno che si erano lasciati a Borghignano, poco prima delle sue nozze, quando gli promise che dopo... si sarebbero riveduti. — La signorina gliel’aveva promesso, ma... Ma in fin dei conti toccava a lui di farsi innanzi per il primo; non poteva pretendere che fosse la donna quella che lo venisse a cercare. Adesso era cavaliere, quasi amico del duca Prospero Anatolio; era direttore e proprietario dell’Omnibus... Una visita gliela doveva. Intanto, pensando a tutto ciò, era arrivato a casa Della Valle. Si fermò sul portone colla scusa di guardare nel portafoglio se aveva biglietti da visita; ma, in verità, si era preso quel momento per rinfrancarsi, e poi entrò diritto colla risoluzione affannosa di chi si getta, d’un salto, in una corrente di acqua fresca. Il portiere, richiesto, vista l’eleganza del visitatore, rispose che la padrona era in casa, che riceveva, e sonato il campanello lo accompagnò fino ai piedi dello scalone. Sull’uscio dell’anticamera c’era un servitore che fece entrare il Frascolini nella prima sala; poi gli domandò il suo nome e andò ad annunziarlo. Tornò dopo averlo fatto aspettare abbastanza perchè Sandro, consumata tutta la sua provvista di coraggio, pentito, pauroso dell’atto temerario, al quale non sapea più nemmen lui come avesse potuto risolversi, desiderasse che Lalla non lo ricevesse per poter scappar via. Invece il servitore lo pregò di seguirlo; ma non lo accompagnò nel salottino della contessa, e Sandro, molto maravigliato, si trovò inaspettatamente nello studio del signor conte e proprio a faccia a faccia con lui, il tentennante, il rosso di ieri!... Il Della Valle lo salutò appena, con un cenno del capo, e senza farlo sedere, tenendolo in piedi vicino all’uscio, domandò che cosa il cavalier Frascolini desiderava da sua moglie. L’egregio uomo, direttore dell’Omnibus, in questa circostanza non trovò più una gocciola di spirito e nemmeno un granellino di pepe; ma si turbò, si perdette d’animo, ed in preda ad una gran confusione balbettò coll’aria di chi sa di doversi discolpare, — ch’egli si era recato dalla signora contessa, desiderando solo di presentarle i suoi omaggi. — Allora Giorgio, fissandolo bene, gli rispose di essere incaricato, appunto dalla signora contessa, di dispensarlo da ogni obbligo: e detto ciò non aggiunse una parola di più, nè rispose agli umili inchini del Frascolini che nell’andar via sbagliava gli usci, non trovava la scala, maledicendo il momento che avea messo i piedi in quella casa. Ma trovatosi all’aria aperta gli ritornò subito il coraggio e la cattiveria, e col bruciore addosso della brutta figura che aveva fatta si arrovellò contro Lalla e contro Giorgio aggiungendo a tutto ciò che avea sofferto anche la vergogna di quell’ultima umiliazione. Però, quando rivide la Nena, non le riferì il cattivo esito della sua visita: era stato uno smacco troppo forte. Invece ebbe reticenze, misteri, i quali lasciavano sospettare chissà cosa alla povera grulla, che temeva sempre le sfuggisse l’amante, e si sforzava non più per difendere la padrona, ma per convincere Sandro che la signora contessa avea tutt’altri in mente che lui. Gli riferì, allora, come la sua padrona si era incontrata a Torino col marchese di Vharè, e a mano a mano gli contò tutto ciò che le venne fatto di scoprire, non sospettando mai che quel suo spionaggio potesse recar danno alla contessa; ma sperando solo di strappar via dal cuore del proprio innamorato ogni ricordo, ogni cara memoria. Il Frascolini, più furbo della Nena, sapeva giocarla benissimo su questo tasto. Dopo ch’egli ebbe scoperto il suo anello in dito al bel marchese, — quell’anello che gli era costato tanti sacrifici e tanti dispiaceri, — risoluto di vendicarsi e trovato il modo di farlo, per metterlo in esecuzione lasciò capire alla ragazza che s’egli non aveva prove più convincenti non avrebbe mai potuto credere che la contessa Della Valle potesse incapricciarsi di un tristo soggetto dello stampo del Vharè; ma che lei, la Nena, voleva ingannarlo pe’ suoi fini; e dopo di essere arrivato ad una tale conclusione taceva, pareva distratto e sospirava. La Nena che, oltre a tutto il resto, si sentiva accusare di falsità, si pose all’opera con maggiore impegno e si tenne sempre vigilante, spiando la sua padrona quando usciva, quando restava in casa, e tenendo d’occhio chi andava e chi veniva. Appena il portiere sonava, annunziando una visita, la Nena cacciava il capo fuori della galleria per vedere chi attraversava la corte, finchè, venuta la volta del Vharè, essa, passando per l’uscio segreto che dava adito alla stanza vicina al salottino, potè udire tutto ciò che dicevano il signor marchese e la signora contessa. Ne sentì abbastanza, più di quanto avrebbe creduto, e la sera, trovandosi come di solito, nei viali deserti dei Giardini pubblici col Frascolini, gli riferì ogni cosa, pur di convincerlo che se voleva ancora sospirare per la sua padrona, era fiato sprecato. Sandro l’ascoltò attentamente, fermandosi su due piedi, per paura di perdere una sillaba; e lì, sotto quelle piante che rendevano più ingombra la luce cupa della sera, anche il suo occhio di vetro pareva animato da una gioia selvaggia. — Per la Madonna! — ghignò concitato quando la Nena ebbe finito di parlare. — Adesso non mi scappano più! No!... ci sono caduti nella rete, ci sono caduti! — Gesù mio! Che cosa dici?... che cosa intendi di fare?... — esclamò la Nena spaventata. — Ciò che voglio fare non ti riguarda. — Ma la mia padrona? — Non ci devi pensare. — No, no. Sandro, non voglio; non voglio che tu le faccia del male. T’ho contato tutto, perchè ero gelosa, ecco, non per altro. — Oh, non l’amo, no. Sta tranquilla che non l’amo e ne avrai presto la prova. La Nena, sbigottita, cominciava adesso ad aprire gli occhi e per la prima volta si fermava nella sua corsa vertiginosa per riflettere, per misurare tutte le conseguenze di quell’atto infame, commesso da lei durante uno stordimento che l’avea spinta, trascinata giù giù, in fondo all’abisso, senza ch’ella nemmeno se ne fosse accorta. Allora, colle punture del rimorso nel suo cuore sconvolto dall’amore, ma non ancora pervertito, tornò a ridestarsi tutto l’affetto per la duchessina, la gratitudine per tutto ciò che le doveva; e pregò, supplicò Sandro di acquietarsi, di perdonare alla signora contessa, di promettere, di giurare che non le avrebbe fatto del male. Ma Sandro, le mani in tasca, il capo basso, il cappello calato sul naso, invece di lasciarsi commuovere e di rispondere, si era messo a fischiare la Marsigliese; e la durò così, ingrugnito, quanto fu lunga la passeggiata, finchè venuto il momento di tornare a casa, tentò di cavarsela salutando in fretta e filando via. Ma la Nena gli corse dietro e non lo lasciò, e Sandro dovette promettere che l’indomani si sarebbe trovato in ufficio a mezzogiorno per aspettarla e che, frattanto, non avrebbe tentato nulla contro nessuno. La poveretta arrivò a casa più morta che viva: era sbalordita, tremante, coll’angoscia paurosa di chi ha commesso un delitto. Quella sera, per giunta, la signora contessa fu con lei ancora più buona del solito; e quando ebbe finito di svestirla, le regalò una cappotta, sulla quale Lalla sapeva che la sua cameriera teneva l’occhio da un pezzo. La Nena si sentì stringere la gola nel ringraziarla, e quella veste le pesò sull’anima come fosse di piombo. Entrò nella sua camera barcollante, si cacciò presto nel letto e avrebbe voluto addormentarsi per non isvegliarsi più. Ma il sonno, invece, non voleva venire; smaniava, dava le volte pel letto, aveva paura e si sentiva i brividi della febbre. Passò così buona parte della notte finchè, colla stanchezza, riebbe un po’ di calma. — Sandro, pensava, non doveva essere affatto senza cuore e lei lo avrebbe tanto pregato, che avrebbe finito col cedere. Al primo colpo, si sa, era rimasto ferito nel vivo e non aveva voluto piegarsi, ma l’indomani, certo, sarebbe stato più buono. Non era un birbante, non era una canaglia. Alla fine egli aveva molti obblighi con lei, obblighi sacrosanti. Ebbene, ella dimenticherebbe tutto, non gli domanderebbe nemmeno più che la sposasse, a patto, per altro, che abbandonasse ogni cattivo pensiero contro la padrona. Ma e... e se invece tenesse duro?... Se fosse così... così cane, da non piegarsi a nessun costo?... Ebbene, allora lei sarebbe tornata a casa e avrebbe confessato tutto alla signora contessa... Sì, sì. La signora contessa dovea essere salva e lei l’avrebbe salvata. Alla fine poi, mentre la signora contessa e il signor marchese fissavano il loro convegno, non li avea uditi che lei sola, e al caso, in un caso disperato, avrebbe anche giurato e spergiurato di aver riferito il falso al Frascolini. Così confortata, potè addormentarsi; ma la sua quiete durò poco. Si svegliò quasi subito, sussultando, in preda a nuove angosce. Nel sogno le era apparsa la faccia del Frascolini che la fissava con un ghigno beffardo, feroce, e quella faccia s’ingrandiva a mano a mano che le si avvicinava, e appariva mostruosa, mentre di sotto alla benda nera gli colava, lungo la guancia, una riga di sangue. Ma la Nena non poteva liberarsene; ormai le era addosso, la toccava e nello stesso tempo che la vedeva chiara dinanzi, la sentiva sul petto greve, opprimente. Si svegliò che credeva di soffocare; spalancò gli occhi; eccola ancora, quella grinta, in mezzo al buio della cameretta!... Accese il lume impaurita, si provò a pregare; no, no, non poteva; aveva la mente troppo sviata, troppo sconvolta. Si alzò che albeggiava. Il primo oggetto che si presentò al suo sguardo fu la cappotta regalatale dalla padrona. Allora la prese con tutt’e due le mani, la baciò quasi devotamente, e riandando col pensiero le memorie più lontane della sua infanzia, rammentava tutti i benefici ch’ella aveva ricevuti in quella casa; l’assistenza, i soccorsi prodigati a sua madre, al babbo suo, e quel comando di Lalla di non ritornare a discorrere mai più col Frascolini... Lei l’aveva disubbidita; aveva incontrato Sandro, di nuovo si era messa a parlare con lui... Egli le disse che le voleva sempre bene... la condusse lassù, in quel camerone buio, lungo, basso come una prigione, pieno zeppo di ruote, di cavalletti, di macchine che giravano, pestavano, fischiavano, mentre uomini sudici, col ceffo annerito e con certi occhiacci che la divoravano viva, sembravano in tutto quel fracasso d’inferno altrettante anime dannate; poi... poi, senza saper come, da un momento all’altro, si trovò in una stanzetta linda, silenziosa... Per la prima volta sentiva adesso, adesso soltanto, tutto l’orrore della propria colpa, come un ubriaco che, risvegliandosi dopo un lungo sonno, a poco a poco si ricorda di aver commesso un delitto. A questo strazio non potè reggere, cadde bocconi sul letto e mentre le pareva di sentirsi nell’anima la maledizione de’ suoi due vecchi, balbettava singhiozzando: — Vergine Santa! Vergine Santa! Che cosa ho mai fatto! Più tardi, quando ebbe vestita la sua padrona, prima del mezzodì, e colla scusa di dover andare dal merciaio, corse dal Frascolini. Ma il Frascolini non c’era, nè giù all’ufficio, nè su, in casa, e nemmeno in stamperia. La Nena si sentì una stretta al cuore: Sandro non le aveva mantenuta la promessa. Ne domandò a un monello in camiciotto, con due occhietti neri, maliziosi, luccicanti in una faccia scialba e sudicia, la pipa in bocca e un berretto in testa, fatto con un giornale. Il monello sbirciò la bella ragazza, strizzando l’occhio, tale quale come se fosse stato un uomo di vent’anni, poi levandosi la pipa, sputando e asciugandosi lentamente le labbra colla manica del camiciotto, rispose: — È il direttore che cerca? Il direttore è andato a... — e movendo la mano aperta, distesa, all’un de’ fianchi, il monello fece quell’atto che spiegava come Sandro fosse andato a mangiare. — Tarderà molto a venire? — Secondo l’appetito. Intanto può aspettare in ufficio. — No, grazie. — Come vuole. — E il monello, continuando a sbilucciarla, sputacchiò un’altra volta per darsi importanza, poi, fischiettando con un certo fare da menimpipo, infilò l’uscio della stamperia e scomparve. La Nena era inquieta e sgomenta: aspettò sulla porta una mezz’ora buona, salì di nuovo, nemmeno il proto sapeva indicarle dove si potesse trovare il signor direttore. Al caffè avevano mandato a cercarlo, ma non c’era; non andava più lì, di fisso, a far colazione. La poveretta era sulle spine e ogni minuto che passava pareva le portasse via un tanto di fiato e di vita. Finalmente, quando già cominciava a disperarsi, vide Sandro scantonare e avvicinarsi verso casa. — È un’ora che ti aspetto, — gli gridò la Nena appena fu dentro e si trovò sola con lui... — Se non volevi aspettarmi potevi andartene. La Nena guardò attentamente il Frascolini: era più rosso del solito, aveva la cravatta sciolta, ansava... doveva aver bevuto molto a colazione. — Sai che cosa mi avevi promesso, ieri sera?... L’altro si strinse nelle spalle, schivando che il suo occhio s’incontrasse negli occhi penetranti della ragazza — Ho da fare, oggi, — le disse alla fine, tanto per liberarsene. — Me ne vado via subito; soltanto voglio prima che tu mi prometta ciò che non hai voluto promettermi ieri sera. — Impossibile — rispose Sandro, strappandosi del tutto la cravatta, perchè soffocava. La Nena non si perdette d’animo e con quell’eloquenza che prorompe dal cuore, tornò a scongiurarlo di perdonare alla Signora contessa e di non farle del male. Gli disse che a questo solo patto ella sarebbe stata la sua serva, la sua schiava, che egli non avrebbe più udito dalla sua bocca nè un rimprovero, nè un lamento e che non gli avrebbe più rinfacciato la pace, l’onore perduto. Gli ricordò la devozione, la gratitudine che il padre di lui, il vecchio Frascolini, aveva sempre serbata viva nell’anima per la signora duchessa, quella santa donna che sarebbe morta d’affanno, se qualche disgrazia fosse toccata alla sua figliuola; e siccome Sandro si era messo a fissarla come intontito, la Nena lo credette commosso, gli gettò le braccia al collo e continuò a pregarlo, a supplicarlo, coprendolo di carezze, di baci, di lacrime finchè, vedendo che l’altro durava a star zitto, esclamò: — Dunque, di’ su, rispondi; mi fai questa grazia?... Posso viver tranquilla, vero?... Posso viver tranquilla? — Levati, via!... Mi secchi, mi fai caldo, così a ridosso, — esclamò il Frascolini; poi con una certa precipitazione, come se volesse liberarsi d’un gran peso, — dopo tutto, — concluse — è tempo perso per me e per te. Tornare indietro adesso non si può; quel ch’è fatto, è fatto. La Nena diede un urlo e il Frascolini fu scosso dall’espressione strana di sgomento, di dolore, d’ira, che apparve su quel volto contratto. Allora, per vincere l’inquietudine da cui si sentiva dominato, si pose a gridare, a urlare a sua volta, col braccio teso, col pugno chiuso; pareva volesse percuotere un’immagine odiata ch’egli si vedeva ritta dinanzi. — M’hanno scacciato come un cane, nome d’un Dio!... Come un ladro! Tu non lo sapevi questo, vero?... Fu lei, che ha fatto crepare mio padre di dolore; fu lei, che mi ha avvelenata la vita, che mi ha guastato il sangue, che mi ha strappato il cuore!... La cercavo io?... No. Ero tranquillo, ero felice, ero onesto. Sì; onesto. È stata lei a rovinarmi, a perdermi, a filtrarmi fuoco e tossico nell’aria che respiravo. Sì!... Mi sono vendicato. Sì!... E per questo? Vita per vita!... Pace per pace!... Onore per onore!... Alla gogna! — Alla lanterna gli aristocratici, alla lanterna; nome d’un Dio! La Nena pallida, fremente, cogli occhi torvi, gli afferrò il braccio che teneva disteso, e stringendolo e strappandolo con una forza nervosa, strana: — Rispondi — balbettò, palpitante. — Rispondi, assassino; che cos’hai fatto? Sandro era in preda ad una commozione, ad una eccitazione indescrivibile. I fumi del vino che gli annebbiavano il cervello, l’ira, l’odio che aveva nell’anima, i ricordi degli oltraggi e del suo amore offeso, tutto ciò non riusciva, in quel momento, a soffocare il rimorso! Egli giurava a sè stesso, alla Nena, a Dio, ai Santi che aveva avuto ragione di vendicarsi come si era vendicato, che nemmeno il Padre Eterno avrebbe avuto più pazienza di lui, che altrimenti sarebbe stato uno stupido, un vigliacco: ma non osava di guardare la Nena, e quanto più alzava la voce e smaniava, tanto meno riusciva a nascondere, a soffocare quell’altra voce che gli usciva più forte dalla coscienza. — Assassino! Assassino!... Che cos’hai fatto?! — continuava a ripetere la Nena, con voce rotta, convulsa, così dappresso ch’egli si sentiva bruciare la faccia da quell’alito caldo. — A me, sai, non si può darla ad intendere. A me non puoi venire a dirle le tue menzogne. Non puoi parlare di giustizia, di diritto con me!... Che giustizia è la tua di vendicarti su chi, anche, ti avesse fatto del male?... Mi vendico io di te?... E me n’hai fatto del male!... Oh! se me n’hai fatto!... Ero venuta a cercarti io?... Ti avevo strappato il cuore, attossicata l’aria? No. E dunque, vita per vita, pace per pace, onore per onore, non t’eri forse pagato abbastanza con me, assassino? Sandro, così come gli appariva allora, non aveva mai veduta la Nena... Non era più la fanciulla innamorata sommessa che gli stava dinanzi; era un’altra donna. Al Frascolini pareva che in lei si fosse incarnato il proprio rimorso. Lo sdegno di quella donna era più vero e più giusto del suo; essa lo confondeva, lo schiacciava, e Sandro ne ebbe paura. Allora, senza neppur sapere ciò che facesse o dicesse, a strappi, confessando prima e poi contraddicendosi e negando, accusando gli altri e difendendo se stesso, cercando scuse e pretesti, cominciando col mentire e terminando coll’essere sincero, contò alla Nena, con ogni più minuto particolare, l’infame vigliaccheria che aveva commessa; e quando ebbe finito, senti come un grande sollievo a non aver lui, lui solo, sulla coscienza, il peso enorme di quell’odioso segreto. La Nena lo ascoltò, ascoltò tutto, pallida, tremante, senza mai dire una parola; poi, uscì ratta dalla camera, fece le scale a precipizio e correndo, senza badare ai curiosi che si voltavano a guardarla, corse subito a casa per cercare della signora contessa, per avvisarla di tutto, per impedire ch’ella andasse dal Vharè, per salvarla. Alle due, mancavano più di tre quarti d’ora. Oh, sarebbe arrivata ancora in tempo!... La Vergine benedetta le avrebbe fatta questa grazia, questo miracolo!... Arrivata a casa, fece le scale di corsa, entrò nell’appartamento, ma non trovò la signora, in nessun luogo. Era uscita per andare alla messa, poi non era più tornata... — Certo, — le dissero le altre donne, che la Nena aveva interrogate, — certo, doveva essere da sua madre. — La Nena, tornò da capo a uscire, a correre con un orgasmo, che parea le mettesse le ali ai piedi. Arrivò al palazzo d’Eleda stanca, sfinita, anelante, fuori di sè, come una matta: — Dio, Dio!... Si faceva tardi: forse non era più in tempo, forse la sua padrona era perduta... — La signora contessa è qui?... è di sopra? — domandò al portiere, senza pensare che mostrandosi tanto inquieta avrebbe finito col destare sospetti. — Sì; almeno lo credo. Per essere venuta è venuta di certo, mezz’ora fa. Se per altro non è tornata via mentre io sono stato fuori per la signora Luigia. — Mi faccia il favore di domandare subito a Lorenzo se la mia padrona c’è ancora. — E se c’è, devo farle dire qualche cosa? Il portiere era stato messo in grande curiosità dall’agitazione della signora Nena. — No... no. Mi basta di sapere se c’è; nient’altro che questo; ma per carità... faccia presto!... faccia presto! Se la sua padrona era lì, pensava intanto la Nena fra sè, lei l’avrebbe aspettata in portineria, e quando fosse per uscire, le avrebbe tenuto dietro e l’avrebbe avvertita di ogni cosa. — Signora Nena! Signora Nena! — il portiere la chiamava, da una finestra del primo piano. La Nena passò subito nella corte e — c’è?! — gli domandò prima di salire, con un’incertezza angosciosa. — Venga di sopra, subito! — e il portiere, così dicendo, abbassò il capo. — La povera donna credette, in quel modo, che l’altro avesse inteso di rispondere affermativamente. — Ah, benedetto Dio!... era ancora arrivata a tempo! — E consolata, raggiante, non pensando nemmeno che per salvare la sua padrona avrebbe dovuto cominciare coll’accusar sè stessa, fece le scale d’un salto. — Dov’è? — chiese ansando al portiere, che l’aspettava in anticamera. — La signora contessa è uscita adess’adesso. È la mia padrona che le vuol parlare. — La Nena perdeva la testa, ma non ebbe tempo di muoversi, se non basta di fuggire, che già la duchessa, in persona, era comparsa sull’uscio. Il portiere, mentre cercava Lorenzo, aveva incontrato la duchessa Maria, e richiesto da lei le aveva detto che era salito perchè la Nena voleva sapere se c’era ancora la sua padrona, e aggiunse che gli era sembrata inquieta, sconvolta. Udendo ciò. Maria volle veder subito la Nena pel timore che fosse accaduta qualche disgrazia. — Che cos’è successo?... Che cosa vuoi dalla tua padrona? — Nulla... volevo... Non è successo nulla, signora duchessa; stia certa... Nulla... volevo... — Ma la Nena commossa, confusa, non sapeva dire una parola, si confondeva, tremava, balbettava tanto che Maria, vedendo tutto quel turbamento, mandò via il portiere e condotta la Nena nella stanza attigua, le domandò vivamente, imperiosamente: — Che cosa è accaduto?... Parla: di su; non m’inganni. Che cosa è accaduto? — Nulla... Nulla... — e alla Nena le girava intorno tutta la stanza, le si piegavano le ginocchia, le pareva di soffocare, di morire. Maria indovinò, lesse su quella faccia alterata, stravolta, che Lalla doveva correre qualche pericolo: e — Sono sua madre, intendi? Sono sua madre!... — gridò alla Nena scotendola. — Rispondi, subito: che cosa è successo? — Nulla!... — No. Devi dire la verità. Voglio sapere la verità. — Ebbene... — Ebbene?... Parla!... Ma parla, disgraziata!... Vuoi farmi morire? La Nena, non potè resistere a quest’ultimo urto; non potè lottare, e coll’abbandono disperato del naufrago che non ha più lena di opporsi contro l’onda che lo percuote, che lo trascina, cadde ai piedi di Maria e singhiozzando le svelò ogni cosa. Maria, nello stesso tempo che a quelle parole si sentiva stringere il cuore come in una morsa, trovò pure tanto coraggio, tanta energia, quanta non ne aveva avuta mai. Vide, capì soltanto, che sua figlia era in pericolo, e non pensò più che a salvarla. Si fece ripetere dalla Nena tutto ciò che aveva saputo dal Frascolini, poi le ordinò di ritornare a casa e di mostrarsi con tutti tranquilla e indifferente. Si sarebbe abbandonata più tardi alle lacrime ed ai rimorsi, quando la sua padrona fosse stata al sicuro. Per quella madre, Sandro, il Vharè, la Nena erano tutti colpevoli, odiosamente colpevoli, ma sua figlia no, o, almeno, non pensava alla sua parte di colpa; sua figlia non la vedeva altro che in pericolo. Corse nella sua camera, si buttò addosso una mantelletta nera, un velo fitto sugli occhi, e si avviò verso la casa del Vharè. A che fare?... Non lo sapeva nemmeno; ma se non avesse potuto salvare sua figlia l’avrebbe difesa, l’avrebbe protetta, se la sarebbe portata via: era sua, non era di nessun altro. Lalla, sua figlia; era sua. Maria aveva saputo dove il Vharè stava di casa, poco tempo prima, quando successe lo scambio dei biglietti di visita fra il marchese Giacomo e il duca Prospero, per la morte dello zio. Risoluta, con passo fermo, sicuro, non sentendosi più nemmeno ammalata, arrivò alla casa del Vharè. Appena dentro alla porta, in fondo alla scala, c’era di guardia il vecchio servitore di Giacomo. — Da che parte si va dal vostro padrone? — Non è in casa — rispose l’altro, un po’ turbato. — E in casa, è in casa. Accompagnatemi dal vostro padrone, subito. Andate, presto!... Andate avanti; dov’è? Il vecchio, a quelle parole e a tanta fermezza, non ebbe il coraggio di opporsi e non sapeva che fare. Ad ogni modo, pensò che doveva avvertire il suo padrone di quanto accadeva; corse su per le scale, aprì l’uscio in fretta, ma in quel punto Maria, che lo aveva seguito, con una spinta lo allontanò dalla porta ed entrò con impeto, mentre l’altro gridava per dare l’allarme: — Padrone! signor padrone! Il Vharè si presentò subito a Maria, ma questa non ebbe il tempo di dirgli nulla: sentì un grido che le schiantò il cuore. Era stato il grido di Lalla, che aveva riconosciuta sua madre. — Vieni!... Vieni via! Forse siamo ancora a tempo. Gli hanno scritto una lettera anonima. Vieni via! Lalla, spaventata, si mise a piangere, a balbettare parole sconnesse, mentre confusa e tremante cercava, il cappello, la mantellina, i guanti... Il Vharè rimaneva immobile, colla testa bassa, pallidissimo. Egli, che sarebbe stato forte, impassibile contro il marito offeso, dinanzi alla madre perdette tutta la sua audacia, si sentì colpevole e vile. Maria non gli rivolse una parola, non lo guardò nemmeno; non sentiva, non vedeva, non capiva nulla, altro che una cosa sola: salvare sua figlia. Lalla era pronta, stava già per uscire, quando Maria che si era avvicinata alla finestra spiando dietro le tendine calate, diè all’improvviso un grido soffocato, e presa e stretta sua figlia fra le braccia, come per salvarla, con un atto d’indicibile sgomento le additò un uomo nascosto fra le colonne esterne di una chiesa, che faceva angolo in fondo della strada. Prima ancora di ravvisarlo, tutte e due sentirono ch’era lui, Giorgio, e non s’ingannarono punto: Giorgio, immobile, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso sulla porta di quella casa maledetta. Doveva esservi giunto allora allora: Maria, quando era passata di là, avea guardato bene; non c’era nessuno. Giorgio, infatti, era lì fermo da pochi istanti. Quel giorno al tocco, lo si sapeva, era aspettato alla sede del Comizio Agrario; ma invece la seduta era andata deserta. Egli allora, era una bella giornata di sole, ritornò a casa per prendere Lalla e fare insieme una passeggiata. Anche il Della Valle, come prima la Nena, sentì che Lalla non c’era, ma anch’egli pensò subito che l’avrebbe trovata da sua madre. Prima per altro, come faceva spesso, passò dal suo studio per vedere se fossero arrivate lettere od altro. — Trovò il suo ragioniere, parlò di affari con lui, gli diede alcuni ordini e già stava per andarsene, quando l’altro gli additò una lettera e una gazzetta appena arrivate. Il Della Valle guardò l’una e l’altra distrattamente, poi buttò il giornale e tenne la lettera. L’indirizzo era scritto con una calligrafia ignota; anzi, a guardarci bene, era una calligrafia a sghimbescio, ammaccata, piena di adulterazioni studiate. Ciò lo mise in sospetto. Osservò il bollo: era di città; la data: quella dell’ultima impostazione. Doveva essere, senza dubbio, una lettera anonima, e diè un’alzata di spalle! Nelle noie, nei triboli della sua vita pubblica, erano queste le spine meno pungenti. Sorridendo stracciò la busta, e come aspettandosi una buffonata cominciò a leggere tranquillamente; ma poi, dopo le prime parole, trasalì, oscurandosi in viso: «Signor conte! «Se non siete un vile, se vi sta a cuore l’onor vostro e quello della vostra famiglia, oggi alle due dovete recarvi in persona a fare una visita al vostro amico, il marchese Giacomo di Vharè. Chi ve ne consiglia, sappiatelo, è la Giustizia di Dio!» — Ah, no, no, no!... Questo è un tiro di quel farabutto del Frascolini! — esclamò Giorgio calmato il primo impeto, e si strinse nelle spalle e stracciò la lettera. — Un uomo onesto, un uomo che si rispetta, non tiene nessun calcolo delle lettere anonime — pensava fra sè. Certo; doveva averla scritta il Frascolini, per vendicarsi d’essere stato messo alla porta!... Canaglia, buffone!... «Andate alle due dal vostro amico, il marchese Giacomo di Vharè, se vi sta a cuore l’onor vostro e quello della vostra famiglia!...» — Ha proprio trovato, l’imbecille, chi ci casca nella rete. Ma... con che scopo mi scrive così? Anche ammesso che io fossi tanto gonzo, una volta che ci andassi, che cosa avrebbe ottenuto?... — Così, a poco a poco, senza accorgersene, cominciò ad essere inquieto. Di sua moglie era sicuro; per altro, con quella lettera, si voleva alludere a lei. Ripetè seco stesso che sarebbe stato un vile, peggio del Frascolini, se avesse dubitato di sua moglie, per una lettera anonima. Di sua moglie era sicuro, non arrivava nemmeno a concepire un dubbio così mostruoso; ma, ad ogni modo, perchè si scrivesse a lui in quella forma, perchè lo si volesse fare andar lui, quel giorno, dal Vharè, chi scriveva doveva aver preso un qualche equivoco. — Giorgio era sicuro di Lalla, tuttavia lo turbava quel nome del Vharè, messo lì per eccitare la sua gelosia. Perchè avevano scelto il Vharè?... proprio il Vharè? Dunque si era detto in giro che costui faceva la corte a sua moglie?... In conclusione, quella lettera cominciava a fare il suo effetto, e già egli voleva accertarsi che era una menzogna, che era una calunnia infame; e pensò ad una scusa, ad un pretesto per poter andare dal marchese. Perchè ci voleva un pretesto. Se il Vharè avesse indovinato qualche cosa, egli avrebbe fatto una figura ridicola. Ma infine, non andarci e tenersi addosso quella febbre?... Se la lettera avesse accusata apertamente Lalla, forse lo avrebbe meno inquietato; ma quella forma sibillina, quel reciso consiglio di andare dal Vharè alle due proprio alle due?... Che scopo ci doveva essere per mandarlo là a quell’ora? Non avrebbero potuto inventare qualche cosa di meglio? Un ordito più ingegnoso e che non si potesse così subito mettere in chiaro?... E Giorgio, attratto da una forza che vinceva ogni ragionamento, persuaso che non avrebbe dovuto essere così debole, sicuro che commetteva quasi una bassezza, ma pur tuttavia volendo fare ciò che gli avrebbe ridata la pace e la quiete, anche a costo di esser lui più tardi il primo a ridere di sè stesso, volle vedere, verificare, toccare con mano che quella lettera era stata scritta da un bugiardo, infame, e per di più da uno sciocco: bugiardo, perchè mentiva; infame perchè calunniava sotto l’anonimo, e sciocco perchè non aveva saputo immaginare una falsità più verosimile. — E se lo scopo dell’anonimo fosse quello soltanto di burlarsi di lui per ridere alle sue spalle?... — Un tal pensiero lo trattenne a mezza strada... e lo fermò appunto, sotto la chiesa. Era inquieto, titubante e anche un po’ si vergognava di sè stesso, perchè infine, il fatto di fermarsi a spiare era un’azionaccia indegna. — Ma dopo, sarebbe stato così tranquilla, così felice! Era lì da qualche tempo e aspettava, e non vedendo alcuno nè entrare nè uscire, persuaso e convinto di aver avuto torto a muoversi, stava per andar via, quando si affacciò sotto la porta, dove il suo occhio era sempre fisso, il marchese di Vharè. Giacomo uscì, venne verso la chiesa tenendosi sul marciapiede opposto, e tirò diritto senza guardare nemmeno dalla parte dov’era il conte Della Valle. Ma il cuore?... il presentimento?... il Vharè passava diritto e sicuro; eppure a Giorgio sembrò di notare in lui qualche cosa di strano, di irresoluto, qualche cosa che non era naturale; e invece di andarsene, rimase fermo, guardando fisso quella porta che pareva volesse bruciare cogli occhi. Su, intanto, in casa del Vharè, Maria e Lalla erano in un tormento di disperazione. Lalla inginocchiata, piangeva sempre, nascondendo la faccia nelle vesti di sua madre che, rigida e stecchita, nascosta dietro la tendina, non respirava, non viveva altro che per gli occhi, intenti in quell’uomo, sempre immobile laggiù, fra le colonne della chiesa. Era stata lei che aveva consigliato al Vharè di uscire. In mezzo allo sgomento di tutti, lei, lei sola, per amore di sua figlia, conservava ancora un po’ di coraggio, un po’ di fermezza. — Signor Vharè... provi ad uscire — gli aveva detto: — e qualunque cosa accada, per ora, non ritorni più qui. Chi sa, vedendolo andar via solo, non vedendo più nessuno, chi sa ch’egli non possa calmarsi e credere di essere stato ingannato. Il Vharè non rispose una parola. Non ebbe il coraggio nemmeno di alzare gli occhi; ma con una obbedienza passiva e rispettosa, fece quanto gli veniva imposto. La duchessa Maria, pallidissima e anelante, tornò a guardare fissa dalla finestra. Lalla era tramortita e si vedeva perduta da un momento all’altro, e perciò, per lo spavento che le legava il cuore, sentiva un gran conforto dalla presenza di sua madre. Le stava vicina piangendo, inginocchiata e tenendosi colle mani stretta alle vesti di Maria. — È andato?... Se ne va?... Si muove?... — chiese poi a sua madre, con un fil di voce, senza osare di alzarsi a guardar lei dalla finestra, quando le sembrò che il Vharè dovesse ormai essere passato dalla chiesa, ed anche scomparso dalla strada. — No! — rispose Maria colla disperazione sorda di chi ha perduta anche l’ultima speranza. — Dio, Dio mio! — balbettò Lalla, torcendosi le mani con un altro scoppio di pianto dirotto, — Dio! Dio mio!... Che cosa fa fare la passione! Tu non sai, mamma; tu non sai! — Io non so?... Io?... — Maria, a tali parole, si sentì scuotere tutta, si sentì vacillare come se una mano invisibile l’avesse percossa sulla faccia, e le sembrò allora, in quel momento, che tutta la storia della sua vita così addolorata, le si sollevasse viva dinanzi. Anche Maria aveva la febbre, anche Maria delirava. Le più forti commozioni, mille opposti sentimenti si affollavano, si confondevano in lei; e mentre rimaneva immobile, palpitante per il disonore, per l’infamia che minacciava sua figlia, già l’audacia di un sacrificio ch’ella aveva appena intravveduto, ma che sentiva pure di dover accettare ad ogni costo, perchè sola poteva salvare sua figlia, le sgominava la coscienza, le straziava l’anima. Era un sacrificio supremo e terribile, era lo schianto di tutto il suo cuore, era la sua ultima speranza perduta, la sua ultima illusione svanita; era l’orgoglio, era il santo pudore della donna che in lei rimaneva mortalmente offeso, era Giorgio, Giorgio che l’avrebbe derisa, disprezzata, maledetta!... Era l’urto dei due sentimenti più forti della sua vita che s’incontravano, che davan di cozzo fra di loro per abbatterla, per ucciderla. — Io non la conosco la passione?... Io non la conosco?... T’inganni, sai, Lalla... Son vent’anni che la conosco, è da vent’anni che mi tenta, è da vent’anni che mi fa piangere, che mi fa soffrire, che mi strazia, ed oggi... oggi, sì, ha vinto lei; però è riuscita ad uccidermi, ma non è riuscita a perdermi, — Io non la conosco la passione?... E sei tu, tu, che inginocchiata, fra le lacrime ed i rimorsi, non trovi altra difesa alla tua colpa che in un insulto al mio dolore. Ma sai che io ebbi il coraggio di fuggirlo l’uomo che amavo, e che colle mie stesse mani ho voluto e ho saputo cancellare dal suo cuore ogni memoria, ogni ricordo mio? E sai tu quando, dopo averlo pianto con tutte le mie lacrime per anni ed anni, senza averlo potuto mai dimenticare nemmeno per un giorno, nemmeno per un’ora, sai tu quando l’ho riveduto?... Quando venne a chiedermi in moglie mia figlia!... Ed io mia figlia gliel’ho data in moglie, e lo amavo, sai, Lalla, e lo amo; tanto è vero che muoio!... — Lui?... Giorgio!... — esclamò Lalla, guardando sua madre esterrefatta. — Sì... tuo marito; tuo marito che oggi vedrà me uscire da questa casa e crederà che io sia l’amante di un uomo che è corrotto, che è vile, infame, quanto tuo marito è grande, è nobile, è bello!... Sì... Giorgio!... Sì... anche l’ultima mia speranza mi deride, la speranza di essere ricordata come una madre adorata, come una donna onesta; anche l’unico sentimento che mi era concesso di ottenere da lui, e che mi era pur tanto caro, la sua stima, oggi la perdo per sempre. Ma che importa?... Nel mio stesso sacrificio sento più viva, più grande la mia passione; e se non mi è dato di amarlo, sono io, io sola, che in questo momento può difendere, può salvare la sua quiete, la sua felicità, la sua vita... e la tua! — Maria, così dicendo, cogli occhi scintillanti, bella, più bella nel suo amore, nel suo dolore, nel suo coraggio, pareva godere, fremendo, la voluttà di quello spasimo supremo, e abbassato, il velo sugli occhi si strinse nella mantellina e si avviò per uscire. — No!... No!... Non voglio! — gridò Lalla, non più singhiozzando, ma guardando sua madre con un’espressione di maraviglia, di sgomento e anche quasi di gelosia ne’ suoi occhi spauriti. — No, no, non voglio! - — Lasciami!... Lasciami passare!... Domando a Dio, domando a te per tutto quanto ho sofferto, una grazia... una grazia sola: quella di poterti salvare. — Va via! Alzati!... Tu non puoi impedire a me, a tua madre, di salvarti. Alzati! Va via!... Te lo impongo. Io sola, qui, ho diritto di comandare e di sacrificarmi; tu questo diritto non l’hai, tu devi ubbidire. Va!... Va! Lasciami passare!... — Maria più forte di Lalla in quell’istante, l’afferrò per un braccio e dopo averla violentemente strappata dall’uscio la condusse vicino alla finestra e — sta attenta, — le disse concitata, indicandole Giorgio, — tra poco lo vedrai... lo vedrai muoversi di là... forse per seguirmi... forse... per fuggire. Tu allora potrai scendere, potrai salvarti. Bada!... Al mondo non ho più nulla, altro che te. Devi salvarti, te lo comando; devi salvarti, perchè tu sei ancora l’ultimo anelito di questo cuore che s’infrange. Salvati, o mi farai maledire la mia virtù, il mio sacrificio, la mia vita; salvati, o mi farai morire dannata! — E uscì ratta, sciogliendosi con un urto violento dalle braccia, dalle mani di Lalla che tremante, le si aggrappava d’intorno, tentando invano di trattenerla. Lalla rimase interdetta, stordita; ma poi, trovandosi sola, il pericolo che correva la fece presto rientrare in sè stessa. Si avvicinò alla finestra, tenendosi sempre nascosta dietro le tendine, trattenendo fino il respiro, tanto aveva timore di poter essere scoperta. Giorgio era lontano, ma lo vedeva bene. Aspettò con un battito di cuore angoscioso; ci fu un punto in cui lo vide trasalire con una scossa di tutta la persona: indovinò che sua madre, in quel momento gli era passata dinanzi. Poco dopo, lo vide uscire barcollante dalle colonne della chiesa, guardarsi attorno sospettoso e sparire. Allora... oh, allora sentì che era salva!... Si accomodò in fretta le vesti, la mantellina, il cappello; si guardò attorno un’altra volta, come incerta, esitante, poi, ad un tratto, parve risolversi e si avvicinò alla scrivania, aprì un cassetto: c’erano le sue lettere unite insieme, legate col nastrino azzurro. Le prese, rinchiuse il cassetto, le cacciò in tasca, abbassò il velo, si strinse nelle vesti, scese a volo giù dalle scale e corse a casa lesta, spedita. Giorgio, quel giorno, salì da sua moglie più tardi del solito. Aveva girato a lungo per le strade più deserte di Borghignano; voleva stordirsi, voleva calmarsi. Si sentiva sconvolto e umiliato dalla dolorosa e vergognosa scoperta. Non domandò nemmeno al portiere se Lalla era rientrata; ormai non pensava, non ricordava più che, quando prima l’aveva cercata, sua moglie era fuori. La trovò nel salotto sola, che lavorava coll’uncinetto una piccola cuffia da bambino. Giorgio si sentì stringere il cuore e baciò Lalla sui capelli, colle labbra che gli bruciavano dalla febbre; poi ebbe appena il tempo di fuggire nella sua camera, perchè si sentiva soffocare dalle lacrime. Quando riapparve, all’ora del pranzo, disse a Lalla ch’egli si sentiva poco bene, ma le prodigò le cure più affettuose, più tenere, che lasciavano scorgere in lui qualche cosa di triste, di melanconico, un’espressione di compianto indefinibile. Giorgio non si stancava di accarezzarla, le dimostrava tutto il suo amore, come se volesse amarla e consolarla anche per la mamma... che la poveretta non aveva più. Lalla seria, mesta, riceveva quelle carezze con una docilità timida, quasi paurosa. Cogli occhi scuri, profondi guardava lungamente suo marito, quando egli non la vedeva, e il suo sguardo era inquieto e appassionato: lo guardava come non lo aveva guardato mai, a volte facendosi pallida pallida, a volte diventando rossa, di fuoco. XXX Trascorsi in pace alcuni giorni e riposatasi alquanto dal gran pericolo che aveva corso, la contessa Lalla era tuttavia sempre assorta col pensiero nelle vicende di quel momento tanto angoscioso e terribile. Vedeva ancora sua madre fremere di amore e di dolore, nel compiere l’ineffabile sacrificio; sentiva ancora, nell’anima, l’eco di quelle parole che Maria le aveva gettate in faccia calde, vive, sanguinanti, come i brani di un cuore infranto, e tutto ciò mentre si agitavano in lei, mentre correvano nel suo sangue le prime fiamme di quella istessa passione. Giorgio le appariva come non le era apparso mai: anche Lalla, adesso, lo vedeva grande, nobile; lo vedeva bello. Quando egli parlava, non era più distratta, non lo interrompeva più per uno scherzo, per un nonnulla, ma lo ascoltava silenziosa, fissandolo con dolcezza infinita, come se da quella sua voce adorata ricevesse intime seduzioni. Lo cercava sempre, gli era sempre d’attorno, continuamente, quantunque cominciasse a sentire una soggezione indefinibile alla presenza di Giorgio, una timidezza strana!... Arrossiva quando egli le si avvicinava; le sue parole la turbavano e rimaneva colpita e mortificata dalla devozione cieca ch’egli aveva per lei: ma tuttavia era beata quando Giorgio stava lì a vezzeggiarla, a sorriderle, a ripeterle che le voleva tutto un mondo di bene. Adesso Lalla non gli faceva più scene, non aveva più capricci, non era più lei che comandava; ma era docile e sottomessa, esprimendo in ogni suo atto una tenerezza affettuosa e rispettosa. Come si era mutata in poco tempo!... Giorgio, consolato, credeva di dover tutta quella trasformazione alla donna che diventava madre. Lalla non era più frivola, non era più permalosa, ma era triste spesso e malinconica, era diventata una donnina raccolta e pensierosa. Il segreto di simile cambiamento era... era l’amore: Lalla cominciava ad amare e si sentiva infelice. Cominciava ad amare suo marito come non lo aveva amato mai; come, così, non aveva mai amato nemmeno quell’altro: cominciava adesso ad amare per la prima volta. Ma Lalla, a cui tutto pareva sorridere, Lalla, che si sarebbe creduto avesse tanta e così sconfinata felicità d’intorno quanto ha la rondine d’aria e di cielo, era invece infelicissima. A mano a mano che il suo cuore cominciava e vivere, a battere, il suo cuore sentiva più fiera, più acuta la voce interna del rimorso, e allora il sacrificio quasi disumano di sua madre le pesava più della colpa. Subiva strazi e punture atroci, tanto che un giorno, in preda ad una convulsione disperata, pensò di buttarsi ginocchioni dinanzi a suo marito, pensò di svelargli, di confessargli tutto; poi non ebbe il coraggio di farlo, non già che si sentisse vile, ma perchè, dopo, egli non l’avrebbe più amata. E Lalla, a costo di perdere la pace per sempre, a costo di soffrire per sempre l’affanno per quel rimorso, a costo di finire dannata, non voleva perdere, non voleva, non poteva rinunziare all’amore di Giorgio. La sua mente, il suo spirito, erano in continua agitazione, in continuo tormento. Tra le sue angosce c’era anche la ripugnanza ch’ella sentiva adesso per il Vharè, una ripugnanza strana e dolorosa, che alle volte rivolgeva contro sè stessa, perchè le pareva di sentirsi tutto il corpo insudiciato da quella colpa. Allora non era più antipatia, non era più ripulsione che il Vharè destava in lei; ma lo odiava coll’odio quasi feroce della donna disamorata che ha ceduto in un momento di debolezza o di abbandono dei sensi. Ogni volta che suo marito, accarezzandola, alludeva alla propria contentezza, alle intime gioie che gli risvegliava nel cuore quella creaturina non ancora nata, ma già tanto viva al suo affetto, sembrava a Lalla di vedere il Vharè mettersi fra di loro come un fantasma, per mutare in uno spasimo di rimorso la cara voluttà delle più dolci carezze. Lalla non poteva mai essere sola con Giorgio; l’immagine del Vharè non la lasciava un istante!... Allora, per fuggirla, per cancellarla, sentiva il bisogno di stordirsi e di nascondersi in mezzo a tutti i suoi cari; ma anche lì era aspettata e tormentata da nuovi dolori. Giorgio credeva sua madre colpevole, colpevole del suo proprio delitto!... Egli voleva, tentava di nascondere in fondo all’anima l’odioso segreto, ma come nel suo contegno, ed anche nella sua rispettosa tenerezza verso la mamma, come si era fatto diverso! E come, per quanto si sforzassero di dissimulare, era tutto ciò indovinato e sentito nello stesso tempo, da tutte e due!... Giorgio per di più, in quell’inganno così perfido nel quale era stato avvolto, non dubitava nemmanco che Maria sapesse com’egli l’aveva veduta uscire dalla casa del Vharè, e, perciò, non la supponeva attenta ad ogni sua parola, ad ogni suo atto, nè immaginava punto che una sola risposta data di malumore potesse inasprire la ferita profonda. Lalla cercava sempre di attenuare l’insulto di quella freddezza; ma, senza volerlo, non riusciva ad altro che a renderla più evidente. Il suo dovere, lo sapeva, sarebbe stato quello di gridare a Giorgio: — Mia madre è innocente, mia madre è una santa!... Io, io sola, sono colpevole; mia madre si è sacrificata per me, per salvarmi! — Ma, allora, come la mamma sarebbe apparsa grande e splendida e bella agli occhi di Giorgio e come lei sarebbe caduta giù giù, in basso, nel fango! E a questi pensieri, fra il rimorso, il dolore, il pentimento, sentiva pure la gelosia acuta che le penetrava nell’anima contro quella virtù tanto sublime, contro quell’amore tanto grande!... Lalla era combattuta da mille opposti sentimenti, e forse da quella lotta, da quell’urto medesimo, erano uscite le prime scintille del nuovo incendio. — No, no; Giorgio era suo; alla mamma avrebbe ceduto, in compenso, la sua parte di Paradiso, ma suo marito no; suo marito non doveva amare altri che lei, solamente lei! — E impaurita, pregava Dio perchè confortasse la mamma e le infondesse nuovo coraggio, e la sua preghiera le usciva dal cuore calda, sentita, appassionata. Era sicura che sua madre non l’avrebbe tradita, che sarebbe morta senza dire una parola, senza mai un lamento, e nel disordine dei suoi pensieri e dei suoi affetti, di contro agl’impeti della gelosia, le prorompeva dal cuore la gratitudine più viva per la mamma buona che si sacrificava per lei, che le aveva conservato l’amore e la stima di Giorgio!... No, no, la mamma moriva, ma rimaneva forte e muta, e nella santa poesia della fede credeva non solo di aver salvato la figliuola sua, ma di averla redenta, e ciò la consolava nella rovina, nella disfatta del cuore. Maria aveva perduta anche l’ultima e la sua più dolce speranza: quella di lasciare a Giorgio una memoria cara di sè: egli l’avrebbe maledetta, l’avrebbe ricordata con orrore, si sarebbe fatto cupo ogni qualvolta avesse udito pronunciare il suo nome: eppure Maria era tanto e ancora e così supremamente madre, da tremare che Lalla in avvenire potesse mai scoprirsi con Giorgio, forse vinta, forse tradita da un impeto di dolore o di rimorso o di amore. Il male, intanto, cresceva rapidamente; ma la febbre che la teneva in vita, la rendeva più colorita e più bella. Certo, ogni volta ch’ella incontrava Giorgio e leggeva il disprezzo ne’ suoi occhi, era per la poveretta un urto violento che la spingeva più presto verso la fine; certo, notando come Giorgio cercava di allontanare Lalla da lei, e notando come diventava pallido e cupo quando vedeva sua moglie — il suo amore, la sua donnina cara, idolatrata — a darle un bacio od a farle una carezza, quasi temendo ne dovesse rimanere offeso l’ingenuo candore, certo Maria sentiva allora che quel suo amato era lui, lui stesso che la uccideva!... Era uno stato di cose che non poteva durare; era troppo penoso; e tutti e tre, ma per vie diverse, e non sapendo nulla l’uno dell’altro, pensavano ad un modo qualunque di poterne uscire. Un giorno, Prospero Anatolio fece la proposta di andare a Palermo tutti insieme: Maria, Lalla, Giorgio e la Giulia. Egli vi si doveva recar con sua moglie, per l’eredità dello zio, che vi avevano da raccogliere, ed era una bella occasione per visitare la Sicilia. Un viaggetto di un paio di mesi in quella stagione e colla Giulia in compagnia, sarebbe stato piacevolissimo! Ma Giorgio, udite appena le parole dello suocero, guardò Lalla facendole segno di no; e l’atto fu notato anche dalla duchessa Maria. Maria, subito, non potè nemmeno parlare, ma appena vinta la commozione si oppose alla partenza con straordinaria vivacità. — Quel viaggio — disse a Prospero Anatolio — lo dovevano fare loro due soli e in fretta, perchè lei non desiderava di rimanere molto tempo fuori di Borghignano; e poi doveva essere un viaggio d’affari e non una gita di piacere, anche per un riguardo al loro lutto. Aggiunse di più che stava sempre poco bene, che capiva di non poter essere una piacevole compagna, e che lei stessa ormai si trovava meglio quando era sola. — Erano tutte scuse di nessun peso, ma la duchessa le espresse con un tono così risoluto, con una concitazione così precipitata, che nessuno osò contraddirla... e Prospero Anatolio meno degli altri. In tanti anni di matrimonio, sua moglie non gli aveva mai espressa la propria volontà in un modo così fermo altro che una sol volta — e c’era passato molto tempo — quando all’epoca della de Haute-Cour aveva voluto dividersi e ritirarsi a Santo Fiore. Al duca Prospero, anche adesso, sembrò di vedere sotto quell’ostinazione qualche cosa di simile e dubitò che Maria avesse indovinato le sue platoniche tenerezze verso la Giulia; però, subito, non disse verbo, sorridendo anzi per quel capriccetto della moglie, ma poi facendole subire, quando furono soli, tutto il peso del suo umore più nero. Giorgio, da parte sua, che non poteva più vedersi a Borghignano, pensò di approfittare di quella partenza dei d’Eleda per portarsi via la sua Lalla e andarsene un po’ soli a vivere in quiete. Egli cercò e prese in affitto un villino sulla riviera Ligure, vicino a Nervi, che sua moglie, un’altra volta che vi erano stati, avea trovato amenissimo; ma per non doversi sopportare il peso della Giulia lasciarono credere di voler fare una corsa fino a Parigi e a Londra, e perciò il Conte da Castiglione era rimasta come disperato alla notizia della doppia partenza. — Sono diventati matti, sono diventati! — andava brontolando al club e al caffè, dove, per tante novità, si era diffusa una certa agitazione. Ma la sua bizza proveniva da ciò: partiti i d’Eleda e i Della Valle a chi avrebbe affidata la Giulia? Non c’era una ragione per tenerla a Borghignano; non avrebbe certo potuto mandarla sola a Firenze, e in quanto a lui — cascasse il mondo, cascasse, non si sarebbe allontanato dalla Soleil finchè non... finchè non fosse riuscito nel suo capriccio... o, come diceva Pier Luigi nel suo linguaggio figurato — finchè non avesse attraversata la Manica!... — Navigazione che pareva molto difficile e in cui non era certo piacevole il tirarsi dietro una pupilla. Che cosa fare?... il conte da Castiglione, rabbioso, bisbetico sfogava il suo malumore su Prospero Anatolio, che lo accarezzava e lo lisciava, e fu Prospero medesimo, alla fine, che, dopo essersi dato d’attorno per la grave faccenda, riuscì ad allogare la Giulia dalla Bertù e dalla Calandrà, che si erano risolte a prendere in affitto un casinetto di campagna e che in quelle pene e intente sempre a cavar cinque denari da un quattrino, accolsero la Giulia a braccia aperte. Infatti avrebbero risparmiato un terzo di spesa, e tutto quello che mancava per mettere in ordine il villino sarebbe stato prestato graziosamente dal duca d’Eleda. — Molto gentile il caro duca: volle pensar lui anche alla cantina; volle mandar lui anche il suo giardiniere coi fiori più belli e più rari! Se la Desirée Soleil continuava ancora ad ostinarsi sul no, il conte Pier Luigi finiva matto come il principe russo. La passione amorosa del vecchio libertino non era paziente come quella del duca Prospero, ma era quasi feroce. Non gli lasciava nè tempo, nè lena di pensare ad altro, lo occupava interamente, irritandolo e facendolo soffrire. A vederlo, adesso, sempre rosso invasato, col naso paonazzo, gli occhietti spelati, lustri lustri e lacrimosi, metteva ribrezzo. Ma non c’era verso: la Desirée non voleva saperne di lui; prima di tutto perchè amava il suo Giacomo alla follia e gli voleva essere fedele, e poi perchè quel vecchiaccio le ripugnava, le faceva orrore, e glielo mandò a dir dalla sarta che le offriva a nome del signor conte grosse somme di denaro per un giorno, per una notte, per un’ora soltanto. Gli mandò a dire, chiaro e netto, che non avrebbe voluta essere toccata da lui, nemmeno con un dito, per tutto l’oro del mondo!... E gli mandò a dire, di più, che se anche fosse stato bello come un amorino, quel no sarebbe stato egualmente inflessibile. Essa amava il marchese di Vharè ed era sua, tutta sua, solamente sua, anima e corpo! Era la prima volta che il conte Pier Luigi non poteva soddisfare un suo capriccio; era la prima volta che la sua passione si trovava di contro ad un ostacolo insormontabile. Egli così ricco, così prodigo, non poteva averla quella donna!... quella donna, che tutte le notti dormiva col suo amante!... Fosse stata casta, onesta, gli sarebbe stata forse indifferente; ma ciò che lo invogliava, che lo accendeva di più, era il vizio che si rifiutava al suo vizio. Tutto il giorno era sempre a macchinare della diva colla sarta: una buona signora non più giovane, magra, pulitissima, che aveva sempre l’onore di servire le artiste drammatiche, le cantanti, le ballerine e le cavallerizze che capitavano sulla piazza, accomodando i vestiti per la scena, stirando la biancheria, portando, all’occorrenza, anche qualche monile al Pietoso e non rifiutandosi a nessun servizio, anche più delicato, pur di guadagnarsi tanto, diceva lei, da campare onestamente. Da questa brava signora, il conte Pier Luigi era riuscito una volta a poter avere un abito molto usato della Desirée. Lo aveva fatto portare a casa, lo aveva fatto portare su, segretamente, in camera sua, e vi si era rinchiuso dentro solo soletto... Aveva cominciato a toccarlo, a svolgerlo colle mani tremanti... poi a stringerlo, a baciarlo, a brancicarlo pazzamente, ed a morderlo, e stracciarlo, tormentato ed ubbriacato dalle forme belle della donna che lasciava scorgere e dall’odore di cui era tutto impregnato. L’Andreina sapeva poi dalla sua sarta tutte queste pazzie e ne rideva di gusto ripetendole a Giacomo, lusingata nella sua vanità di donna per quei desideri sfrenati, per quei tormenti che eccitava la sua bellezza, e indovinando che sarebbe stata ancora più bramata dal suo amante per le grandi follìe che suscitava. Ma Giacomo ascoltava assai distrattamente le prodezze del vecchio frollo, e non lo mettevano più di buon umore. Ogni giorno che passava era un passo verso la rovina e il disonore! Era arrivato al punto da non sapere più dove dar la testa. Certe volte, non aveva in casa da prendersi i sigari, e doveva sfogarsi a tutto pasto colle sigarette turche del pascià! L’amor proprio il punto d’onore, la delicatezza, tutto ciò il marchese Giacomo aveva consumato da un pezzo, e di giorno in giorno diventava anche permaloso: faceva colazione, pranzava dall’Andreina e in cambio le mandava mazzi di fiori che prendeva senza pagare da una povera fioraia che gli teneva il credito aperto pel solo timore che, disgustandolo, allontanasse gli altri avventori. Della scena successa in casa sua, quando Maria era capitata a sorprendervi Lalla, il Vharè non conosceva la fine. La contessa Della Valle non si era fatta più viva, ed egli avea creduto prudente di non andarla a cercare. Soltanto il suo servitore, quel povero vecchio che ad ogni costo — a costo anche di patir la fame — non aveva voluto abbandonare il signor marchese, gli aveva riferito che la prima a discendere e ad uscire era stata la signora duchessa, e poi la contessa Lalla, quasi subito. Indovinava da tutto ciò, e dal contegno tranquillo del Della Valle, che la tempesta era stata scongiurata, ma non sapeva come, e non si affannava per ottenere la chiave del mistero. Aveva ben altro da pensare, povero Vharè! Capiva ormai che non gli restavano altro che due vie da scegliere; o fuggire, o ammazzarsi. Veramente, ce ne sarebbe stata forse anche una terza... da galantuomo almeno, se non da gentiluomo: lavorare. Ma a questa il Vharè non aveva pensato. Dunque, fuggire. Ma dove fuggire?... Come?... — Ammazzarsi?... Sì; non gli restava che ammazzarsi, e non era molto per stare allegro. Intanto, verso la metà di aprile, il palazzo d’Eleda e la casa Della Valle, si chiudevano contemporaneamente, e alla stessa ora e colla medesima corsa, Maria e Prospero, e Lalla e Giorgio, partivano tutti insieme, diretti a Genova: a Genova poi dovevano separarsi, gli uni per andare a Nervi, gli altri per andare a Palermo. Alla vigilia della partenza, il conte Della Valle avea detto alla moglie che la Nena si era licenziata per ritornare a Santo Fiore, dove la chiamava, sul momento, una lettera della Pierina. Giorgio aveva temuto con quella notizia di darle un dispiacere, ma invece Lalla, dopo aver finto la più grande maraviglia, si era accomodata subito, e benissimo, con un’altra cameriera: infatti era stata Lalla medesima che aveva imposto alla Nena di licenziarsi e di ritornare a Santo Fiore, con una scusa qualunque. Povera Nena!... Non fu rimpianta nemmeno dal cavaliere Frascolini. Allontanandosi lei, si allontanava anche il pericolo di doverla sposare; poi era diventata musona, bisbetica... faceva bene a cambiar aria! In verità, non si potevano più vedere, si facevano ribrezzo l’un l’altro, e avevano finito coll’odiarsi. La Nena non aveva detto a Sandro che il tiro della lettera anonima era andato fallito, temendo che ne preparasse uno più sicuro, ma invece questo pericolo non c’era. Il Frascolini, che aveva aspettato colle orecchie tese lo scoppio della bomba in casa Della Valle, quando i giorni passarono tranquilli e silenziosi senza nessuna novità, si era assai maravigliato, trovando che anche il conte Giorgio, quel tentennante stinto, era un marito di buona pasta, ma poi, in fondo all’animo suo, non ne aveva provato gran dolore... Anzi, gli seccava di aver scritto quella lettera e, quantunque giurasse e spergiurasse seco stesso di essere stato il rappresentante del dito di Dio, un’altra volta, forse, non si sarebbe data la pena di tornare daccapo, e avrebbe lasciato che il gran dito facesse da sè. Il viaggio da Borghignano a Genova fu per i Della Valle e i d’Eleda tutt’altro che allegro. Il duca Prospero era convulso e dimostrava, per quella partenza, per quel distacco dalla sua figliuola e dal suo caro Giorgio, un dolore vivissimo. Diceva sospirando, ma non era sincero nel dirlo, che aveva il presentimento di non più rivederli!... Invece la duchessa Maria, che sentiva davvero che sarebbe morta prima di ricongiungersi a Lalla, a Giorgio, non ebbe mai una parola in tutto il viaggio, mai un sospiro, come non ebbe mai una lacrima negli occhi accesi dalla febbre. Giorgio, essa pensava, avrebbe trattenuta Lalla a Nervi chi sa per quanto tempo! Il suo studio, il suo pensiero fisso non era quello di allontanare Lalla da lei? E per poco che egli ci fosse riuscito a trovare scuse... era finita. Anche il Della Valle doveva sentirsi seccato, impacciato, e certo non vedeva il momento di essere a Genova e che i d’Eleda fossero imbarcati; la presenza della suocera lo rendeva nervoso, lo faceva star male. Lalla era angosciata dal rimorso, era tenuta in soggezione, era umiliata dalla muta presenza di sua madre, ed oltre a ciò soffriva uno strano timore, quello di non poter fuggire fino a Nervi, senza che Giorgio arrivasse prima a scoprir tutto. Lalla non era più tentata dall’idea di buttarsi alle ginocchia di suo marito e di confessargli tutto; oh no, no. Ad ogni costo voleva apparire come egli la credeva, pura, innocente; perchè lo amava e voleva essere riamata. D’altra parte, non era solamente la sua felicità, ma era la felicità di suo marito, era l’esistenza di Giorgio, che difendeva dissimulando in tal modo; e la mamma... la mamma, se si sacrificava e taceva... taceva e si sacrificava perchè voleva bene a tutti e due. Sì, sì, l’orgoglio, la consolazione, la gioia di salvare quella pace, quella felicità era tutta della mamma e non gliela voleva togliere. Lei era cattiva... e vile; sì, vile; ma che importa? Voleva essere amata!... Il viaggio, fra tutta quella gente, le faceva paura. Le pareva che in mezzo al frastuono assordante, dovesse alzarsi un grido od uno scroscio di risa contro di lei, per tradirla. Temeva che la mamma, nel momento supremo del distacco, potesse perdere il coraggio, e pregava Dio, pregava la Vergine buona, perchè aiutassero la mamma; e finalmente, in quell’agitazione d’animo, le pareva, ad ogni fermata del convoglio, di vedere il Frascolini avvicinarsi ad un tratto al loro coupé per coprirla d’insulti e smascherarla. Era una paura sciocca, stupida; ma tant’è, la teneva inquieta e agitata; e sotto la tettoia della stazione di Alessandria, mentre aspettavano il treno da Torino, poco mancò non desse in un grido, tanto le era sembrato di vederlo davvero il Frascolini, muoversi gesticolando in mezzo ad un gruppo di persone che le veniva incontro. Che sciocchezza!... Ma però che sgomento le avea messo in cuore. — E Giorgio?... Giorgio non avrebbe potuto leggere la verità sul volto stesso della mamma?... In quel suo dolore così cupo, così profondo?... Insomma tutto il viaggio, fu un viaggio triste, penoso, che non finiva mai. Giunti a Genova, stettero insieme fino al momento in cui il Newton levò l’ancora per la Sicilia. Un poco prima i Della Valle accompagnarono i d’Eleda, in canotto, fino al battello, e lì ricominciarono i saluti; ma allora, nel momento di separarsi, Lalla ebbe uno slancio improvviso che le fece dimenticare tutte le ansie, i timori di prima ed anche il suo amore, vinta e trascinata da un impeto di gratitudine che le proruppe dal cuore per la mamma buona, per la mamma santa, e abbracciandola stretta e baciandola si abbandonò ad un pianto dirotto e poco mancò in quel momento, che non si tradisse da sè sola. Ma il dolore di Maria si mantenne muto e forte, quantunque un ultimo spasimo l’aspettasse anche in quell’ultimo addio. Giorgio aveva abbracciato il duca Prospero, che ansimava cogli occhi gonfi, e doveva salutare, doveva abbracciare anche la duchessa; ma si sentiva di ghiaccio, non sapeva come fare; si sforzò, volle risolversi e poi, quando le fu vicino, invece di abbracciarla, indietreggiò, stendendole la mano. Maria la toccò appena, salì in fretta sul battello e incespicò nel vestito: quel nuovo colpo l’aveva stordita. Giorgio e Lalla partirono per Nervi la sera stessa. Soli, soli, in un coupé colle finestrelle aperte, dalle quali entravano grandi ondate d’aria sana, dimentichi di tutto quanto avevano sofferto, si tenevano l’uno vicino all’altra, stretti insieme, come due innamorati da un mese, il conte Della Valle discorreva con sua moglie di molte cose, animandosi e sorridendo coll’allegria d’un fanciullo; discorreva dei loro disegni per l’estate, della vita tranquilla che avrebbero condotto a Nervi, della Giulia che doveva annoiarsi parecchio in compagnia della Bertù e della Calandrà; e Lalla lo ascoltava sorridente, silenziosa, tutta abbandonata sul petto del suo Giorgio, così ch’egli ne sentiva ogni respiro, ogni fremito. Aveva la bella testina sulla spalla di lui e gli occhioni scuri, fissi in quel profondo infinito del mare. Ella si sentiva consolata e le pareva di rinascere, avvolta dall’aria fresca e umida, che le bagnava i capelli come una rugiada e che le ricreava i sensi cogli odori acuti delle alghe marine e colla fragranza dolce degli aranci e delle acacie. Il treno correva via sbuffando e fischiando, ma non interrompeva la gran calma della notte, e a Lalla pareva di essere sola col suo Giorgio, in una solitudine immensa, e si sentiva beata. Sandro, il Vharè, la Nena, Pier Luigi, erano ormai lontani dal suo spirito, al di là di quel mare, al di là di quelle onde scintillanti come pallide fiammelle, erano laggiù, in fondo in fondo, sepolti nel buio della tenebra densa e infinita. Lalla, non sentiva più nulla, delle pene sofferte, più nulla, nemmeno il rimorso. In quel vasto silenzio d’ogni voce umana, il frastuono delle onde, misurato come una cantilena, si univa al gorgheggiare dell’usignuolo, al canto del grillo, ai mille stridori degli insetti, al rumorio della scogliera, al sussurro del vento e formava un’armonia sola, amorosa e voluttuosa, che Lalla sentiva nell’anima e sentiva nei sensi, mentre l’aria tepida e fragrante, sollevando atomi d’acqua dalle onde che s’infrangevano, pareva le portasse sulle guance, sul collo, sulla bocca, il bacio umido del mare. Allora si sentì correre intorno tanta felicità quanta non ne avea mai sognata, e d’improvviso, abbracciando Giorgio, stringendolo, fissandolo cogli occhi raggianti d’amore, gli mormorò coi più lunghi fremiti: — T’amo, sai! T’amo, t’amo!... — finchè gli ricadde stanca, sfinita sul petto. XXXI La sera che precedette la partenza della Soleil da Borghignano, fu davvero una serataccia. La diva aveva molto lavorato coll’Assunta nel riporre la roba e nel prepararsi per la partenza, e tutt’e due erano stanche morte. Poi, si sa bene, l’ultimo giorno che si rimane in un luogo, anche quando non si lasciano nè persone, nè memorie care, non è mai un giorno allegro, e l’Andreina invece lasciava Borghignano, dove si era riconciliata con Giacomo, dove si era riunita con lui, dove aveva amato e dove avea godute di quelle ore così felici, che non si dimenticano più e che non tornano quasi mai. Era dunque naturale la sua malinconia, quantunque Giacomo partisse con lei; ma dalla malinconia all’affanno ci corre, e l’Andreina mostrava dagli occhi rossi di aver molto pianto, e di tratto in tratto si guardava intorno smarrita e trasaliva con brividi di ribrezzo e quasi di terrore. Si sentiva afflitta in tal modo, perchè vedeva quel suo bel nido guasto e sciupato, come il nido della cingallegra caduto fra le mani di un ragazzaccio cattivo?... Oppure aveva qualche altra amarezza chiusa dentro nel cuore?... Sì, quelle povere stanzette presentavan davvero uno spettacolo uggioso: il suo lettuccio non era più addobbato colle cortine candide e civettuole dai lunghi fiocchi azzurri, ma la corona d’ottone, le stanghe e i ferri della camerella apparivano così spogliati, come uno scheletro gigantesco, dalle braccia lunghe e sottili. Sopra il canapè del salotto, che aveva udito le parole più care e i baci più dolci, era stato portato un cassone enorme, color verde scuro, foderato di ferro. Il giardiniere, finito il nolo, s’era già portati via i bei vasi di rose e i sempreverdi, dalle larghe foglie, che nascondevano la tappezzeria vecchia e stinta. Le stuoie, spogliate dei vari tappeti, logore, indicavano il posto dove le casse erano state ferme per tanti mesi con delle righe quadrate di polvere e di sudiciume; ma pure, se tutto ciò era uggioso, l’abbattimento di Andreina era troppo forte, perchè non dovesse nasconder qualche altro affanno. Ella andava innanzi e indietro dal salotto alla sua camera, con mucchi di biancherie e di spartiti che accatastava, sorridendo amorosamente, sulle ginocchia del Vharè, che rimaneva cupo e distratto, senza nemmeno guardarla. — Via, non temere, — gli disse l’Andreina, sedendosi sulle sue ginocchia, quando ebbe terminato di vuotare i palchetti e di riempire i bauli. — Non temere; vedrai che domattina lo Schreiber mi risponderà favorevolmente. Ho telegrafato un’altra volta, a quel tedesco tartaruga! Lo Schreiber era l’impresario per l’America, e Andreina, che aveva firmata una scrittura per due anni gli aveva scritto domandandogli un’anticipazione di quindicimila lire sul suo contratto. Ella continuava a dire a Giacomo di non aver ancora ricevuto riscontro alla sua lettera; ma ciò non era punto vero. Lo Schreiber le aveva risposto subito, e le aveva risposto un bel no. E il Vharè, quantunque non lo sapesse, lo prevedeva. Per il Vharè, avere sì o no quindicimila lire entro le ventiquattr’ore, voleva dire poter restare al sole o doversi accontentare di vederlo a scacchi. L’elegante marchese di Vharè era giunto a questo punto!... I suoi creditori, dopo avergli messo il sequestro sui mobili di casa, glieli avevano lasciati in custodia con tutte le regolarità volute dalla legge; ma Giacomo, un brutto giorno che avea dovuto combattere colla fame, aveva cominciato a far sparire un quadro, poi un seggiolone antico, poi il pianoforte, e così a poco a poco aveva dato fondo a quasi tutta la roba. Si trattava di truffa, e c’era tanto d’andare diritto in prigione!... Andreina, appena il Vharè le aveva confessato il proprio fallo, pareva disperata: pianti, convulsioni, gemiti; ma poi, sembrò le balenasse un raggio di speranza, si consolò e consolò anche Giacomo. Era subito corsa col pensiero a... a Schreiber. Si sentiva tanto felice, povera Andreina, e le doveva capitare quel colpo terribile!... Aveva finito di essere gelosa e di temere la contessa Della Valle; lo portava via lei, il suo Giacomo; se lo portava in America, ed era più contenta sapendolo povero, perchè, povero, era meno facile che le scappasse di nuovo, e perchè povero si sarebbe persuaso che lei gli voleva bene senza nessuna mira interessata... povera Andreina! Ma per quanto il sentimento dell’onore si fosse attutito nel cuore del Vharè, tuttavia la parte di procolo, di marito della prima donna, o press’a poco, offendeva troppo vivamente la delicatezza del gentiluomo. — Non c’era dubbio; la sua carriera finiva molto male! — Ma d’altra parte, che cosa poteva fare? Necessità non ha legge, e a conti fatti, ancora ancora, avrebbe potuto ringraziare la Provvidenza se quell’affare dei mobili non fosse capitato, sul più bello, a precipitare la catastrofe. — Scappare!... — Dove?... Lo tenevano d’occhio, e senza quattrini lo avrebbero ripreso subito... — che! scappare? ci vogliono quattrini per scappare!... — Intanto, all’indomani, egli doveva estinguere quindicimila lire di cambiali, oppure presentare il mobilio intatto, oppure... in galera. I suoi creditori, per non lasciarlo nell’incertezza, lo avevano avvertito che non gli verrebbe usato nessun riguardo. — in prigione?... Aveano messo in prigione, per debiti, anche il conte di Mirabeau!... — Ma questo riscontro era un magro conforto, e poi, lui, non lo avrebbero messo dentro per debiti soltanto, ma per truffa. — Dio santo! Bisognava finirla!... Il povero marchese era tanto oppresso, quella sera dai più tristi pensieri, da non badare nemmeno all’Andreina, da non accorgersi che essa aveva trasalito quando erano sonate le undici all’orologio della piazza. E poi, gli si era avvicinata quasi subito, baciandolo con gran passione e dicendogli colla voce piena di lagrime: — Sono stanca assai, lasciami andar a dormire — Di solito, era sempre Andreina che lo tratteneva con mille carezze, con mille furberie, con tutti gli agguati della donna innamorata; ma il Vharè aveva ben altro da pensare che a fare confronti!... Si alzò, e colla testa bassa, senza dire una parola, prese il cappello e si avviò lentamente per uscire. — Vai via?... Senza dirmi nulla? Te ne hai avuto a male? — gli chiese Andreina, fermandolo ancora con un altro bacio. — Avermene a male?... Di che cosa? Va... Va a dormire. Hai ragione di sentirti stanca. Buona notte! — E la baciò distratto, senza sapere nemmeno lui dove baciava. — Non temere, Giacomo, vedrai che domani le quindicimila lire di Schreiber arriveranno di sicuro. Mi par di sentirlo: — Nostro pell’astro fulgidissimo, non afere che da comantare, tuo piccolo Schreiber sempre pronto ai comanti, — e Andreina, sebbene avesse la morte nel cuore, si mise a ridere per far ridere l’amico suo; ma non ci riuscì. — Sì... Sì... Schreiber!... — mormorò il Vharè con un’alzata di spalle. Andreina intese bene quella sorda disperazione e con un tremito lo abbracciò più forte. — Giurami che non hai nessuna idea matta per la testa? — Cioè?... Non ti capisco!... — Giurami che aspetterai... che aspetterai fino a domani la risposta di Schreiber?... — Non vuoi altro?... Giuro che aspetterò. — No, così no!... Devi giurare per tua madre. — Ebbene sia: te lo giuro per mia madre. Giacomo avea lasciata Andreina da una mezz’ora, quando un brum da nolo si fermò sulla porta di quella casa e ne discese la sarta... la buona signora. Essa tirò la maniglia del campanello e subito, da una finestra del primo piano, spuntò una testa di donna e si udì una voce gridare dall’alto: — Viene subito! — Era la voce dell’Assunta. — S’accomodi! — rispose la sarta dalla strada. Poco dopo la porta si aprì e Andreina, tutta imbacuccata, ne uscì lesta e saltò nel brum. La buona signora le tenne dietro, chiuse lo sportello e il brum ripartì com’era venuto. Il Vharè, nel frattempo, era giunto a casa sua, si era levato l’abito, e così in maniche di camicia, camminava su e giù nella camera spoglia di quadri e quasi anche di mobili; e continuò a passeggiare per un pezzo, poi, di colpo, si buttò sul letto ancora mezzo vestito, spense il lume, ma non potè addormentarsi. Si vedeva ammanettato fra due guardie di questura, con la tuba pesta, con le scarpe rotte, e con i monelli che gli correvano dietro urlando e fischiando... L’immagine era così viva, così spaventosa, che più a lungo non la potè sopportare. Si alzò di botto, riaccese il lume e caricò un revolver che teneva in una busta, appeso a capo del letto, deliberato di uccidersi e finirla. Ma il marchese di Vharè, che in dieci duelli aveva sfidata la morte baldo e insolente, in mezzo alla verzura d’un prato, o nel risonante frastuono d’una sala d’armi, lì solo, in quella camera muta e fredda, ebbe paura. La morte non avea più nulla di grande, di attraente; non gli appariva più come un fantasma luminoso che predilige gli eroi, ma gli stava dinanzi lercia ed esosa, colla faccia arcigna di un usuraio, che mette il sequestro sull’esistenza. Sentiva ribrezzo di morire a quel modo. — E se il colpo falliva?... Se non riusciva ad ammazzarsi del tutto?... Eppure, bisognava farsi coraggio e finirla. — Allora ricordò che in un armadio aveva ancora una mezza bottiglia di cognac; la cercò, la trovò e l’ingollò in una sola tirata; ma nemmeno il cognac riusciva ad ubriacarlo, a stordirlo. Solamente si sentiva dentro, nello stomaco, un gran calore, un gran fuoco. Spalancò la finestra e si appoggiò sul davanzale per respirare un po’ meglio; gli pareva di soffocare!... L’alba sorgeva appena: la luce che stenebrava il silenzio profondo della strada, tutta chiusa e deserta, gli metteva addosso uno sgomento indefinibile; e a mano a mano che i profili delle case si disegnavano più nettamente e le colonne della chiesa lontana uscivano alla luce, egli provava un grande affanno. Sentiva paura di quel giorno inesorabile e spietato che incominciava, e avrebbe voluto ancora un’ora di tenebre per avere un’altra ora di quiete. Sentì un brivido acuto. Anche quella strada così vuota, con tutte le porte, con tutte le imposte chiuse, gli faceva risentire, come la sua camera, l’impressione della tomba, e stava già per richiudere la finestra, quando fu scosso da un rumore sordo, da un mormorio di voci, che si avvicinava... Erano i soldati che partivano per le manovre. Cominciava a vederli bene... Cantavano. — Che cosa cantavano?... — Aveva udita ancora quella canzone... Ah sì; adesso se ne ricordava! Era la canzone dei volontarii... Addio, mia bella, addio, L’armata se ne va. Se non partissi anch’io Sarebbe una viltà. — Maledetti, come stonano! — brontolò il Vharè che aveva ancora l’orecchio assai delicato. Ma poi, quasi subito, non badò più alle stonature. I soldati sfilavano lieti e baldi, animando la contrada colle loro voci, coi loro canti, col tran tran misurato della marcia, con un fracasso pieno di vita. Allora corse a ritroso, col pensiero, in tutti gli anni che aveva sciupati, e pensò che lui pure, se avesse voluto, avrebbe potuto diventare qualche cosa... Un prefetto, un diplomatico, almeno un deputato!... — Se fosse entrato nell’esercito, a quell’ora avrebbe potuto essere maggiore... colonnello e forse, chi sa, anche generale, e comandar lui tutta quella gente!... Il primo battaglione era già passato sotto le sue finestre, adesso ne passava un altro. I soldati, vedendo il Vharè alla finestra, mezzo svestito, alzavano il capo guardandolo, mentre ripetevano il ritornello: Se non partissi anch’io Sarebbe una viltà!... A Giacomo in quel punto, sembrò che il ritornello fosse diretto contro di lui e gli fosse buttato in faccia come un insulto. — Perchè non sono partito anch’io, quando gli altri andavano a battersi?... — Pensò... pensò, cercando una scusa, ma non la trovò. Si sentiva la testa balorda che gli girava: il cognac incominciava a fare il suo effetto. — Dov’ero io, nel 59?... A Monaco, sì a Monaco; a far saltare la roulette!... E nel 60?... Non mi ricordo... non mi ricordo... Ah, sì... Nel 60 ero a Nizza. — Nel 67, mentre i soldati del Papa ammazzavano i Garibaldini a Mentana ero... ero... ero... a Parigi, a rovinarmi colla Fanny Printemps. Ma dunque io sono un... — Ho saltato una data, il 66!... Ero a Torino, nel 66, e corteggiavo la baronessa Delafosse... sicuro, mentre suo marito, il capitano, si faceva ammazzare a Custoza per la patria. — La patria?... Che cos’è la patria?... Rettorica! I soldati, frattanto erano passati, le loro voci si perdevano con un’ultima eco, nella strada che appariva adesso, dopo tutta quella gente e tutto quel rumore che l’avea attraversata, ancor più seria e silenziosa; ma il ritornello frullava sempre chiaro e vivo nella testa di Giacomo. — Ebbene, sì... È stata una viltà!... E perciò? Tornare indietro non è più possibile, dunque?... — Avanti e marche per l’altro mondo! — Impugnò la rivoltella, l’appuntò sotto il mento... ma poi si fermò irresoluto e fissò l’arma cogli occhi inebetiti, borbottando: — Ammazzarmi? E perchè mi dovrei ammazzare?... Avrei tutto da perdere... e niente da guadagnare... Il nome?... Non lo salvo. — L’onore?... Oh, l’onore!... Tanti che valgono meno di me, vivono allegramente, rispettati e temuti. Se invece potessi davvero andarmene in America coll’Andreina!... E Schreiber?... E Schreiber è un ladro. Si lascia impiccare piuttosto di tirar fuori un quattrino, prima del tempo!... — Ma forse, dovrei ammazzarmi io, perchè Schreiber è un cane?... Che!... Se non mi ammazzo, diranno che sono un vile; ma se mi ammazzo diranno che sono un vile lo stesso. Buffoni!... No! non mi ammazzo(). A tutto c’è rimedio, tranne all’osso del collo, Andreina, farà furori... Pago i debiti... Torno dall’America milionario... Chi sa! Chi sa! Sono a tempo forse di... di... ventare de...putato. Così dicendo si avvicinò al letto, barcollando. Le pareti ballavano in giro e la stanza pareva piena d’insetti che ronzassero molesti... Si buttò, sbuffando, sul letto; ma allora ebbe un impeto di rabbia, di furore contro sè stesso, perchè era un vigliacco(), perchè non aveva il coraggio di uccidersi. Si voltò cercando il revolver a tastoni, e smaniando perchè non lo trovava più, stramazzò per terra lungo disteso... Borbottò ancora qualche parola, si strappò la camicia sul petto, poi si addormentò profondamente. La mattina dopo, il servitore del Vharè, spinse adagio l’uscio della camera, ma non l’aveva aperto del tutto che già si udì un grido disperato, e una donna, Andreina, buttando da parte il vecchio che era rimasto sulla soglia impietrito, si precipitò sul Vharè ch’era sempre addormentato per terra, col revolver vicino. Quel grido e i baci, e le strette angosciose dell’Andreina risvegliarono Giacomo dal suo sonno; egli si guardò intorno smarrito: non capiva... — Era ancora vestito?... Era caduto dal letto?!... Perchè lo fissavano in quel modo?... — Sei ferito?!... — gli domandò Andreina tutta tremante... Il Vharè, a tale domanda, cominciò a ricordare quanto era successo, e trovandosi ancora vivo e sano in mezzo a quello sgomento e a quel dolore, si sentì impacciato e vergognoso; tuttavia superò presto il suo turbamento. Si risvegliava alla vita in una condizione molto comica; e però... bisognava riderne per il primo! — No, no. Avevo pensato d’ammazzarmi, è vero; ma la risoluzione è seria; ho creduto bene dormirci su... e ora... ho cambiato idea. Giacomo disse tutto ciò con un ghigno, con una smorfia dolorosa. — E tu?... che vieni a fare così presto? — domandò all’amica appena il servitore se ne fu andato. — Sai, — rispose Andreina, arrossendo, — sono arrivati i danari di Schreiber. — Possibile?... — e il Vharè, non pensando ad altro che a quella fortuna che lo salvava, strinse l’amante fra le braccia. Ella chinò il capo per islacciarsi il busto; e ne tolse un grosso pacco di biglietti di banca. — Ecco, — balbettò sulle prime confusa, impacciata, ma poi animandosi e parlandone con grande precipitazione: — Ecco le... le quindicimila lire... per levare il sequestro, — Colla vendita della tua roba, avremo tanto da fare il viaggio e da vivere finchè arriveremo sulla piazza: in America, vedrai, se l’impresario vorrà sentir cantare la Soleil, dovrà tirarne fuori degli altri. Ma adesso intanto, si può partire col cuore tranquillo e ritornare, poi, con la testa alta. Vedrai... in pochi mesi pagheremo tutti i debiti. Tu mi sarai di grande aiuto cogli impresari, cogli agenti teatrali; sarai la mia fortuna. In arte, ne abbiamo tanto bisogno di un uomo per difenderci dai pirati!... Il Vharè fece un’altra smorfia. Si vedeva seduto dietro il bigoncio, all’ingresso d’un teatro, fra due portieri, e gli sembrò di udire dietro le spalle il riso schernitore di Lalla. Allora, per svagarsi, cominciò a numerare sbadatamente i biglietti di banca: erano tutti nuovi fiammanti. — Come mai? — Questa combinazione lo meravigliò; alzò colla mano il piccolo orologio che Andreina portava appeso alla cintura e vide che non erano ancora le nove e mezzo. Guardò Andreina fissamente: era pallida, spettinata, col volto affaticato, cogli occhi lividi le labbra arse... — A che ora hai ricevuto la lettera?... — Colla prima dispensa, rispose Andreina tornando ad arrossire ed a turbarsi. — Con un assegno, non è vero? Perchè una somma così forte non si manda mai in una lettera assicurata. — Sì... un assegno... sulla Banca Nazionale. — Sulla Banca Nazionale? E ti venne scontato a quest’ora... Sono le nove e mezzo appena e la cassa non si apre prima delle dieci! Andreina abbassò il capo, confondendosi sempre di più; quelle domande la imbarazzavano assai; non le aveva prevedute!... Giacomo indovinò, comprese tutto in un attimo, e stringendo Andreina per le braccia, la scosse violentemente. Di’, rispondi, rispondi, — balbettò con voce rauca, — rispondi senza mentire. Voglio saper tutto!... Da chi hai avuto questo danaro?... Da chi? Andreina, non rispose; ma scoppiò in un singhiozzo quando l’altro le sussurrò un nome all’orecchio. Non era più possibile mentire. Giacomo si fe’ bianco in faccia; Avrebbe voluto percuotere quella donna, stracciare tutto quel danaro infame! Ma dopo l’impeto della prima commozione, calmandosi un poco, pensò che quella donna si era sacrificata per lui, che quel danaro, per quanto fosse infame, rappresentava pure la sua onorabilità e che lo salvava dall’essere accusato di truffa... — Non c’era altra via di scampo. Se voleva salvare il suo onore, o almeno salvarsi dalla prigione, bisognava accettare il prezzo di quel lurido mercato!... Giacomo lottò a lungo col cuore, coll’orgoglio, che gli si rivoltavano... poi, infine, sospirò profondamente, strinse Andreina sul petto e le sfiorò appena i capelli; ma con grande sforzo: senza guardarla. — Che?... Mi baci? — esclamò la poveretta allontanandosi e fissandolo con uno sguardo in cui, oltre alla meraviglia, c’era dell’amarezza, e quasi della paura. — Mi baci? — Povera donna!... hai voluto salvarmi! Ella continuava a fissarlo con un’espressione indicibile di stupore e d’angoscia. — Ma perchè mi guardi così?... Che hai?... — Ho... non ho nulla; ma, adesso che sai tutto... se mi amassi davvero avresti dovuto uccidermi colle tue mani... con un colpo solo... strozzarmi. Giacomo tacque, confuso. Non sapeva che cosa rispondere: quella donna aveva ragione e valeva assai più di lui. Pagate le cambiali, venduto in blocco tutto ciò che gli era rimasto, il Vharè, già quasi abituato alla nuova condizione, se ne andava per sempre da Borghignano. dopo aver chiuso l’ultima volta il suo quartierino, che non era più suo. Ma in fondo alla scala, vide il vecchio servitore che lo aspettava muto, con una gran tristezza impressa sul viso; aveva le scarpe rotte e il berretto, che teneva in mano, perdeva la fodera. Il pover’uomo, fissava il marchese coll’occhio di un cane che sia stato maltrattato ingiustamente dal padrone. Giacomo si fermò di botto, battendogli sulla spalla. — Hai fame, non è vero? — gli chiese frugandosi coll’altra mano nei taschini del panciotto. — Nossignore... Giacomo contò il danaro di cui poteva disporre: era pochino assai. Ma, in quel momento, mentre pensava di ricorrere all’Andreina, perchè il vecchio avesse tanto da poter campare un paio di mesi, gli cadde sott’occhio l’anello che gli aveva regalato Lalla; la turchina colle rose d’Olanda. Egli non lo aveva mai venduto quell’anello, nemmeno nei momenti più difficili, per una di quelle ripugnanze che erano fra le anomalie del suo carattere di gentiluomo pervertito. Rimase un istante sopra pensiero, guardandolo, lisciandolo e poi borbottò: — Infine, posso ben dire che mi ha portato sfortuna! — Se lo levò dal dito risolutamente, lo unì al danaro e diede tutto al servitore. — Prendi, con queste poche lire e con questo anello avrai da vivere, non allegramente, ma insomma tanto da poterla tirare innanzi per un po’ di tempo. Appena saremo... sulla piazza, — e il Vharè sorrise, come aveva fatto prima con Andreina, in un modo che pareva una smorfia; — appena saremo arrivati sulla piazza, ti manderemo il resto. Mia madre, forse, ebbe torto di mettermi al mondo, ma tu, che l’hai servita fedelmente, non devi crepar di fame. Piangi?... Non credi alla mia parola? — No, no, signor marchese; non è per ciò; ma... sono tanto vecchio... Chi sa se potrò vederlo ancora?... A queste parole, cessò d’un tratto il riso forzato, schernitore del marchese Giacomo: egli battè un’altra volta sulla spalla del buon vecchio: — Sì, sì. Ci rivedremo ancora, ci rivedremo! — gli disse. E se ne andò in fretta, perchè si sentiva commosso. Con tutti gli amici e con tutte le donne che lo avevano amato, con tutti i sorrisi, gli amori e le fortune della sua vita, l’unico che lo avrebbe ricordato e rimpianto sarebbe stato quel povero vecchio... il suo servitore. XXXII Una lugubre notizia commosse ad un tratto tutta la città di Borghignano. Al gran Caffè arrivò, una mattina, come una saetta, in mezzo ad un crocchio di persone che non volevano saperne di malinconie; ma la violenza fu così viva, così inaspettata, che si guardarono in faccia l’un l’altro sbalorditi. Poi ci fu chi pianse, chi si tuffò in un cupo silenzio e chi, stringendosi la fronte, voleva come svegliarsi da un brutto sogno A poco a poco, il triste annunzio corse per ogni via, penetrò in ogni casa, commosse tutti i cuori. Che colpo! Che disgrazia!... Che tragedia per quella povera famiglia! Non tutti volevano credere a quanto si narrava: forse era uno sbaglio, una confusione, un equivoco di nomi di casati!... No. — C’era pur troppo chi assicurava con profonda amarezza, che la catastrofe non lasciava dubbio, speranze. La Della Valle, la contessa Della Valle, Lalla, era morta! Correvano in folla alla casa sventurata in cerca di notizie. Il portiere, prima di sera, era rimasto senza voce. Aveva cominciato col narrare ai primi arrivati tutti i particolari della gran disgrazia, inventando anche del suo; ma poi, visto che i curiosi si moltiplicavano all’infinito, tagliò corto, limitandosi a scrollare il capo, a sospirare ed a piagnucolare, davanti ad ogni nuovo arrivato. Le commozioni del funebre annunzio sollevarono un entusiasmo postumo intorno alle virtù e alle doti del cuore e della mente della povera morta. A Borghignano le debolezze della duchessina per il marchese di Vharè erano state dimenticate, ed ora si ricordava soltanto e si portava ad esempio il suo amore per Giorgio, per la mamma e per il babbo ch’essa idolatrava. Non era più una donnina simpatica, piacente: diventava addirittura una bellezza straordinaria. — Così intelligente! Così buona! Così giovane! — Non aveva ancora vent’anni, la poverina! Il giorno dei funerali era atteso con molta ansietà: dovevano essere splendidi, e uno della Giunta assicurava che i pompieri, in quella circostanza, avrebbero sfoggiato l’uniforme nuova, che erano tutti curiosissimi di vedere. La salma della contessa Della Valle sarebbe arrivata a Borghignano due giorni dopo che vi era giunta la notizia della sua morte: Lalla sarebbe stata un’ultima volta, e per poche ore, in casa Della Valle, e di là sarebbe stata condotta al cimitero. L’Omnibus, aveva pubblicati i telegrammi di condoglianza spediti dal Re al senatore d’Eleda e al deputato Della Valle, e dalla Regina alla duchessa Maria; e questo fatto raddoppiò l’entusiastico dolore della Bertù, della Calandrà e della Prefettessa, che piangevano Lalla come fosse stata la loro amica più cara, e levavano al cielo le sue opere di beneficenza, la sua divozione, il suo spirito, la sua bellezza. Gli occhi rossi, i sospiri, i lamenti erano diventati di prescrizione, e si fecero vedere in teatro, tutte tre, vestite di nero, tenuta che la sera dopo fu imitata da molte signore della buona società di Borghignano. Era diventato di moda l’essere parente di quella morta che aveva fatto tanto colpo. O bene o male, trovavano tutti la maniera d’essere cugini, magari in terzo grado, dell’una o dell’altra famiglia e andavano, venivano, si cacciavano in ogni luogo, in chiesa o in teatro, sul corso o al caffè, per il gusto, per l’ambizione di farsi vedere in lutto. I due Lastafarda approfittarono subito di quella scusa per poter mettere il nastro nero sulla tuba cenere (in gran voga a Milano), e si vedeva sul corso il grave Adamastor, anch’esso con nappe di seta nera. Povero Adamastor! In quel rimpianto ufficiale di circostanza, era il solo che ci avesse sotto il bruno degli ornamenti, anche l’aria melanconica e afflitta. L’Omnibus, in quella circostanza, assecondò la generale commozione. Al primo annunzio della triste novella il Frascolini era rimasto come fulminato; ma poi, a poco a poco rinvenne, si acquetò e ne sentì come un senso di sollievo, come un gran peso che gli fosse levato dal cuore. La duchessina non avrebbe più fatto all’amore col Vharè, egli non l’avrebbe più veduta al braccio di suo marito non sarebbe più stato tormentato da quello spasimo che lo spingeva a correrle dietro e a fuggirla, non avrebbe più sofferto quella gelosia e quella brama acuta, pungente, che lo straziava, che lo faceva delirare, che gli metteva il diavolo addosso. Le perdonò dunque il male che gli avea fatto, si lasciò commuovere per la sua fine immatura e cominciò a scrivere un articolo necrologico, forbito, conciso e commovente. Buttò giù due, tre, quattro colonne di roba, le stracciò, ne scrisse molte altre; capovolse l’articolo, della coda ne fece il cappello e del cappello la coda; ma l’insieme non tornava; la sua testa aveva le vertigini e il suo cuore era in sussulto. Allora pensò che la necrologia gliela avrebbe portata uno dei soliti redattori onorari dell’Omnibus, e intanto pubblicò i telegrammi del Re e della Regina, promettendo, per l’indomani, di parlare più diffusamente delle virtù e dei pregi della Nobile Estinta, — perchè in quel giorno era costretto a deporre la penna per il troppo vivo cordoglio. Povera Lalla!... in quei mesi aveva tutto dimenticato; era felice, non sognava che il paradiso per deporlo ai piedi del suo Giorgio, se ne sentiva ricompensata con altrettanto amore... e proprio allora che benediva la vita come il sorriso, la felicità e l’amore, era morta! Il parto era stato difficile, l’avevano operata. Però tutti i consulenti di quel letto di puerpera, assicuravano che la contessa si sarebbe salvata; e infatti fu presto tranquilla e parve riaversi. Il bambino era un bambinone tondo e roseo, grasso e rabbioso, con un gran ciuffo di capelli biondi sulla fronte. Prospero Anatolio lo aveva preso subito fra le braccia, guardandolo ben bene, cercando in quel mostriciattolo il tipo dei d’Eleda, e ve lo trovò certamente, perchè si sentì preso all’improvviso dall’affetto di nonno, e per la prima volta, dopo le contrarietà che aveva subite a proposito del viaggio in Sicilia, cessò d’essere di malumore. Ma in mezzo a tante speranze e a tanti sorrisi, quando più nessuno tremava per lei, Lalla moriva, colta quasi a tradimento da una febbre spietata. Tutto ciò che mente e cuore umano potevano ideare per trattenere una creatura sulla terra, tutto ciò fu fatto, fu tentato, ma inutilmente; e pochi giorni dopo che la duchessa Maria con Prospero erano arrivati a Nervi non c’era più da poter sperare che in un caso o nella provvidenza divina. — I medici parlarono chiaro, senza ambagi, senza pietà malintesa, e a Lalla, coi singhiozzi serrati in gola e con una disperazione tenuta nascosta a forza di schianti, si era dovuto consigliare un confessore. Lalla, esterrefatta, fissò negli occhi suo padre che, per debito di coscienza, era stato il solo che aveva potuto trovar le parole in quel momento; poi, senza muover la testa guardò attorno per la stanza: vide Giorgio, ma lo fuggi collo sguardo; ella cercava sua madre e la riconobbe dall’altra parte del letto, ritta, immobile, come una santa di marmo. L’ammalata la guardò, la fissò lungamente, ostinatamente, cogli occhi colmi di parole, di sgomento e di disperazione. Maria comprese quello sguardo, sentì quella preghiera che le veniva rivolta, vide in quegli occhi lo spavento di morire dannata, e la consolò coprendola di baci, di lacrime, confortandola a sperare nel perdono di Dio, con singulti che assicuravano alla morente il perdono di chi ella avea tanto offeso sulla terra. Lalla si confessò, ricevette l’Eucaristia... ma rimase inquieta, affannosa, e domandò che il prete non uscisse dalla camera. Lo voleva lì, sempre vicino, per poterlo chiamare ancora prima di morire. E ci fu un istante in cui forse ancora si poteva sperare. In quell’ultimo giorno di una giovane vita, il male si prese un’ora di tregua; il medico sorpreso, ma non illuso, si lasciò sfuggire che poteva esservi ancora un miracolo, e subito tutta la casa esultò di gioia... ma fu l’ironia crudele della morte. Lalla ritornò a peggiorare, e verso sera aveva ancora poche ore, forse pochi minuti da vivere. Per altro era in sè; le durava l’inquietudine, l’affanno la disperazione nel viso acceso e scarno, e pareva invocare ancora un filo di speranza, ancora un filo di vita; poi tornò cogli occhi impauriti a fissare il prete, e con un cenno del capo lo chiamò vicino e gli parlò a stento, a tratti, con ansia, come se le parole, uscendole dalla gola, le sollevassero il cuore. Ma ad un certo momento, il prete non la intese più; allora egli affrettò le sue preghiere, le fece il segno in fronte coll’olio santo e tornò a ritirarsi nel cantuccio in fondo alla camera. Poco dopo, Lalla riapriva gli occhi, e tornava a fissare lo sguardo in quella figura nera, che si moveva adagio, nell’ombra, barbottando preghiere. Maria, buttata, distesa attraverso il letto, sui piedi della figliuola, aveva spasimi convulsi... e il duca Prospero — povero duca — si era allontanato gemendo. Il suo cuore paterno non poteva resistere a tanto strazio, non poteva vedere la sua Lalla a morire. Giorgio, invece, da molte ore, non aveva più una lacrima. Era disfatto. Con tremiti, con respiri strozzati a mezzo, inginocchiato accanto al letto, stringeva le mani della morente, fredde e umide, fra le sue che bruciavano, e ne baciava le dita coprendole, difendendole dalla morte, col tepore delle carezze. Lalla moveva appena il capo sui guanciali, ma non si lamentava più, quando verso le dieci ore di notte, ad un tratto, sembrò rinvenire: era l’ultimo urto della lotta disperata contro la morte. Spalancò gli occhi... e le parve che la figura nera del prete, staccandosi dal fondo buio, lentamente si avvicinasse al suo letto: non era vero, ma lo vide quel prete, lo sentì piegarsi su di lei e mormorare parole di minaccia, di maledizione, di comando... Allora, cadendo col capo verso Giorgio, con faticosa respiro e con voce fioca, mormorò piano le ultime parole... irrigidì, la bocca aperta... sembrò che il misero corpo assecchito si allungasse per l’ultimo spasimo... Lalla era spirata! Giorgio si alzò di colpo: egli pure aveva l’aspetto di un cadavere. Ma la vita sinistramente balda, gli si riversò tutta in un grido che ebbe un eco spaventoso in quella stanza, in tutta quella casa, e fissò la morta con uno sguardo terribile, in cui non c’era più nè dolore, nè pietà, nè rimpianto! Lalla era spirata a tempo per non conoscere l’odio di Giorgio: nel delirio dell’agonia, essa gli aveva tutto confessato; tutto. In quelle ultime parole c’era la sua colpa e il sacrificio di sua madre... Al grido, all’urlo di Giorgio, Maria comprese che Lalla era morta, e all’uomo che aveva perduta la moglie volle recare, unico conforto, tutto ciò che gli rimaneva di lei: suo figlio. Ma Giorgio vedendo quella creaturina innocente, sentì sollevarsi nel cuore un impeto di odio e di ferocia. Lo prese, lo strappò, lo strinse e, per Dio, lo avrebbe strozzato!... Ma in quel punto i suoi occhi s’incontrarono negli occhi di Maria. Fu un lampo... barcollò... volle parlare... La voce gli uscì rotta... inarticolata... Senza guardarlo più, si lasciò togliere il bambino dalle mani, e lui che da tante ore non poteva più piangere, scoppiò in un pianto dirotto e fuggì da quella camera. XXXIII Giorgio, arrivato come un fuggitivo a Borghignano, poche ore prima che incominciassero i funerali di Lalla, si era chiuso solo in camera sua. Non voleva nessuno: nè amici, nè parenti. Quella camera, in fondo della casa, dava sul giardino; Giorgio spalancò i vetri e le persiane, perchè si sentiva soffocare e gli pareva che una grossa pietra gli si aggravasse sul cervello. Egli credeva, sperava di essere vittima di un sogno terribile; il contrasto de’ suoi sentimenti era così forte, da farlo diventar matto! Andava, veniva, tirava calci alle seggiole, le alzava afferrandole con violenza e poi le lasciava cadere di tutto peso sul pavimento, e richiamato alla realtà della vita, pensava, raccapricciando, ch’egli non aveva diritto di piangere, di lamentarsi; egli non doveva altro che imprecare e maledire. Il dolore, il suo dolore, era vile! Ma per maggior derisione chi lo aveva offeso era fuggito lontano, non si sapeva dove, e Lalla, che lo aveva tradito, era morta. Dove, su chi poteva egli sfogare quell’impeto d’ira, tutto quell’odio che si sentiva nell’anima?... Egli non poteva lamentarsi, non poteva soffrire e nemmeno poteva vendicarsi!... Per Dio! che inferno!... che inferno!... Così stordito dall’angoscia, ci fu un momento in cui pensò di correre fuori, di correre in mezzo alla gente e di confessare a tutti la sua vergogna, per sollevare la giustizia umana e divina contro quei due colpevoli!... Ma l’idea non era ancora balenata intera alla sua mente che già si stringeva la fronte per trattenerla, pauroso che l’aria sola l’avesse potuto indovinare. Affranto da quello spasimo e da quelle angoscie, restava lì per ore ed ore come trasognato; gli pareva impossibile di non rivedere in quella camera, riflessa da uno specchio o sorridente fra le cortine dell’alcova, la gentile figuretta di Lalla, e non poteva comprendere come mai quella morta che lo aveva tradito e che lo faceva misero, infelice, potesse essere la stessa donna ch’egli aveva amata con tanta passione e che gli era sempre apparsa nella vita come un sorriso! — No, no, non era la stessa! La sua Lalla era bella, era buona, era pia; invece l’altra la morta (la ricordava bene), aveva gli occhi torvi e sbarrati, le occhiaie livide; era deforme, era cattiva, era dannata!... No, no!... Non era quella sua moglie; Lalla non era quella! Ma dov’era andata dunque la buona, la soave; la sua Lalla dov’era andata?... E mentre si guardava attorno ritrovava quella camera piena di lei... Pareva che Lalla ne fosse uscita allor allora, e vi dovesse ritornare all’istante! C’era il suo specchio che aveva avuto il suo ultimo sguardo: c’erano libri, che non aveva finito di leggere!... Appesa, al capezzale, c’era l’immagine della Madonna, ch’ella baciava sempre tutte le sere; e Giorgio sentì ancora quel sussulto, quel fremito di bambina freddolosa col quale ella si cacciava sotto le coperte. Allora, lusingato da tante memorie, alzò il capo... ed ebbe un sorriso che pareva quello che irradia, alle volte, la faccia d’un pazzo, che sia ammattito per una sventura d’amore. Si avvicinò alla toeletta: c’erano le spazzole, le forbici ed anche i pettini d’avorio e di tartaruga. In uno, il pettine lungo, quello che Lalla aveva adoperato, ravviandosi i riccioli della fronte prima di uscire l’ultima volta per andare alla stazione, vide attortigliato alla dentatura un filo biondo, che pareva di seta. Giorgio lo staccò dal pettine tremando... poi se lo cacciò in fretta nel portabiglietti che aveva addosso, guardandosi attorno, come pauroso di commettere quella strana viltà. Sullo scrittoio, in un elegante vasetto di porcellana, che rappresentava un amorino stanco sotto il grave peso d’una rosa, c’erano alcuni fiori disseccati. Guardandoli, fissandoli, l’occhio di Giorgio tornò a sfavillare. Ma per Dio!... non gli cadrebbe nelle mani quell’uomo maledetto?... — Voleva cercarlo in capo al mondo. Gli avrebbe piantata la spada nel cuore; voleva vederlo spasimare prima di vederlo morire, e quando fosse agonizzante, allora gli avrebbe detto che Lalla era viva, era sua che si amavano pazzamente... così l’infame sarebbe morto disperato!... Ma poi, ritornato più calmo, pensò che quei fiori non potevano essere di colui: Lalla non li avrebbe dimenticati!... Li prese, li cacciò in tasca, finchè pentito della sua debolezza, distrusse i fiori e strappò, stracciò anche il portabiglietti con tutto ciò che vi era dentro!... Ma fu un impeto d’ira... molti agguati lo attendevano ancora. Tutto all’intorno, sulla poltrona, vicino al letto, sul divano, c’erano i lavori di Lalla, i trapunti, i ricami... Erano i suoi regali; e ognuno ricordava un giorno di festa, una sorpresa cara, uno scambio dolcissimo di carezze e di baci. Come erano mutati quei giorni!... Non poteva nemmeno rimpiangerli; non gli doveva restare nemmeno il dolore di averli perduti! Fra quei ricordi c’erano ricami a fiori sul fondo tenue, color di cielo, ed egli adesso, vedeva uscire tra le foglie, sotto i bottoni delle rose e i calici delle campanelle selvatiche, sottili serpentelli dalla bava velenosa. Trine antiche, preziose, coprivano il letto; ma guardando fisso quel bianco, quei distacchi, quei disegni, ne usciva al suo occhio un ondeggiare di linee che si sbattevano le une contro le altre, così che la tinta pallida del filo intrecciato a poco a poco diventava cupa e nera come il ricamo di uno strato mortuario. — Maledetta!... Un’ora, un’ora sola fosse stata ancor viva quella donna!... avrebbe voluto insultarla... farla soffrire!... Lo aveva tanto offeso, e soffriva tanto, lui!... Ma pure, doveva essere stata vinta, ingannata, chi sa con quali artifici diabolici... Egli la aveva amata, adorata... non aveva rimorsi!... Il suo cuore, la sua mente, la sua anima, tutto era stato in balìa di quella donna!... Perfida, infame!... Non era bastato tutto il paradiso ch’egli le avrebbe dato!... Era corrotta nell’anima!... Aveva il vizio nel sangue!... Ma... E se quelle parole fossero state il delirio dell’agonia?... No, no, no! Era la verità!... Era la verità! Intanto, a poco a poco, di lontano, giungeva al suo orecchio un confuso mormorio, un borbottare di preci. — Ah, venivano a prenderla. La portavano via!... Lalla!... — Giorgio si precipitò sull’uscio; poi si arrestò come fulminato. — Ebbene? — Che doveva importarne a lui? — Come era morta, alla vita, non doveva esser morta anche al suo cuore?... Sì, sì; via, fuori, lontana, lontana dalla sua casa! Dovevano seppellirla profondamente sotto terra! Così profondamente, che il suo cuore non dovesse sentirla più!... Piangevano? Pregavano per lei?... Ingannava la gente anche dopo morta!... E avrebbe voluto correre in mezzo a quelle donne genuflesse, avrebbe voluto rovesciare quei ceri, riempiere de’ suoi gridi quella desolazione, ridere in faccia a quegli addolorati e impedire che la croce le fosse stesa sulla bara! Ma là, vicino alla morta, fra la gente che piangeva, avrebbe veduta una donna pallida, muta, senza lacrime, con un bambino fra le braccia... Era l’immagine di quell’angelo di madre, di quella martire sublime, che gli appariva circonfusa di un divino splendore! Se pensava a ciò che di grande, di temerario aveva fatto quella donna per salvare sua figlia, una figlia così perfida, da permettere che la propria colpa ricadesse sulla madre, sentiva, per Maria, più che ammirazione, sentiva una devozione viva, profonda. Egli la vedeva scendere per un dirupo irto di sterpi e di spine, coi piedi che le sanguinavano, colle vesti lacere e lorde di fango. Pure, procedeva coraggiosa, con un sorriso di speranza e di fede, cogli occhi e col cuore in alto, nel sereno, ne’ cieli, come una santa che aspetta la sua palma di martirio. E dinanzi a quella immagine, Giorgio si sentiva più calmo e più tranquillo. Il tumulto si acquetava, e quel sentimento nuovo, indefinito, dolcissimo di pace e di amore ch’egli sentiva per Maria si diffondeva anche là dove imperversava l’odio contro chi lo aveva ingannato. Fu così, colla tempesta nell’anima, chiuso al buio, come un condannato o come un pazzo, senza dormire, senza prender cibo, senza svestirsi, colla febbre nelle ossa, il pianto in gola e la disperazione nel cuore, ch’egli passò due giorni interi. Non voleva veder nessuno. La gente gli faceva tedio e paura: non voleva essere compianto e temeva di essere deriso! Il duca Prospero era partito col bambino e con Maria per Santo Fiore: il duca gli aveva già scritto che lo aspettava, ma Giorgio non voleva muoversi. Quando entrò nello studio, la prima volta, si fermò un’ora, cogli occhi fissi sul suo fermacarte antico. Gli pareva ancora di vederci sotto quella lettera fatale... — Perchè non aveva creduto a quella lettera? Perchè non aveva sentito subito che gli diceva la verità?... Perchè mai non era corso in quella casa maledetta, perchè non era penetrato in quella camera infame?... Ah, per Dio, li avrebbe uccisi sul colpo!... Come il suo disonore era stato diffuso pubblicamente! Ed egli aveva creduto che non fosse altro che una calunnia del Frascolini!... No:, no; era stato qualche suo amico... qualche suo amico che voleva salvarlo dal ridicolo, forse qualche suo parente... Pier Luigi forse... Pier Luigi?... no!... — Perchè no?... Che cosa era successo fra lui e Pier Luigi?... Che cosa?... — E Giorgio rimaneva fisso, immobile, cogli occhi istupiditi per ore ed ore, ma non era più capace di ricordarsi perchè era andato in collera con Pier Luigi. Una cosa sola egli aveva sempre dinanzi alla mente: Lalla. Di notte non poteva dormire; dormiva di giorno, e se voleva avere un po’ di calma, un po’ di riposo, doveva pensare a Maria e riandare il grande sacrificio compiuto da lei, dal suo cuore. Sì... sì. C’era pure chi lo amava sulla terra. E il bambino?... suo figlio? — Lo aveva veduto in un momento in cui la sua ragione e il suo cuore erano troppo sconvolti; ma poi, anche quel bambino cominciò a farsi vivo e a tormentarlo come la memoria della madre... — -Della madre?... sì... della madre sola... perchè non era suo quel bambino! Ogni volta che a Giorgio balenava questo orribile pensiero, gli salivano le fiamme al viso, e gli battevano i denti con uno spasimo strano. In quel momento non faceva più pietà; faceva paura. Ma un giorno gli si fisse in mente di volerlo vedere. Sì. — Voleva vederlo per cercare su quel visino appena abbozzato un indizio, una verità, una accusa. Titubò molto tempo prima di risolversi: — avrebbero creduto ch’egli s’illudesse, e gli volesse bene; che lo credesse suo!... No... no! Lo odiava; ma lo voleva vedere. Chissà che non avesse rassomigliato a Lalla!... Capitò a Santo Fiore una mattina(), prestissimo. Tutte le finestre del palazzo erano ancora chiuse. Attraversò il giardino, il portico, aprì la porta del tinello, entrò e fece chiamare la Luigia. Si guardarono senza dir motto; ma la Luigia indovinò subito perchè il signor conte capitava lì a quell’ora, e lo condusse nella camera dove dormiva il figliuolino. La culla, ricchissima, era in un canto, vicina ad una grande finestra che lasciava entrar il sole allegramente. Il bambino dormiva, rivolto, colla bocca piegata all’ingiù e colla cuffietta riversata all’indietro: egli lo prese e lo alzò colle due mani; il bambino aprì gli occhi e cominciò subito a strillare. Giorgio lo guardò fisso fisso, corrugando la fronte... gli pareva che quella testolina s’ingrandisse a poco a poco... — Aveva i capelli lunghi... biondi... era Lalla! Lo ricacciò nella culla fuggì via dalla camera. — Riparte così subito, signor conte? — gli gridò dietro la Luigia. — Sì. — Non vuol vedere la signora duchessa?... Sta molto male, signor conte!... Da due giorni non si alza più dal letto. Giorgio fissò la Luigia, che abbassò il capo e si mise a piangere; ma tuttavia egli non si fermò a Santo Fiore. Ritornando a Borghignano era affranto, avea il cuore spezzato; eppure si sentiva più calmo. Maria stava male! Questo nuovo dolore, al quale poteva abbandonarsi senza rimorso, senza vergogna e senza collera, penetrava come un’aura di pace nella sua anima sconvolta. XXXIV Erano trascorsi due mesi dalla morte di Lalla, quando una sera a Santo Fiore tutte le campane del piccolo villaggio sonavano lentamente e lugubremente. Da vari giorni venivano innalzate al cielo pubbliche preci con un fervore sincero, che vinceva l’uniformità fredda e convenzionale delle pompe solenni, ma tutto inutilmente: — la duchessa Maria peggiorava, peggiorava sempre! Era giunta all’agonia. Dio voleva richiamare quella sua martire, e non ascoltava più altro, oramai, che una preghiera fioca e debole, che gli domandava la pace e che saliva fino a Lui non confusa dal frastuono del tempio, ma solitaria, da un letto di dolore. Imbruniva appena: dai cancelli spalancati del palazzo entrò un gran carrozzone chiuso e nero, come un carro mortuario, e ne discese il conte Della Valle curvo, scarno, coi capelli quasi bianchi: in due mesi era invecchiato di dieci anni. Nella prima sala a terreno fu incontrato dal duca Prospero, anche lui dimesso e colla faccia sbattuta, che lo abbracciò singhiozzando. — Tutt’e due!... Tutt’e due, in così poco tempo! È troppo!... È troppo! Giorgio lo guardò colla faccia istupidita, senza dire una parola. — Va... Va... se vuoi vederla, — -e il duca con una mano, indicava l’uscio che metteva alla scala. — Non ti riconoscerà nemmeno. Io non posso resistere; sono ammalato; questi colpi ammazzano un pover’uomo. — Così dicendo, sospirando e singhiozzando, si buttò sopra una poltrona, presso il camino. Giorgio salì la scala lentamente. Il suo volto non esprimeva nessuna emozione; egli non sembrava nè commosso, nè addolorato; era soltanto attonito, sbalordito. Attraversò l’anticamera con un passo grave, pesante, senza nemmeno badare che era piena di donne inginocchiate, che recitavano preghiere. Erano le sorelle della Scuola Cristiana. Nel mezzo, non inginocchiate per terra come le altre, ma appoggiate a due seggiole, si scorgevano la Veronica e l’Ottavia, tutte e due vestite di nero, tutte e due col manuale di Filotea fra le mani, tutte e due colla medaglietta del Patronato puntata sul petto. La Veronica si guardava intorno dispettosa, interrompendo le orazioni con degli zitt... lunghi, rabbiosi che parevano sferzate, quando l’una o l’altra delle donne alzava un po’ troppo la voce; ma il rimbrotto veniva poi mitigato dall’Ottavia, che confortava la malcapitata, colpita da tanta collera, con un sorriso beato, da dopo pranzo. Miss Dill, stanca, era seduta in un angolo oscuro; don Vincenzo, in piedi, pregava a bassa voce, leggendo il breviario. Quando Giorgio attraversò la stanza, tutte le donne gli tennero dietro cogli occhi, e quella sua figura, quel fantasma cupo del dolore, sembrò raddoppiasse il fervore delle loro preci. Miss Dill, vedendolo, fece per alzarsi e muovergli incontro; ma poi si fermò, e con un cenno del capo chiamò don Vincenzo. — Non credereste, — gli disse piano, — di parlarne anche al conte Giorgio? — State tranquilla, miss Dill: ve l’ho già detto; chi ha fatto fare il testamento alla signora duchessa è stato il duca Prospero; e voi vi siete ricordata. — Non vorrei si facesse come l’altra volta. Nemmeno una memoria!... E sì che la contessa avea molte obbligazioni con me. — È inutile, vi ripeto. Ormai, quel ch’è fatto è fatto. E poi, il signor conte, dicono, è diventato mezzo matto. Intanto il Della Valle aveva attraversato un lungo appartamento tutto buio, attratto dalla luce rossastra, che veniva dal fondo. Quando fu giunto sulla soglia della camera di Maria, si fermò: allora il suo volto sembrò animarsi e il suo respiro diventò affannoso. La Nena singhiozzava vicina all’uscio; don Gregorio pregava ai piedi del letto. Appena Giorgio apparve sull’uscio, don Gregorio si alzò, gli andò incontro, gli prese una mano, che strinse colle sue mani tremanti, e con un cenno, scrollando il capo, indicò Maria. Il povero vecchio pensò che era stato il Signore a parlare al conte Giorgio, a farlo arrivare in quel momento, e si ritirò in un angolo, benedicendo alla sapienza e alla bontà infinita. La camera era mezzo al buio: soltanto una lucernetta, nascosta da un fitto cappuccio, gittava una luce sinistra sul letto e intorno alla morente. Giorgio dal lugubre silenzio che lo aveva seguito a mano a mano che attraversava tutte quelle stanze fredde e deserte, avvolte nelle tenebre, non aveva ricevuta nessuna sensazione; ma quando si trovò dinanzi al letto di Maria, il suo cuore, da tanto tempo insensibile, tornò a commuoversi e a palpitare. Maria, prima di vederlo, lo aveva sentito. Da alcuni minuti l’ammalata, col viso intento, battendo le palpebre, pareva cercasse qualche cosa in quella luce rossastra e ristretta, serrata nelle ombre cupe. Chi cercava, chi aspettava era Giorgio: Maria, colla sensibilità dei morenti, aveva udito la carrozza entrare nel palazzo; aveva seguito i passi di Giorgio che si avvicinava, e il desiderio di vederlo ancora, l’ultima volta, le aveva ridato un nuovo alito, una forza nuova, un vivo desiderio di luce, un rimpianto, il primo e il supremo, alla vita che le fuggiva. Maria lo fissò ostinatamente, colle pupille arse, ma nelle quali l’amore aveva raccolta tutta l’anima sua. Lo fissò con tanto affetto, che le trasfuse nel sangue un nuovo calore; la vita ritornò per un momento a riaccendersi e un’ondata di rossore imporporò quel povero volto distrutto... Giorgio, che l’avea veduta tanto bella, non l’avrebbe più riconosciuta; ma parlavano l’occhio di lei e i battiti del suo cuore, e non poteva essere in dubbio. Si avvicinò, come preso da tremori convulsi, e un tanfo umido, greve, lo avvolse mentre il lume rischiarava l’agonizzante con riflessi così strani e foschi, da sentirne a tratti perfino paura. Ed era lei. Maria, un giorno tanto bella!... Ma un improvviso, un prepotente pensiero superò ogni titubanza: Maria moriva per amor suo!... E a questo pensiero Giorgio sentiva anche dinanzi a quello spettacolo d’orrore delle intime seduzioni, e guardandola ancora, gli sembrò che tinte rosee incarnassero quelle guance scarne, affilate, e che vi risplendesse come un ultimo bagliore della sparita bellezza. Allora si buttò sopra di lei, piegando le ginocchia e baciandole le mani con fervore disperata... Ma anche allora la povera donna ricordò di essere madre: avea capito, indovinato, letto sul volto di Giorgio ch’egli tutto sapeva; e vincendo e dimenticando l’orribile strazio della sua vita balbettò con voce fioca e rotta: — Perdonate... a Lalla! Giorgio fu vinto da quell’atto sublime, divinamente grande, e fissando la morente con uno sguardo d’affetto profondo e appassionato le rispose: — Sì, Maria, perdonerò... per te! — e avvicinandosi ancora di più e sollevandole la testa colle mani, la baciò sulla bocca. Maria lottava adesso per trattenere la vita e colla vita la voluttà di un primo bacio, ch’ella, nel suo delirio, confondeva coll’estasi del Paradiso; di un bacio, che viva l’avrebbe forse uccisa e che morente le innalzava l’anima a Dio, staccandola dalla terra con un fremito d’amore. In tal modo ella morì: coi brividi di quel bacio che le correva per ogni fibra mutando la suprema agonia in una gioia suprema; compensando coll’ebbrezza purissima di quell’ultima ora, tutta intera la sua vita di dolori. Morì col sorriso sulle labbra e la felicità nell’anima, la sua fede e il suo amore indivisi nel cuore. Morì, passò dalla vita, senza strazio, tranquilla, come una fanciulla che si addormenta stanca, posando la testa sul petto del suo fidanzato. XXXV Il duca d’Eleda al conte Pier Luigi da Castiglione: — Senato del Regno — «Carissimo Pier Luigi, «Vi scrivo ancora sbalordito, ancora più di là che di qua, affranto, ammalato, per tante sventure che in quest’anno terribile mi spezzarono il cuore. «Se mi vedeste, non mi riconoscereste più: certo, farei pietà anche a voi: non posso mangiare, non posso vedermi in mezzo alla gente, e solo, non faccio altro che piangere. Basta; il Signore ha voluto così; sia benedetta la sua santa volontà. «Però, credetelo, caro Pier Luigi; noi abituati alle gioie pure e serene della famiglia, noi, che consideravamo come giorni d’esilio tutti i giorni che eravamo obbligati a starcene lontani, quando ci troviamo a dover sopravvivere ai nostri cari, proviamo uno sgomento, una desolazione che ci mette addosso le vertigini. Ed io sono solo, spaventosamente solo!... Giorgio si è lasciato vincere, dominare interamente dall’egoismo del suo proprio dolore, ed ha dimenticato questo povero padre, questo povero marito, che piange disperato, in una casa deserta e senza echi. Egli presentò le sue dimissioni da deputato, e chiuso in una villa, su quel di Bergamo, conduce una vita monastica e lo dicono preso dalla monomania religiosa. «A rinunciare alla politica ha fatto bene; in lui non c’era la stoffa di un uomo di Stato. Era timido, debole, irresoluto; tanto debole da cadere sfinito, affranto, sotto il peso della sventura, senza sentirsi capace di rialzarsi mai più, nemmeno pensando di essere padre. «Che cosa succederebbe, — ditelo voi, caro Pier Luigi, — che cosa succederebbe di quel povero bambino, se io facessi altrettanto? Se anch’io mi abbandonassi ad una disperazione inconsulta?... No! — no! — Finchè Dio mi vorrà quaggiù, relegato in mezzo ai triboli, quella povera creaturina, tutto ciò che mi resta della mia Lalla e della mia povera Maria, troverà in me la tenerezza di un padre. «Nulla di meno, per quanto un padre possa essere sollecito e affettuoso, quella creaturina non sentirà il bisogno di un affetto più gentile, di un bacio più dolce, di una mano più delicata che la accarezzi? Non avrà bisogno, insomma, di tutte quelle cure, che soltanto il cuore amoroso della donna prevede e comprende? Questo mi domando, giorno e notte, perchè giorno e notte non ho altro pensiero. «Miss Dill?... Miss Dill non è una donna: è una strega! E fatta apposta per spaventarli, per farli piangere i bambini, e non per consolarli. È stata la mia povera moglie ad ostinarsi, a volerla prender per Lalla: fin d’allora, io non la potevo soffrire; ma la mia Maria la voleva e... Come si fa?... — Sentite, caro conte, nella sventura ho un solo conforto; ma è un grande conforto; quello di essermi sempre sacrificato alla volontà, fin anco ai capricci, parlando come se da viva ne avesse avuti, di quella poveretta. E poi, adesso, miss Dill (ingrata come tutto il mondo) sicura della pensione che la mia povera moglie le ha lasciato, per intercessione mia, si è fatta stizzosa, bisbetica, prepotente. «Per ora, si sa bene, il mio Prosperino non ha bisogno di nessuno; la nutrice pensa a tutto e basta a tutto; ma fra qualche anno, anzi, fra qualche mese?... Devo condurlo con me, al Senato?... E a casa, a chi potrei affidarlo con animo tranquillo? A nessuno. «Tutto ciò ben calcolato, e rinunziando per mio figlio ad altri e più gelosi sentimenti del mio cuore, e ripensando a quanto voi mi avete già scritto, cioè ch’Ella sarebbe disposta a sacrificare la sua gioventù con un povero vecchio, nel quale troverebbe però un padre e un servitore umile, rispettoso e devoto, vi domando la mano della contessina Giulia di Rocca Vianarda. Ma... siamo intesi: per un anno, almeno, non se ne deve discorrere: il mio cuore, prima di esserle offerto, bisogna che si ritempri nello stesso dolore che lo ha colpito, poi... Poi darò al mio piccino una sorella maggiore. «Fra qualche giorno verrò a Firenze per baciare la mano alla contessina Giulia e per sentire da lei stessa s’ella acconsente di unirsi a me nel consolare e nel proteggere quell’angioletto che non ha più la mamma, e che il babbo ha dimenticato. «La contessina era molto cara a quelle poverette, ed è perciò la sola donna che può entrare nella mia casa senza offendere la loro memoria. «Vi saluto e vi stringo la mano. «Tutto vostro» «Prospero D’Eleda». «P. S. — Non per voi, ma per la contessina Giulia, vi mando l’ultimo numero dell’Omnibus, nel quale troverete un articolo biografico che parla diffusamente della mia vita politica. Sono piccolezze alle quali non ho mai tenuto, essendo sempre stato un nemico acerrimo della réclame; la quale, del resto, non è mai stata tanto sfacciata e impudente come lo è al giorno d’oggi. L’articolo qui unito, è per altro un’eccezione: è sincero. Lo ha scritto il cavalier Frascolini, il direttore dell’Omnibus; un bravo ragazzo intelligente e abbastanza galantuomo. «Qui si lavora attorno alla famosa legge elettorale. Molto probabilmente il mio voto sarà favorevole al progetto. Caro mio, che cosa volete fare?... Se vogliamo essere ostinati a tirar indietro per la coda il così detto progresso, la democrazia, più forte di noi, ci trascinerà per forza, e faremo la figura dei vinti: è meglio risolversi a tempo e saltare lesti alla testa... per tentare, se è ancora possibile, di mettervi un freno, o almeno per guidarne i movimenti. «Roma, 15 dicembre, 1881» FINE