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**Skeletor** era cattivo, **He-Man** era buono. **Atreyu** era buono. Il **Nulla** ovviamente cattivo. L'**Uomo tigre** era buono. **Ralph supermaxieroe** era buono. I **Ghostbusters** erano buoni e pure simpatici.
**Luke Skywalker** era **strano**. Primo, era troppo potente. Secondo, era figlio del cattivo. E poi sembrava, come dire, dubbioso. Sotto quel caschetto biondo da pirletti californiano, lo vedevi un po' perso. Tentato dal peccato. Come dargli torto.
Sai invece chi erano i veri buoni di Guerre Stellari? **I ribelli**. Perché lottavano contro l'Impero. L'Impero era il male, erano dei bulli, se la tiravano da precisini nelle uniformi. Erano prepotenti con la loro superarma più amarra di un booster truccato, la **Morte Nera**. L'Impero era quel tipo pauroso e vestito di scuro che veniva a dirti “sono tuo padre” dopo non averti filato per tutta la vita. L’Impero era un incubo. I ribelli dell'Alleanza erano i buoni! E dei gran fighi. Volavano sugli **X-Wing** (gran gioco, tra l'altro). Avevano l'ammiraglio calamaro. Ed erano anche amici degli **Ewok**!
E invece no.
“Siamo spie. Siamo sabotatori. Siamo assassini”. Così si presentano nel 2016 i ribelli. Giocano nella squadra dei buoni, ma giocano sporco. Ribellarsi è una faccenda necessaria e loro non sono i fighetti che lo fanno tra un colpo di spada laser, un dissing con Han Solo e l'ultima filastrocca sul Lato Oscuro. Sono dubbiosi. Sono divisi in faziosi. Non sono neanche poi così stilosi come te li ricordavi. Sono umani. Sono noi, che non siamo stati Jedi e non lo saremo mai. All'improvviso, per la prima volta, in **Rogue One** vedi che Guerre Stellari potrebbe essere benissimo il tuo futuro. O forse ci sei già dentro fino al collo.
*«Cercavo di pensare a cose innocue. A qualcosa che ho amato nell'infanzia, a qualcosa che non avrebbe mai portato distruzione... al pupazzo di boli di lichene!» (Ray in Ghostbusters)*
Due ore di fucilate, esplosioni, città che saltano in aria. Dei morti si perde il conto quasi subito. Spade laser, invece, nessuna. La **Forza** c'è, ma non si vede. **Rogue One** piacerà a tutti coloro che di **Guerre Stellari** hanno sempre mal sostenuto la parte mistica, gli Jedi agghindati da monatti e ossessionati dai loro poteri new age. D'altra parte Rogue One è la prova che un film di Guerre Stellari senza Jedi alla fine è un film di fantascienza come tanti altri. Rogue One poteva essere **Star Trek** o **Babylon 5** o qualsiasi cosa tratta da **Heinlein**, poco cambia. Ci sono giusto uno pseudo Jedi cieco con spada di legno e un droide che sembra rapito all'ultimo da un film di Miyazaki, neanche troppo riuscito e simpatico, messi lì quasi come segnaposto a ricordarti che questa è **davvero** una storia di Guerre Stellari.
È un film di guerra, né più né meno, Rogue One. Le ambientazioni in stile medio orientale, con le sequenze della prima parte in una città massacrata che pare Aleppo e il gran finale con la guerra che arriva a Dubai, lo sottraggono alla leggerezza con cui dismettiamo dall'empatia certe battaglie di fantasia. Non vedi mai in faccia lo **stormtrooper** agonizzante, ma sotto l'armatura il suo corpo frantumato dalla battaglia si spegne lo stesso. Questa è la guerra, dolcezza. E la guerra, anche quella con il bollino **Disney**, fa sempre schifo, chiunque vinca alla fine.
Questo film non racconta la lotta contro il Lato Oscuro. Ti mostra piuttosto come, nel male assoluto, il bene diventi relativo. Detto chiaro e tondo, mentre esistenze immiserite da un mondo meschino si spengono tra pianti e boati e una luce accecante che porta tutti via, e non criptato in qualche misteriosa e sgrammaticata elaborazione verbale di **Yoda**. Rogue One forse sarebbe stato una bellissima serie tv. È un buon film Disney di Natale, con un finale che da Disney non ti aspettavi. Forse non molto di più. Ma al tempo stesso è la storia di **Guerre Stellari** che aspettavamo da tempo, e che non avremmo mai voluto vedere. # Nella nuova Cina di #Huawei
Metà novembre, **Shenzen**, Cina meridionale. Un caldo da maglietta e occhiali da sole. Umido, umidissimo. Lo senti nel naso e nelle ossa. Come a Milano d'estate, con un retrogusto più denso di smog. Nel distretto **Longgang** di questa megalopoli sorta dal nulla e diventata immensa nel giro tre decenni, il quartier generale di **Huawei** è un quartiere vero. In un reticolo di strade ordinate e filari d’alberi sorgono i padiglioni; splendenti, luminosi, razionali, dalle proporzioni quasi smisurate. E, per fortuna, con l'aria condizionata. Dimentica tutto quello che ti sei immaginato sulle “fabbriche cinesi”. Gli headquarter di Huawei sono la migliore espressione di una **Cina** nuova. Ci accolgono due ragazze, bellissime, elegantissime e leggiadre nella loro divisa. Poco distante, in un laghetto da favola, uno stormo di cigni neri si fa trasportare dalla corrente; attendono gli europei in visita per le consuete foto di rito, prima della pausa pranzo.
Nell'ultimo anno, **Huawei** ha fatto centro con due top di gamma, il [P9](http://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2016/10/05/huawei-p9-e-p9-plus-design-e-performance-al-servizio-dello-stile/) e il **Mate9** (anche in versione [Porsche Design](http://www.gqitalia.it/gadget/hi-tech/2016/11/03/huawei-mate-9-caratteristiche-e-prezzo-del-supertelefono-cinese-ma-un-po-tedesco/) ), potentissimi e dotati di doppia fotocamera co-engineered con **Leica**; ma anche con il suo primo tablet Windows 10, il MateBook (“il primo di una serie”, dice ~~**XXX**~~ ). All'Ifa di Berlino sono stati presentati il tablet [MediaPad M3](http://www.gqitalia.it/gq-christmas/tech-gq-christmas/2016/11/21/regali-di-natale-2016-5-migliori-tablet-da-8-pollici/) , con il comparto audio curato da **Harman** – “crediamo molto nei tablet per l’intrattenimento” – e i nuovi telefoni mid-range **Nova**. Se prima sembrava una faccenda tra **Apple** e **Samsung**, quella del mercato mobile, l'azienda cinese ha iscritto di prepotenza il suo nome nel terzetto in lizza per il Pallone d'Oro. È anzi di pochi giorni fa la notizia che Huawei è diventato [la prima azienda mondiale in termini di profittabilità](http://fortune.com/2016/11/23/huawei-displaces-samsung-most-profitable-android-smartphone-maker/) nel mercato degli smartphone Android. Un successo che non è improvvisato, ma arriva da lontano: fondata nel 1987 da **Ren Zhengfei**, ex ingegnere dell'Esercito Popolare di Liberazione, prima ancora delle milioni di persone che usano i suoi device, Huawei ha conquistato il mondo network con apparati di telecomunicazione e antenne, che restano il primo business dell'azienda; dal 2012 è il più grande produttore del mondo, un primato che prima deteneva la Ericcson. Nella lista dei partner ci sono tutti i leader di settore, come **Vodafone**, **BT**, **Orange** e **Telecom Italia**. Il comparto di telefoni e tablet vale oggi il 30% del fatturato annuo, una cifra in crescita continua. L’Italia è il primo mercato mobile per Huawei in Europa, con un brand awareness del 92%. Fino a qualche anno fa, non raggiungeva il 50%.
«La compagnia cinese con il maggior successo globale», l'ha definita **Richard McGregor**, giornalista del Financial Times, nel suo **The Party**, libro fondamentale per capire la Cina d’oggi. Di sicuro è una azienda dove tantissimi vogliono lavorare: è nella top 100 delle più desiderate su **LinkedIn**. La fortuna del brand, entrato nel 2007 tra le 200 Most Respected Companies secondo **Forbes** e l’anno successivo premiato come la quinta più innovativa da **Businessweek**, va di pari passo con l’affermarsi in campo tecnologico della Cina ed è quello che forse meglio la rappresenta. Il paese che fu di Mao si è trasformato in una potenza commerciale e industriale che conquista l’Occidente. Con la qualità. Il consumatore ha imparato dall’esperienza che Made in China è un'etichetta di affidabilità. E Huawei è uno dei marchi più cool del pianeta. Le collaborazioni con **Leica**, **Harman** e **Porsche** raccontano bene quella che più di una trasformazione è una naturale evoluzione.
Un successo che comincia qui, a Shenzen, dove fino a pochi anni fa per strada c'erano ancora i risciò. Oggi ci sono 6 linee di metropolitana e altre in arrivo, un aeroporto internazionale firmato Fuksas e uno dei porti commerciali più attivi del pianeta.
**Shangai** e **Hong Kong** colpiscono per la giustapposizione di alto e basso, lusso e storia, Bentley e motorini elettrici, alveari e torri, ristoranti stellati e karaoke notturni in bar improvvisati sul marciapiede, con transenne per muri, tavolini da campeggio e un frigo con le bibite. **Shenzhen** invece è un trionfo subtropicale di highways che tagliano la città, sotto ai grattacieli: tantissimi, altissimi, squadrati e maestosi; centri commerciali dove si susseguono monomarca dei brand che vedi nei nostri viali dello shopping e del lusso. Traffico, cantieri, giardini ovunque. E una strana sensazione di frenesia e benessere al tempo stesso: sembra l'America degli anni 50, ma aggiornata all'oggi. La sera si va ai giardini del porto, sulle gradinate per lo spettacolo di fuochi d'artificio, a mangiare anatra a Le Duck Chinoise, all'ultimo piano di un futuribile centro commerciale, o a scorrazzare tra i tavoli all’aperto dei locali del **Coco Park**, a cui si accede da un anonimo corridoio, affollatissimo come se fosse la Milano degli anni '80, dove una serata non è degna di questo nome se non finisce al **Pepper**, il club in cima alle scale, dove una solerte signora pulisce ogni quindici minuti la pista facendo lo slalom tra i tavolini e chi balla, mentre in console si alternano **dj** internazionali, quest'anno anche da Berlino e ancora più in là. **Coco Park**, dove l'Occidente è un sogno esotico e un ideale insieme, c'è un locale che si chiama Sicilia (una cinese mi ha anche corretto la pronuncia, «si-si-lia», ma il barista non sa farti un Vodka Redbull. Per strada, nei treni della metropolitana e nelle stazioni, la tecnologia è ovunque, gli smartphone sempre in mano. Perché la nuova Cina è contraddittoria e benestante, turbocapitalista con la bandiera falce e martello nelle reception delle aziende, con fake market per i turisti mentre i cinesi vestono tutto firmato. Non ci sono **Facebook** e **Google**, ma la spesa o il caffè li paghi dal telefono con **WeChat** e **AliPay**. Dove ti giri, qui, respiri fiducia nella tecnologia, nel progresso e nella conquista del benessere.
Difficile immaginare Shenzhen 40 anni fa, quando era una cittadina di pescatori, una stazioncina sulla ferrovia Kowloon-Canton. Nel 1979, per decisione di **Deng Xiaoping**, che una gigantesca effigie a **downtown** commemora, Shenzen diventò la prima Zona Economica Speciale della Cina. Oggi è la capitale della **Sylicon Valley** cinese, e tra città e area metropolitana si contano circa 20 milioni di abitanti. Qui ci sono i grandi nomi della tecnologia Made in China: BYD, Coolpad, ZTE, OnePlus e Dji. **Ma Shenzhen è prima di tutto la città di Huawei**.
Nel quartier generale di Huawei il futuro è già presente. La grandezza della visione è quella che solo un leader nel settore delle telecomunicazioni può avere. Le smart home e le città connesse (e supersicure) appaiono come l'ovvio postulato di un miglioramento delle reti, con connessioni iperveloci **5G** e sempre meno aree scoperte. Uno scenario nel quale lo smartphone resta centrale, ma l'intelligenza artificiale si allarga a oggetti connessi: l'auto può prenotare un posto libero in un parcheggio; [Linglong Dingdong](https://www.wired.com/2016/11/behold-chinas-answer-amazon-echo-linglong-dingdong/) , uno speaker che ricorda l’Echo di Amazon, gestisce la casa con semplici ordini vocali. “I miei genitori non sanno usare lo smartphone, per cui regolano le luci intelligenti con questo”, dice la ragazza che guida alla scoperta della casa intelligente di **Huawei**, mostrando un semplice pulsante portatile. Semplice, ma intelligentissimo. E poi ci sono i sistemi di sicurezza, che permettono di individuare soggetti e tracciarne gli spostamenti, e quelli per la gestione razionale del traffico. Sono soluzioni globali che raccontano bene l'emergenza locale, la nascita della nuova Cina, dove tutto d’un tratto bisogna fare i conti, su scala poderosa, con i “nostri” problemi: la viabilità, per esempio, ma anche la criminalità – che tuttavia qui è presente in misura minima. Nella sfida con il lato oscuro del progresso emerge l'identità di questa azienda in costante ricerca di soluzioni per migliorare la vita delle persone. Che sia su scala mondiale, con le tecnologie, o locale, con un sistema di welfare aziendale che è unico. A **Shenzhen**, dove acquistare casa ha prezzi proibitivi (si parla di circa 20mila euro a metro quadro), Huawei mette a disposizione dei nuovi arrivati, per lo più neolaureati, carichi di entusiasmo e nuove idee, 3000 stanze nei campus a prezzi calmierati. In città ci sono ospedali e scuole costruiti da **Huawei** e ci saranno, insieme agli alloggi per le famiglie dei dipendenti, anche nel nuovo centro, in costruzione fuori città, che dovrebbe essere pronto nei prossimi mesi. Una strategia, quella di curare l’essere umano prima di tutto, mettendolo nelle migliori condizioni per lavorare, che si è rivelata vincente.
Dei 170 milioni di dipendenti **Huawei** in tutto il mondo, una grandissima percentuale (45% circa) si occupa della ricerca. Una filosofia aziendale che sta dando i suoi risultati. I centri research & development sono 16, sparsi per tutto il pianeta: in Cina, ovviamente, ma anche negli **Stati Uniti**, in **Europa** e in **Russia**. “Hai sempre bisogno delle menti migliori di ogni paese”, spiega il country manager italiano **James Zou**, citando il caso di un matematico russo che ha sbrogliato una situazione apparentemente irrisolvibile nella progettazione di un chipset. L'istruzione, e le nuove idee sono pilastri portanti del successo di **Huawei**. L'azienda reinveste fino al 15% degli utili in ricerca e sviluppo. E il suo vero gioiello qui a Shenzhen è il **Centro di formazione**, immerso nel verde, immenso negli spazi, con mense di ogni genere e tipo, supermercati, bar; qui vengono da tutto il mondo per studiare casi specifici e reali di business e soluzioni tecnologiche. I corsi sono di tutti i livelli, dai junior ai senior – questi ultimi pagano, e tanto, per assistere alle lezioni. Senza nessuna paura di farsi rubare segreti. “Possiamo condividere tutto, quello che fa la differenza è l'esecuzione”. Ovvero il fattore umano, quello che resterà sempre vincente. Parola di **Ren Zhengfei**, il fondatore di Huawei.